Tag: Europa

Il vento nero sull’Italia (e sull’Europa)

Da vent’anni Paolo Berizzi, giornalista de La Rebubblica, denuncia la presenza di formazioni di stampo neofascista e neonazista in Italia; da oltre un anno e mezzo vive sotto tutela per le continue minacce e atti intimidatori a causa delle sue inchieste riguardo ai nessi tra partiti, formazioni di estrema destra e criminalità organizzata.

Ad aprile è stato pubblicato il suo libro-inchiesta NazItalia. Viaggio in un paese che si è riscoperto fascista. Che si è riscoperto, appunto, perché, come afferma Liliana Segre, la senatrice a vita sopravvissuta alla Shoah, in fondo, fascista lo è sempre stato, ma solo adesso i tempi sono diventati maturi per una legittimazione di questo fenomeno.

Alcune delle manifestazioni di protesta contro il libro NazItalia di Paolo Berizzi, inclusa l’irruzione nella libreria di Padova.

Si aspettava una reazione così ostile al suo libro NazItalia?

Da una parte sì e ciò significa che ha colpito nel segno. Non mi aspettavo un’ostilità così sistematica e strutturale: cercano in tutti i modi di screditarlo perché è andato a toccare nervi scoperti, rivelando sponde politiche, finanziamenti, tutto ciò che è meno visibile e che è stato portato a conoscenza di un pubblico più ampio.

L’episodio avvenuto nella libreria di Padova può essere assimilato ad un atto intimidatorio di stampo squadrista?

È quello che è stato. Mentre stavo andando a Padova, la polizia mi ha avvisato che mi avrebbero contestato fuori dalla libreria. Distribuivano a chi entrava volantini con la locandina con il titolo di InfamItalia. Non mi sarei aspettato che sarebbero entrati, invece lo hanno fatto, scattando fotografie ai presenti come per schedarli. Fino a ieri queste cose non accadevano. Io dico sempre che è stato un successo aver portato i fascisti in libreria, ma è grave che si sentano sdoganati.

Quali sono le somiglianze e le differenze tra vecchio e nuovo fascismo?

I tratti comuni sono la tendenza alla prevaricazione e la negazione della libertà, fondamento della democrazia.

Si tratta, tuttavia, di un fascismo completamente diverso, non più quello del fez e della camicia nera. Agisce in forme inedite, difficili da riconoscere: è un fascismo liquido, disgregato, fatto da scorie impazzite. Accomuna queste formazioni il rancore verso il nuovo nemico, l’immigrato, il rom, in secondo luogo il sovranismo, il motto “prima gli italiani”, l’isolazionismo.

Le modalità con cui si esprimono sono fortemente sociali: si rivolgono alle fasce più deboli attraverso il cosiddetto “welfare nero”, rispondono ai bisogni primari dei cittadini laddove lo Stato è assente, sostituendosi ad esso. Questa è una novità.

Restano i simboli, diretta emanazione del fascismo e del Terzo Reich, ma la propaganda politica a volte sorprende, adotta forme del tutto nuove: si propongono come diversi dal regime dittatoriale. Questo è il paradosso dei fascisti di oggi: richiedono spazi e libertà politica, fanno le vittime quando sono stati loro a negare il diritto di parola e persino di esistenza.

Il giornalista Paolo Berizzi (secondo da sx) insieme a Nicola Fratoianni e Eleonora Forenza di Potere al Popolo, durante la presentazione del suo libro NazItalia a Bari il 23 ottobre.

Quali le responsabilità della sinistra in tutto ciò?

Le responsabilità sono tante. La prima è di non essere riuscita ad intercettare il disagio delle fasce più deboli della popolazione, non aver dato una risposta alle paure su cui l’estrema destra e la Lega di Salvini fanno leva. La conseguenza di questo è che la sinistra non si afferma al di fuori delle zone ZTL.

La seconda è quella di essersi allontanata dalle zone periferiche: la pasta, prima, la distribuivano le formazioni di sinistra o il cattolicesimo socialista.

La terza è quella di non aver capito che questa destra nazifascista si stava diffondendo nei piccoli comuni, nelle città, nelle metropoli. “Non c’è rischio” dicevano esponenti PD come Renzi e Minniti. Non hanno capito e hanno dato del visionario a chi ne denunciava il ritorno.

In Europa, ma non solo, si sta affermando il fenomeno del neofascismo. Quali le prospettive?

È chiaro che il “vento nero” è diffuso non solo in Europa, ma anche in altri continenti. Bolsonaro (l’attuale Presidente del Brasile, ndr) non ha mai nascosto il suo nazifascismo, è uno che dice di preferire “un figlio morto piuttosto che gay”, non nasconde le sue simpatie per le parole d’ordine che richiamano la violenza, per i metodi dittatoriali. Negli U.S.A abbiamo Trump, in Russia Putin.

In Europa il “vento nero” soffia da tempo, non solo dove l’Ultradestra è al governo, ma anche nel cuore dell’Europa, in Paesi come Inghilterra, Germania, Francia. E Italia. Salvini è stato il primo a intuire, con grande fiuto politico che gli va riconosciuto, che il vento stava arrivando anche da noi. Ha trasformato la Lega da partito autonomista, e, per un periodo, secessionista, a partito sovranista e centralista. È una creazione politica di Salvini, che vince con il sostegno di gruppi di estrema destra come Lealtà e Azione, ispirato ai modelli dei generali delle S.S. e di Corneliu Codreanu, capo delle guardie di ferro rumene.

Matteo Salvini a cena con i dirigenti di CasaPound nel 2015.

Quali sono le prospettive per le elezioni europee del 2019?

Il rischio di uno sfondamento nero e di una deriva autoritaria c’è: alle prossime elezioni si giocano gli equilibri e l’esistenza stessa dell’Europa. Si confermerà e accrescerà il peso specifico del blocco nero sovranista, di tutti quei partiti iscritti al cartello The Movement di Steve Bannon, tra cui la Lega. Non si sa quali potrebbero essere i risultati di questo fenomeno sull’Italia, ma i sondaggi e gli esiti delle recenti amministrative di Trento e Bolzano confermano la crescita della Lega di Salvini, il ministro degli Interni, responsabile delle Forze dell’Ordine, che coccola i fascisti, indossa i loro abiti e da mesi posta slogan quali “me ne frego”. Il cerchio si chiude, Salvini e i neofascisti sono da tempo sullo stesso terreno, nel 2014-2015 la Lega era alleata di Casapound, ora non più, ma l’amore non è certo finito.

Adesso è più sotterraneo questo legame?

Sotterraneo fino a un certo punto. Nei giorni scorsi ero a Bari ad un evento dove erano presenti Nicola Fratoianni e Eleonora Forenza di Potere al Popolo, una delle vittime dell’aggressione squadrista avvenuta a settembre dopo una manifestazione di Salvini. Il ministro degli Interni non ha condannato apertamente, ha solo detto cose generiche in merito. Infatti nel 2015 una foto lo ritrae in compagnia dei capi di Casapound.

Oggi c’è maggior consapevolezza del pericolo neofascista?

Forse sì, dopo vent’anni in cui le mie inchieste cadevano nel silenzio, vent’anni in cui la sinistra ha dormito. Ora se ne sono accorti, ma non abbastanza.

Oggi non è considerato un disonore l’essere fascista. Liliana Segre afferma che il fascismo c’è sempre stato, ma sono mutati i tempi, prima dirsi fascista era un’oscenità ora è caduta la pregiudiziale sul fascismo, non c’è nessuna indignazione.

Questo è un passaggio fondamentale: le nuove generazioni hanno poca memoria perché chi doveva tramandarla non c’è più, per questo è importantissima l’azione di Liliana Segre, che nelle scuole parla con i ragazzi della sua esperienza. Un Paese che non ha memoria non ha futuro. Tanti giovani non comprendono i rischi: questo li porta ad accettare le proposte di questi gruppi, a farsi incantare dalle sirene. Nelle scuole e nelle università agiscono formazioni di estrema destra, mentre prima i collettivi erano di sinistra. È importante informare l’opinione pubblica, le nuove generazioni. Bisogna conoscere l’avversario: alla base di tutto sta la conoscenza.

 

Foto gentilmente concesse da Paolo Berizzi (tutti i diritti riservati).

Anno nuovo, mete nuove!

L’anno nuovo porta con sé sempre quella voglia di migliorarsi e di realizzare i propri sogni, e un viaggio cos’è se non un sogno che si realizza?

Ci sono però un sacco di posti meravigliosi da visitare, e decidere dove andare è una scelta difficile. Perciò, dove andiamo nel 2018? L’abbiamo chiesto a Tiziana Mascarello, editor dei titoli fotografici di Lonely Planet.

Ci racconta qualcosa sul suo lavoro?

Lavoro in Edt nell’area Lonely Planet e, oltre che dell’area marketing, mi occupo di selezionare i titoli fotografici che pubblichiamo durante tutto l’anno. Questi libri in genere sono tematici e contengono informazioni e foto di suggestione, che sviluppano da punti di vista diversi per aiutare il lettore a decidere quale meta scegliere. Meta che poi si potrà scoprire durante il viaggio che ne seguirà, sebbene queste pubblicazioni permettano di viaggiare anche rimanendo comodamente seduti in poltrona con il libro in mano.

Lisbona, Portogallo

Qual è stata la meta di maggiore tendenza del 2017 e perché?

Ogni anno a ottobre pubblichiamo Best in Travel, che contiene informazioni riguardanti le mete che Lonely Planet consiglia perché in quel determinato anno accade qualcosa in particolare. Al suo interno vi sono classifiche di destinazioni come i top 10 Paesi, città e regioni, le tendenze di viaggio per il relativo anno e le destinazioni più convenienti.

Nel 2017 le tra le destinazioni top c’era il Canada, perché festeggiava il centocinquantesimo anniversario della nascita del Paese, sancita dal Constitution Act che ne determinò l’autonomia. La meta è piaciuta molto ai nostri viaggiatori, come gli Stati Uniti, consigliati per il centenario dei parchi nazionali: c’erano infatti tariffe particolari, e sono state aperte zone in genere non accessibili al pubblico.

Tra le mete più gettonate negli ultimi anni c’è anche il Portogallo, con un occhio di riguardo per Lisbona che è la destinazione favorita dai viaggiatori all’interno del Paese. Inoltre, tra il 2016 e il 2017 hanno suscitato grande interesse Cuba e l’Islanda, per il fatto di essere entrambe isole molto particolari che incuriosiscono i viaggiatori.

L’Avana, Cuba

Quali saranno le mete da non perdere nel 2018?

Nel Best in Travel 2018 troviamo, per quanto riguarda l’Italia, Matera. La città diventerà Capitale della cultura nel 2019, ma è già pronta a ospitare i visitatori, poiché ha intensificato le attività culturali e, non essendo ancora troppo turistica, è meglio visitabile. Inoltre, a fine dicembre è uscita la prima guida delle Dolomiti, meravigliosa destinazione Patrimonio dell’Unesco, e tra pochi giorni verrà pubblicata la prima guida Piemonte, regione che sebbene poco conosciuta offre un connubio perfetto tra storia, arte e natura tutto da scoprire.

