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Riflessioni sul COVID-19 al tempo della Democrazia

Se la democrazia è una questione di gradi, possiamo immaginarla come una scala che tende a infinito, ossia il modello ideale di democrazia pura. Quello dove nessuno resta escluso, dove il dissenso trova libertà di espressione e il partecipare alla vita politica è un diritto, dovere e piacere di tutti. Quello che non esiste.

Una lezione di democrazia (quasi) pura ci viene data dall’emergenza in atto: il dilagare del COVID-19 ci mette tutti sulla stessa grande barca.

Comunemente detto Coronavirus, il COVID-19 continua a espandersi a macchia d’olio. Che l’uomo sia un animale errante è appunto dimostrato dalla celerità della diffusione, che secondo i dati in continuo aggiornamento riportati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha raggiunto rapidamente 203 tra stati e territori su un totale di 206 in tutto il mondo.

Dalle ultime indagini dell’OMS, emerge che ogni persona può generare un numero medio di contagi (o numero di riproduzione detto “R0” o “R naught”) tra 2 e 2,5. Significa che una persona che ha contratto il virus può contagiarne almeno altre due. Un numero soggetto a variazioni, ma relativamente più alto di una normale influenza il cui grado di contagio si assesta intorno all’1,3.

Si potrebbe essere tentati di dire che le ineguaglianze strutturali della società non giochino alcun ruolo nella diffusione del virus. Ma lo scenario cambia radicalmente se si tiene conto di alcuni fattori, tra i quali:

  • La possibilità o meno di osservare le misure di distanziamento sociale: come non accade ad esempio all’interno delle carceri, dove il sovraffollamento cozza con i provvedimenti presi dal governo;
  • La sussistenza o meno delle condizioni per l’isolamento e per il rispetto delle norme preventive: il caso dei senza tetto (circa 55.000 in Italia), impossibilitati non solo a rispettare i provvedimenti che impongono di restare a casa, ma spesso anche a seguire misure di prevenzione basilari come lavare spesso le mani;
  • La gravità della manifestazione del virus che ha decimato le generazioni più anziane, insieme alle persone affette da altre patologie o con un sistema immunitario già indebolito;
  • La presenza di uno stato sociale e l’accesso alle cure necessarie che non è scontato laddove la sanità non gratuita e il welfare risulta iniquamente distribuito. Ne sono un esempio gli Stati Uniti dove l’8,5% della popolazione non possiede alcuna assicurazione sanitaria.

Il panorama variegato di disuguaglianze sociali di cui soffre la democrazia moderna è ben visibile quando si tiene conto dei fattori che vanno oltre al semplice, bio-democratico, meccanismo di contagio. Quest’ultimo non è infatti influenzato se non marginalmente da fattori come l’età, il sesso o l’estrazione sociale. Dall’Upper East Side ai paesi in via di sviluppo, dal vicino di casa al calciatore, dal Principe Carlo a Boris Johnson, il virus colpisce tutti: anziani, giovani e persino neonati. Nessuno escluso, come dovrebbe accadere in democrazia.

Non è follia dunque voler trarre una lezione politica dall’emergenza sanitaria in corso. Il diffondersi del COVID-19 offre degli spunti riflessivi e anche il tempo necessario per rifletterci su. Mostrandoci cosa democratico sia per davvero, ci obbliga ad aprire gli occhi sui nostri sistemi democratici rivelandoli in tutta la loro fragilità e ci offre un’occasione per chiederci su quali basi vogliamo costruire la società del domani.

Mostrandoci cosa democratico sia, il dilagare del virus ci spinge a riflettere su cosa sia diventata e se il risultato corrisponde ancora all’idea iniziale. Ci interroga sulla solidità delle fondamenta del nostro vivere, e ci trova impreparati. Mostrandoci cosa democratico sia, ci chiede se i sistemi democratici ci piacciono ancora.

Il crescere dei consensi per l’adozione di misure sempre più restrittive e di punizioni sempre più severe verso i trasgressori nelle democrazie europee è un atteggiamento incontrovertibile. Significa che l’emergenza sanitaria ci spinge ad apprezzare quello che fino a ieri respingevamo e ci fa dubitare di cose di cui eravamo certi. Fino a rafforzare ulteriormente il dualismo tra le democrazie liberali e il colosso cinese che la crisi economica e i problemi in seno ai sistemi democratici hanno accentuato negli ultimi anni, a scapito di trasparenza e libertà.

Il rischio è quello di una deriva antidemocratica che vada oltre la fine dell’emergenza. Un esempio da tenere d’occhio è l’Ungheria, dove il primo ministro Viktor Orbán ha assunto i pieni poteri senza restrizioni temporali. Mentre il sogno europeo vacilla, l’apprezzamento verso il governo Conte schizza alle stelle toccando il 56% dal suo secondo insediamento. Allo stesso tempo, i sistemi autoritari iper-controllati come quello cinese non sembrano più così male. Cosa sta accadendo?

Dopotutto, la Cina sembra aver vinto la battaglia contro il virus, tanto da avviare un cordone solidale con altri paesi in piena emergenza. Negli anni il modello cinese sembra aver funzionato, soprattutto in termini di crescita economica. Eppure, non basta. Proteggere trasparenza e libertà avrà sempre un senso.

 

Immagine di copertina: Content Provider, CDC/Dr. Fred Murphy.

Ideogrammi e miniature delle carte da gioco nel continente asiatico

Mentre, come vi abbiamo raccontato, l’Europa scopriva le carte da gioco, ne modificava semi e disegni, inventava sempre nuovi modi per divertirsi con questo pratico supporto, cosa succedeva dall’altra parte del mondo, nella terra natia tanto della carta quanto delle carte da gioco?

Dall’epoca della loro invenzione, sembrerebbe che in Cina le carte abbiano subito ben poche variazioni: pur nell’incredibile varietà di mazzi, spesso differenziati a livello regionale, la forma di questi ludici foglietti sembra essere rimasta quella delle origini, rettangolare ma molto più stretta e allungata di quella degli esemplari europei cui siamo abituati. Questa sottigliezza potrebbe ricondursi ai primi usi delle carte, ideate come variante più leggera e maneggevole delle tessere da domino, di cui peraltro condividono il nome pai (letteralmente, etichette, tessere, targhette), o adoperate come carta moneta. Certamente, la loro forma si adatta alle esigenze dei giocatori, essendo la maggior parte dei mazzi composti da più di 100 carte, di cui molte tenute in mano contemporaneamente.

Carte da Domino “Double Happiness” (Doppia Felicità), su ciascuna carta si trovano rappresentazioni simboliche delle benedizioni della vita [ph. The World of Playing Cards].

Le carte da domino sono fino a oggi particolarmente diffuse in tutta la Cina, raccolte nel mazzo Sap Ng Wu Pai (Carte dei Quindici Laghi), composto da 84 carte che riportano i punti rossi e neri numerati da 1 a 6 di un set da domino cinese. Il nome del mazzo sembrerebbe derivare da un errore di trascrizione legato all’uso delle carte da gioco da parte quasi esclusivamente delle classi più povere: sulla carta da quindici punti si trova infatti l’ideogramma 湖 (lago, appunto), simile tanto nel suono (wu o hu) quanto nella forma all’ideogramma usato in mandarino per indicare la parola “punto”.

Nel centro delle carte, a dividerne le due metà, ci sono delle piccole decorazioni, diverse per ciascuna combinazione di punti, che si ritrovano ingigantite nella variante del Sichuan. In questa regione sudoccidentale della Cina troviamo infatti il mazzo Chuan Pai (Carte dei Fiumi, dal nome della regione), composto da 84 carte di dimensioni doppie rispetto alle Sap Ng Wu, in cui sono rappresentati personaggi di romanzi o opere teatrali, tra cui gettonatissimo è il ciclo di racconti del XIV secolo Shui-hu Chuan (Il margine dell’acqua). Originario sempre del Sichuan è il mazzo Zi Pai (Carte a Ideogrammi), formato da 80 carte con soggetti numerici indicati con ideogrammi neri (ideogrammi ordinari) o rossi (ideogrammi ufficiali).

Carte da Domino con rappresentazioni di personaggi de “Il margine dell’acqua” [ph. The World of Playing Cards],

L’utilizzo come carta moneta è più facilmente riconducibile alle Gun Pai (Carte a Bacchetta), primo stile riconosciuto di carte a semi monetari, a cui si ispirano i mazzi europei. Tradizionalmente, queste carte presentano tre semi: Wen (Denari, simboleggiati dalla tipica moneta forata cinese), Suo (Stringhe, inteso come fila di 100 monete) e Wan (Miriadi, in cui si ritrovano stilizzazioni de Il margine dell’acqua); a questi, in alcune varianti si aggiungono carte speciali, chiamate Vecchio Mille, Fiore Rosso e Fiore Bianco, che si ritrovano nei mazzi di Ceki in Malesia e Singapore e di Pai Tai in Thailandia, probabilmente diffusi proprio da migranti di origine cinese.

L’introduzione di un quarto seme, così come in uso in Europa, si trova già nella tradizione asiatica del Lat Chi, conservato dalle comunità Hakka della Cina meridionale, che utilizzano i semi Sip (Raccogliere), Gon (Infilare), Sop (Stringa) e Ten (Filo). Singolare è il fatto che nello stile Hakka le carte di valore 2 hanno un simbolo simile al Picche europeo, in cui è scritto un ideogramma che ne indica il seme. Entrambi gli usi si ritrovano in Vietnam, nel mazzo a tre semi da Tô Tom (Scodella di Gamberi) e in quello a quattro semi da Bãt; ambedue i mazzi contengono alcune carte speciali: Ông-Lão (l’anziano), Không-Thang (Zero Stringhe) e Chi-Chi (Mezza Moneta).

A sinistra, un mazzo di carte Ceki della Malesia; a destra, un mazzo di carte in stile Hakka.

Un mazzo che dalla Cina ha avuto particolare diffusione in Asia, soprattutto in Vietnam e Thailandia, è quello delle Carte a Quattro Colori (Si Se Pai, in cinese; Bai Tu Sac, in vietnamita; Pai Jîn Sì Sì, in tailandese), usato per un gioco simile al Mah Jong e nel gioco d’azzardo Ju Jiuu (Nove Carri), da cui deriverebbe il Baccarat.

Lo stesso Mah Jong, giocato in Cina con un mazzo da 144 carte, di cui a quelle divise nei tre semi e numerate da 1 a 9 si aggiungono tre Draghi, quattro Venti, quattro Stagioni e quattro Fiori, è tra i giochi d’azzardo più diffusi nel Paese ed esportato in Malesia e Singapore, dove sono state introdotte quattro carte utilizzate come Jolly (Gallo, Gatto, Topo e Centopiedi).

Ancora in Thailandia si trovano le Pai Pong Jîn (Carte Cinesi Sontuose), che riproducono le carte a scacchi cinesi Ju Ma Pao (Carro, Cavallo, Cannone): divise in due colori, rosso e nero, corrispondono ai membri di un esercito, indicati per lo più attraverso ideogrammi, talvolta in piccole figure collocate al centro della singola carta.

Mazzo di Carte a Quattro Colori [ph. 台灣四色牌 by Wikimedia Commons CC BY-SA 3.0].

Versione particolarmente originale delle carte da gioco è quella che si trova in India, nelle carte di forma circolare Ganjifa. Nonostante le profonde differenze, sembra che anche le carte da gioco indiane derivino da quelle a semi monetari della Cina, mediate dall’influenza persiana, come sembrerebbe indicare una plausibile ricostruzione etimologica del loro nome, nato dalla fusione del vocabolo indiano ganji (tesoro) con l’espressione cinese chi pai (carte da gioco). Particolarmente diffuse durante l’Impero Moghul, alcuni precedenti potrebbe risalire al gioco Kridapatram (Stracci dipinti da gioco), di cui preservano materiale e forma: fino a oggi, infatti, i mazzi Ganjifa sono prodotti artigianalmente sovrapponendo vari strati di stoffa inamidata, poi ricoperta di pasta di gesso e dipinta.

