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Esperienze Di Attività Con Marco Peri

Cara Arte, vorrei incontrarti tra 10 anni

Quelli appena passati sono stati mesi lunghi e difficili. Mesi in cui molti di noi hanno potuto partecipare a eventi virtuali, come conferenze, lezioni a distanza e webinar, sperimentando l’importanza del digitale che si è dimostrato un supporto funzionale per le realtà culturali e artistiche in un momento di crisi.

È stato infatti necessario operare un cambiamento, che ha condotto l’arte verso una stimolante sinergia con il mondo digitale. Se molti eventi e altrettante mostre sono stati cancellati o rimandati, alcuni organizzatori e direttori invece hanno deciso di sperimentare un modo innovativo per continuare a esserci, impiegando un altro format. Questo è il caso della Milano Digital Week che sta creando conferenze, conversazioni e dirette su Facebook e Instagram, mentre l’attesissima mostra “Raffaello.1520-1483” presso le Scuderie del Quirinale di Roma ha saputo incuriosire il pubblico online grazie a un’abile programmazione di post e video relativi all’esposizione, includendo anche elementi di backstage e interviste ai curatori.

La Casa Testori di Novate Milanese, d’altra parte, ha creato una proposta pensando ai più piccoli: la rubrica “Artist & Son/Daughter” nata dall’idea di Andrea Bianconi, in cui gli artisti, tra i quali Marica Fasoli e Nicola Villa, hanno raccontato e suggerito delle attività laboratoriali da poter svolgere con i propri figli, divertendosi a giocare e imparare durante la quarantena.

Anche le piccole realtà associative attive sul territorio di Bergamo, sono state inevitabilmente toccate da questa ondata di cambiamento. L’associazione Inchiostro.itinerari e incontri d’arte di San Paolo d’Argon ha creato dei video-pillole in cui svela inedite informazioni e curiosità d’arte, dedicate ai luoghi in cui realizza visite e incontri. Al momento sta preparando un corso di formazione di storia dell’arte del territorio bergamasco curato dallo storico dell’arte Dorian Cara. Diversamente si è mossa l’associazione Un fiume d’arte di Ponte San Pietro, che ha deciso di annullare l’Esposizione di settembre e si sta concentrando sulla creazione della mostra delle opere della pittrice Patrizia Monzio Compagnoni, in programma per il 2021 nella Pinacoteca Vanni Rossi.

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Molte realtà, dalle più grandi alle più piccole, hanno trovato il loro modo per restare a galla, tramite soluzioni utili e sostenibili per continuare a dare importanza e pubblica condivisione del loro patrimonio.

La quarantena ha consentito, però, di mettere sotto i riflettori il mondo dell’arte e della cultura, presentandone luci e ombre. Abbiamo potuto ammirare la qualità estremamente duttile e versatile dell’arte e dei suoi mediatori. Musei, gallerie, centri culturali e associazioni sono infatti riusciti ad adattarsi alle nuove modalità virtuali per comunicare, coinvolgere, rendere fruibile e accessibile il patrimonio. Ma è proprio qui che sono sorte le prime domande sul futuro dell’arte, della comunicazione e della didattica museale da qui a 10 anni.

Certamente osservare un video o partecipare a una visita guidata virtuale è un modo facile, pratico e, oserei dire, “veloce” per viaggiare e ammirare musei e opere d’arte che si trovano in altri Paesi. Se questi contenuti rispondono a un’esigenza “fisica” e geografica, manca però una comunicazione più attenta e curata alla concretezza dell’arte, che è fatta di idee, progetti, gesti manuali, strumenti, tecniche e soprattutto di relazioni umane.

Le attività digitali talvolta descrivono le opere d’arte e i luoghi culturali con una certa freddezza e mancanza di “contatto”, di sensibile coinvolgimento. Visitare un museo o una mostra è un’esperienza sensibile complessa, coinvolgente, unica e soggettiva, che richiede una diversa durata e un tempo da dedicare, una disposizione d’animo e una ricerca selettiva delle opere. Durante la visita il fruitore guarda, sceglie, pensa, si muove, si avvicina, si allontana, impara e forma il proprio sguardo e il gusto critico.