Il viaggiatore Lonely Planet è molto curioso e vuole visitare anche luoghi meno consueti: nel 2018 il Best in Travel consiglia la Georgia, che un secolo fa aveva avuto un breve periodo di indipendenza e festeggia quest’anniversario. Il Paese è ubicato in una regione che ha mantenuto uno spirito tradizionale molto forte, quindi c’è molto da scoprire all’interno di essa.

Per quanto riguarda l’Europa, l’Andalusia è una di quelle regioni che hanno una combinazione vincente tra clima meraviglioso, gente meravigliosa, arte e cultura. Siviglia si sta trasformando in una città sempre più vivibile ed ecologica, e dato che nel 2018 cade l’anniversario della nascita del pittore Murillo, ci saranno diverse mostre dedicate a lui stesso e all’arte barocca.

Un’altra città europea da visitare nel 2018 è Anversa, che quest’anno offre un mix di arte barocca, ospitando un’importante rassegna di pittura a cui prenderanno parte anche artisti fiamminghi. Inoltre, si stanno riqualificando gli spazi più periferici con opere d’arte e architetture particolari e interessanti: la città vuole allargarsi tramite iniziative culturali anche al di fuori del tracciato turistico classico relativo al centro storico.

Anversa, Belgio

Fuori dal continente europeo, la destinazione top del 2018 è il Cile, che festeggia l’importante anniversario dei 200 anni di indipendenza: per l’occasione, è aumentata la quantità di voli che raggiungono il Paese. Il luogo che il viaggiatore indipendente e avventuroso preferisce all’interno del territorio cileno è Valparaiso, città d’arte costiera, dove si respira un’atmosfera suggestiva tra il romantico e il bohémien.

I flussi turistici negli ultimi anni hanno subito anche il fascino del Giappone. Lonely Planet consiglia di visitarne i luoghi meno noti, specialmente la Penisola di Kii che ora è più accessibile e ancora poco turistica.

Ci sono mete che non passano mai di moda?

Una delle destinazioni top di sempre tra le città continua ad essere New York, la cui guida è in cima alle classifiche di vendita da moltissimi anni. In Italia invece è indiscutibilmente la Sicilia, che piace sempre ai viaggiatori.

New York, USA

Ci sono invece destinazioni che hanno riscosso interesse per tempi molto brevi?

La città di Stoccolma ha meno successo rispetto agli anni scorsi per l’emergere di altre destinazioni, e la stessa cosa succede in America latina per la Bolivia, ora meno visitata perché offuscata dal successo turistico di Cile ed Argentina.

Una delle guide meno vendute negli anni è stata quella di Seoul, ma era stata pubblicata anni fa, quando i tempi non erano ancora maturi. Anche la Tunisia era una destinazione molto amata dai visitatori, e oggi Lonely Planet non ha guide su di essa in catalogo.

Viaggi e sicurezza: c’è davvero paura?

La sicurezza inevitabilmente influisce sui flussi turistici, ma alcune destinazioni, come ad esempio Parigi e Barcellona, subiscono un contraccolpo nell’immediato e in seguito si riassestano. Da quello che vediamo e che i nostri viaggiatori ci comunicano attraverso i social e le mail, percepiamo che si continua a viaggiare, per fortuna. Il viaggio è sempre un elemento forte, va oltre alla paura.

Siviglia, Andalusia, Spagna

Cosa cerca oggi il turista?

I viaggiatori di Lonely Planet cercano luoghi particolari e viaggi in cui fare cose, vivere esperienze. È per questo che pubblichiamo anche libri tematici che danno indicazioni su come viaggiare alla scoperta di nuovi luoghi on the road, a piedi o in bicicletta. Si cercano viaggi d’esperienza, che permettano di conoscere un luogo non solo attraverso una visita di passaggio, ma anche tramite attività, per vedere tutto più da vicino. Il viaggiatore è consapevole, si informa e conosce i posti, li vive in modo più approfondito anche attraverso il contatto con i locali e la loro cucina.

Lei dove andrà nel 2018?

A Berlino, che non ho mai visto in estate, e in Asia Centrale, probabilmente nelle zone dell’Iran, ma il viaggio è ancora tutto da costruire.

Una Vita di Collezioni. I 25 anni di viaggio di Luciano e Anna Pocar

Quando si entra nella casa di Luciano e Anna Pocar, in un vicolo nascosto di Bergamo Alta, non si sa dove guardare; in ogni angolo ci sono oggetti: lance ancora acuminate, statuette di animali e figure umane, enormi vasi africani, uova di struzzo, strumenti musicali.
I signori Pocar hanno passato 25 anni della loro vita a viaggiare. Ora hanno ottant’anni, non hanno mai posseduto una tv e parlano delle avventure che hanno vissuto con una lucidità e un entusiasmo contagioso.

Luciano è stato professore di matematica alla Statale di Milano; Anna alle scuole superiori. Per molti anni, prima di andare in pensione, si sono mossi in camper alla scoperta dell’Europa. Mi raccontano di quanto fosse bello viaggiare prima del turismo di massa e di quanto i cambiamenti nei luoghi che visitavano fossero rapidi; tra gli esempi, un villaggio di pescatori in Portogallo, con uomini e donne vestiti con costumi tradizionali in cui si erano imbattuti per caso a inizio anni ‘70, tre anni dopo aveva già perso tutta la sua autenticità.

«Il fatto che persone che prima non potevano viaggiare per mancanza di mezzi possano invece ora farlo, è davvero bello – mi dice Luciano – ma mi intristisce molto la perdita di tradizioni e costumi di popolazioni che le hanno conservate per così tanto tempo».

Nel 1984 prendono una decisione che cambierà radicalmente il loro modo di viaggiare: trascorrono, infatti, due settimane in Rwanda, durante il periodo natalizio, per collaborare con un progetto di volontariato. Anna scopre di questo progetto parlando casualmente con un’amica per strada, che suggerisce che c’è sempre bisogno di volontari. In due settimane nel paese non riescono a fare molto, ma decidono che partire per più tempo per fare veramente la differenza è quello di cui hanno bisogno.

Nel 1985 la scelta di recarsi a Riobamba, in Ecuador, dove trascorreranno 5 anni a insegnare matematica a una comunità montana nell’area, situata quasi a 5000 metri di altitudine. «All’inizio era molto difficoltoso capire gli allievi, perché parlavamo poco spagnolo, – raccontano – ma piano piano siamo riusciti a formare più di 80 bambini». Anna ci dice con orgoglio che uno dei loro primi alunni è ora rettore all’università che hanno con pazienza aiutato a creare. Mentre erano lì, hanno viaggiato in lungo e in largo.

Hanno inizio in questo periodo due delle collezioni più rappresentative dei loro viaggi: quella di presepi e statuine votive tradizionali e quella dei ponchos, che Anna ha raccolto in ogni stato del Sudamerica in cui sono stati, nelle pause dall’insegnamento.

Un’altra collezione molto interessante è quella delle fruste tradizionali. Luciano ci racconta che le fruste non venivano effettivamente usate per picchiare qualcuno, ma come status sociale: più erano elaborate e di materiale prezioso, più la persona che la portava è importante.

Una volta tornati dall’Ecuador, Anna e Luciano non hanno alcun desiderio di rimanere a casa. Decidono quindi di intraprendere l’avventura più difficile di tutte: il volontariato in Rwanda, un posto in cui si erano sempre ripromessi di tornare a fare più di quello che avevano fatto; qui. rimarranno per 4 anni.
Il Rwanda è nel pieno di una guerra civile sanguinosa ed è estremamente difficile portare gli aiuti necessari. Il 6 aprile del 1994, quando inizia il genocidio dei Tutsi da parte degli Hutu, Anna e Luciano si trovano ancora nel paese e sono costretti a scappare, vedendo la morte di persone a loro care e rischiando di rimanere uccisi a loro volta. La scuola che stavano costruendo verrà distrutta; scapperanno e non torneranno in Rwanda mai più. «È stata un’esperienza davvero traumatica, – ci racconta Anna – ma questo non ha fermato il nostro desiderio di continuare a viaggiare».

Torneranno in Sudamerica, andranno in Somalia, vivranno in Madagascar.
Di ogni posto in cui sono stati, hanno aneddoti divertenti, storie toccanti e mille oggetti che descrivono il luogo in cui sono stati meglio di qualsiasi racconto. Gli oggetti più numerosi provengono dall’Africa; di questi, quelli che più mi incuriosiscono sono le mille statuette intagliate in un’impressionante quantità di legni diversi.

Mi raccontano che negli anni novanta, quando tornavano dai loro viaggi e cercavano di raccogliere soldi da donare e impiegare nei loro progetti, era molto più facile trovare persone disposte ad aiutare, anche con cifre sostanziose. Ci dicono che adesso la diffidenza nei confronti delle organizzazioni umanitarie e la crisi economica hanno reso molto difficile trovare persone che si fidino ad affidare dei soldi. «È un peccato, ma capiamo anche che i tempi sono molto cambiati».

Oltre ai viaggi, Luciano è felice di raccontarci di più della sua vita. Suo padre è stato uno dei più grandi germanisti italiani, traducendo per primo le opere di Hesse e Kafka in Italia, per cui Luciano parla perfettamente tedesco sin da bambino. È cresciuto in una casa di studiosi dove la cultura era molto importante. Ha imparato l’arabo, il francese, il cinese, l’inglese e lo spagnolo.
In casa ci sono molti quadri con scritte in arabo e citazioni dal Corano, che mi traduce con entusiasmo.

Oltre alla grande conoscenza teorica, il signor Pocar ha anche una grande manualità e interesse per gli oggetti. Negli ultimi anni la sua più grande passione è costruire meridiane partendo da carta e cartoni, basandosi su teorie diverse circa il calcolo del tempo.

«Ogni volta che passiamo vicino alla famosa meridiana di Città Alta, sotto i portici di Piazza Vecchia, si mette a raccontare alla gente che passa come funziona, e rimaniamo lì per delle ore! – ci dice Anna divertita – Le guide turistiche sono contente quando lo vedono e a volte lasciano a lui l’intera spiegazione».

Uno altro grande hobby di Luciano sono le scienze naturali. Quando arriviamo nel suo laboratorio, totalmente separato dal resto della casa per garantirgli tranquillità e privacy, capiamo quanto tempo abbia passato a studiare e catalogare: animali impagliati, teschi di grandi e piccoli mammiferi trovati qua e là o donati da amici che sanno della sua passione, insetti europei, asiatici e americani, tutti catalogati minuziosamente.

C’è anche una sezione con vari animali in formaldeide: piccoli serpenti, pipistrelli e topi, che tratta una volta trovati già morti.

Con lui scherzo del fatto dovrebbero fare pagare un biglietto d’ingresso: la stanza è talmente ricca di reperti, che non si sa effettivamente più dove guardare.

Passare un pomeriggio con due persone come Luciano e Anna è un toccasana: fa capire che la passione per la cultura e l’impegno per gli altri sono probabilmente ciò che serve per mantenersi giovani, anche a ottant’anni.