Il numero di carte per ogni seme, che prevede 10 carte numerate e due figure, è stabile, mentre vastissimo è il variare del numero di semi, così come l’assortimento dei disegni rappresentati: lo stile Mughal Ganjifa, simile all’originale persiano, prevede 96 carte divise in 8 semi, le cui figure corrispondono solitamente allo Shah (Re) e al Wazîr (Ministro), ma nei mazzi prodotti a Orissa sono sostituiti da personaggi religiosi o mitologici; un simile rimando si trova nello stile Dasâvatâra (Dieci Incarnazioni), i cui mazzi sono appunto suddivisi in 10 semi riferiti alle diverse incarnazioni del dio Vishnu. Variazioni di questo tipo si ritrovano anche nei mazzi Rashi Ganjifa, in cui i 12 semi corrispondono ai segni zodiacali, e Navagraha Ganjifa, ossia dei Nove Pianeti, che includono alcuni satelliti e due fasi lunari. Un caso del tutto singolare sono invece gli stili ibridi, probabilmente diffusisi in seguito all’apertura delle rotte commerciali con l’Europa: pur conservando la forma rotonda e lo stile grafico indiano, alcuni mazzi utilizzano i semi francesi o, più raramente, quelli spagnoli.

Dieci carte da un mazzo di Dasâvatâra Ganjifa.

In copertina: Mazzo di carte Ganjifa di Odissa [ph. Subhashish Panigrahi by Wikimedia Commons CC BY-SA 4.0]

Tradizioni che nascono dall’integrazione. Sguardi sulla storia della migrazione delle carte da gioco

D’abitudine, i giochi a carte si apprendono un po’ per tradizione: ogni famiglia ha i propri giochi prediletti e i nonni spesso hanno l’onore di scegliere a quali vada la preferenza. Da nord a sud Italia i mazzi mutano il loro aspetto, le scimitarre diventano spade e i bastoni si trasformano in mazze.

Ma da dove arrivano queste piccole tessere rettangolari e le regole che ne disciplinano l’uso?

La storia delle carte da gioco si intreccia a quella delle migrazioni umane. Con la semplicità delle piccole cose, questi svaghi semplici e maneggevoli si sono spostati da un continente all’altro attraverso le mani di una miriade di popolazioni, ognuna delle quali le ha rese parte della propria cultura, imprimendo minuscole, infinitesimali modifiche.

La loro invenzione risale all’antichissima Cina, là dove la carta vide la propria nascita; incerto il loro uso: sicuramente ludico, forse anche come carta moneta. Non sappiamo con esattezza né come né quando siano state introdotte in Europa. Probabilmente, dall’estremo oriente sono passate per la Persia e da qui giunte nelle mani dei Mammelucchi, che avrebbero modificato gli originali tre semi cinesi (Jian o Quian, monete, Tiao, stringhe di monete, e Wan, diecimila) nei quattro che si ritrovano negli odierni mazzi tradizionali: Jawkān (bastoni da polo), Durāhim (denari), Suyūf (spade) e Tūmān (coppe). Ciascun seme delle carte mammelucche conteneva dieci carte numerate, cui si aggiungevano tre figure: Malik (re), Na’ib Malik (viceré) e Thānī nā’ib (secondo viceré).

In Europa, la tradizione araba di attribuire identità di ufficiali dell’esercito alle figure, che da precetto coranico non ritraevano persone ma riportavano i nomi della persona di riferimento, venne adattata per rappresentare le famiglie reali, prima nelle figure di “re”, “cavalieri” e “servi” e successivamente in quelle di “re”, “regina” e “fante”. Ciascuno stato elaborò la propria versione dei semi, per lo più discostandosi di poco dagli originali mammelucchi. Furono i francesi, negli ultimi decenni del XV secolo, a semplificare i semi in uso, probabilmente ispirandosi a quelli tedeschi, codificandoli in cuori, quadri, fiori e picche. Negli anni 50 del XIX secolo, poi, gli statunitensi aggiunsero al tradizionale mazzo francese i quattro jolly, andando così a dare forma definitiva al mazzo più diffuso al mondo.

Semi delle carte tradizionali delle regioni italiane e di Spagna, Marocco, Germania e Svizzera

Se tanto mistero resta attorno alle origini e alle migrazioni delle carte, ancora più complesso è ricostruire gli spostamenti e le modifiche dei giochi che con queste si possono fare. Tra i più diffusi al mondo è il Poker; oggi giocato soprattutto on line e nei casinò, conta un infinito numero di specialità e varianti, che vanno dalla presenza o meno di calate, al numero di carte in banco e/o in mano. L’uso forse più singolare è quello adottato durante l’invasione dell’Iraq nel 2003, quando alle truppe americane venne distribuito il mazzo Most-wanted Iraqi, in cui ad ogni carte corrispondeva il nome, una foto e la carica di un membro ricercato del governo di Saddam Hussein. Le origini del Poker  sono d’abitudine associate alla New Orleans di inizio Ottocento o alla poco distante Robtown, in Texas, dove nacque una tra le più diffuse varianti del gioco, appunto Texas hold ‘em; allo stesso modo, è possibile risalire dal nome di altre varianti al luogo in cui nacquero: un esempio tra tutti, il Caribbean Stud Poker, che nel secolo scorso si giocava sulle navi da crociera dirette ai Caraibi. Tuttavia, l’etimologia suggerisce che il Poker sia stato importato negli Statu Uniti dai francesi, che già nel XVIII secolo giocavano a Poque (dal francese pocher, ingannare), forse a sua volta ereditato dal Poken (inganno) tedesco, risalente al XVII secolo. Meno probabile, ma non smentita con certezza, l’idea che le regole potrebbero rifarsi all’italiano Zarro, antesignano della moderna Telesina, che come il Poque si giocava con un mazzo di 20 carte.

Assi del mazzo Most-wonted Iraqi,

Se da un lato i francesi sembrano i più attestati inventori del gioco del Poker, dall’altro negli ultimi anni hanno perso la paternità del gioco in cui si attestano come i maggiori promotori nel mondo: il Belote. Gioco a coppie simile alla Briscola, è stato esportato in quasi tutte le ex colonie francesi, ma la sua influenza si è fatta sentire anche a est: lo troviamo infatti in Bulgaria, in Ungheria, in Grecia e in Croazia. Il maggiore successo lo ha raggiunto in Arabia Saudita e Armenia, dove i giochi più popolari risultano essere, pur con considerevoli varianti rispetto al riferimento francese, rispettivamente il Baloot e il Belot. Nonostante l’etimologia, un gioco molto simile ma soprattutto molto più antico si trova nelle Province Unite Nederlandesi del XVII secolo, il Klaverjassen. In Italia questo gioco, la Briscola appunto, sembra essere arrivato direttamente dai Paesi Bassi, e di qui trasformato nello Schembil, diffusissimo in Libia e in diversi Paesi del Nord Africa. Le esportazioni italiane di giochi di carte sono, del resto, numerose; in primo piano è la Scopa, giocata anche in Spagna con il nome di Escoba, che in Tunisia prende il nome di Chkobba e in Marocco, con qualche modifica, di Ronda.

Numerosissime sono le importazioni in Europa di giochi originari di Paesi lontani: dall’isola di Macao, ad esempio, arriva Baccarà, uno dei giochi d’azzardo tra i più diffusi nei casinò; originari dell’Uruguay sono, invece, Canasta e Burraco; al cinese Khanhoo o al messicano Conquian potrebbero risalire le diverse variazioni del Ramino, incluso il Chinchòn, che si gioca in Spagna, Uruguay, Argentina e Capo Verde. Altrettanto frequenti sono gli scambi all’interno del continente: popolarissimo tra i Paesi dell’ex URSS è, ad esempio, Verju ne Verju, che differisce dal Dubito italiano solo per il numero di carte usate (40 anziché 52); allo stesso modo, l’inglese Beggar-MyNeighbor, si è modificato nel rumeno Razboi e nell’italiano Guerra; discussa è l’origine del gioco italiano del Cucù, identico al Gambio svedese.

Le rotte percorse dai giochi di carte sono complesse e intricate, difficili da ricostruire quasi quanto lo sarebbe una mappatura della genealogia della specie umana. Nelle loro migrazioni, i giochi non conoscono confini e realizzano una vera integrazione: non solo culture che s’incontrano, ma qualcosa di nuovo che ogni giorno, in ogni luogo s’inventa.

Questo corso di educazione sessuale cinese vi sorprenderà

I bambini cinesi ora hanno un corso di educazione sessuale di cui possiamo essere fieri” scrive il quotidiano statale Global Times su Weibo, il Twitter cinese. Il giornale, molto fedele alle linee del governo, si riferisce ai nuovi testi del Gruppo Editoriale dell’Università Normale di Pechino che sono stati distribuiti agli studenti delle scuole primarie. Se fino all’anno scorso gli alunni ricevevano libri in cui, per esempio, si bollavano come “degenerate” le ragazze che hanno rapporti prima del matrimonio, ora è stato fatto un salto in avanti evidente. E, per qualcuno, anche scioccante.

Già in seconda elementare i manuali spiegano, con testi e disegni molto chiari, come funzionano gli organi genitali e come nasce un bambino. Raccontano che bisogna seguire i propri desideri e le proprie aspirazioni senza lasciarsi sviare dagli stereotipi di genere (una bambina può diventare una poliziotta intransigente o un’intrepida astronauta, esattamente come un bambino può diventare un maestro d’asilo o un infermiere amorevole). E insegnano cosa sono le molestie sessuali e come cercare di sfuggirle, chiedendo aiuto ai genitori o alla polizia. I testi non tacciono neppure del fatto che a volte certe attenzioni inappropriate degli adulti possono arrivare non da sconosciuti, ma da parenti e amici.

I diversi temi sono riproposti e approfonditi dalla seconda alla sesta elementare. Il tema generalmente tabù dell’HIV e delle malattie sessualmente trasmissibili (MST), per esempio, è affrontato a partire dalla quinta, quando si spiega l’importanza dell’uso del preservativo nei rapporti eterosessuali e omosessuali.

Già, perché il corso di educazione sessuale parla spesso e volentieri dei diversi orientamenti. Sin dalla seconda elementare, i bambini imparano che c’è chi ama le persone del sesso opposto e c’è chi invece ama le persone dello stesso sesso e che va benissimo così, perché “l’amore è una cosa meravigliosa” sempre e comunque. E ci sono pure le persone bisessuali e anche per loro vale lo stesso discorso: “Saresti scioccato da una persona a cui piace sia il piccante che il dolce?”.

Non è giusto discriminare le persone LGBTQI (lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer e intersessuali), spiegano i libri, e quando succede non bisogna accettarlo. Perché tutti abbiamo diritto ad amare chi vogliamo e a essere felici con lei o con lui. Per questo i volumi sono popolati da ragazzi che sognano altri ragazzi, da uomini che preparano la cena per i compagni, da donne innamorate che passano il tempo libero insieme, da ragazze che parlano tranquillamente del proprio orientamento a genitori solidali. Scene semplici di una vita quotidiana serena e piena d’affetto e di rispetto.

E tra queste scene spuntano anche coppie omosessuali con figli e altre che si sposano. Il corso, infatti, spiega ai bambini delle elementari che in alcuni paesi del mondo esiste il matrimonio tra persone dello stesso sesso, anche se non è riconosciuto in Cina, almeno “per ora”, come annota sorprendentemente il libro.

Ovviamente il nuovo corso di educazione sessuale ha suscitato l’entusiasmo delle femministe e degli attivisti per i diritti delle persone LGBTQI, ma ha creato molte polemiche sui social network. Le critiche, però, non si sono concentrate sull’apertura alla diversità sessuale né si sono trasformate in stupidi complottismi su improbabili “ideologie gender”: è il disegno di un rapporto sessuale etero ad avere imbarazzato molti adulti, con Weibo che si è riempito di testimonianze di genitori che sono arrossiti vedendo l’immagine. D’altra parte sono cresciuti in scuole dove i libri di testo non raccontavano il sesso, ma lo demonizzavano come “degenerazione”.

Scritto da Pier.

Immagine copertina: collage dal Manuale di educazione sessuale cinese.

Fonte: Il Grande Colibrì

Ode ai treni cinesi

Durante i miei studi universitari, ho trascorso in Cina diversi mesi, a Pechino e a Shanghai, tra il 2010 e il 2013. Nel corso dei miei soggiorni, ho avuto modo di compiere numerosi viaggi in varie aree del Paese, tutte molto diverse e distanti tra loro. Quando mi chiedono che cosa mi ha più colpito dei miei viaggi, ho l’imbarazzo della scelta: il cibo delizioso? I panorami incredibili? Gli sguardi curiosi e cordiali dei cinesi che ti accompagnano ovunque? Sicuramente tutto questo e anche di più, ma se dovessi scegliere un elemento distintivo e peculiare di ogni mio viaggio, opterei per i treni cinesi.

In Cina, a meno che non si abbia una patente cinese, non è possibile affittare una macchina e circolare autonomamente; per i lunghi tragitti bisogna affidarsi ad altri mezzi di trasporto e il migliore, secondo me, è il treno. Parlate con chiunque abbia viaggiato in Cina e sicuramente avrà almeno un aneddoto divertente e interessante da raccontarvi riguardo le sue esperienze sui treni del Dragone, unici nel loro genere.