Ad oggi abbiamo a disposizione una programmazione ricca, gratuita ed eccessivamente presente sui social network, che rende indispensabile una creazione e una ricerca di tavoli di confronto e di studio. A tal proposito abbiamo intervistato l’artista Angelica De Rosa e lo storico dell’arte Marco Peri, che ci hanno offerto un curioso spaccato di spunti e riflessioni sull’arte e sulla didattica.

Angelica De Rosa è una giovane artista di 29 anni, che lavora a Milano e si dedica alla realizzazione di suggestive opere nelle quali insegue l’elemento sonoro e sensibile creando un’indagine evocativa che spazia tra corpo e mente, tra udito e vista, tra il percepito realmente e il “potenzialmente” percepibile. La sua arte si basa sul concetto di contatto, di volta in volta studiato attraverso diverse forme e tecniche artistiche, quali la pittura, la scultura, i video e la performance.

Angelica De Rosa
Angelica De Rosa. Ogni diritto è riservato.

L’artista, guardando al presente senza perdere di vista il futuro, vede nella tecnologia «un gigante dalle enormi falcate» che «porta ad un appiattimento del valore artistico, che scardina, a suo favore, l’armonia di valori che compongono un’opera d’arte.»

Il valore e il funzionale apporto della tecnologia al mondo dell’arte ad oggi sono indiscutibili. Ciò non toglie che, secondo l’artista, bisogna farne un uso moderato e specifico, che non vada a intaccare «il delicato equilibrio tra filosofia, poesia, esperienza sensoriale, valenza estetica, matericità e tecnica, che è ciò che genera la produzione artistica.» De Rosa infatti sottolinea che «la magia dell’arte sta nel saper creare uno spazio che favorisca l’incontro tra l’intimità dell’artista e l’intimità del fruitore. Da ciò che accade in quell’incontro si sperimenta cosa sia l’arte.»

L’arte è un’esperienza estetica che amplia e confonde i sensi, in cui fruitore e artista dialogano fra loro. È sempre più necessario preservare la sua forza magica, la straordinaria capacità comunicativa che permette a tutti di avvicinarsi, comprenderla e con divertimento sperimentarla. Di certo il legame che insiste con la tecnologia e il mondo digitale deve, come spiega la giovane artista, «essere in funzione dell’arte. Che la tecnologia possa servire l’arte e non esserne il fine.» Non bisogna confondere le due distinte realtà: si deve trovare un equilibrio di forme e strumenti, un’armonia di cultura e comunicazione.

Marco Peri, storico dell’arte che da anni si dedica all’educazione museale e nel 2018 ha ricevuto il Marsh Awards for Excellence in Gallery Education, che premia le eccellenze in questo campo, ci ha parlato della didattica museale e del ruolo dei musei nel futuro.

Marco Peri
Marco Peri. Ogni diritto è riservato.

«Come cambierà la didattica dell’arte tra 10 anni? Questa è una domanda da libro dei sogni. Il mio auspicio per il futuro è che l’arte possa diventare non solo una presenza ma il fondamento di ogni curriculum formativo. È tempo per un cambio di prospettiva, che sposti l’attenzione dalle qualità degli artefatti ai processi cognitivi e sociali che attraverso l’arte si possono generare. Didattica dell’arte dovrebbe significare educare con arte, cioè considerare l’arte come mezzo e non come fine, uno strumento trasformativo per guardare alla vita e alla realtà. Attualmente le arti hanno un ruolo marginale nei percorsi educativi, ma sono convinto che la musica, il teatro, la poesia, le arti visive, siano strumenti di conoscenza essenziali per sviluppare pienamente le proprie risorse. Il contributo delle arti per la crescita individuale rappresenta un’opportunità di valore aggiunto per generare la conoscenza e la fiducia per immaginare consapevolmente il futuro.»

Ancor più oggi diventa indispensabile capire come l’arte e la sua didattica dovrebbero essere considerate un fondamento imprescindibile per tutti in quanto permettono di imparare e formare il pubblico in modo semplice, diretto e multidisciplinare. Se la didattica può iniziare un percorso di ri-scoperta il ruolo del museo in futuro come sarà? E il suo ruolo nell’educazione culturale?