Essere parigini nel 2017

Un tempo si diceva che le capitali europee come Parigi o Londra fossero città multiculturali. “- inserire un nome di qualsiasi città in Europa – multiculturale” sarebbe stato un titolo perfetto per qualsiasi articolo di un giornale di viaggi o per un pezzo in copertina di una rivista di moda che ritraeva modelle vestite con abiti con fantasie africane intente a posare su uno sfondo urbano.

Dopo gli attentati terroristici del 13 novembre 2015 nel cuore di Parigi, nonché cuore dell’Europa, il concetto di multiculturalismo non è più nominato solo in riferimento a una maggiore concentrazione di ristoranti etnici in alcuni quartieri di una città, ma ha assunto un significato ben più complesso. L’opinione pubblica ha iniziato a dare sempre più attenzione alle comunità straniere che vivono nelle città europee, molti membri delle quali sono cittadini europei.

Un angolo del quartiere Marais a Parigi (Wikimedia Commons).

In questo senso, Parigi è la città multiculturale d’Europa per eccellenza, con una tradizione di immigrazione che risale all’epoca coloniale. In tutto il mondo les Parisiens sono ritratti come snob, orgogliosi della loro città e dell’eleganza che la accompagna. Tuttavia, se si va oltre lo stereotipo, non si può fare a meno di riconoscere la vera natura degli abitanti di Parigi, abituati al multiculturalismo da ben prima che fosse cool e che vivono in quartieri storicamente abitati da diverse nazionalità. Probabilmente il più alla moda e sicuramente uno dei più esclusivi, il quartiere Marais è il centro storico della Parigi ebraica, mentre Rue du Faubourg Saint Denis è il fulcro della Parigi multiculturale. Per non parlare di Little India, le strade vivaci e pittoresche intorno a La Chapelle, e di Belleville, il cui multiculturalismo è stato reso famoso dai romanzi di Daniel Pennac.

Essendo abituati a convivere con la diversità, la maggior parte dei parigini non ritiene che la causa degli attentati terroristici sia da ricercare nei propri vicini stranieri, tant’è vero che, nel parlare dei fatti del 13 novembre 2015 e di come hanno influenzato la vita quotidiana, in genere la natura multiculturale di Parigi non viene citata come motivo di preoccupazione. Ne abbiamo parlato con Emeline, una ragazza francese di 26 anni che vive a Parigi da circa 2 anni.

Emeline (foto di Emeline, tutti i diritti riservati).

Ciao Emeline. Dov’eri il 13 novembre 2015? Ti ricordi cosa stavi facendo quella sera?

Ciao. Io vivo a République, il quartiere proprio al centro degli attacchi. Quella sera ero a casa, stavo facendo un riposino prima di uscire. In questo caso la mia pigrizia si è rivelata provvidenziale, facendo sì che non fossi già fuori casa a quell’ora. Non appena mi sono resa conto di quanto stava accadendo, ho iniziato a preoccuparmi per i miei amici e ho scritto subito ai miei coinquilini e al mio ragazzo per assicurarmi che stessero bene. Dalle finestre vedevo la gente correre. A un certo punto ho visto una persona che conoscevo e l’ho raggiunta nel bar sotto casa, che potevo raggiungere dal mio cortile senza dover uscire per strada. In quel momento preferivo stare con qualcuno invece che sola a casa.

Hai notato dei cambiamenti nella città da quel giorno? Dalle abitudini quotidiane al comportamento e alle relazioni umane?

In realtà non ho notato grandi cambiamenti. Semplicemente, quando si sente un forte rumore che potrebbe sembrare un colpo di pistola o una bomba, a volte la gente si mette a correre in cerca di un posto sicuro, oppure si ferma e cerca altre persone con lo sguardo, quasi a dire “E’ tutto a posto? E’ stato strano, no?”. A parte questo, però, non ho notato alcuna differenza nel comportamento della gente, neanche nei confronti delle comunità musulmane.

Vista dalla finestra di Emeline, République, Parigi (foto di Emeline, tutti i diritti riservati).

La tua vita quotidiana è cambiata? Hai mai pensato di trasferirti?

Non amo stare in mezzo alla folla, non mi sento sicura. Devo ammettere che non mi piaceva molto nemmeno prima, ma adesso sento che il motivo è un altro. Comunque, dal 2015 mi è capitato di essere in mezzo a una folla, ad esempio durante gli scioperi. E’ un’abitudine francese, non ci è proprio possibile farne a meno!

In quanto ragazza francese, come vedi l’Europa? Pensi che questi attacchi stiano in qualche modo minacciando il concetto di Europa unita?

A mio parere l’Europa è un concetto basato su un mercato e una politica comuni, nonché su leggi e cultura condivise, ma non penso che individualmente ci si senta parte dell’Europa. Intendo dire che personalmente non mi sento una cittadina europea, non è la mia identità. Credo che sicuramente gli attentati terroristici e la paura che hanno generato non aiutino le persone a sentirsi uniti, né a pensare alla questione della libera circolazione tra le frontiere a cuor leggero. Ciononostante, non credo che il terrorismo sia la causa principale dei problemi dell’Unione Europea.

Secondo Emeline, a Parigi la vita è andata avanti. Tuttavia, la paura di quella notte non può certamente essere dimenticata con facilità, e gli attacchi terroristici che si sono susseguiti in Europa dopo quelli di Parigi non hanno sicuramente aiutato i parigini, e gli europei in generale, a sentirsi al sicuro nelle proprie città. A darci speranza in questi tempi difficili, però, è il fatto che Parigi, la meravigliosa, multiculturale e accogliente Parigi, non ha perso la propria identità, né il suo orgoglio di essere una delle città più belle e multietniche del mondo.

Intervista di Francesca Gabbiadini; traduzione di Lucia Ghezzi.

Immagine di copertina di Martina Ravelli, tutti i diritti riservati.

Viaggiare e scrivere accompagnati dalla Sindrome di Asperger

Navigando nei meandri del web capita, a volte, di imbattersi in siti interessanti, particolari. Succede quasi per caso: magari stai ascoltando una canzone su YouTube, sbirciando tra qualche social e, nel frattempo, vuoi compiere una breve ricerca su un argomento che hai poco chiaro. Succede che invece di aprire il primo link, il tuo occhio cada sul secondo e che, spinto dalla curiosità del nome, tu lo apra.

Ecco, questo è ciò che è capitato a me circa due settimane fa. Il sito in questione, o meglio, il blog si chiama Operazione Fritto Misto e, chiaramente, almeno un’occhiata l’ho dovuta dare! Perché… Perché nel nome c’è “fritto misto”; quindi, mi chiedo io: vuoi non aprire un link che ha “fritto misto” nel nome?

Le mie aspettative vengono subito deluse: ingolosito al pensiero di veder apparire sul monitor immagini di ciotole colme di verdure miste e piatti di carni e pesci rivestite di superfici croccanti, non appena lo apro scopro che il blog non tratta solo ed esclusivamente di cucina! Colpa mia che non ho letto tutto il titolo del sito: Operazione Fritto Misto – Ceci n’est pas un blog de cuisine. Causa la mia sbadataggine e forse l’appetito, non avevo colto l’originale punto di vista del blog, racchiuso nella bellissima citazione all’opera di Magritte, Ceci n’est pas une pipe. Di cucina e di ricette se ne parla, diciamo che c’è “Un po’ di cucina” (come titola la rubrica dedicata), ma gli argomenti di cui è possibile leggere spaziano dai libri alle serie tv, passando per i film e diversi viaggi. Insomma, un vero fritto misto!

A incuriosirmi, inizialmente, è più che altro il fatto di capire quale sia il collante, il filo conduttore di tutti questi post; così, esplorandolo un po’ scopro che la proprietaria, nonché unica autrice, si chiama Alice, ha 28 anni, è torinese di nascita e lavora come hostess d’hospitality allo stadio. Una blogger come tante, apparentemente, se non per il fatto che Alice è portatrice della sindrome di Asperger; un disturbo di scoperta relativamente recente, i cui sintomi, difficili da indagare sia per le loro molteplici sfumature sia per la mancanza di informazioni scientifiche circa le cause della sindrome, sono legati alla sfera sociale dell’individuo.

E come nasce l’idea di aprire un blog che parla di sé, in una persona che ha difficoltà nell’avere interazioni sociali? Non resisto all’invito “Contattami” che appare nell’elenco in menù, da cui Alice risponde a tutte le mie curiosità: «Come tutti i possessori di un blog ho iniziato a scrivere per puro piacere. A spingermi ad aprire Operazione Fritto Misto, però, è stata la difficoltà di comunicazione, il bisogno di una forma di socializzazione adatta al mio modo di essere, che conciliasse la necessità di condividere gli interessi alla facilità dell’espressione scritta. Per questo, scrivere, per me, vuol dire comunicare senza pressioni».

Il blog, nato come blog di cucina «vegetariana, simpatizzante vegana», presto si è aperto a una grandissima varietà di temi: «Stavo stretta in mezzo a sole ricette; così ho ampliato gli argomenti e si sono aggiunti i viaggi, Torino, libri e film. Un fritto misto, insomma», mi racconta Alice. E proprio sui viaggi di Alice ritengo opportuno soffermarmi, immaginando non sia facile cambiare ambiente e incontrare nuovi spazi, per chi come lei sente la necessità di vivere in una comfort zone, ossia un ambiente privo di rischi o fonti di ansietà, quanto più familiare possibile: «Per anni ho viaggiato in camper, il che mi ha dato l’opportunità di visitare moltissimo l’Italia, di cui ho amato il giro di tutta la costa sarda e la Puglia; ma anche il sud della Francia, la Svizzera (soprattutto Locarno, città d’origine di mio nonno) e l’Austria. Poi c’è Londra, che mi ha fatto innamorare ancora prima di visitarla, e Copenaghen, che nel periodo natalizio mi è entrata nel cuore».

Così, la sezione “Sì Viaggiare” del blog ha iniziato a prendere forma: in questo spazio, Alice racconta i suoi viaggi, di quelli passati ma anche di quelli che un giorno ha intenzione di fare. A tal proposito ha scritto un articolo, datato Gennaio 2016, dal titolo “Traveldreams 2016 Per Sognare in grande”, in cui stila una lista di quei Paesi che in futuro vorrebbe visitare; dalla Namibia alla Polinesia francese, passando per la Scozia, l’articolo racconta alcune delle fantasie di viaggio che Alice coltiva da tempo . Sorpresa: al punto 6 c’è l’Italia, perché, cito testualmente, «chi l’ha detto che i viaggi da sogno si trovino a distanze transoceaniche?». Nel sito non mancano consigli da viaggiatori: suggerimenti sui trasporti economici, tra cui particolare attenzione ottiene Megabus, cui Alice dedica un #diarioditrasferta su Instagram; innumerevoli recensioni culinarie, non senza riferimenti all’ambienti e all’economia; critiche sincere (irresistibili quelle al Balcone di Giulietta a Verona, la cui parete retrostante è «ormai cimitero di microbi e saliva») e commenti senza peli sulla lingua (ammette che «Parigi mi ha delusa», anche se per affrontarla impara ad apprezzarne il fascino, seguendo il suo principio di «curare la paura con la bellezza»).

Infine una certa attenzione è riservata a Torino, ai suoi eventi, ma anche ai suoi luoghi più nascosti e interessanti; immancabili sono i consigli su dove fermarsi a mangiare, mentre alcune curiosità sui piemontesismi più diffusi potranno aiutarvi nell’approccio ai torinesi.