Una carrozza di sedili duri sul treno Pechino-Xi’an, 2011. [Fonte: Lucia Ghezzi-Tutti i diritti riservati].

Innanzitutto, acquistando un biglietto del treno in Cina, non vi sentirete chiedere se preferite viaggiare in prima o seconda classe, ma se volete sedili morbidi, sedili duri o posti in piedi. Se un tempo i sedili duri erano, fedeli al loro nome, esattamente delle panche di legno, adesso in molti casi non è più così. Sebbene siano tuttora molto meno confortevoli rispetto ai sedili morbidi, la differenza principale tra i due è che le carrozze dei sedili duri ospitano anche i posti in piedi, quelli morbidi sono invece in carrozze separate.

Ciò significa che, acquistando un biglietto nei sedili morbidi, non dovrete trascorrere il vostro viaggio in carrozze affollate all’inverosimile con decine di persone accampate nei corridoi, tutte con borse piene di merci varie e, in alcuni casi, anche galline o piccoli animali al seguito. Chiaramente, per lo stesso motivo i sedili duri e i posti in piedi sono anche quelli più interessanti, dove non potrete fare a meno di entrare in contatto, in tutti i sensi, con i vostri “vicini”, i quali, che parliate cinese o meno, proveranno sicuramente a chiacchierare con voi e vi offriranno dei semi di girasole, lo snack da viaggio cinese per eccellenza.

Ho fatto diversi viaggi in treno sui sedili duri e in alcuni casi anche nei posti in piedi, in genere per tratte medie di sette o otto ore, e sono state tutte esperienze speciali.

Foto di gruppo: Lucia con una famiglia della provincia del Guizhou in una carrozza di cuccette dure sul treno Hangzhou-Huaihua. [Fonte: Lucia Ghezzi – Tutti i diritti riservati].

Per le tratte più lunghe, invece, nel mio caso in media tra le 20-25 ore, ho optato per le cuccette, divise a loro volta in morbide e dure. Anche qui la differenza sta nella comodità e nello spazio a disposizione: le cuccette dure sono sei per ogni scompartimento, disposte come due letti a castello con tre piani l’uno; mentre le cuccette morbide sono solo quattro per scompartimento e molto più confortevoli.

A parte questa prima differenza, però, anche le cuccette dure non sono tutte uguali tra loro. Le più basse, per cui non si ha bisogno di usare la scaletta, sono più costose, in quanto più comode per spostarsi e alzarsi e provviste di un piccolo tavolino su cui appoggiarsi e mangiare durante il giorno. Tuttavia, sono anche quelle con meno privacy, dato che gli occupanti delle cuccette superiori spesso le usano come sedili durante le ore diurne. Ammetto di essere una grande fan delle cuccette dure, a cui sono legati molti dei miei ricordi dei treni cinesi.

Un altro aspetto tipico, e da me molto apprezzato, dei viaggi sui treni cinesi è il cibo. Nelle carrozze con le cuccette, infatti, negli orari dei pasti gli inservienti passano con dei carrelli su ruote da cui si possono scegliere diverse pietanze di carne, verdure, uova, ecc., tutte regolarmente accompagnate dal riso bianco. Certo, se non parlate cinese sceglierete probabilmente un po’ a caso in base all’aspetto, ma in genere non verrete delusi, credetemi!

In alternativa, se proprio non vi fidate del cibo sul treno, potete acquistare delle vettovaglie nelle stazioni prima di partire. In particolare, i fangbianmian, gli spaghetti istantanei, sono una costante dei viaggi in treno. Ogni carrozza, infatti, che sia di sedili o cuccette morbidi o duri, è provvista di un distributore di acqua calda, essenziale sia per riempire i thermos del té che ogni cinese si porta sempre appresso, sia per far rinvenire gli spaghetti istantanei da mangiare in brodo.

Uno scompartimento di cuccette dure sul treno Pechino-Mosca. [Fonte: jcb2u/Flickr. Licenza CC BY-ND 2.0]

I treni cinesi di questo tipo, purtroppo, sono una specie in via d’estinzione, e sempre più spesso vengono rimpiazzati da linee moderne e ad alta velocità, che permettono di attraversare le enormi distanze del Paese in poche ore. Non nego che andare da Pechino a Shanghai (circa 1200 km) in meno di cinque ore, comodamente seduti in uno scompartimento moderno e pulito, rappresenti un notevole risparmio di tempo e fatica, ma così quello in treno non è più un viaggio, solo uno spostamento.

E’ la Cina l’esempio da seguire nel settore dell’energia solare?

Nel corso dell’ultimo decennio, la Cina è diventata un Paese all’avanguardia nel settore delle energie rinnovabili ed è oggi in testa alle classifiche mondiali per gli investimenti nelle tecnologie energetiche a bassa emissione di CO2. Le ragioni di questo impegno sono molteplici, in primis il tentativo di diminuire l’inquinamento che rende irrespirabile l’aria di molte metropoli cinesi, ma anche di assicurare la propria indipendenza energetica e cercare di tenere fede alla promessa fatta in ambito internazionale di ridurre le emissioni per contrastare il cambiamento climatico.

In particolare, una delle energie rinnovabili su cui il governo cinese ha maggiormente investito è stata quella solare. Nel 2015 la Cina ha incrementato la propria capacità energetica solare di 15 GW, sorpassando la Germania e diventando così il mercato di energia solare più grande al mondo con 43,2 GW di capacità produttiva, pari al 22,5% di quella mondiale. In base agli ultimi sviluppi, inoltre, questa tendenza sembra destinata a continuare. A settembre 2016, infatti, l’Amministrazione Energetica Nazionale (NEA) cinese ha presentato l’ultimo piano per lo sviluppo del solare termodinamico: 20 nuovi progetti di centrali da realizzare entro il 2018 che produrranno altri 1,35 GW in totale.

Impianti di produzione di energia solare fotovoltaica a Hong Kong (foto di Wpcpey – utente di Wikipedia).

Tutti segnali molto positivi, se non fosse che almeno 4,5 GW dell’energia prodotta nel 2015 non è mai arrivata ai consumatori ed è rimasta inutilizzata. Le ragioni principali sono due. In alcuni casi, gli impianti semplicemente non sono allacciati alla rete elettrica nazionale, in quanto sono stati realizzati dove la rete è vecchia o addirittura non presente. In altri casi, pur essendo connesse alla rete, le installazioni sono localizzate lontano dai centri urbani e industriali dove la domanda è maggiore; di conseguenza, la loro capacità produttiva non riesce ad essere sfruttata interamente, generando così grossi sprechi di energia.  Molte delle centrali sono infatti concentrate nelle province occidentali del Ningxia, Qinghai, Gansu, Mongolia Interna e Xinjiang, che, sebbene siano le aree con le migliori condizioni di irraggiamento, sono anche tra le province più povere, arretrate e meno popolate della Cina. Siccome anche i nuovi progetti in cantiere per il 2018 verranno realizzati in queste zone, è ovvio che se il governo non riuscirà  parallelamente a sviluppare le infrastrutture per la trasmissione e la distribuzione dell’energia elettrica, questi investimenti si riveleranno inutili.

Il governo si è finalmente mosso per risolvere il problema, dando ordine alle società di distribuzione elettrica di realizzare linee adeguate per fornire la connettività mancante nelle aree remote del Paese.

Tuttavia, l’evidente squilibrio degli enormi investimenti nella realizzazione di nuovi impianti di produzione a fronte dell’assenza di un programma adeguato per lo sviluppo delle infrastrutture di collegamento getta nuove ombre sul settore dell’energia solare cinese. Le aziende cinesi di pannelli solari sono leader indiscussi a livello mondiale, tanto che sei dei dieci più grandi produttori al mondo sono cinesi. Date le previsioni non esaltanti per il settore, il governo del Dragone potrebbe aver lanciato gli ultimi progetti per sostenere le grandi imprese ed assorbire il surplus della loro produzione.

L’ipotesi potrebbe benissimo essere fondata, anche perché non sarebbe certo la prima volta che Pechino interviene pesantemente a sostegno dell’industria energetica solare nazionale. La Chinese Development Bank (CDB), nata come policy bank nazionale e a tutt’oggi braccio destro del governo, ha fornito fin dall’inizio alle grandi imprese cinesi produttrici di pannelli ingenti prestiti a lungo termine con interessi irrisori, che hanno permesso loro di crescere in maniera esponenziale e diventare leader mondiali del settore in pochi anni, inondando il mercato di pannelli solari a buon mercato. Questo però ha portato gli Stati Uniti e l’Unione Europea ad accusare le aziende cinesi e Pechino di dumping, cioè di vendere i propri prodotti a un prezzo inferiore ai costi di produzione per mettere fuori gioco la concorrenza, tanto che entrambi i Paesi hanno in diverse occasioni imposto elevati dazi di importazione sui pannelli solari realizzati con materiali provenienti dalla Cina.

Se i propositi di Pechino di ridurre l’inquinamento atmosferico e le emissioni di CO2 attraverso l’energia solare sono assolutamente ammirevoli e auspicabili, i metodi finora impiegati non sembrano completamente in linea con questi scopi e paiono più finalizzati al raggiungimento di obiettivi economici che ambientali. L’impegno e gli investimenti per sviluppare il settore dell’energia solare sono indubbi, ma la mole di lavoro che resta da fare è notevole e la posta in gioco alta. Nei prossimi anni vedremo se la green economy cinese è una possibilità reale o se in verità si dovrebbe semplicemente parlare di green washing.

Shanghai, la città più popolosa del mondo

Da anni al centro delle attenzioni internazionali, come modello delle possibilità d’intervento sull’incremento demografico, soprattutto per via delle numerose politiche di controllo nascite, la Cina continua a vantare il primato di stato più popoloso al mondo, con oltre 1,385 miliardi di abitanti. Distribuita sul vastissimo territorio nazionale, la densità degli abitanti non sfiorerebbe nemmeno quella di gran parte dei paesi europei; ma la maggior parte della popolazione cinese si concentra in 21 aree urbane.

Come si abita un mondo così densamente popolato? Come si vive in una megalopoli? Pequod ha incontrato Francesca Gotti, architetto bergamasco che ha trascorso undici mesi a Shanghai, la municipalità più estesa e popolosa del mondo.

«Mi sono trasferita in Cina per scrivere la mia tesi di laurea in architettura e ho vissuto sempre a Shanghai, in un quartiere tradizionale, costruito secondo un modello tipico cinese degli anni 50: quartieri con piccole stecche residenziali a quattro o cinque piani, abbastanza piccole se confrontate con i modelli costruiti oggigiorno. La metratura minima per persona è davvero scarsa: dividevamo una ventina di metri quadrati in due persone. Anche le case più moderne, costruite negli ultimi dieci anni, hanno comunque degli standard molto bassi rispetto a quelli europei, dovuti alla necessità di recuperare spazio: la scelta logistica del governo cinese di stipare la popolazione sulla costa e di non far progredire la vita delle campagne ha fatto sì che nascessero pochi centri urbanizzati densamente abitati.

La mia tesi prendeva in analisi i luoghi della collettività tradizionale che sopravvivono all’interno della megalopoli, attraverso lo studio di tre casi: un quartiere Lilong, una baraccopoli e una fabbrica dismessa sul tetto della quale era stato costruito un villaggio. In tutti i contesti, si ricreavano le dinamiche sociali ed economiche tipiche della vecchia Shanghai, ma in modi molto diversificati; li accomuna una prospettiva di abbattimento e di sostituzione: dagli inizi degli anni 90 ai primi del 2000, estesi quartieri di Shanghai sono stati rasi al suolo per fare spazio a blocchi di centri commerciali e grattacieli, al fine di densificare e cambiare la scala urbana. Si è creata nel tempo una bolla edilizia, perché Shanghai non smette di crescere e non interessano le peculiarità culturali: non ha la potenzialità turistica di Pechino e attrae stranieri per confusione, grattacieli e modernità. A essere rase al suolo sono le vie più vecchie, dove ancora esiste vita comunitaria; talvolta si vedono quartieri abbattuti solo per metà: le ditte recintano e demoliscono ciò che riescono ad acquisire, ma ci sono proprietari che non vogliono lasciare la loro vecchia casa, che si trova così circondata da attività edilizie. Spesso i motivi dei residenti sono di natura affettiva, ma più frequentemente pensano di non essere pagati abbastanza; di fatto il progresso oggigiorno attrae chiunque e spesso anche questi proprietari vorrebbero spostarsi nei grattacieli.