«Credo che il museo contemporaneo sia un formidabile spazio di relazione, in futuro l’istituzione dovrebbe ambire ad essere sempre di più uno spazio di ricerca sociale democratico e libero», continua Marco. «Tra le istituzioni culturali del nostro tempo, il museo è probabilmente la realtà più promettente nella quale costruire una cultura condivisa. Nel museo si possono esplorare una pluralità di temi insieme a un pubblico ampio ed eterogeneo, dalle famiglie, al mondo della scuola e così via interagendo con tutta la società. In questo senso il museo potrebbe essere un contesto per costruire nuovi modelli di vivere sociale. Non solo un luogo conservativo ma soprattutto un luogo trasformativo che agisce con consapevolezza il proprio ruolo educativo per la società, un laboratorio di idee e di futuro.»

Il museo oggi è un luogo di relazioni umane e di conoscenze condivise, che proprio a partire da questa quarantena può iniziare a sviluppare e approfondire le sue capacità di trasformazione e versatilità: può dedicarsi a pubblici più ampi, trattare temi sempre differenti, diventare luogo di connessione tra le istituzioni universitarie e scolastiche e le realtà cooperative ed associative del territorio, oltre a poter trasformarsi in un centro di ricerca ed elaborazione di buone pratiche di vita. Come evolverà però nel suo rapporto cruciale con il digitale?

Esperienze Di Attività Con Marco Peri

«Questi ultimi mesi», riflette lo storico dell’arte Peri, «in cui i musei sono rimasti chiusi e il distanziamento ci ha impedito di vivere le relazioni in presenza, ci hanno dimostrato le infinite opportunità del mondo digitale.» Misurandoci «con altre modalità di fruizione, divulgazione e creazione di contenuti», continua, abbiamo dovuto anche riconoscere una certa «impreparazione nel gestire le opportunità offerte da questi strumenti.» Investire «intelligenza e creatività» in questo settore, può permetterci di «generare nuovi contenuti di valore», approfittando «del valore aggiunto delle nuove tecnologie come strumento di accessibilità universale e inclusione sociale.»

 

Immagine di copertina e ultima immagine di questo articolo: esperienza di attività culturali assieme allo storico dell’arte Marco Peri. Ogni diritto è riservato.

L’Arte al servizio del singolo: il teatro di Serena Sinigaglia

«Romeo e Giulietta perché è stata l’opera con cui ho debuttato in teatro, il Fastalff di Verdi perché è stata la prima opera lirica che ho diretto e infine La Cimice di Majakovskij perché è stata l’opera che mi ha impegnato di più», risponde così Serena Sinigaglia, regista teatrale, alla domanda su quali siano le tre opere, tra tutte quelle che ha diretto, che ritiene le più importanti.

Nata il 13 Marzo 1973 a Milano da mamma romana e papà veneziano, ha frequentato il liceo classico per poi iscriversi alla Civica Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi, dove si diploma dirigendo Romeo e Giulietta di Shakespeare. In seguito, fonda la compagnia Atir (di cui è l’attuale direttore artistico) con la quale inizia una serie di produzioni di spettacoli ed eventi che continua tutt’ora. Parallelamente al lavoro con la sua compagnia, porta avanti progetti solisti che la vedono impegnata con altri attori in teatri sparsi in tutta Italia e con enti culturali.

Serena crede in un teatro popolare al servizio dei cittadini, e questa linea è condivisa anche dalla compagnia che dirige.

Scena tratta da “Di a da in con su per tra fra Shakespeare”

L’IMPEGNO SOCIALE

«Con Atir ho prodotto spettacoli che spaziavano dai classici, come Shakespeare, Euripide e Aristofane, ai contemporanei, iniziando a collaborare con drammaturghi viventi, come Edoardo Erba e Letizia Russo, che mi interessavano e mi incuriosivano, per scandagliare e affrontare tematiche soprattutto politiche e di attualità», spiega la regista.