Alla base di tutti questi viaggi c’è la sindrome di Asperger che la fa (quasi) da padrona. «I primi momenti – mi spiega Alice – non è stato facile perché partire senza i miei genitori, all’epoca parte integrante della mia comfort zone, si è rivelato psicologicamente tumultuoso: ero felice di andare ma inspiegabilmente ero terrorizzata, al punto di stare male per tutta la durata del soggiorno. Non mi sono voluta arrendere, così ho iniziato a cercare un modo per reagire, come faccio nella vita di tutti i giorni».

Ed è da quel momento che le cose hanno iniziato a prendere una piega diversa, e il viaggio ha assunto, per Alice, un sapore nuovo: «Mi sono accorta che a spaventarmi erano gli imprevisti e l’ignoto come, ad esempio, un metal detector che suona, un quartiere sconosciuto, o persone che mi parlano in un’altra lingua, e che quindi la soluzione era prepararsi adeguatamente, cercando più informazioni possibili senza lasciare troppo al caso. Certo gli intoppi ci sono sempre, ma riderci su e viaggiare con qualcuno di cui mi fido aiuta sempre».

Fotografie di Operazione Fritto Misto

Pain de Route: una giovanissima viaggiatrice ad Est

Viaggiare è sempre un’esperienza molto personale. C’è chi ama il confort e la comodità sopra ogni cosa, località più che collaudate, hotel di lusso e viaggi organizzati e chi, come Eleonora, ha fatto dell’avventura, delle mete insolite e della frugalità uno stile di vita.

Eleonora ha 23 anni, è nata e cresciuta a Milano, e al momento si trova a Mosca da circa 5 mesi, per un Erasmus Overseas. Studia Linguistica Teorica ed Applicata e ha fondato un blog di viaggi molto seguito, Pain de Route, nel quale racconta principalmente dei suoi viaggi in mete inusuali per i più. E’ infatti una grande appassionata di Est, e la maggior parte delle sue peregrinazioni recenti si sono svolte in territorio russo e limitrofi. Le chiedo come è iniziata questa sua grande passione. «Mio nonno, un ingegnere in ambito chimico, ha sempre viaggiato tantissimo per lavoro, e mi ha sempre portato a casa piccoli regali dai suoi viaggi in territori lontani, sono cresciuta col mappamondo tra le mani, possiamo dire che ero destinata a viaggiare per genetica».

La moschea del Cremlino di Kazan’, Tatarstan, Federazione Russa, lungo la Transiberiana d’inverno. / Foto di Pain de Route / Tutti i diritti riservati.

Eleonora mi racconta che il suo primo viaggio è stato piuttosto classico, in Grecia con gli amici. Un viaggio organizzato un po’ a casaccio e in tenda: «Faceva un freddo tremendo, la tenda era aperta da due lati e ho dormito con il machete. Col tempo, ho imparato che l’organizzazione, prima di una partenza, è davvero importante». Durante il viaggio in Grecia, Eleonora e i suoi amici si sono ritrovati a riposare vicino ad un piccolo cimitero ortodosso. È lì che ha capito che per lei quel viaggio significava molto di più di quanto poteva immaginare all’inizio, e da lì è iniziata la sua ricerca personale. «Ho realizzato che volevo capire dove si spingesse il concetto di Europa. Passando i confini, riesci a vedere la differenza tra il reale e il geografico. L’Europa alla fine si spinge molto più in là di quanto vediamo su una mappa, ovunque gli europei sono arrivati e hanno lasciato tracce», mi racconta. «Bishkek, la capitale del Kyrgyzstan, è una città molto europea. Fin dove si arriva?».

La piazza rossa ghiacciata in un pomeriggio di gennaio, a -24°C. / Foto di Pain De Route / Tutti i diritti riservati

E così sono iniziati i suoi viaggi, sempre più a Est. Prima i Balcani, poi l’Est Europa, poi il Caucaso e infine la Russia e i territori ex-sovietici, che sta esplorando in questi mesi. I posti che le sono rimasti più nel cuore sono la Georgia e l’Armenia, paesi dei quali parla con un luccichio negli occhi.

Il blog l’ha aperto proprio dopo il viaggio dei 18 anni, nei Balcani, che le sono rimasti incisi nel cuore. «Dopo quel viaggio, avevo bisogno di depositare un pacchetto di emozioni. Le dovevo buttare fuori per sanità mentale». E così è nato il suo diario online, pieno di articoli sui posti che ha visitato, sulle emozioni che ha provato, e pieno di tantissimi articoli e consigli utili ai viaggiatori più intraprendenti. Eleonora riceve moltissime domande dai suoi lettori, alle quali è felicissima di rispondere. «Sta diventando quasi un lavoro», mi dice con orgoglio.

Un ristorante bruciato sul Mar Nero a Sukhumi, in Abkhazia, regione separatista della Georgia. / Foto di Pain De Route / Tutti i diritti riservati

Uno dei viaggi più intensi e decisamente oltre il limite del viaggiatore tradizionale che Eleonora mi racconta è quello in Abkhazia. È uno stato non riconosciuto dalla maggior parte del mondo, perchè faceva parte della Georgia, dalla quale si è staccato dopo una sanguinosa battaglia d’indipendenza. Non c’è alcuna assistenza diplomatica, il telefono non prende e la polizia può tranquillamente fermarti e chiederti molti soldi, solo per permetterti di passare da una certa strada. «È un posto meraviglioso, ma mi sono sentita completamente sola in Abkhazia. Ci sono cose che diamo totalmente per scontate nella vita e nei viaggi di tutti i giorni e non possiamo neanche immaginare che la legge del Far West possa regnare in posti così geograficamente vicini a noi».

Eleonora ha viaggiato tantissimo in autostop, con Couchsurfing, Bla Bla Car, tutti i mezzi più economici che permettono di risparmiare e allo stesso tempo di conoscere molte persone durante il viaggio. «Viaggio sempre con cifre ridottissime e ogni soldo che guadagno lo tengo via per un futuro viaggio. Borse di studio, mance dei parenti, soldi delle ripetizioni, piccoli lavoretti che faccio qua e là, ogni centesimo è risparmiato per voli aerei e attrezzatura adatta al posto dove andrò. I miei amici mi regalano solo cose che possono servirmi per viaggiare».

Notte in un furgone merci, da Bishkek ad Osh, in Kirghizistan. / Foto di Pain De Route / Tutti i diritti riservati

Come ogni viaggiatrice esperta, Eleonora ha imparato a ridurre tutto all’osso. Mi informa che a volte pensa che potrebbe partire solamente con un coltellino svizzero. «Se ho quello, sono a posto. Una volta ho dimenticato la spazzola e non mi sono potuta pettinare per tre settimane. Ero un disastro», mi dice ridendo. Ha viaggiato spesso da sola ed è una cosa che consiglia di fare a tutti almeno una volta. «La mia ragione è semplice: non mi piace fare compromessi e voglio fare e vedere quello che più mi interessa. Sono pochissime le persone con cui posso condividere i viaggi più intensi. Tramite Couchsurfing mi capita sempre di conoscere persone fantastiche che mi ospitano e non mi sento sola. Mi piace così».

Con i bambini del quartiere ebraico di Samarcanda, Uzbekistan: uzbeki, tagiki, kirghisi e russi. / Foto di Pain de Route / Tutti i diritti riservati

In questo post emblematico della sua filosofia di vita, Eleonora ci spiega che viaggiare è tutta una questione di priorità. Se vuoi davvero farlo, rinunci ad altre cose. Ed è quello che risponde a chi le chiede dove trovi i soldi per viaggiare. Le sue prossime mete? Mongolia e Cina. Sempre più a Est. Chissà se c’è Europa anche lì.

In copertina: Free Camping sul lungomare di Durazzo, Albania / Foto di Pain De Route / Tutti i diritti riservati.

Cieli chiari nelle notti d’Europa

Negli ultimi anni la questione dell’inquinamento luminoso nelle aree metropolitane d’Europa è diventata oggetto di interesse e preoccupazione crescenti. Salvo rarissime eccezioni, nella maggior parte delle grandi città del vecchio continente è ormai impossibile osservare una notte autentica, in cui il buio la faccia da padrone e le stelle possano risplendere nelle tenebre. Lo scenario che più verosimilmente ci offre la notte nelle metropoli è quello di una notte ovattata, di un’oscurità smorzata dai milioni di luci che la dipingono, donando al cielo sfumature chiare, giallastre, quasi tendenti al rosa, e in generale un clima surreale.

Ma anche il paesaggio notturno più inquinato dalle luci sa essere suggestivo. Nell’Europa dell’est, dove la vastità degli spazi e la minore densità abitativa rendono le aree extra urbane ancora immuni all’inquinamento luminoso rispetto ad altre parti d’Europa, le grandi città con le loro luci spiccano ancor di più e il cielo chiaro che le sovrasta di notte sembra essere più stupefacente che altrove.

Il nostro viaggio fra le capitali europee orientali comincia a Varsavia. La crescita esponenziale che ha investito la città negli ultimi decenni l’ha trasformata in un cantiere di grattacieli che si sviluppano attorno alla stazione centrale, a ridosso del centro storico ricostruito nel dopoguerra. Nei mesi autunnali e invernali la notte si staglia con prepotenza nel cielo fin dalle quattro del pomeriggio. È proprio in quel momento che si accendono i palazzi, rendendoci ancor più consapevoli della trasformazione della città in una vera e propria metropoli. I grattacieli ultra moderni si colorano a seconda delle giornate e degli eventi, contribuendo a uno spettacolo in cui il maestro d’orchestra rimane tuttavia il più vecchio fra i giganti di Varsavia, il Palazzo della Cultura e della Scienza, costruito nel 1955 in epoca sovietica, che con i suoi 237 metri rimane l’edificio più alto della Polonia.

varsavia
Palazzo della Cultura e della Scienza, Varsavia
varsavia1
Nuovi grattacieli nella zona della stazione centrale, Varsavia

Spostandosi a sud-est ci troviamo nella notte di Bucarest, città che sembra non dormire mai. Le vie del centro pullulano di vetrine e locali, di insegne luminose che travolgono gli avventori, i quali nonostante il freddo pungente dell’inverno e il caldo torrido dell’estate sono inevitabilmente attratti dal cuore pulsante della capitale rumena. Camminando da un bar all’altro, da una discoteca a un fast food aperto 24/7, capita di alzare gli occhi verso il cielo e di scoprirlo magicamente tinto di un rosa surreale e incantevole, quasi a voler compensare l’assenza di stelle. E perdendosi fra le strade del centro, dove la modernità dei negozi e dell’intrattenimento si incastra in modo affascinante negli eleganti palazzi decadenti, capita di imbattersi in angoli del passato della città sorprendentemente conservati e, va da sé, perfettamente illuminati.