Si tratta di un cambiamento economico, sociale e culturale, quello che sta interessando l’odierna Cina, abbagliata dal progresso e affascinata dalla promessa di miglioramento sociale. Lo stesso fenomeno è avvenuto in Italia, nella Napoli degli anni ’50: risanamenti urbanistici a scapito delle antiche vie cittadine; erano tutti abbastanza contenti, in pochi si rendevano conto che stavano distruggendo anche uno stile economico e un modo di vivere».

Yongan Li, Shanghai

«Cosa significa, nella dimensione quotidiana, vivere in una megalopoli come Shanghai?»

«Quando sei dentro la città non ti rendi conto delle sue dimensioni effettive; ognuno dei luoghi frequentati rappresenta una realtà a sé stante, una sorta di bolla che ricrea una città in microscala e compatta.

Il mio soggiorno, ad esempio, mi ha dato una prospettiva su tre punti di vista. Il quartiere di residenza, con i negozietti sotto casa specializzati in un solo prodotto (uno che vende solo granchi, uno che vende solo verdure), direttamente collegati con la casa del proprietario, permette il conservarsi di una spiccata socialità tra le generazioni più vecchie. Nel condominio dove abitavo, gli anziani vicini di casa ci regalavano gamberi fritti. Offrivano cibo, chiedevano se avevamo bisogno di qualcosa, facevano domande. Shanghai è una città molto internazionale; il fatto che fossimo giovani e stranieri incuriosiva molto i vicini, ma nessuno ha mai avuto timore di noi.

Molto più basso è il livello di socialità dei giovani universitari; gli studenti escono raramente dall’ambiente universitario e ignorano la realtà circostante. Atenei, case, supermarket e ristorantini sono tra loro connessi, ma separati dalla città. Lo studio dove lavoravo, infine, si trovava in una concessione francese, una situazione totalmente europeizzata: case e negozi che imitano il modello europeo; città dentro la città costruite sul modello di quartieri esteri. Facilissimo socializzare tra stranieri; molto più difficile rapportarsi ai cinesi.

Socialità, sovrappopolazione e urbanizzazione hanno creato a Shanghai due dimensioni contrastanti: case piccole, in cui le giovani generazioni si rintanano, nelle poche pause dal lavoro; oppure case ugualmente minuscole, ma i cui abitanti, perlopiù anziani, vivono più nel cortile e nella strada».

Shanghai

«Dovranno pure spostarsi da una parte all’altra della città, no?»

«La metropolitana è il mezzo più utilizzato, ma è anche la realtà più alienante, in cui ti rendi conto di essere assorbito dalla densità di popolazione. Nessuno parla; i più sono immersi in realtà virtuali, concentrati a guardare film o videogiochi. Le nuove tecnologie e i nuovi modelli urbanistici stanno purtroppo isolando le giovani generazioni che non vivono più la vicinanza ad altre persone in maniera sociale.

I maggiori luoghi di aggregazione sono i centri commerciali, che si dividono tra popolari e di lusso, con gallerie d’arte e boutique. Attività aperte tutto il giorno, ritmi inesistenti; si mangia a ogni ora e c’é sempre qualcosa in moto, dalla persona che gioca a carte a quella che frigge un serpente, giorno e notte. La dimensione umana è molto ristretta: si ha tempo solo per lavorare e mangiare. Anche dal punto di vista urbanistico, c’è sempre qualcosa in costruzione e nessuno spazio è lasciato libero.

E’ un ritmo che stanca, ma al contempo carica. Non hai mai un momento di riposo e sei nel mezzo di una dimensione pazzesca».

«Il tuo viaggio in una parola?»

«Un’esperienza intensa».

Sovrappopolazione, il caso “informale” dell’India

«Overpopulation is really not overpopulation. It’s a question about poverty», questa l’opinione di Nicholas Eberstadt, demografo dell’American Enterprise Institute di Washington, ripresa dall’autorevole rivista Nature nella lista dei falsi miti della scienza vivi e vegeti tra i comuni mortali, in cui compare anche quello della crescita esponenziale della popolazione. Se per sovrappopolazione s’intende l’eccedenza della popolazione sui mezzi di sussistenza, secondo i dati non ci sarebbe da preoccuparsi: la popolazione umana non è cresciuta e non sta crescendo in modo smisurato e il tasso di produzione alimentare globale supera la crescita della popolazione. L’invito, ovviamente, è quello di spostare lo sguardo da scenari apocalittici futuribili a quei sistemi economici in cui sussistono disparità gravissime all’interno della popolazione, in cui i poveri sono sempre di più e più poveri.

Caso emblematico e contraddittorio è l’India: con una popolazione di circa 1,3 miliardi di abitanti, seconda solo a quella cinese (e ancora per poco: il numero è destinato a crescere fino a 1,7 miliardi nel 2050) e un Pil in aumento del 7,6 % nell’anno in corso, l’India è l’economia mondiale a più rapida crescita, stavolta superando la Cina (+ 6,8%).

All’India millenaria, affascinante e maestosa come i templi del Karnataka e del Kajuraho, si affianca l’immagine di un’India moderna, l’India degli splendori di Bollywood e di Bangalore, l’India come potenza economica emergente e rampante del Sud-est asiatico.

Nei suoi ritratti, però, rimane invariato lo scenario di una povertà estrema e diffusissima che ancora oggi affligge ampi strati della sua popolazione.

L’aumento demografico: la lotteria dei corpi

Dagli anni Settanta ad oggi, il governo centrale e quelli locali del Subcontinente hanno cercato di attuare delle strategie di contenimento delle nascite, soprattutto nelle zone rurali del Paese, dalle campagne di vasectomia forzata volute da Sanjay Gandhi alle più recenti sterilizzazioni di massa delle donne, operazioni più semplici e di gran lunga meno osteggiate rispetto a quelle maschili.

Probabilmente è per questi motivi che l’India ha continuato a preferire questi metodi a una campagna di informazione e sensibilizzazione sull’uso di contraccettivi, nonostante la crescita economica costante, nonostante il sistema sanitario carente.

In cambio? Pochi dollari, ma anche elettrodomestici, auto e perfino il porto d’armi.

Il prezzo? Dolori e complicazioni post-operatorie e, spesso, la morte.

L’aumento del Pil: il boom e il grande (settore) assente

Negli anni Novanta però i tassi di fertilità sono scesi significativamente, mentre l’aumento della popolazione in età lavorativa associato all’aumento del tasso di risparmio ha incoraggiato gli investitori esteri che, ricordando le esperienze delle economie emergenti del Sud-est asiatico e del dividendo demografico di cui hanno goduto quando i tassi di fertilità cominciarono a scendere, hanno contribuito alla grande espansione del settore manifatturiero.

A distanza di un ventennio, di fronte a una forza lavoro potenzialmente immensa (l’età media della popolazione è di 27 anni), il governo non è in grado di convertire la crescita del Pil in nuove opportunità di lavoro: dai 60 milioni di posti di lavoro creati nel quinquennio 2000-2005, quando la crescita era stabile sull’8-9%, si è passati ai poco più di 300 mila del 2015, rallentando drasticamente il passo.

L’anello debole dell’economia indiana è il settore manifatturiero, che contribuisce solo per il 17% del Pil, e più in generale l’industria, rappresentata in larga misura da piccole imprese con meno di 50 dipendenti, in cui manca il lavoro su macchinari moderni e, spesso, persino l’elettricità. Le ultime stime definiscono l’immagine paradossale di un Paese emergente che non è passato per la fase dell’industrializzazione, che incide solo con uno scarso 32% sul Pil.

Da dove deriva, allora, la ricchezza dell’India? Un buon 50% dal settore terziario, in cui coesistono attività di alto livello come servizi informatici, back office e consulenze per l’estero con i servizi più umili. Ma da solo non basta.

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Il lavoro “informale”, l’altra metà dell’economia

Scendendo nella scala produttiva, superando le figure specializzate della scuola e delle università, delle amministrazioni locali e dei colossi dell’hi-tech, troviamo un esercito di lavoratori senza diritti né tutele, che vive con meno di 1,25 dollari al giorno. Costituirebbero il 20% della popolazione urbana e la quasi totalità di quella rurale.

Sono i lavoratori dell’ “economia informale”, che unisce attività lavorative “non registrate”, più che clandestine. Non registrate fino al momento di tirare le somme della ricchezza prodotta dal Paese, perché «senza questo tipo di lavoro, l’India non potrebbe mai vantare i tassi di crescita ai quali ci ha abituati», dichiara Elisabetta Basile, docente di economia alla Sapienza di Roma.

Aggirare gli standard internazionali di produzione è semplice, soprattutto in un settore cruciale come quello manifatturiero: le multinazionali possono falsificare i documenti o affidarsi a una serie di intermediari che fanno arrivare l’ordine a chi materialmente realizza il prodotto, senza sapere se si tratta di anziani o bambini, se lavorano in condizioni di sicurezza o addirittura dalla propria abitazione.

E così, nell’ombra, questo popolo invisibile contribuisce almeno al 50% del Pil indiano.

Indian dream: un’occasione mancata?

Oggi i mercati finanziari guardano con nuovo interesse allo sviluppo dell’India. Alle ultime azioni del governo di Narendra Modi, che ha lanciato il programma Make in India per attrarre delocalizzazioni e investimenti, o al recente taglio del costo del denaro per incentivare l’imprenditoria interna.
Tuttavia, non si perdono di vista le grandi contraddizioni di un Paese grande e popoloso come un continente, in cui ogni anno si laureano 2 milioni di ingegneri ma solo il 18% dei lavoratori dichiara di avere una posizione stabile e ben retribuita, contro un 50% della popolazione impiegata nell’agricoltura, che produce solo il 16% della ricchezza.
Una situazione, questa, che genera insoddisfazione soprattutto tra i più giovani, che insieme ai lavoratori sottopagati dell’industria e alle donne, costituiscono le categorie sociali più frustrate e incandescenti. E se è vero che l’instabilità socio-politica non è una valida alleata della crescita economica di un Paese sul mercato mondiale, anche questo è un dato importante, al di là del Pil.

Transmongolica – un incredibile viaggio al contrario

Fotografie di Ettore Schiavi e Moira Surini.

Da Pechino a Mosca, passando per la Mongolia: la Transmongolica, una delle versioni della più famosa Transiberiana, il percorso che in treno attraversa praticamente da un capo all’altro l’Asia.

Solitamente fatto dalla capitale russa a quella cinese, questo è un viaggio al rovescio, da piazza Tienanmen alla piazza Rossa.

In mezzo, un carosello di immagini e culture, dall’infinita muraglia cinese e le effigi di Mao, alle steppe e ai cavalli della Mongolia, a notti passate dento a una ger, le grandi tende mongole che spesso vengono ancora usate come abitazioni, a Ulan Bator, l’imponente capitale dello stato mongolo, difesa al suo esterno da un ancora più imponente colosso argenteo di Gengis Khan, padre dei popoli; dal lago Baikal, patrimonio dell’Unesco, a Ekaterinburg, considerata città di confine tra l’Europa e l’Asia, un’isola di civiltà circondata da taiga e foreste.

Mosca è la tappa finale di questo insolito viaggio al contrario, un percorso che incontra facce e lingue diverse, luoghi differenti tra loro visti dal finestrino di un sedile di terza classe, da un vagone che sa di noodles, anatre e fumo, da treni che come lunghi serpenti attraversano un pezzo di mondo diviso fra l’Europa e l’Asia.

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Alle radici del culto della personalità: il villaggio natale di Mao Zedong

Ricordato per i suoi contributi teorici alla ideologia marxista, l’attivismo rivoluzionario durante la guerra civile e la pluridecennale leadership politica all’interno del Partito Comunista, l’eredità culturale del fondatore e primo presidente della Repubblica Popolare Cinese continua ancora oggi a permeare la società della Cina contemporanea. Secondo diverse modalità e ricorrenze, i cittadini cinesi si prodigano a perpetuare la memoria del grande leader, esibendo un ritratto di Mao Zedong nella propria abitazione o attività commerciale, pubblicando un post celebrativo su un social network, e così via.

Momento di una commemorazione pubblica di Mao Zedong a Shaoshan.
Momento di una commemorazione pubblica di Mao Zedong a Shaoshan.