Atir, però, non è solo una compagnia che produce eventi e spettacoli: «È anche un progetto culturale, un’idea di arte e cultura al servizio degli altri. Ciò si è concretizzato negli anni quando, come Atir, abbiamo ottenuto la gestione del teatro Ringhiera, situato in via Boifava, a sud di Milano. Qui, abbiamo iniziato a sperimentare un teatro sociale fortemente radicato sul territorio dove intendiamo l’Arte, nell’accezione più ampia del termine, come uno strumento capace di migliorare la qualità di vita dell’individuo.» racconta Serena, che continua: «Abbiamo creato una grande comunità organizzando spettacoli ed eventi e lavorando fianco a fianco con le associazioni socio-educative, religiose e ospedaliere».

1943: COME UN CAMMELLO IN UNA GRONDAIA

Subito dopo essere uscita dalla Paolo Grassi, Serena decide di mettere in piedi uno spettacolo teatrale tratto dalle lettere dei condannati a morte della Resistenza europea. L’opera si chiama 1943: come un cammello in una grondaia, ed è una messa in scena corale: «È uno spettacolo evergreen, perché cerchiamo sempre di farlo quando riusciamo a riunirci tutti, data la sua semplicità e la sua scenografia pressoché assente», spiega Serena.

L’idea dello spettacolo risale alla lettura del libro da cui prende spunto: «Non ancora diciottenne, ho letto le lettere dei condannati a morte della Resistenza europea e ne sono rimasta folgorata. Lo spettacolo, quindi, riflette, da una parte, sulla memoria storica e sul mondo che i condannati della Resistenza ci hanno consegnato combattendo; dall’altra, invece, sul mondo attuale, nato dopo il crollo dell’URSS e dell’utopia comunista alternativa al capitalismo, e sulla degenerazione del capitalismo presente», spiega sempre Serena. Il tutto si basa sul modo che Serena e la compagnia Atir hanno di intendere l’Arte, ovvero, militante e impegnata, senza però dimenticare il divertimento.

Scene tratte da “1943: come un cammello in una grondaia” dalle “Lettere dei Condannati a Morte della Resistenza Europea”

1943: come un cammello in una grondaia è uno spettacolo che si basa sul confronto tra il passato e il presente facendo dialogare i due piani, ma è anche un doveroso tributo a quelle persone che hanno dato la vita per una parola a volte così difficile da sostenere: libertà.

 

 

In copertina: scena tratta dallo spettacolo Le allegre comari di Windsor.

Guida a una Milano immorale

Quando si pensa a Milano, la città della Madonnina e di Sant’Ambrogio, vengono subito in mente il celeberrimo Duomo, imponente edificio gotico, il teatro La Scala, prezioso scrigno della tradizione operistica italiana, o il quartiere bohèmienne di Brera, dove si trovano l’Accademia di belle arti, la Pinacoteca e numerose gallerie, studi d’arte e di architettura. Ma proprio questa zona, oggi realtà molto attiva nel panorama artistico-culturale e punto di riferimento per la movida serale, in realtà fino agli anni ’50 non era altro che il quartiere più immorale di Milano, un quartiere a luci rosse che con la legge Merlin del 1958, non senza accese polemiche, fu obbligato alla sua definitiva chiusura. Percorriamo quindi un viaggio a ritroso nel tempo, che si snoda da via Fiori Chiari a via Formentoni, da via Fiori Oscuri a via San Carpoforo, tra le case che un tempo furono i bordelli e gli alloggi privati di donne che vendevano il proprio corpo per scelta o per bisogno.

Valeria Celsi, storica dell’arte di Percorsi d’arte funeraria e ideatrice del percorso “I segreti di Brera” tra le ex case di tolleranza del quartiere milanese.