10474228_10152613535856551_6208298169966511607_n
Chiesa di Stavropoleos, Bucarest

Più a est, entriamo a Kiev, che con quasi tre milioni di abitanti è la città più grande e popolosa dell’Europa orientale, escludendo le metropoli della vicina Russia. La capitale ucraina è grande, la vastità delle sue piazze e dei suoi viali non lasciano dubbi sul fatto che la Mitteleuropa con le sue città dai vicoli poetici che si arrampicano verso castelli fiabeschi sia ormai lontana. Qui si respira tutta un’altra aria, quella della grandiosità a tutti costi di epoca sovietica, unita all’eleganza e alla maestosità di quello che per secoli è stato il cuore culturale, politico ed economico di una parte d’Europa. E “maestoso” è il primo aggettivo che viene in mente mentre si cammina per le otto corsie del Chreščatyk, il viale principale della città, dove luci gialle e blu brillano orgogliose e tristi, a ricordare la lotta mai finita della nazione ucraina, culminando nella ben nota Majdan Nezaležnosti, o semplicemente Majdan, dove la scritta “Ucraina” illuminata di blu ha visto trascorrere in quella piazza notti di protesta, di guerra e di speranza. Ancora, in fondo al viale, affacciato sul Dnipro, un arcobaleno luminoso sorride beffardo alla notte di una città che non si spegne mai, nonostante tutto.

 

ukr
Hotel Ucraina, Majdan Nezaležnosti, Kiev

 

mon
Monumento dell’Amicizia fra i Popoli, Kiev

In copertina: Palazzo della Giustizia di Bucarest, Romania [ph. Britchi Mirela CCA-SA 4.0 by Wikimedia Commons]

Piccola Bretagna: il referendum europeo visto da una migrante

Il mio primo periodo a Londra fu caratterizzato dall’impressione che la mia vita si fosse improvvisamente rimpicciolita. Tutte le cose che avevo considerato importanti fino a quel momento sembrarono recedere sullo sfondo, mentre mi concentravo sugli aspetti pratici dell’iniziare una nuova vita. Prima di tutto dovetti adattarmi alla goffaggine del mio inglese: nonostante lo scoraggiamento iniziale riuscii in qualche modo ad affittare una stanza da un’agente immobiliare che non voleva saperne di parlare più lentamente, non importa quante volte la pregassi. Questo fu niente se paragonato al tentativo di prenotare un appuntamento per ottenere il codice fiscale britannico tramite un’operatrice telefonica la cui parlata mi risultava incomprensibile, e che però fu tanto paziente da scandire ripetutamente le sue parole per me, una nuova arrivata confusa da quello che solo più tardi avrei scoperto essere un marcato accento del nord. Mi sentii terribilmente insicura anche sotto lo scrutinio dell’impiegato che mi permise di aprire un conto in banca solo dopo averlo assicurato oltre ogni dubbio che avrei iniziato un lavoro a tempo pieno la settimana successiva. Infine dovetti soccombere allo schiacciante disorientamento che mi pervase nei mesi successivi, mentre cercavo di capire come funzionasse tutto quanto: dai mezzi di trasporto alle sottigliezze dell’interazione sociale.

Non ero completamente nuova a questo tipo di esperienza: la mia famiglia si trasferì in Italia nel 1992 per sfuggire alla guerra in Jugoslavia, e mi ricordo chiaramente quanto fu difficile per i miei genitori trovare un impiego e qualcuno che si fidasse ad affittare loro un appartamento. Mi ricordo come anche le loro vite sembrarono rimpicciolirsi per anni, mentre si battevano contro l’insopportabile lentezza della burocrazia italiana e cercavano di adattarsi al senso di impotenza e isolamento che caratterizzano l’esperienza migratoria in una piccola cittadina di destra. Mi ricordo ancora vividamente la sensazione dell’essere osservati e valutati dagli abitanti del luogo quando i miei genitori ed i loro amici cercavano di ricreare un senso di casa bevendo caffè dopo caffè (com’è d’uso nei Balcani) al bar centrale, ridendo e parlando ad alta voce nella loro lingua madre. Mi ricordo anche come i bambini del posto mi escludessero dai loro giochi perché non ne conoscevo le regole e nessuno aveva la pazienza di insegnarmi. Ancora oggi sono dolorosamente consapevole di quanti usi e costumi italiani ci siano sconosciuti, nonostante i tanti anni passati nel paese, un’incompletezza che mi ricorda come la nostra italianità sia stata acquisita attraverso un percorso accidentato, non tramite il privilegio di usi e costumi tramandati ma andando per tentativi e facendo errori.

Foto di Elliot Stallion / Pixabay
Foto di Elliot Stallion / Pixabay

Per me l’esperienza della migrazione si può riassumere nella sensazione che la tua vita si rimpicciolisca, mentre il tuo vissuto si riduce ad un numero limitato di problemi pratici ed emozioni spiacevoli. Ma proprio come era successo ai miei genitori in Italia, il processo si invertì gradualmente anche per me ed infine la gamma completa delle emozioni ed esperienze che compongono il vissuto mi tornò di nuovo accessibile. Oggi la mia vita è più ricca grazie al tempo passato nel Regno Unito e mi rendo conto che il rimpicciolimento che percepii inizialmente era parte di un processo che oggi mi permette di guardare il mondo attraverso una prospettiva più completa. A Londra ho completato un Master, ho lavorato nella ristorazione, all’università e nel sociale, ho conosciuto persone provenienti da ogni angolo del mondo ed ho fatto esperienze che mi hanno spinta a rivedere le mie opinioni ed i miei valori. Col tempo ho imparato ad apprezzare la vastità di questa città e la diversità dei suoi abitanti e sono diventata orgogliosa di far parte di una società che valorizza la pluralità e la tolleranza. Diamine, ho persino imparato a capire gli accenti del nord!

Se ho potuto godere delle sfide e delle ricompense che comporta la vita in questo paese è stato grazie al privilegio della cittadinanza europea. Se da ragazzina ho potuto partecipare a progetti di scambio che mi hanno portato in Inghilterra e in Finlandia è stato grazie a borse di studio create dall’Unione Europea per favorire la mobilità dei giovani nei suoi Stati membri. Anche io penso che l’Europa abbia bisogno di cambiamento, ma nutrivo la speranza che sarebbe migliorata e che i suoi confini esterni si sarebbero allentati, non che l’avremmo vista implodere mentre ne nascevano di nuovi al suo interno. Per tutti questi motivi, quando i risultati del referendum sono stati annunciati la mattina del 24, la mia reazione è stata di sconvolgimento e preoccupazione per la direzione che avrebbero preso le cose dal quel momento in poi. Indipendentemente dalle conseguenze a lungo termine che l’uscita dall’Europa avrà sul Regno Unito, non riesco a non pensare che tramite questa decisione i cittadini britannici abbiano scelto di rimpicciolire volutamente le loro vite. All’interno del Paese ci sono molti motivi per preoccuparsi: il mercato del lavoro potrebbe indebolirsi ulteriormente, i cittadini britannici potrebbero perdere il diritto di viaggiare, lavorare e vivere nei Paesi europei senza visto, i finanziamenti europei al settore sociale e alla ricerca potrebbero sparire e c’è da chiedersi cosa ne sarà dei diritti umani e di quelli dei lavoratori una volta che le protezioni assicurate dall’Unione Europea saranno venute meno.

Foto by Alexas Fotos / Pixabay
Foto by Alexas Fotos / Pixabay

Nessuno sa esattamente cosa succederà una volta che l’articolo 50 sarà stato invocato e le negoziazioni avranno avuto luogo; è persino possibile che il libero movimento dei lavoratori ed il mercato unico vengano mantenuti. Ma il problema è più profondo: tutti coloro che vivono in questo paese sanno che l’immigrazione è stata il vero punto della questione e che l’attitudine britannica verso la diversità è stata drammaticamente ridefinita durante le campagne referendarie. Lo shock sui volti dei miei amici e colleghi britannici, che continuano a chiedersi come questo sia stato possibile, è testimone della loro riluttanza nell’accettare che i valori di cui il loro paese si è fatto portatore per così a lungo siano stati deliberatamente accantonati, se non proprio cestinati, nel periodo precedente al voto da entrambe le parti del dibattito politico. Li ascolto ed empatizzo con loro, mentre, forse per la prima volta nella storia del Regno Unito, contemplano la possibilità che le loro vite si rimpiccioliscano, senza che ne abbiano alcuna colpa.

Chi non impara le lezioni della storia è condannato a ripeterle. Lo shock dei miei amici britannici mi ricorda inevitabilmente quello della generazione dei miei genitori quando la disintegrazione della Jugoslavia ha avuto inizio: che i principi della coabitazione e del rispetto reciproco potessero essere abbandonati così facilmente a favore di interessi nazionalistici era per molti jugoslavi semplicemente inconcepibile, così come lo è per molti britannici oggi. L’Unione Europea non è perfetta, così come non lo era la Jugoslavia, ma sono dell’opinione che per far parte di un’unione politica sovranazionale sia necessario mostrarci pazienti l’uno verso l’altro mentre negoziamo le regole del gioco ed accettare il carattere accidentato del percorso attraverso cui è possibile costruire un senso di comunità, imperfetto ma condiviso. Mentre nel Regno Unito le segnalazioni di abusi motivati da odio razziale aumentano e le estreme destre europee si fanno forti del risultato del referendum britannico, temo che il Regno Unito e l’Europa si stiano riducendo a versioni sempre più piccole e limitate di se stesse. Mentre guardo l’ormai piccola Bretagna migrare via dall’Europa, non mi resta che sperare che questo processo possa invertirsi il più presto possibile.

Da Abidjian al Piemonte per fuggire la guerra

Seduto al tavolo esterno del bar dove mi aspetta, Moussa, sigaretta nelle labbra e cellulare tra le dita, impone la mole della sua muscolatura scura e definita sull’intonaco bianco della facciata. Da lontano, la sua immagine è una fotografia rappresentativa d’una virilità moderna: forte e impegnato, sicuro e attivo. Ciò di cui si appresta a raccontarmi, del resto, richiede tutta la forza d’un uomo per essere vissuto, sebbene lui fosse solo un ragazzo quando la guerra ha bussato alla sua porta e a quella di tanti suoi compatrioti, anche più giovani di lui. La guerra ha bussato e gli ha chiesto di fare una scelta; Moussa ha lasciato la casa cui quella porta era infissa.

Moussa1

Nato negli anni ’80 ad Abidjian, capitale della Costa d’Avorio, e figlio di un imam, Moussa mi racconta di un’infanzia semplice e spensierata; di una famiglia numerosa alla maniera islamica, con tre madri e un folto gruppo di fratelli delle più disparate età; di un quartiere multiculturale, multietnico e multireligioso, aggregato dall’appartenenza a una comunità ormai consolidata da anni di rispetto reciproco.
«Anche se non eravamo uno stato economicamente stabile, vivevamo in pace. Nel 2000, tutto cambiò. Alle elezioni statali erano stati commessi dei brogli per non fare eleggere Ouattara; i suoi oppositori sostenevano non fosse ivoriano perché il padre era originario del Burkina Faso, offendendo i cittadini discendenti dei numerosi migranti dei paesi vicini. Da un giorno all’altro scoppiò la guerra e il paese si divise. Da un giorno all’altro le persone si riconoscevano in base a religione ed etnia. Da un giorno all’altro io fui, prima di tutto, musulmano e djoula.»