Un vero e proprio culto della personalità, originatosi nell’entroterra cinese negli anni Trenta, in concomitanza con i primi successi ottenuti dall’Armata Rossa durante la guerra civile. È in questi anni che il mito dell’avanzata comunista va a fondersi con le superstizioni contadine e il tradizionale simbolismo imperiale e appaiono i primi ritratti di Mao con la testa circonfusa di raggi. Negli anni Quaranta gli scritti teorici di Mao Zedong vennero assurti a modello ideologico del Partito Comunista: l’ideologia di riferimento dunque non è più il marxismo classico, ma un marxismo “cinesizzato”, secondo l’interpretazione maoista. Alle capacità dimostrate in ambito militare dunque, si andò ad aggiungere un’aura di infallibilità ideologica e politica, incrementando di fatto la supremazia politica del leader. Una supremazia che porterà i suoi frutti con la fine della guerra civile e la fondazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949, raggiungendo il suo apice durante la Rivoluzione Culturale e la pubblicazione del celebre Libretto Rosso, summa del pensiero maoista.

Una tipica immagine propagandistica del Libretto Rosso.
Una tipica immagine propagandistica del Libretto Rosso.

Se il Mausoleo di Mao Zedong, situato a piazza Tiananmen a Pechino, testimonia l’animo più istituzionale del Grande Timoniere, le radici del sentimento popolare maoista si possono ritrovare a Shaoshan, villaggio natale di Mao Zedong. Situato nella regione dell’Hunan, si tratta di un vero e proprio museo-santuario, che attira quotidianamente migliaia di visitatori. Scolaresche, famiglie, gruppi aziendali, arrivano da tutte le parti della Cina per visitare l’abitazione e la scuola frequentata dal giovane Mao. Lettere, libri, suppellettili, fotografie d’epoca, contribuiscono a ritrarre la quotidianità di un figlio esemplare e uno studente modello, amante degli studi classici e dedito a una vita frugale e bucolica.

L’ingresso dell’abitazione famigliare di Mao Zedong a Shaoshan.
L’ingresso dell’abitazione famigliare di Mao Zedong a Shaoshan.

La visita prosegue in un Memoriale, che presenta i momenti salienti della formazione personale di Mao Zedong, e si conclude con un particolare cerimoniale comprendente svariate riverenze nei confronti di una statua dorata del Grande Timoniere. Terminata la visita, presso l’area dedicata ai souvenir, la solennità lascia spazio al folklore.
“Vesti tuo figlio come un soldato dell’Armata Rossa”, “Stringi la mano al Timoniere”, sono alcuni esempi dei pittoreschi set fotografici ricostruiti ad hoc per i nostalgici visitatori, dove con l’aiuto di Photoshop si soddisfano le richieste più curiose e kitsch.

Uno dei tanti angoli souvenir al termine della visita.
Uno dei tanti angoli souvenir al termine della visita.

Capi di abbigliamento, spille, vestiti, libri, sigarette, e gadget di ogni tipo arricchiti con l’effigie o le massime di Mao Zedong riempiono le bancarelle, lasciando al visitatore il peculiare senso di stordimento derivato dalla commistione tra sacro e profano, che pare non risparmiare il culto della figura politica che ha dato i natali alla Cina che conosciamo oggi.

 

In Copertina: Statua di Mao a Shaoshan [ph. N509FZ CC BY-SA 4.0/Wikimedia Commons]

Il nuovo anno della Capra, tra tradizione e hi-tech

È da poco iniziato l’anno della capra, e in Cina si sono conclusi i festeggiamenti per il nuovo anno, con un imponente movimento di ritorno verso le grandi città di lavoratori e studenti che sono tornati a rivitalizzare le strade delle metropoli lasciate deserte durante le festività.

Quando in Cina si parla di Chunjie 春节 o Festa della primavera, in occidente noto come capodanno cinese, si pensa subito al Chunyun 春运, lett. “trasporto di primavera”, il più grande movimento migratorio al mondo a cadenza annuale, che interessa studenti e lavoratori che dalle grandi città tornano presso le proprie famiglie e villaggi d’origine per trascorrere le vacanze .Un movimento che inizia dalla terza settimana di gennaio e finisce alla fine di febbraio con circa 3,6 miliardi di viaggiatori stimati dal governo, una cifra superiore al numero effettivo della popolazione cinese dato con quasi tre viaggi stimati per cittadino cinese, distribuiti per le stazioni ferroviarie, gli aeroporti e le autostrade nazionali.

Una rappresentazione grafica del movimento di viaggiatori durante il Chunyun (via Baidu).
Una rappresentazione grafica del movimento di viaggiatori durante il Chunyun (via Baidu).

Motore principale di questo grande movimento di persone è la grande occasione di ricongiungimento familiare che il Chunjie rappresenta, motivo per il quale è una delle feste più sentite dalla popolazione cinese. Le festività per il nuovo anno durano per due settimane consecutive, dalla sera della vigilia, in cui si consuma un ricco banchetto in famiglia, alla sera del quindicesimo giorno del primo mese lunare del nuovo anno, con la Festa delle Lanterne.
Tra le attività tipiche del Chunjie si annoverano la preparazione della casa all’arrivo del nuovo anno, con addobbi di colore rosso su porte e pareti, segno di buon auspicio; il banchetto della vigilia, in cui non possono mancare i jiaozi, che per la loro forma simile al tael una antica moneta cinese, sono considerati simbolo di ricchezza e fortuna; la visione del Gran Galà di Capodanno, appuntamento irrinunciabili per le famiglie cinesi e trasmesso dalla tv nazionale CCTV, che quest’anno ha raggiunto un picco di 690 milioni di spettatori.

Gli addobbi e i paramenti di colore rosso utilizzati per preparare la casa al nuovo anno.
Gli addobbi e i paramenti di colore rosso utilizzati per preparare la casa al nuovo anno.

Il rosso benaugurale ritorna nel colore hongbao, buste decorate contenenti somme di denaro più o meno importanti, che vengono consegnate in dono ad amici, parenti e colleghi durante gli avvenimenti lieti, come l’inizio del nuovo anno. Una pratica che vuole essere un augurio di felicità e prosperità, oltre che una dimostrazione di rispetto e stima, e particolarmente cara al popolo cinese, tanto da essersi aggiornata con le nuove tecnologie.

Un esempio di hongbao telematica.
Un esempio di hongbao telematica.

Da qualche anno difatti, è possibile inviare le hongbao in maniera telematica, attraverso i maggiori social network e provider di pagamenti telematici cinesi.  Secondo la Tencent, società che gestisce l’app Wechat, i cinesi si sono scambiati durante queste festività di capodanno oltre un miliardo di hongbao in-app, a fronte di sole 20 milioni di buste rosse dello scorso capodanno.
La società Alipay ha comunicato che attraverso la sua app per pagamenti Alipay Wallet, solo nella vigilia di capodanno i cinesi si sono scambiati in dono hongbao telematiche per un valore di circa 642 milioni di dollari. Una bella dose di prosperità sia per gli utenti che per il business delle telecomunicazioni al servizio della tradizione.

La giostra di assaggi di Wangfujing

La complessità e varietà della cucina cinese è dovuta al suo essere una sommatoria di diverse cucine regionali molto diverse tra loro, a seconda del clima, conformazione territoriale, tradizioni contadine, usi e costumi locali e imperiali.
Tratto comune della tradizione gastronomica di una nazione di oltre 1,3 miliardi di abitanti, è tuttavia l’attenzione riservata alle tre componenti色 , colore, 香xiāng profumo, 味 wèi sapore, che compartecipano alla caratterizzazione di ogni piatto, che sia di carne, pesce o verdure.
Ritrovare questa varietà nei ristoranti cinesi occidentali è quasi impossibile, vuoi per la difficoltà nel reperire i giusti ingredienti in paesi lontani dalla madrepatria, vuoi per un eccessivo “regionalismo” nelle preparazioni culinarie, con una conseguente monotematicità (e monocromaticità)  dell’offerta culinaria cinese nei paesi d’oltremare.

La via di Wangfujing, una delle più famose attrazioni di Pechino, indubbiamente riavvicina il visitatore straniero ai piatti più tipicamente colorati e vivaci della cucina cinese.
Passeggiare per questa via è un piacere per occhi, palato e olfatto, data la particolarità di cibi proposti: dai classici spiedini di carne a quelli più “estremi” di scorpione o serpente, dai profumati dolci al sesamo al chou doufu (lett. “tofu puzzolente”) fritto,  dalla trippa bovina stufata secondo l’uso locale, a molluschi e frutti di mare alla piastra, frutta caramellata, ravioli…
Con la giusta dose di curiosità, sarà facile lasciarsi andare alla frenetica giostra per le svariate bancarelle di Wangfujing, ciascuna con la propria specialità dolce o salata: tutti all’assaggio!

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Il monastero buddhista Yonghegong: scrigno di spiritualità nella capitale

Incoscienti pedoni che camminano a testa bassa sugli smartphone, indelicate spintonate in metropolitana, lotte senza quartiere per un taxi libero nell’ora di punta, è questo il pane quotidiano di un occidentale residente a Pechino. Lungi dall’aspettarsi la compostezza confuciana del mandarino in una metropoli moderna, è pur vero che il rapporto con la popolazione locale può risultare spesso impersonale, quando non distaccato e conflittuale.

Approcciare alla più intima essenza del popolo cinese è tuttavia possibile visitando luoghi ancora permeati della sensibilità autoctona, espressione di una spiritualità millenaria, altrove intorpidita dai dettami di una società freneticamente mutevole come quella cinese.
Uno di questi luoghi è il monastero Yonghegong, o Lama Temple, nel distretto di Dongcheng.

Interno del monastero Yonghegong, da notare la vivacità dei decori e dello stile architettonico buddhista.
Interno del monastero Yonghegong, da notare la vivacità dei decori e dello stile architettonico buddhista.

Costruito nel 1694 dall’imperatore Kangxi, deve al suo successore Yongzheng la conversione da corte imperiale a monastero buddhista lamaista e ospita tuttora una comunità di monaci tibetani.
Consta di cinque cortili sui quali si affacciano diversi edifici, ciascuno contenente diverse opere sacre buddhiste, tra le quali spiccano la scultura del Buddha Sakyamuni predicante con  i discepoli Ananda e Kasyapa, le statue di bronzo dei Buddha delle Tre Ere e la statua del Buddha Maitreya, alta ventisei metri di cui otto sottoterra, ricavata da un unico tronco di sandalo.

L’imponente statua lignea del Buddha Maitreya.
L’imponente statua lignea del Buddha Maitreya.

Qualunque approccio occidentale nel visitare questo luogo allontanerebbe il visitatore dal percepire la peculiare atmosfera del Yonghegong. Piuttosto che macchina fotografica e audio guida, è preferibile dotarsi di una discreta arrendevolezza al lento fluire dei visitatori locali e del tempo.
Conseguentemente, verrà naturale partecipare al rituale dell’accensione dell’incenso prima dell’ingresso in ciascuno dei diversi edifici del monastero, al fine di purificarsi prima dell’accesso ai diversi tesori buddhisti. Una fragranza, quella dell’incenso, che arricchisce il silenzio sovrano tra le mura del monastero, che sebbene siano alte pochi metri, ne preservano l’atmosfera sacrale.

All’interno del monastero, è difficile non perdersi nell’osservare i rituali dei visitatori locali, come le ripetute prostrazioni davanti alle sculture votive, effettuate con lo stesso dignitoso raccoglimento da giovani e anziani, eleganti uomini di affari e modeste famigliole. O ancora, l’incedere lento e misurato, scandito dal gorgogliare delle preghiere dei monaci tibetani, avvolti nelle caratteristiche tuniche color ocra. Senza dimenticare l’usanza della messa in movimento delle ruote di preghiera tibetane, o la benedizione di piccoli oggetti votivi, ultimo passaggio prima di varcare le porte del monastero e immergersi nuovamente nel mondo esterno.

Una realtà esterna frenetica e convulsa, che pare riesca solo a lambire questo scrigno di spiritualità incastonato nella capitale. Il paradosso è come sempre dietro l’angolo: l’accesso alla avveniristica metropolitana e la giungla cittadina di cui è espressione sono a pochi passi dall’ingresso del monastero.

In copertina ph. The Erica Chang [CC BY-SA 3.0/Wikimedia Commons]

Beijing World Food Fair: l’agroalimentare made in Italy passa da Pechino

Dal 26 al 28 novembre scorsi, il China National Convention Center di Pechino ha ospitato l’edizione 2014 della World Food Fair, evento di punta per il settore dell’alimentare e della gastronomia  di livello internazionale. L’esposizione, organizzata in collaborazione tra Koelnmesse, importante ente fieristico tedesco, e la Camera di commercio per il settore agroalimentare del governo cinese, si pone come appuntamento imprescindibile per le imprese di tutto il mondo intenzionate a ritagliarsi uno spazio nel ricco e variegato mercato agroalimentare cinese.