Valeria Celsi di Percorsi d’arte funeraria, Linda Bertella di Scoprire Milano, Valentina Saracco di Damatrà hanno ideato degli itinerari inediti, a volte teatralizzati, coinvolgenti e intriganti, durante i quali si può conoscere e scoprire il lato hard di questo quartiere di Milano, fatto non solo di ritrovi di artisti, vecchie botteghe, osterie, ma soprattutto di case di tolleranza.
Nel ricco e variegato mondo delle visite culturali Valeria Celsi, guida turistica e storica dell’arte, appassionata di leggende e curiosità su costume e società, ha creato un tour speciale dedicato a Brera e alle case chiuse intitolato I segreti di Brera. «Questo tour che è nato nel 2016 e continua tuttora con un buon successo di pubblico, voleva e vuole essere una proposta diversa alla tradizionale visita-passeggiata nel quartiere di Brera, con l’aggiunta di una nota accattivante e per nulla scontata».
Come spiega Valeria, «bisogna rinnovare i percorsi e cercare di differenziarsi dentro i numerosi tour guidati del capoluogo lombardo». E le visite culturali di Valeria Celsi si distinguono, eccome: il suo tour nel quartiere di Brera è ideato per essere svolto nel tardo pomeriggio e nelle serate estive, durante le quali, passeggiando, accompagnati dalla storica dell’arte, si possono scoprire le strade, le abitazioni e le storie delle prostitute che vissero in questo quartiere. Come Rosa della Canna, che camminava sempre in compagnia del suo mastino; Valeria “l’amante che ferisce”, così soprannominata per i suoi atteggiamenti un po’ aggressivi e al limite del sadomaso, della quale si racconta che arrivò a tagliare il pene di un suo cliente; e le tre sorelle che abitavano in via San Carpoforo al civico 8, nel bordello gestito dalla madre. Non a caso un tempo si diceva andar a sancapofer per identificare con estrema chiarezza non solo dove si andasse, ma anche che cosa si stesse cercando.

Un’immagine d’epoca di via dei Fiori Chiari, negli anni Cinquanta crocevia di prostitute e clienti, case chiuse e strutture a sostegno di donne in difficoltà.

Per non parlare del detto milanese Trav in pee e donna in pian, tegnen sü el Domn de Milan, che significa “Travi in piedi e donna in piano, tengono su il Duomo di Milano”, dove di nuovo ritorna un labile e insistente riferimento al lavoro delle prostitute.
Il percorso di Valeria Celsi non finisce qui e ci porta ancora alla scoperta di altre notizie sul quartiere a luci rosse di Brera. Ci racconta che «la via dei Fiori Oscuri e la via dei Fiori Chiari erano il fulcro della pigalle milanese, l’una dedicata alle case chiuse e ai bordelli non autorizzati e non riconosciuti dallo Stato, mentre nell’altra si trovava una casa d’aiuto per le signorine in difficoltà». Di fronte a via dei Fiori Chiari si racconta che avesse sede una piccola ditta inglese che fabbricava gomme con un’attività piuttosto redditizia. Ma il responsabile decise di far chiudere tutte le finestre che si affacciavano sulla strada: finestre oscurate o murate affinché i dipendenti non si distraessero dalle loro mansioni. Via Formentoni, invece, un tempo era famosa perché faceva parte della Contrada di Tett, dove le prostitute mostravano i loro seni nudi, sporgendosi dalle finestre e dai davanzali. Si prosegue poi per via Madonnina, dove le ragazze facevano cadere dai terrazzi dei cestini vuoti, un gesto dal significato chiaro e specifico: erano libere e disponibili per il prossimo cliente.

Uno scatto da uno dei “bordelli” di Brera.

Nessuna classe sociale rimaneva esclusa dall’elenco degli “ospiti” delle case chiuse: imprenditori, professionisti, impiegati e qualche prete; con il boom economico anche il popolo degli operai si avvicinò sempre più numeroso alle porte dei casini, veri e propri club privati a cui si poteva accedere solo con tesseramento e ad un prezzo maggiore. La clientela, però, era anche composta da guardoni e voyeur, per i quali erano state create apposite stanze nei bordelli. «Durante la Seconda Guerra Mondiale», spiega Valeria Celsi, «si racconta che in una di queste case di tolleranza dedicate ai “guardoni” fossero contemporaneamente presenti un soldato tedesco e un partigiano, uno cliente e l’altro voyeur. Sebbene la situazione fosse molto tesa e pericolosa, per fortuna si risolse con la fuga dell’italiano, che da quel momento in poi ci pensò bene prima di tornare nel quartiere a cercare momenti di piacere…».