Moussa2

Lo sguardo di Moussa si fa docile e vago, mentre mi racconta dei pochi mesi di guerra civile che ha vissuto: «Ci si muoveva sempre con prudenza e di soppiatto, come i gatti. Di ogni rumore cercavamo di capire l’origine; non potevamo più fidarci di nessuno ed io, avendo sempre frequentato ragazzi cristiani, mi ritrovai senza amici.»
Un episodio notturno ha spinto Moussa a partire: svegliandosi, una pistola puntava la sua fronte. «Era l’arma che di notte tenevo sotto il cuscino, in caso qualcuno entrasse in casa. In quel momento mi resi conto che avrei dovuto fare una scelta: per i musulmani, avrei dovuto riconoscere il mio sangue djoula e uccidere il nemico cristiano; per i cristiani, avrei sempre rappresentato un pericolo. Scelsi di non uccidere e di partire per l’Europa.»

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Grazie alle conoscenze del padre, a vent’anni Moussa prese l’aereo che gli garantì di avere salva la vita; atterrò nel nord d’Italia e venne rifugiato in un paese sulle montagne del Piemonte. «L’organizzazione del viaggio fu rapida; solo quando l’aereo decollò, mi fermai realmente a pensare a ciò che stavo facendo: lasciavo il mio paese, la mia famiglia, la mia vita. Chissà chi avrei potuto rivedere, chi non avrei rivisto mai più. Sapevo che non avrei più riavuto l’armonia e la serenità della mia adolescenza. Atterrando, il freddo penetrante del vento europeo, l’orizzonte chiuso dalle montagne, il cielo così opaco; mi sarebbe mancata la mia terra, il suo sole, il calore della sua gente.»
Oggi, la vita di Moussa si è stabilizzata in Italia: lavora come falegname e condivide un appartamento con due compatrioti; la Costa d’Avorio è uscita dalla guerra, ma ancora non può definirsi un paese del tutto stabile. «Ho imparato ad amare la terra in cui vivo, il vento fresco d’estate e il modo in cui la società è organizzata. Potrei tornare in Africa, ma ho perso molto di quello che avevo a casa; non sono la stessa persona che è partita e il mio paese non è lo stesso che ho lasciato. Ma certo un giorno vorrò rivederlo.»

 

In copertina: vista aerea del quartiere Plateau di Abidijan, Costa d’Avorio [particolare dalla fotografia di Marku1988 CCA-SA 3.0 by Wikimedia Commons].

L’altra faccia della Polonia: WROCŁAW, capitale europea della cultura 2016

Continua la collaborazione di Pequod con il magazine bolognese The Bottom Up. Questa volta abbiamo deciso di confrontare punti di vista su un evento di fondamentale importanza per l’Europa contemporanea, le elezioni in Polonia. A questo link quello che aveva scritto il nostro Matteo Fornasari sulla questione. Qui di seguito l’ottimo lavoro del collega bolognese Mattia Temporin. Buona lettura!

Tradizionalmente l’anima della Polonia è sempre stata considerata divisa in due parti dal punto di vista culturale: una parte settentrionale aperta all’Europa, al cosmopolitismo, fulcro industriale del paese dove le classi colte e alto-borghesi hanno trovato il loro habitat naturale di proliferazione; una parte meridionale dove invece la forte tradizione rurale si è unita ad un conservatorismo di stampo nazional-cattolico, riluttante nell’assimilare le novità e gli influssi che arrivavano dall’esterno. Questa divisione netta tante volte non ha tenuto conto della presenza nel sud di notevoli centri urbani, i quali hanno rappresentato nel corso dei secoli l’incontro, e la convivenza di popoli, lingue, religioni e tradizioni culturali differenti. Inoltre molte di queste città hanno vissuto buona parte della loro esistenza sotto amministrazioni non polacche, implementando ancora di più il loro variegato background culturale. Uno di questi straordinari esempi, visibile attraverso le memorie che il passato ci lascia attraverso monumenti, chiese, statue, e stili architettonici diversi tra loro, può essere pienamente rappresentato dalla città di Wrocław, capoluogo del Voivodato della Bassa Slesia, nel sud-ovest del Paese, incastonata tra Repubblica Ceca e Germania. Appartenente per più di 200 anni al regno di Prussia prima, e alla Gemania riunificata poi, fino al 1945, la vecchia Breslau sarà nel 2016 la capitale della cultura europea, condividendo il trono con la basca San Sebastián. Scopo della città designata, a partire dall’inizio del programma nel 1985, è quello di mostrare ad un ampio pubblico internazionale la sua offerta culturale, attraverso l’organizzazione di eventi differenti che coprono gli ambiti della musica, della letteratura, delle arti visive e non solo.
wroclaw 1

 

E’ significativo come in un momento delicato e significativo dal punto socio-politico per la storia del Paese, proprio la Polonia si ritrovi, quasi per caso, ad ospitare la città regina della cultura continentale. A fine ottobre infatti il partito guidato da Jarosław Kaczinski, PiS (Prawo i Sprawiedliwość, tradotto in italiano Diritto e Giustizia), ha ottenuto una schiacciante vittoria alle elezioni legislativa, conquistando la maggioranza assoluta dei seggi alla Sejm, la Camera dei Deputati del parlamento. La piattaforma nazional-conservatore ha ottenuto uno schiacciante successo cavalcando l’onda dell’euroscetticismo e della fobia nei confronti dei migranti e dei rifugiati siriani. Un generale sentimento di intolleranza e chiusura nei confronti del quale l’attività che si svolgerà a Wrocław per tutto il prossimo anno sembra rappresentare un interessante parafulmine.

 
Il multiculturalismo a Wrocław si respira girando la testa in ogni angolo: nonostante la seconda Guerra mondiale e l’avvento del regime socialista abbiano determinato un terremoto di tipo etnico-demografico, la presenza dei vecchi abitanti della città, ebrei e tedeschi in primis, è notevolmente visibile. Il passato teutonico passa attraverso la magnificenza del Rynek, la piazza centrale nella Stare Miasto (città vecchia), e dallo splendido palazzo del Municipio (Ratusz). Quella ebraica da uno dei cimiteri più belli e più curati d’Europa, vicino in magnificenza solo al cimitero di Praga narrato da Umberto Eco. Grande circa 5 ettari e ospitante qualcosa come 12.000 lapidi, annovera tra i suoi ospiti importanti esponenti del passato dell’intellighenzia ebraica, tra i quali Ferdinand Lassalle, una delle figure di spicco della socialdemocrazia tedesca dell’800.
wroclaw 2
“Spazi per la bellezza”, il motto che abbiamo pensato per la manifestazione, significa trasformare la struttura della città. Il nostro secondo motto, “metamorfosi delle culture” rappresenta la chiave del multiculturalismo, e quindi dell’“identità della città”.  Così si è espresso Jarosław Fret, presidente del Consiglio dei curatori della manifestazione e direttore della parte riguardante le esibizioni teatrali. Centinaia di migliaia saranno gli eventi che riempiranno l’anno dell’evento. La parte relativa ai film non si occuperà solo di cinema polacco (con la partecipazione di Paweł Pawliskowski e della sua acclamata Ida), ma avrà anche un’ampia scelta di opere internazionali. Ampio spazio sarà dedicato anche ad un settore nevralgico come la letteratura: infatti la città occuperà una postazione di grande importanza dato che sarà per il 2016 anche la Capitale Mondiale del libro, decisione presa sia dall’UNESCO che dalle grandi associazioni internazionali dell’editoria. La parte dedicata alla musica avrà tra i dominatori anche il nostro Ennio Morricone, il quale celebrerà i 60 anni di carriera con un concerto nella suggestiva cornice della Hala Stulecia, il Palazzo del Centenario costruito nel 1913 per ospitare l’esposizione universale. Un nonno dell’attuale padiglione Italia di Expo 2015, solo senza code chilometriche e stand enogastronomici di lusso, nella quale durante la primavera/estate si può ammirare lo spettacolo pirotecnico delle fontane, o compiere una salutare passeggiata nello splendido giardino giapponese, all’interno del grande parco Szczytnicki. 
 
E’ difficile, parlando di quello che ospiterà Wrocław nei mesi a venire, non tornare sulle tematiche di stretta attualità che la Polonia sta vivendo. Un avvenimento così marcatamente europeo ed europeista (anche per i grandi fondi economici che l’Unione Europea metterà a disposizione) suona come un ossimoro se pensiamo a quanto l’elettorato abbia lanciato un monito di profonda distanza con quelle che sono le politiche e gli obbiettivi di Bruxelles. La forte spinta propulsiva che una manifestazione di questo tipo ha di solito però potrebbe anche tramutarsi in una sorta di mezzo attraverso il quale la società civile darà un segnale opposto a quello che è stato espresso attraverso le urne. Non possiamo stabilirlo ora, ma fa sempre piacere pensare che la cultura sia sempre il mezzo più efficace per arginare pericolose derive di isolazionismo ed intolleranza. La città, la Polonia e l’Europa, potrebbero avere la grande possibilità che si può andare ben oltre politici che dichiarano i rifugiati come “portatori di malattie e violenze”.
Scritto da Mattia Temporin.
In copertina: municipio di Wroclaw

Noaptea Caselor #2 – La ricchezza domestico-culturale di Bucarest

E’ difficile spiegarvi quanto bellezza intrinseca ci sia in Romania e nelle vie di Bucarest. Ciò che sappiamo noi italiani di queste due realtà si avvicina al nulla. D’altronde, si sa che nella vita di ognuno ci sia bisogno di certezze, e quanto i pregiudizi siano un comodo appiglio.

Al di là dei preconcetti, Noaptea Caselor. Si è difatti da poco conclusa la seconda edizione de “La Notte delle Case”, l’evento culturale più interessante della capitale rumena a settembre. Per le vie del centro e attorno ad esso le case e gli appartamenti degli intellettuali si aprono al grande pubblico, proponendo mostre fotografiche, serigrafie, performance multimediali, spettacoli teatrali, poesie e concerti. Come l’anno scorso, anche quest’anno ci siamo avventurati tra gli appartamenti più suggestivi per mostrarvi la ricchezza di queste piccole comunità che unendosi propongono alla società rumena punti d’incontro, dialogo e condivisione, in un momento in cui le istituzioni si presentano ancora, a 25 anni dalla caduta del comunismo, apatiche e censuratrici.

Noaptea Caselor vuole essere il punto di incontro tra questi appartamenti. Per questa edizione le case fotografate sono Grădina Sticlalilor, nata nel 2008 come laboratorio artigianale, oggi specializzata nel vetro soffiato; Carol 53 tra architettura, arti decorative e serigrafie, capace di offrire al suo pubblico cortometraggi giapponesi nel suo cortile e concerti di musica elettronica nel suo interrato; l’appartamento occupato Elisabeta, ufficio diurno di designer e illustratori. Ma anche le proiezioni cinematografiche di Plantelor e le mostre fotografiche di Incubator 107.

 

Russia sì o Russia no? Ce lo spiega Dugin.