La capitale Pechino, al centro di una rete commerciale che serve 200 milioni di consumatori, si pone come polo strategico per il settore agroalimentare del nord-est della Cina, con il vantaggio, rispetto alla diretta concorrente Shanghai, di servire un mercato meno saturo e maggiormente in ascesa, grazie alla crescente domanda delle vicine regioni di Tianjin Hebei, Shanxi e Mongolia.

Una delle aziende espositrici all’interno dell’Area Italia
Una delle aziende espositrici all’interno dell’Area Italia

L’Italia, con la sua secolare tradizione gastronomica, non poteva mancare all’appuntamento.
Supportate da Cibus – Fiera di Parma, un pool di 50 aziende italiane ha  offerto ai visitatori cinesi il meglio della gastronomia tricolore: vino, olio, pasta, conserve, prodotti caseari e salumi, sono alcuni dei prodotti presentati agli importatori e distributori cinesi giunti all’evento. All’interno dell’Area Italia sono avvenuti quindi i contatti più importanti ai fini della promozione della tradizione gastronomica italiana nel nord-est della Cina e al suo consolidamento in tutta la Cina continentale e nei paesi vicini nel prossimo futuro. Un processo, tuttavia, non privo di difficoltà.

La lounge dell’Area Italia all’interno dell’esposizione
La lounge dell’Area Italia all’interno dell’esposizione

L’incontro tra espositori italiani e visitatori cinesi ha infatti dimostrato quanto il clash culturale tra occidente e oriente non risparmi la tavola. “Perché il prosciutto di Parma è così rosso?” , “Perché l’olio extravergine costa di più se proviene dalla stessa oliva?”, sono solo alcune delle domande poste dai visitatori cinesi, che dimostrano una lontananza non solo geografica del consumatore locale rispetto alla tradizione gastronomica italiana.

Il prosciutto di Parma, prodotto di culto tra i consumatori cinesi
Il prosciutto di Parma, prodotto di culto tra i consumatori cinesi

“Per conquistare il consumatore cinese le nostre aziende devono puntare sulla qualità” ha dichiarato sua eccellenza Alberto Bradanini, ambasciatore d’Italia per la Cina e la Mongolia, in occasione del  ricevimento per le aziende italiane espositrici tenutosi nell’ambasciata italiana a Pechino.
“Il consumatore cinese, sempre più attento e esigente per quanto riguarda i prodotti agroalimentari di importazione, merita il massimo impegno delle nostre aziende, volto alla proposta di un prodotto di alto livello vicino ai gusti autoctoni, ai fini di una presenza stabile e duratura nel mercato cinese.“

Insomma, se mangiare è cultura, è la qualità a porsi come il mezzo più adatto alla diffusione della tradizione  alimentare italiana, per dare alla gastronomia made in Italy le giuste credenziali per entrare sulle tavole dei consumatori cinesi e di tutto il mondo.

Street food 我爱你! (Street food I love you)

Dalla mia permanenza in terra cinese, posso dire di aver compreso quanto i cinesi di tutte le età e di tutte le classi sociali abbiano un unico minimo comune denominatore: mangiare a tutte le ore.
Sarà che la dieta mediterranea prevede 3 o al massimo 5 pasti principali, ma vedere ristoranti cinesi piccoli e grandi, pieni di clienti ininterrottamente dalle 7 alle 22, dal lunedì alla domenica, presenta una certa originalità. Per di più, sembrano godere di particolare successo tutti quei venditori ambulanti che si alternano a vicenda sugli stessi hot spot: al bordo dello stesso semaforo, secondo il passare delle ore, sarà quindi possibile acquistare delle crêpes salate fin dal sorgere del sole, dei noodles freddi a pranzo, della frutta fresca nel pomeriggio, degli spiedini di carne in serata e delle paste dolci in nottata.
Insomma, nessun popolo ama lo street food quanto quello cinese.
Cercherò ora di raccogliere tutti gli street-food più caratteristici che mi è capitato di trovare durante le mie sortite pechinesi e perfino lungo il tragitto casa-università, ogni giorno e a tutte le ore.
Ravioli o dumplings o jiaozi
Piatto tipico della festività del Capodanno Cinese, per la loro forma simile a quella della antica valuta cinese, il tael, che lo rende un simbolo di felicità e prosperità (lo stesso principio che si cela dietro alle nostre lenticchie),
Sono stati resi popolari nella vita di ogni giorno dai tipici mini-ristorantini di quartiere, caratterizzati da arredamento carente, pochi posti a sedere, coperto essenziale e gestione familiare.
Comunemente si mangiano in abbinamento a salsa di soia (a volte mista ad aceto), peperoncino tritato o aglio.

Tipico aspetto di questi venditori di jiaozi, o jiaozazzari, popolare quanto improbabile ma quanto mai diffuso calco linguistico sull’italiano “paninaro”

Secondo la loro modalità di cottura, i ravioli cinesi si suddividono in:
– ravioli al vapore, nelle varianti jiaozi (dalla pasta sottilissima), xiaolongbao (dalla pasta più soffice e spessa) e shaomai (simili ai jiaozi, ma chiusi in maniera differente), che differiscono tra loro solo per la forma, mentre il ripieno più diffuso è solitamente composto da carne di maiale e verdure, anche se non è difficile trovare le varianti ai gamberi e vegetariane.

Le tre varianti dei ravioli a vapore (da sx verso dx xiaolongbao, shaomai e jiaozi)

– ravioli alla piastra o jianjiao, preparati partendo dai ravioli al vapore ma successivamente ripassati con olio o sulla piastra. Questo secondo step di cottura li rende meno umidi dei ravioli al vapore ma più gustosi e saporiti.

Ravioli alla piastra

– ravioli bolliti o shuijiao. Vengono proposti in diverse varianti di ripieno, sono più delicati e profumati della loro versione al vapore.

Il popolo dello street food cinese si divide di fatto tra coloro che preferiscono i ravioli al vapore e quelli che preferiscono la variante bollita.

Un piatto di ravioli al vapore
Crêpe salata cinese o jianbing
Letteralmente jianbing 煎饼 sta per pancake, o sfoglia di pane cotta in olio, che è essenzialmente la definizione della crêpe occidentale, sennonché noi siamo più abituati a vederla nella variante dolce.
Ciò non toglie che questo piatto saporitissimo sia consumato dai cinesi prevalentemente a colazione.

Venditore di jianbing
Diffusissima nel nord della Cina, questa particolare crêpe è preparata a partire da una massa a base di farina, e cucinata sulla piastra oppure modellata a mano prima di essere ripassata sull’olio.
Viene ripiegata come un piccolo panino e condita secondo i propri gusti con uova, salsa di soia, salsa di piccante, cipollotto, coriandolo, prosciutto, patate.

La preparazione del jianbing direttamente sulla piastra
Spiedini o chuanr
Quando comincia a calare il sole, è facile vedere i bordi delle strade riempirsi dei tavolini dei venditori di chuanr: semplici spiedini di carne, interiora, verdure, tofu, pesce, cucinati al momento sul carbone (più raramente su forni elettrici) e proposti in varianti più o meno aromatizzate.
Questo piatto è di derivazione islamica, è cominciato a diffondersi a partire dalla regione dello Xinjiang, per poi riscontrare grande successo nella Cina settentrionale.
La carne può essere aromatizzata secondo proprio gusto, ma la proposta più comune prevede sale, sesamo e cumino. Nelle zone più turistiche della capitale, come gli hutong e Wangfujing è possibile trovare le varianti più strambe a base di insetti, rettili o altri animali esotici.

Un venditore di chuanr all’opera
Malatang
La malatang 麻辣汤, è un piatto originario della regione di Sichuan, regione per antonomasia della cucina cinese, nota soprattutto per la piccantezza dei suoi piatti. Questo piatto è essenzialmente una versione street food del famoso spicy hot pot, ovvero una zuppa, o tang 汤, di gusto piccante, mala 麻辣, all’interno della quale vengono cotti diversi tipi di ingredienti, dalla carne al pesce, dalla verdura al tofu, sotto forma di spiedini, ai quali è possibile aggiungere della salsa di sesamo.
Il quartiere di Sanlitun pullula di venditori di malatang, e sebbene sia un piatto adatto a riscaldare le serate invernali, i clienti che usano riunirsi attorno al malatang non mancano neanche nelle serate estive.

Tipica tavolata attorno al malatang
Liangpi
I liangpi 凉皮 è un piatto originario della regione dello Shaanxi e dello Xi’an, particolarmente popolare durante i mesi più caldi dell’anno. Il nome letteralmente significa “pelle fresca”, e fa riferimento alla particolare consistenza dei noodle utilizzati per questo piatto: molto sottili, quasi trasparenti, mangiati freddi. La versione più comune consiste in noodles conditi con cubetti di tofu, cetriolo tagliato a listarelle, aglio, salsa di soia, aceto, salsa di sesamo, e volendo, salsa piccante.
Nelle ore più calde di queste giornate estive, questo piatto è facilmente reperibile presso venditori ambulanti in carrettino, che ne preparano una porzione al momento.
Si dice sia nato in periodo di carestia, come piatto di recupero a partire del residuo acquoso ricco di amido in seguito al risciacquo della pasta, utilizzato quindi per condire noodles.

Una porzione di liangpi
Menzione speciale meritano tutti quei mini negozietti di quartiere che si dedicano esclusivamente alla preparazione di alimenti a base di farina: “pizze” nella variante dolce e salata, cracker al sesamo, biscotti salati, mantou, frittelle di melanzane e verdure, dolci,spuntini vari e fritti misti; l’equivalente cinese delle nostre rosticcerie.
A me, nonostante l’ora (qui sono le cinque di pomeriggio), forse per assorbimento delle abitudini alimentari cinesi, sta venendo fame.
E a voi?

Mercatino delle pulci in salsa cinese

Questo articolo è dedicato agli amanti dell’antiquariato, delle cianfrusaglie, della oggettistica più stramba che utile, di quei piccoli oggetti che sanno raccontare una storia ormai perduta, a quelle persone che impazziscono al solo pensiero di spulciare tra una miriade di oggetti esposti in vendita in maniera disordinata e scomposta, in poche parole, ai vagabondi dei mercatini delle pulci.

Dopo aver visitato i luoghi “clou” pechinesi, come la Grande Muraglia, la Città Proibita, il Palazzo d’Estate, e via dicendo, val la pena ritagliarsi una giornata per visitare il Panjiayuan Flea Market, situato nel distretto di Chaoyang, comodamente raggiungibile a piedi dalla fermata metro di Panjiayuan, sulla linea 10.

Dimenticate l’immagine quasi idilliaca e rilassante dei piccoli e appartati mercatini delle pulci alle quali siamo abituati: oggetti d’altri tempi ricoperti da quella caratteristica patina austera e che suscita riverenza nell’animo dello spettatore, placidi venditori quasi restii a separarsi dalle proprie cianfrusaglie, e quella curiosa impressione che il tempo si sia fermato per qualche ora. Preparatevi invece a un caotico e vivace mercato distribuito su una superficie totale di quasi 50.000 m2, che rendono il Panjiayuan Flea Market il più grande e fornito mercatino delle pulci su tutto il territorio cinese. Qui si può trovare veramente di tutto: opere di calligrafia, minerali, gioielli, giade di tutti i tipi e colori, lacche, pennelli, banconote antiche, articoli di propaganda risalenti alla Rivoluzione Culturale, tessuti e stampe, oggetti di artigianato delle minoranze etniche cinesi, porcellane, oro, argento, mobili, metalli preziosi e non di epoca imperiale, statue di tutte le grandezze, oggetti di legno intagliato, servizi da tè, oggettistica in avorio e osso intagliato, mobili in canapa intrecciata, e tanti altri piccoli tesori. Il confine tra mero mercatino delle pulci e una autentica area museale è labile: col giusto occhio (e la giusta dose di pazienza) non sarà difficile mettere insieme un piccolo “tesoretto” dal valore storico inestimabile.

Va da sé che la parola d’ordine è contrattare: il venditore di turno cercherà di guadagnare il più possibile dalla transazione, gonfiando eccezionalmente il prezzo di vendita. Siate fermi nelle vostre posizioni e utilizzate tutti i vostri assi nella manica da contrattatori selvaggi (compresa la tecnica del “lascio tutto e vado via”) e riuscirete ad abbassare il prezzo richiesto fino al 50% e oltre. Il fil rouge che lega la visita al Panjiayuan è il colore. La diversità della merce esposta crea qui una gamma cromatica così completa che difficilmente può essere riscontrata altrove: si va dai colori brillanti della giada e dei minerali a quelli opachi dei metalli e dell’oggettistica in ferro di epoca dinastica, dal bianco puro della carta di riso delle opere calligrafiche alla tavolozza multicolore delle stampe e dei tessuti artigianali.