Aleksandr Dugin torna in Italia, a Milano, ancora una volta per merito dei membri di Lombardia Russia, questa volta affiancanti dai giovani de L’intellettuale Dissidente – Circolo Proudhon. Un anno fa infatti, sempre questa associazione culturale affiliata alla Lega Nord (sito di Lombardia Russia) aveva invitato l’intellettuale russo a tenere una conferenza sui punti essenziali del suo pensiero politico-filosofico. Quest’anno tuttavia la partecipazione di Dugin è stata una sorpresa: nell’invito alla conferenza si annunciava semplicemente la presenza di un “intellettuale russo di rilievo internazionale”.

LR_Milano_22_Malempo

Rispetto allo scorso anno, l’incontro del 22 giugno 2015 ha avuto luogo in un contesto molto diverso da quello asettico ed ufficiale della sala conferenze dell’Hotel dei Cavalieri, nel cuore della capitale meneghina. Stavolta gli interessati si sono riuniti allo spazio Melampo, in una piccola sala affollata, dove prima di Dugin hanno fatto il loro intervento altri relatori, cominciando dal presidente di Lombardia Russia, il leghista Gianluca Savoini.

Segue Francesco Manta, coautore di Rinascita di un Impero. La Russia di Vladimir Putin, libro che ha dato il titolo all’incontro. Manta parla di strategie di soft power, in particolare della demonizzazione della Russia ad opera dei media occidentali, statunitensi e anglosassoni in primis, principali promotori di una visione del mondo unipolare. Al contrario, Putin starebbe conducendo una battaglia contro questo unipolarismo occidentale, con operazioni concrete come la creazione di Russia Today (sito RT) e il progetto Sputnik (pagina italiana di Sputnik).

A questo punto l’atmosfera in sala si è già piuttosto riscaldata: la gente annuisce in segno di approvazione e segue con estrema attenzione e coinvolgimento – molti dei presenti sono russi residenti in Italia. Russo è anche Evgeny Utkin, direttore di Partner N1 (pagina facebook). Utkin nomina il G7 ed esprime le sue perplessità circa la veemenza con cui Obama e Merkel ribadiscono la loro politica delle sanzioni contro la Russia. Del resto, la Germania è lo stato maggiormente colpito da queste ultime, con una perdita dell’1% del PIL (a seguire vi è l’Italia, con lo 0,9% di perdita). A suo dire, le decisioni del G7 e del Consiglio Europeo non corrisponderebbero alla volontà e alle posizioni degli europei – lo testimonia la partecipazione attiva e consistente al forum economico di San Pietroburgo, che al contrario delle aspettative non è stato affatto disertato. Anche l’intervento di Utkin è molto apprezzato dalla platea, che applaude con entusiasmo quando egli accenna al desiderio di molti italiani che vorrebbero che Putin diventasse anche il loro presidente.

Dopo Utkin è la volta di un altro coautore del libro sulla Russia di Putin, Alvise Pozzi, che parla dell’importanza del recupero dei valori e della tradizione, soprattutto religiosa, che costituisce uno dei punti fondamentali della politica putiniana.

Uno dei momenti più coinvolgenti è stato quello dell’antropologo Eliseo Bertolasi, corrispondente per Sputnik (ex Golos Rossii – “Voce della Russia”), che dal dicembre 2013 si è recato numerose volte in Ucraina, sia a Kiev che nel Donbass. I suoi racconti sono intrisi di immagini reali, di testimonianze di persone comuni che si riuniscono in piazza, o ancora di giovani, adulti, uomini e donne che si improvvisano soldati per difendere la propria casa, la propria città, la propria identità. Nei racconti confidati a Bertolasi dagli abitanti di Donetsk e Lugansk c’è molto dolore, troppo, tanto che, azzardando una previsione, sembra quasi impossibile che si possa tornare indietro, come se nulla fosse successo. Per quanto riguarda poi il suo giudizio sul ruolo della Russia nella vicenda ucraina, basato, come ci tiene a ribadire, su quanto ha potuto vedere con i propri occhi, egli esclude che l’esercito russo sia intervenuto in maniera sistematica nel paese: se così fosse stato, i combattimenti probabilmente sarebbero finiti in poco tempo, data la palese superiorità delle forze armate russe rispetto a quelle ucraine.

L'antropologo e corrispondente estero Eliseo Bertolasi durante l'incontro del 22 giugno.
L’antropologo e corrispondente estero Eliseo Bertolasi durante l’incontro del 22 giugno.

È quasi giunto il momento cruciale della serata, l’intervento di Aleksandr Dugin, che viene presentato da Alessio Mulas con una breve introduzione. Chi è Dugin? La rivista americana Foreign Affairs l’ha definito, in un celebre articolo (link), il “cervello di Putin”. Consapevole del fatto che Dugin non abbia bisogno di presentazioni, Mulas si limita a qualche accenno alla quarta teoria politica, descritta come un «ripensare al passato con uno sguardo sul futuro», e alla lotta di Dugin contro l’universalismo, che vuole ingiustamente «ridurre la musica ad una sola nota».

Prende così la parola Dugin, vestito di nero e con la consueta espressione austera, che comincia il suo intervento, rigorosamente in italiano, rammaricandosi del fatto che il suo libro sulla quarta teoria politica non sia stato ancora tradotto nella nostra lingua. Il suo discorso non è molto lungo, ma decisamente intenso, ed è incentrato sull’interpretazione duginiana del concetto di liberalismo, che egli definisce fin da subito come «il vero nemico dell’Europa e della Russia», riscuotendo la prima serie di applausi da un pubblico ormai in fibrillazione.

Aleksandr Dugin.
Aleksandr Dugin.

Il liberalismo vuole liberare l’individuo da tutte le forme dell’identità collettiva, da tutti i vincoli che lo uniscono agli altri, rendendolo finalmente libero. Dugin si chiede però se il risultato sia effettivamente il raggiungimento della libertà, o al contrario, una riduzione dell’individuo verso una condizione di schiavitù assoluta, di distruzione dell’individuo stesso. Dopo aver condannato le istituzioni religiose, rendendo il rapporto dell’uomo con Dio un fatto esclusivamente individuale, e dopo aver distrutto la nazione e l’appartenenza etnica e nazionale, il liberalismo starebbe impiegando la politica di gender con scopi puramente politici ed ideologici, per distruggere l’ultima categoria collettiva cui l’individuo può fare riferimento, l’identità sessuale. Di fronte a questo tipo di rappresentazione del mondo e del liberalismo, la Russia, secondo Dugin, costituisce un esempio di lotta conservativa a favore dell’identità collettiva, ponendosi contro l’Occidente, inteso come «suicidio dell’Occidente» guidato dagli Stati Uniti, non come l’Occidente storico e autentico, l’Europa, di cui la Russia stessa si sente parte. Per questo la lotta conservativa della Russia sarebbe anche la lotta a favore dell’Europa e della sua identità, ma anche una «lotta collettiva per la libertà spirituale e la dignità umana».

Dugin termina così il suo intervento, il pubblico è estasiato e in molti alzano la mano per fare una domanda. Quale sia il significato di tale entusiasmo è difficile da dire, tuttavia è possibile affermare che nonostante la demonizzazione ad opera dei media e dei leader occidentali, la popolarità della Russia continui a crescere senza freni.

In copertina, fotografia di Mahdieh Gaforian [CC BY-SA 4.0/Wikimedia Commons]

Al lavoro contro il terrorismo

Da circa quindici anni il mondo occidentale ha imparato a conoscere, non sempre in maniera proficua, il fenomeno religioso islamico in quasi tutte le sue declinazioni, alcune buone, altre molto meno. Risultano parte della nostra quotidianità gli appelli sgranati di imam furenti, le minacce di autoproclamati califfi, le stragi di gruppi paramilitari e i deplorevoli atti di terrorismo che segnano primariamente le zone colpite dall’affermazione dell’estremismo religioso – leggasi Siria, Iraq, Nigeria – e che sono arrivate anche nel cuore dell’Europa, a Parigi e Copenhagen. Ancora, abbiamo imparato a capire le differenze che caratterizzano il mondo dell’Islam al suo interno, quali sono le correnti, le varie confessioni, perfino accenni di teologia.

Nel quadro di questa nuova comprensione della religione di Maometto viene rarissimamente citato un caso del tutto particolare, che non si allinea né allo sciismo né al sunnismo, che non ha mai prodotto attentati o minacce, non ha mai attirato i riflettori su di sé: si tratta del sultanato dell’Oman, l’unico paese musulmano del mondo ad avere una popolazione di maggioranza ibadita. Che cosa significa?

mappa_fig_vol1_003920_003

Una delle principali differenze che caratterizza le correnti dell’Islam è la scelta della guida della comunità religiosa: l’imam. Gli sciiti riservano questa possibilità ai soli discendenti dei 12 imam compagni del Profeta, i sunniti allargano la possibilità a tutti coloro i quali trovano nella tribù dei Quraish, quella dello stesso Maometto, la propria origine. Per gli ibaditi il ruolo di capo spirituale non è un attributo genetico, ma ogni musulmano, che sia sufficientemente preparato, può essere eletto imam. Vige, quindi, un principio pseudo democratico, che permette di lasciare addirittura la carica vacante, qualora nessuno venga ritenuto all’altezza, così come è possibile che l’imam venga sollevato dal proprio incarico se ritenuto non adatto. Allo stesso modo, gli ibaditi convivono pacificamente con gli altri musulmani – che, al contrario, non vedono di buon occhio gli appartenenti alle altre correnti e, nei casi di estremismo, vengono ritenuti infedeli da sterminare.

Questo spirito pacifico si è declinato dentro allo stato dell’Oman, un paese storicamente in seconda linea negli affari internazionali malgrado la posizione strategica che occupa, in un’area geografica che nel corso del XX secolo è diventata molto calda, sia per le risorse energetiche che vi si trovano, sia per le questioni che riguardano il fondamentalismo religioso.  Eppure, questo fratello piccolo delle storiche potenze del golfo, si sta silenziosamente costruendo solide basi fatte di stabilità politica e sociale, rendita petrolifera che viene reinvestita in modo da rendere la stessa il meno fondamentale possibile nell’ambito del sistema economico locale.  Negli anni delle primavere arabe anche il sultano, Qaaboos, ha avuto qualche dissidio interno da sanare, anche se l’entità e la portata delle proteste era radicalmente diversa, rispetto ai venti rivoluzionari che spiravano negli altri paesi della regione: a Mascate, la capitale del paese, in piazza i giovani reclamavano lavoro e formazione. Il governo del paese ha prontamente risposto, soprattutto in relazione alla domanda di istruzione, per poter permettere ai futuri protagonisti della vita del paese – che, certo, democratico non è – di poter continuare ad affrontare la sfida silenziosa che quotidianamente si presenta: essere un elemento di stabilità e sicurezza in una parte di mondo dove troppe correnti convergono. Molti paesi, USA e Arabia Saudita innanzitutto, hanno sostenuto economicamente il progetto di Qaaboos, proprio per poter continuare a fare affidamento sui cittadini omaniti.

Sultano Qaaboos

Questo estremo della penisola arabica rappresenta, quindi, un unicum all’interno del sistema mediorientale: è stato il primo paese ad avere una costituzione scritta, a concedere il voto alle donne, ha un sultano che, seppure regnante a colpi di decreto, vede al di là della siepe. Sia il fattore ibadismo una componente fondamentale in tutto ciò? Sicuramente la forte etica del lavoro che ne deriva – paragonabile, storicamente, al calvinismo cristiano – fa in modo che le preoccupazioni, il malcontento e gli sforzi che ne derivano, abbiano sempre una conclusione produttiva, che non permette alle dette problematiche di insinuarsi sotto la pelle della società, dove estremismo, fanatismo e terrorismo avrebbero fertile terreno su cui germogliare.

In copertina: Grande Moschea del Sultanato di Oman [ph. Richard Bartz CC BY-SA 3.0/Wikimedia Commons]

Miracolo a Bruxelles: l’Europa torna sui suoi passi e dice sì all’Iva al 4% sugli ebook

Il 17 novembre l’Europa aveva detto no alla proposta di diminuire l’Iva sugli e-book dal 22% al 4%, per equiparare la tassazione del prodotto digitale a quella del prodotto cartaceo.

L’Italia, sostenuta dalla Francia (dove l’Iva sugli ebook è al 7%), aveva portato la sua proposta al Coreper (Comitato dei rappresentanti permanenti dei governi degli Stati membri dell’Unione europea), per aiutare un settore dell’editoria dalle grandi prospettive.

Il 25 novembre invece è accaduto qualcosa di inspiegabile: gli stessi che si erano così tenacemente opposti hanno approvato l’abbassamento dell’aliquota.

Potrebbe essere l’inizio di una rivoluzione per il mercato del libro.

1

Il mercato allo stato attuale

Secondo l’ultimo rapporto dell’AIE (Associazione Italiana Editori) attualmente «L’offerta ebook è dunque arrivata a coprire oltre il 12% dei titoli in commercio», inoltre dal 2012 al 2014 il numero di titoli che si possono trovare in versione ebook è aumentato del 43%!

Nel 2013, inoltre, è accaduto qualcosa di inaspettato: mentre il numero complessivo dei lettori in Italia diminuiva del 6,1% (1,6 milioni in meno), cresceva invece quello specifico dei lettori di ebook, che arrivato nel 2013 a 1,9milioni (+18,9% rispetto al 2012).

 

A cosa si deve questo sviluppo?

Ancora oggi non si trova risposta, ma c’è chi sostiene sia a causa dall’abbandono del libro cartaceo per lettura della controparte digitale, oppure di integrazione tra forme diverse di lettura fatte su supporti differenti (eReader, tablet, smartphone, libro cartaceo, etc).

 

Perché cambiare idea

Gli editori Italiani, ma anche quelli Europei, che vorranno sopravvivere usufruiranno sicuramente di questo grande vantaggio per opporsi ad Amazon, che da anni ormai sta cercando di monopolizzare il mercato del libro a livello mondiale, inoltre non molti sanno che Amazon ha sede in Lussemburgo dove l’Iva sugli ebook è addirittura al 3% e che il 7% del fatturato annuo di Amazon si basa proprio sulle vendite dei soli ebook: sommando questi due dati è chiaro che il colosso del commercio sia in una condizione estremamente vantaggiosa rispetto ai tradizionali editori europei.

2

Tutto risolto?

La campagna portata avanti dal nostro Ministro della Cultura Dario Franceschini Un libro è un libro ha iniziato a dare i suoi frutti, ma adesso la palla passa agli editori, che dovranno sapere cogliere questa opportunità.

 

Non solo l’approccio del lettore dovrà cambiare, ma anche quello delle case editrici ai libri digitali, perché il loro potenziale non è ancora stato del tutto compreso, persino dagli editori stessi. Questo è il momento di prodotti innovativi per far crescere il mercato, innovazione che non dovrà riguardare solo i device: dal papiro alla pergamena, dai codici alla Bibbia di Gutenberg, fino ai tascabili odierni, non è cambiato solo il supporto, ma anche il modo di pensare e strutturare e scrivere il libro. Adesso sta ad editori ed autori creare qualcosa di mai visto prima.

Arcipelago delle Azzorre, ultima terra occidentale d’Europa

«Mi spiace, ho speso tutti i soldi per una chitarra nuova», proferì il mio (oramai ex) ragazzo.

«A me i delfini fanno impressione», dichiara un’amica.

«Eh?», anonimo passante alla pensilina dell’Atb.

La misantropia, si sa, prima o poi colpisce tutti. Per quanto mi riguarda, bussò alla porta della mia affabilità nell’estate del 2012, al momento della decisione del viaggio di laurea e della conseguente ricerca di compagni di viaggio. Di soldi ne avevo, un ragazzo pure e gli amici non mancavano… eppure, la pesantezza del posteriore di tutti mi fece acquistare un solo biglietto per le Azzorre, le verdissime isole portoghesi al centro dell’Atlantico.

Le scelsi per poter nuotare con i delfini e per poter vivere uno dei pochissimi luoghi europei ancora incontaminati, incontrando e conoscendo la spontaneità degli abitanti e la loro sincera benevolenza… ma se ritorno con il pensiero alle Azzorre, più che i visi e le voci, ritornano il fragore dell’oceano, la terra vulcanica nera e giovane, il fertile vigneto basso e inerpicato tra le pietre e il lago sconosciuto alle cartine.

Universo Università

Dati inquietanti che si aggirano sul web sostengono che i laureati italiani sono quelli che hanno in percentuale minori probabilità di impiego tra tutti i colleghi europei. La notizia non è certo sconvolgente, basta guardarsi attorno per capire che è davvero così: molti laureati se ne stanno a casa senza riuscire a trovare non solo un lavoro adeguato al proprio titolo di studio, ma neppure un qualunque altro tipo di lavoro. Alla faccia del ministro che sosteneva che i giovani italiani sono “choosy”, capita molto spesso che un laureato, qualora si presenti, mettiamo il caso, per un posto di cassiere al supermercato, si senta dire che avrebbe avuto più possibilità di impiego se si fosse presentato con il diploma o addirittura la licenza media!

Secondo la fonte che ha pubblicato il sondaggio sull’impiego post lauream, il divario esistente tra la situazione dei laureati italiani rispetto agli altri europei sta nel fatto che l’università negli altri paesi d’Europa come ad esempio Francia, Germania e Inghilterra, includa obbligatoriamente dei percorsi di tirocinio o di alternanza studio-lavoro che consentono allo studente di immettersi nella realtà lavorativa del settore che ha scelto prima ancora di aver terminato gli studi e di poter così vantare nel proprio curriculum questa esperienza.

Purtroppo la realtà universitaria nostrana non incentiva questo tipo di percorsi: forse ciò deriva da un pregiudizio che considera a teoria superiore alla pratica, il sapere fine a se stesso preferibile rispetto a quello applicato. Se questo è un discorso che può essere corretto per le scuole superiori, che, infatti, sono tra le più quotate in Europa e nel mondo, nonostante la condizione di svilimento economico e sociale a cui è sottoposta la classe docente da politiche di tagli indiscriminati alla scuola, per la formazione universitaria risulta controproducente. «La pratica senza teoria e cieca, come è cieca la teoria senza la pratica» afferma un aforisma di Protagora. La cultura classica è certamente importante e basilare per la formazione del cittadino, ma, come dimostra questo aforisma, è altrettanto necessario trasporne in pratica gli insegnamenti.

La mia esperienza personale, presso una facoltà umanistica come quella di Lettere della Statale di Milano, mi ha mostrato un mondo asfittico, sterile. Ciò che maggiormente mi ha deluso è stato proprio l’abisso che si è voluto scavare tra la realtà universitaria, il mondo della letteratura, e la società odierna con le sue dinamiche e le inevitabili questioni che ci pone di fronte. Purtroppo molto spesso l’università diventa l’arena in cui i docenti si mettono in competizione fra loro, il palcoscenico in cui fanno mostra di se, non il luogo principe della formazione delle nuove generazioni. E ancor di più mancano adeguati spazi in cui gli studenti possano mettere in pratica le nozioni acquisite, mettendo alla prova se stessi in percorsi extrauniversitari lavorativi o di apprendistato. L’università, per di più, non solo non incoraggia tali esperienze, ma anzi, sembra addirittura ostacolare quegli studenti che, al di fuori dell’ambito universitario, decidono di lavorare, ponendo sul loro cammino continui ostacoli che vanno dalla difficoltà di ottenere colloqui con i docenti al di fuori dei consueti orari di ricevimento (sia inteso, ci sono anche docenti molto disponibili in questo senso che fanno di tutto per venire incontro alle esigenze, ma, purtroppo, non sono la maggioranza), alla penalizzazione che spesso emerge in sede d’esame degli studenti non frequentanti.

La congiuntura economica attuale e l’elevata disoccupazione giovanile mette in primo piano la necessità di una riforma strutturale del sistema universitario che deve maggiormente aprirsi al mondo del lavoro: rischia di produrre schiere di disoccupati senza futuro se dovesse restare ripiegato su se stesso, nel proprio piccolo universo, appunto l’universo università.

Budapest e la perenne stagione della bellezza

Appena arrivati alla stazione di Nyugati (la stazione dell’ovest) e usciti fuori, ci si mette un po’ a capire, tra un Mcdonald e un Burger King, di aver messo piede in una delle più belle e affascinanti capitali europee, seppure l’arte e la cultura ungheresi si offrono al visitatore  fin dal primo sguardo.

Budapest 1

Ripensando a Budapest, mi viene in mente l’opera Le quattro stagioni di Vivaldi: visitandola in diversi momenti dell’anno, ho avuto la sensazione che ogni stagione esalti dei luoghi precisi della città.
Si può, per esempio, camminare per ore, sempre col naso all’insù, incantati da un liberty tardo ottocentesco che circonda e racchiude le strade e i viali e sentire sotto le suole il sonoro crepitio delle foglie; un tappeto  rosso acceso che, da Andrassy Utca (principale viale della città), porta dritto in Piazza degli Eroi. Un rapido assaggio di crome autunnali che, in breve, lascia spazio a suggestivi paesaggi innevati, che evidenziano la bellezza estetica del centro storico. La basilica di Santo Stefano e le vie circostanti, che portano direttamente sulle sponde del Danubio, sono uno spettacolo incantevole soprattutto nel periodo natalizio, quando bancarelle e luci accendono l’atmosfera.
Budapest 2
Nelle giornate primaverili Budapest è una festa di colori, che si possono ammirare dall’altura su cui sorge la basilica di San Mattia; da qui è possibile godere dello spettacolo del Danubio che scorre tranquillo coi suoi placidi battelli e sullo sfondo la città unificata nell’Ottocento, che il corso d’acqua continua a spaccare nelle due metà di Buda e Pest.
La vera esplosione di colori, suoni e allegria trova nel cuore dell’estate la massima espressione. Se vi trovate a Budapest nella settimana centrale d’Agosto, non perdete la più importante manifestazione cittadina: andate allo Sziget Festival! Un vero e proprio festival dell’arte: dalla musica rock al cinema, passando per le rappresentazioni teatrali, il tutto nel corso di una settimana davvero intensa.
Budapest ha qualcosa di meraviglioso da offrire in qualsiasi stagione dell’anno… Anche perché mezzo litro di birra costa sempre meno di un euro!

Reg. Tribunale di Bergamo n. 2 del 8-03-2016
©2014 Pequod - Admin - by Progetti Astratti