Ed è questa gamma di colori che, in maniera del tutto amatoriale, ho tentato di catturare e raccogliere per i lettori di Pequod.

La “lunga marcia” fino al permesso di soggiorno cinese

Flessibilità, approccio user-friendly, rapidità. Tutte queste sono qualità  che NON appartengono alla burocrazia cinese, e nella fattispecie, al processo di ottenimento di un permesso di soggiorno per motivi di studio.

Ma andiamo con ordine.

Quest’anno sono tornato a Beijing, presso l’ormai familiare Beijing Language & Culture University, per un corso di lingua cinese della durata di un anno accademico.

La scelta di un periodo di studio maggiore ai sei mesi ha fatto sì che rientrassi in una categoria di immigrato diversa rispetto a quella del semestre passato. Ciò ha comportato una percorso burocratico da seguire del tutto diverso a quello previsto per gli iscritti a un corso di lingua di durata semestrale (qui tutte le informazioni e i consigli in tal caso).

Per il mio ritorno alla rubrica “Al di qua della Grande Muraglia”,  ecco quindi una serie di consigli, informazioni e semplici racconti di esperienza vissuta, per venire in aiuto e preparare psicologicamente  coloro i quali hanno intenzione di proseguire i propri studi in Cina per più di un semestre.

Come sempre, la pazienza sarà la virtù dello studente straniero in Cina, basterà tenere a mente delle semplici accortezze per ottenere con soddisfazione il proprio residence permit.

Il visto
Le cose cambiano fin dalla richiesta del visto, che va effettuata con giusto anticipo prima della partenza. Stavolta, occorrerà richiedere un visto di tipo X1, tramite consegna di passaporto, lettera di ammissione dell’università ospitante, biglietto aereo, modulo di richiesta visto e due fototessere presso il centro VisaforChina.

Un visto di tipo X1.
Un visto di tipo X1.
La particolarità di questo visto è che ha una durata di 30 giorni dall’ingresso in terra cinese, periodo entro il quale va tassativamente effettuata la richiesta per il permesso di soggiorno, pena espatrio dalla Cina.
Dall’università all’ospedale
Una volta giunti presso l’università ospitante scelta e completate le procedure di iscrizione del caso, saremo invitati ad effettuare le visite mediche di rito, qualora non siano state già effettuate in madrepatria.
Di norma, le università ospitanti offrono un servizio di assistenza per prenotare le visite mediche propedeutiche alla richiesta del permesso di soggiorno, che sono effettuate dal Beijing International Travel Health Care Center, nel distretto di Haidian.
Qui è possibile sia certificare le proprie analisi mediche effettuate in madrepatria, che farle ex novo. Al di là dei più diffusi pregiudizi sul sistema sanitario cinese, io ho trovato molto più comodo ed economico fare tutte le analisi mediche ex novo in Cina.
Per una cifra intorno ai 50 euro e nell’arco di tempo di 2 ore, sono stato sottoposto a tutte le visite mediche di rito, ovvero raggi X al torace, prelievo del sangue (comprensivo di esame HIV), controllo peso e altezza, controllo della vista, controllo della pressione ed elettrocardiogramma. In aggiunta, condividere con altri stranieri il peculiare sistema “a catena di montaggio” delle visite mediche è un valore aggiunto: le prime amicizie si fanno proprio mentre si aspetta il proprio turno per questo o quell’altro esame!
Un giorno di ordinaria amministrazione presso il Beijing International Travel Health Care Center.
Un giorno di ordinaria amministrazione presso il Beijing International Travel Health Care Center.

L’ultimo passo verso il residence permit
Una volta ottenuti ( o certificati) i risultati delle visite mediche , basterà consegnarle insieme al passaporto,  lettera di ammissione dell’università ospitante e fototessera all’ Administrative Department of Entry-Exit of Beijing Public Security Bureau, situato nelle vicinanze del Lama Temple, o Yonghegong.
Anche in questo caso, un apposito ufficio dell’università ospitante potrà effettuare quest’ultima procedura in nostra vece, senza andare di persona all’ufficio immigrazione. La procedura per l’emissione del permesso di soggiorno può durare da un minimo di due settimane a un mese, al termine del quale basterà pagare le spese burocratiche (500 RMB,poco più di 50 euro)  e ritirare il proprio passaporto, all’interno del quale sarà presente il nostro residence permit.

Un permesso di soggiorno fresco di emissione.
Un permesso di soggiorno fresco di emissione.

Va tenuto a mente che uno dei benefici del residence permit è quello di poter tranquillamente entrare e uscire dalla Cina senza dover richiedere nuovi visti, oltre che la possibilità di emettere lettere di invito per permettere ad amici o famigliari di entrare in Cina, senza dover richiedere un visto turistico (di breve durata).
Dopo un buon mesetto sotto il giogo della burocrazia cinese, eccovi liberi e formalmente residenti al di qua della Grande Muraglia! Buona permanenza!

Le due facce di Nanluoguxiang

La passeggiata per Nanluoguxiang 南锣鼓巷 (letteralmente “la via dei gong e dei tamburi del Sud”), è una delle destinazioni turistiche più famose e apprezzate all’interno della città di Pechino.
Situata nel distretto di Dongcheng e facilmente raggiungibile in metropolitana, Nanluoguxiang è un hutong  lungo circa 800 metri, costruito durante la dinastia Yuan (1271–1368), anche se è sotto la dinastia Qing (1644–1912) che ha assunto il nome odierno.
ph. Dimitris Argyris [CC BY-SA 2.0/Wikimedia Commons]
Quando si parla di hutong, ci si riferisce alla tradizionale morfologia urbanistica più facilmente riscontrabile nella Cina settentrionale e quindi nella capitale Beijing. Si tratta di agglomerati di caseggiati disposti di maniera adiacente e parallela l’uno con l’altro, formando un caratteristico reticolo di viuzze e dedali color grigio mattone, testimonianza di una Cina urbana di altri tempi.
Il termine hutong, “piccola via, stradina”, è apparso però solo durante la dinastia Yuan, essendo di derivazione mongola e dal significato originale di “città”.
Hutong visto dall’alto
Durante l’età imperiale, lo sviluppo abitativo dei cittadini pechinesi si è originato a partire dal fulcro della vita sociale, politica e religiosa della capitale: la Città Proibita. Da qui, le abitazioni si sono sviluppate in maniera concentrica, a seconda del rango e dell’ordine dei loro proprietari. In particolare, gli aristocratici godevano dell’onore di una maggiore vicinanza alla Città Proibita e le loro proprietà si trovavano a oriente e a occidente di essa. La struttura architettonica di riferimento era per tutti il siheyuan, lett. “cortile delimitato per i quattro lati”.
Come il nome suggerisce, le quattro maggiori costruzioni dell’abitazione delimitavano il cortile della proprietà, con una apertura di norma verso sud, per garantire un maggior ingresso di luce.
La suddivisione degli spazi abitativi dello siheyuan considerava l’esposizione alla luce solare come tratto distintivo, secondo i rapporti regolamentati dall’etica confuciana: l’edificio settentrionale, maggiormente esposto, serviva da camera privata del capofamiglia; gli edifici a est e ovest, mediamente illuminati, erano abitati dai bambini e dai membri minori della famiglia; l’edificio meridionale, quello più scarsamente illuminato, serviva da abitazione per la servitù e da ingresso.
Le donne non sposate e la servitù di sesso femminile risiedeva in appositi locali sul retro: le donne non sposate godevano di una posizione sociale quasi nulla, per questo motivo, la loro abitazione era quella a ricevere meno luce rispetto a quella degli altri membri della famiglia. Il fulcro della vita di tutto i giorni era il cortile, abbellito spesso da piante e decori.
Struttura di uno siheyuan
Questa ordinata e rigida ripartizione etico-architettonica ha inevitabilmente legato la sua fortuna alla ricchezza e allo status dell’aristocrazia imperiale cinese. Col declino di essa, lo sviluppo urbanistico è avanzato anarchicamente disordinato: su ogni cortile hanno cominciato ad affacciarsi più abitazioni, ognuna per ogni famiglia, che condivideva con i propri vicini sia la propria vita quotidiana che i propri spazi vitali minimi. Ancora oggi è possibile ammirare, nell’arco di pochi metri, austeri e ricchi siheyuan (spesso adibiti a musei o luoghi commemorativi) e vivaci e disordinate casupole adiacenti l’una con l’altra, nate dalla presa di possesso di quelle vetuste e privilegiate costruzioni, dando quindi agli hutong la tipica conformazione labirintica per la quale sono famosi oggi.
Nanluoguxiang stessa diventa paradigma di questa contraddizione.
La via principale è costeggiata da vecchie abitazioni ristrutturate e adibite a moderni negozi, ristoranti, pub, gallerie di arte… nuclei pulsanti di modernità racchiusi da antichi involucri di grigio mattone. La strada è piena di turisti stranieri alla ricerca di souvenir e acquisti vantaggiosi e, paradossalmente, dai cinesi più giovani che affollano le catene di ristorazione più marcatamente occidentali come Starbucks e simili.
Ma il vero tesoro di Nanluoguxiang si trova nelle poco trafficate vie laterali. Provare a discostarsi dalla via principale e dalla tensione consumistica che la pervade, infilandosi in una delle vie laterali, permette al visitatore di intuire il battito lento di una Beijing inconsueta.
Basta infatti camminare per gli hutong più interni per dimenticare di trovarsi in una delle più grandi metropoli della Cina, con i suoi 21 milioni di abitanti. Non più taxi e scooter alle calcagna, ma bambini e anziani che condividono lo stesso ritmo lento e misurato, gli uni nel saltare la corda e nell’inventarsi nuovi giochi tra il dedalo di mattoni, gli altri, impegnati nelle loro faccende di casa e nel mantenimento dei rapporti con i propri vicini.
L’ordine frenetico della città, con le strade a 4 corsie, le linee della metropolitana, il reticolo del trasporto urbano, lascia il posto a un pigro accatastarsi di oggetti sulle porte di casa, vicinissime tra loro. I portoni socchiusi dei siheyuan diventati insediamenti popolari, sembrano invitare all’ingresso ma allo stesso tempo ammoniscono il visitatore sulla sacralità di questi piccoli tempi famigliari, dove le reliquie sono gli oggetti di vita quotidiana disseminati sul marciapiede e un denso silenzio accompagna la propria passeggiata.
Nessun rumore tipicamente urbano, solo il chiacchiericcio dei bambini e il vociare degli anziani di porta in porta. Una vera e propria immersione in una vita popolare di altri tempi, che continua fieramente a sopravvivere in questa fortezza placida e austera. Una guerra silenziosa tra i valori di una quotidianità lenta e antica e il progresso a tutti i costi ai quali la Cina di oggi vuole ambire.
E mai come altrove, passeggiare qui porta inevitabilmente a schierarsi verso l’uno o l’altro fronte.
Porte di abitazioni ricoperte di simboli augurali

Una quotidianità in maschera (anti-smog)

La vita di uno studente  fuorisede a Beijing presenta grossomodo gli stessi oneri e responsabilità di un qualunque altro studente fuorisede, tranne per alcune piccole e peculiari stranezze che è impossibile riscontrare nelle città universitarie occidentali.

A cominciare dalle prime domande mattutine: «Perché ieri sera non sono andato a letto prima?», «Che lezioni mi aspettano oggi?», «Che tempo fa oggi?», «Tocca mettere la mascherina o no?».

Effettivamente,  qualunque occidentale consapevole dei rischi di vivere in una delle città più inquinate del mondo farà propria la stramba abitudine di controllare periodicamente la qualità dell’aria della città in cui vive, se non quella del proprio distretto.

Il prezzo del progresso

«Le cose positive non superano la porta di casa, quelle negative viaggiano per più di mille miglia», dice un antico proverbio cinese e difatti le notizie di  allarme inquinamento a Beijing occupano periodicamente le pagine delle testate giornalistiche occidentali.

Il rapido e incontrollato sviluppo industriale che ha interessato la nazione cinese negli ultimi decenni, è stato portato avanti senza un’adeguata politica di tutela ambientale e della salute della popolazione. Secondo lo studio Global Burden of Disease, nell’anno 2010 l’inquinamento atmosferico in Cina è stato responsabile di 1,2 milioni di morti su suolo cinese.

Dati sconvolgenti per una nazione così popolata come la Cina, che paradossalmente si trova al primo posto al mondo per la produzione di impianti fotovoltaici, e che hanno costretto le autorità ad ammettere l’esistenza di una vera e propria emergenza smog tanto da annunciare una serie di misure su larga scala atte alla limitazione dell’inquinamento.

AQI a portata di mano

Il “termometro” di riferimento per la determinazione della qualità dell’aria è l’indice PM 2.5 (Particulate Matter 2.5), che indica il particolato presente nell’atmosfera dal diametro aerodinamico uguale o inferiore ai 2.5 µm, o millesimi di millimetro. È questo il tipo particolato più pericoloso, perché in grado di superare le prime vie respiratorie e di raggiungere i polmoni e i bronchi, fino agli alveoli polmonari, causando ingenti danni all’apparato respiratorio.

La misurazione della concentrazione di PM 2.5 per metro cubo assume notevole importanza perché utile, insieme ad altri agenti inquinanti (come la concentrazione di NO2 e di SO2), alla determinazione dell’Air Quality Index o AQI,  un indice di rilevamento della qualità dell’aria secondo gli standard stilati dalla United States Environmental Protection Agency. È stato quindi possibile stilare un modello di riferimento pratico, attraverso il quale è possibile individuare i rischi per la salute della popolazione in base al valore dell’AQI.

Tabella di riferimento per i rischi della popolazione

Questo valore è determinato oltre che, come già detto, dalla concentrazione degli agenti inquinanti che varia repentinamente in base al minor o maggior utilizzo di automobili, riscaldamento e via dicendo; anche dal vento e dalle precipitazioni atmosferiche.

Ed è così che una risorsa online come Beijing Air Pollution: Real-time AirQuality Index (AQI), che, grazie alle numerose stazioni di rilevamento distribuite per tutta la capitale, rileva 24h/24h il livello degli agenti inquinanti nocivi è diventata indispensabile per la stragrande maggioranza della popolazione cinese.

L’abitudine di controllare svariate volte l’indice AQI è ormai radicata nella vita di tutti i giorni, specialmente dal momento in cui al sito internet è stata associata una app per tutti i tipi di smartphone e tablet presenti sul mercato. Particolare questo, di non poco conto, considerando quanto la popolazione cinese, soprattutto quella più giovane, sia estremamente ricettiva alle nuove tendenze tecnologiche.

Panoramica delle principali stazioni di rilevamento della qualità dell’aria

Mascherine anti-smog: un must-have

A difesa della salute del cittadino cinese, è nato un vero e proprio business delle mascherine anti-smog, caratterizzato da una offerta piuttosto variegata: maschere di tutte le misure, per bambini e adulti, per attività standard o per attività sportive, dall’estetica e dalle tecnologie più disparate.

Lo sviluppo repentino di questo settore ha portato anche alla presenza sugli scaffali dei negozi cinesi di mascherine anti-smog poco efficaci e di cattiva qualità, o addirittura di merce contraffatta.

Il top di gamma delle mascherine anti-smog è rappresentato senza dubbio dalle mascherine di categoria N95, una certificazione assegnata dall’americano National Institute for Occupational Safety and Health (NIOSH) ai respiratori e alle mascherine in grado di filtrare il 95% di particolato.

Questa certificazione statunitense rappresenta quindi una garanzia di riferimento per il consumatore, che potrà quindi scegliere all’interno di questa categoria la mascherina anti-smog più adatta in termini di vestibilità e praticità. Caratteristiche queste importanti, poiché anche una mascherina di categoria N95 perderà tutta la sua utilità qualora non si adattasse alla forma del proprio viso, coprendo perfettamente le prime vie respiratorie.

[ph. Kin Cheung/Bobby KC/DL – RTRL964]

Una volta procurata la mascherina che fa al caso nostro, preferibilmente presso le grandi catene di distribuzione o su piattaforme online garantite (una su tutte Amazon.cn), saremo pronti ad affrontare anche le giornate più inquinate e grigie…sperando di non farci troppo l’abitudine!

Alla ricerca di una casa a Beijing

Che siate lavoratori o studenti fuorisede (e fuori continente) a Beijing, prima o poi dovrete imbarcarvi nell’impresa di cercare casa nella capitale cinese e adeguarsi alle consuetudini locali riguardo la gestione della propria abitazione.
Una volta deciso di vivere a Beijing occorrerà prendere con le pinze la tanto (ab)usata affermazione che “in Cina costa tutto poco”, soprattutto per quanto riguarda il costo dell’affitto delle abitazioni.
I cinesi stessi sanno bene che gli affitti pechinesi sono oltremodo alti rispetto alla media nazionale.
Ad esempio, i giovani lavoratori e studenti originari delle regioni meridionali e centrali della Cina, giunti nella capitale decidono spesso di vivere nella estrema periferia, in stanze condivise con più persone. Conseguentemente, utilizzare quotidianamente la metropolitana per recarsi sul posto di lavoro diventa un obbligo e, allo stesso tempo, una tortura.

Una normale giornata nella metropolitana di Beijing durante l'ora di punta.
Una normale giornata nella metropolitana di Beijing durante l’ora di punta.

Fortunatamente, questo tipo di esperienza non interessa gli stranieri che intendono stabilirsi nella capitale per motivi di studio: il tasso di cambio tra le valute straniere e il RMB cinese (o Yuan) consente di rendere certamente più sostenibile il costo di una casa o di una stanza nei quartieri più centrali di Beijing. È nel quartiere di Wudaokou ad esempio, che si concentrano la maggior parte delle università che propongono corsi di lingua per stranieri, ed è qui che cercheremo una abitazione comoda e funzionale alla vita da studente fuorisede a Beijing.

E il campus universitario?
Perché dedicarsi alla ricerca di una casa e non usufruire di una stanza nel campus della propria università? Ogni università propone infatti agli studenti stranieri una sistemazione all’interno del proprio campus, di diverso tipo: si va dal posto letto in stanza doppia con bagno in comune, fino all’appartamento condiviso, da una soluzione quindi più economica a una più costosa. Ciascuna università ha una propria politica dei prezzi riguardo alla sistemazione in-campus, ma tendenzialmente il costo di un posto letto in stanza doppia con bagno in comune si aggira intorno ai 150-200 euro, mentre per una più comoda stanza singola o per un appartamento condiviso la cifra lievita verso i 300-350 euro.
La sistemazione in-campus non va certamente scartata a priori, soprattutto se si risiede a Beijing per un corso di studi a breve termine e si ha già un/a probabile compagno/a di stanza con cui condividere una stanza doppia, la scelta più economicamente vantaggiosa tra quelle proposte. Tuttavia, gli standard di qualità e di comfort presenti nei dormitori delle università cinesi lasciano spesso a desiderare, soprattutto per le condizioni di servizi fondamentali, come il bagno o la cucina.
Va considerato che il costo della sistemazione in una stanza singola o in un appartamento condiviso in-campus non è troppo differente da quello di una stanza in affitto all’interno di  un appartamento a Wudaokou: la scelta di una sistemazione off-campus è quindi altamente consigliata nel caso di periodi di studio a lungo termine o qualora si arrivi in Cina con il desiderio di condividere l’abitazione con un gruppo di persone di propria conoscenza. D’altro canto, la cifra di 300-350 euro per una stanza singola all’interno di un appartamento a Wudaokou è comunque vantaggiosa se equiparata al costo delle abitazioni all’interno dei quartieri universitari di città italiane come Roma o Milano, dove il costo della vita è molto alto.
Il vantaggio di una vita off-campus,  in un appartamento scelto con cura e secondo le proprie esigenze risiede principalmente nella comodità e nella autonomia che questa scelta comporta: sarà più facile usufruire di una casa dotata di servizi e comfort sicuramente più vicini agli standard occidentali, gestire autonomamente la propria quotidianità e avere maggiore indipendenza.

Cercare casa a Beijing: le agenzie immobiliari
Il quartiere di Wudaokou pullula di agenzie immobiliari che non vedono l’ora di aiutare gli stranieri nella ricerca di una casa. Basterà comunicare all’agente il proprio budget e il numero delle stanze che si desiderano all’interno dell’appartamento per poi valutare gli appartamenti proposti.
Occorre prestare attenzione alla tendenza degli agenti immobiliari nel proporre in prima istanza  le case sfitte da molto tempo ( e dalle condizioni peggiori) : rimanere fermi nelle proprie intenzioni e nei propri standard diventa vitale per trovare la casa più adatta alle proprie esigenze.

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L’agente immobiliare richiederà per i suoi servizi l’equivalente di una mensilità dell’appartamento che si sceglierà di affittare ma, come la stragrande maggioranza delle compravendite in suolo cinese, la commissione dell’agente immobiliare è assolutamente negoziabile: il risparmio finale dipenderà quindi dalle proprie capacità di contrattazione, raggiungendo anche uno sconto del 30-40% sulla cifra di partenza.

Cercare casa a Beijing: gli annunci immobiliari online
Affidarsi a un agente immobiliare per la ricerca della propria casa a Beijing non è l’unica strada percorribile e senza dubbio non è la più economica.
Tra i vari siti di annunci utili a cercare una casa nella capitale cinese, il più conosciuto e il più utilizzato è TheBeijinger , dedicato all’informazione e alla promozione di eventi a Beijing, ma dotato di una vivace sezione di annunci immobiliari.

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Nella sezione Classifieds si trovano infatti migliaia di annunci immobiliari, divisi per quartiere, prezzo e numero di stanze all’interno dell’appartamento proposto. Allo stesso modo, è possibile anche inserire un annuncio nel quale andranno indicate le caratteristiche dell’appartamento che si desidera, il proprio budget e il periodo nel quale si intende occupare l’appartamento. Basterà poi aspettare di essere contattati dal proprietario stesso per organizzare un appuntamento: si tratta in questo caso di  una trattativa diretta e senza intermediari, con la possibilità di richiedere tutte le informazioni che si desiderano. È consigliabile tuttavia, iniziare la ricerca online almeno un mese prima del proprio arrivo a Beijing per organizzare gli appuntamenti per le visite delle case di proprio interesse con maggiore calma e cura.

Casa trovata! E adesso?
Una volta trovato l’appartamento più adatto alle proprie esigenze non rimane che espletare le procedure burocratiche del caso, ovvero firma del contratto di locazione e registrazione della residenza temporanea presso la stazione di polizia.
Il tipico contratto di locazione cinese contiene al suo interno tutte le clausole che regolano i rapporti tra proprietario e i suoi affittuari,  compreso l’ammontare della caparra e delle mensilità,  il periodo di locazione e i dati del proprietario e dei suoi affittuari. Di norma, i contratti di locazione cinesi si rinnovano di tre mesi in tre mesi e il pagamento delle mensilità avviene in una forma unica, al momento della firma.
La consuetudine di pagare in anticipo una prestazione o servizio regolato da un contratto è molto diffusa in Cina e interessa le normali pratiche di manutenzione della casa, come il pagamento delle spese di internet, luce, acqua e gas. Questo vuol dire che non si riceveranno a domicilio le bollette con l’importo da pagare in base a quanto si è effettivamente consumato, ma occorrerà in primo luogo acquistare una certa quantità di kilowatt di energia elettrica o di metri cubi di gas, per poi usufruirne fino all’esaurimento del proprio “credito”. L’acquisto si effettua in una qualunque banca, utilizzando una apposita carta prepagata ricaricabile, che verrà poi inserita nel contatore della propria abitazione per attivare il consumo. Per quanto riguarda internet invece, al momento dell’allacciamento alla rete in seguito all’arrivo di un tecnico a domicilio, si provvederà al pagamento della totalità delle mensilità richieste direttamente al tecnico dell’azienda telefonica. Una volta firmato il contratto di locazione, sarà premura del proprietario accompagnare i suoi nuovi affittuari presso la più vicina stazione di polizia, per effettuare la registrazione di residenza temporanea. Questa pratica è  necessaria ai fini del mantenimento del proprio visto (occorrerà infatti comunicare alla università ospitante la nuova residenza) o per richiedere un eventuale permesso di soggiorno, nel caso di corsi di studio superiori a un semestre.

Espletata questa ennesima pratica burocratica e con le chiavi di quella che sarà la propria abitazione cinese, non rimane altro che iniziare la vita da stranieri a Beijing, una avventura ricca di stimoli e opportunità, caratteristica certamente comune a tutte le esperienze lontane da casa, ma le peculiarità del mondo e del popolo cinese fanno davvero la differenza.
La quotidianità dello studente residente all’estero, o liuxuesheng

留学生 sta bussando alla vostra porta della vostra nuova casa cinese!

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