Un esempio dei tariffari in vigore nelle case di tolleranza italiane.

Di certo molte ragazze facevano questo lavoro, il più vecchio del mondo, in quanto, povere e in difficoltà economica, non trovavano altro impiego che permettesse loro di mantenersi, ma alcune donne scelsero di loro spontanea volontà di diventare prostitute: così fu per una giovane insegnante di matematica di Bologna, che abbandonò il suo lavoro e si trasferì a Milano in via Porlezza per dedicarsi al suo nuovo mestiere con grande soddisfazione.
A termine di questo breve itinerario non ci resta altro che visitare in prima persona questo quartiere, accompagnati da esperte e capaci guide turistiche, per scoprirne la storia e le curiosità dei suoi vicoli oscuri che, purtroppo, hanno subìto una vera e propria damnatio memoriae. Visitare non solo per trascorrere una serata in scherzosa allegria, tra sacro e profano, ma anche per ricordarci la storia e le tracce di un passato che costituisce la vita di un quartiere e della città di Milano, e ci permette di riflettere sul lavoro e sulla figura della donna oggi.

Alla ricerca della fama dall’underground ai social network

È luogo comune dell’immaginario che ruota attorno alla cultura underground   l’idea che gli artisti che si sono inseriti all’interno di questo movimento siano stati sempre disinteressati all’entrare nelle schiere della cultura popolare, ufficiale e di successo: obiettivo delle loro opere era infatti proprio quello di schierarsi contro le regole che fino alla prima metà del Novecento avevano imbrigliato le diverse forme di produzione artistica, creando una rete semiclandestina di attività che opponessero resistenza alla massificazione della cultura che avanzava nelle società capitaliste.

I movimenti di questa controcultura, che dall’America degli anni ’50 si diffuse presto nel resto del mondo, sembrano impensabili da riprodurre oggi. Non solo molte delle rivendicazioni portate avanti dalla cultura underground e spesso scontratesi con processi per indecenza, oscenità e malcostume, sono oggi comunemente accette a buona parte delle società occidentali; ancora più complessa sembra l’idea di una clandestinità e una segretezza del lavoro degli artisti attuali, facilmente esposti tramite la rete dei social network.

Ma quanta distanza di fatto si trova tra le personalità di spicco della controcultura e la vanità sovraesposta nell’era dei selfie? Quanto dell’attuale attitudine a innalzare a icone certe figure passate e moderne è possibile ritrovare nei modi della cultura underground?

 

Locandina promozionale di Gioventù Bruciata, diretto da Nicholas Ray nel 1955.[/

Sebbene la spontaneità fu alla base tanto dell’esistenza quanto delle produzioni degli artisti underground, è lampante che anche il loro stile di vita, improntato a ogni tipo di eccesso, divenne presto un must generazionale, coronato dal successo della pellicola Gioventù bruciata, che nel 1955 promuoveva l’immagine dei “belli e dannati”.

Un’immagine che conserverà il suo fascino negli animi adolescenti delle generazioni successive e che sarà alla base del successo di una consistente fetta di industria cinematografica, non da ultimo quella che, favorita dall’avvento della moda hipster ( che non a caso prende nome dal gergo dei giovani beat, che così chiamavano negli anni ‘50 gli appassionati di jazz e bebop) ha in tempi recenti ripreso questo filone in veste biografica, contribuendo alla recente mitizzazione di alcuni dei protagonisti della controcultura: da Urlo di Epstein e Friedman, che nel 2010 racconta la vita del poeta ebreo e omosessuale Allen Ginsberg; a Boom for Real: L’adolescenza di Jean-Michel Basquiat di Sara Driver, uscito lo scorso anno incassando 22,5 mila dollari.

 

Locandine di Howl (in italiano Urlo) diretto da Rob Epstein e Jeffrey Friedman nel 2010 e Boom for Real. L’adolescenza di Jean-Michel Basquiat diretto da Sara Driver nel 2017.

 

Un’attenzione che più che focalizzarsi sulle opere, sembra rispecchiare quel desiderio un po’ morboso, tipico della condivisione social, di entrare nella quotidianità delle persone, in questo caso artisti dediti a vite fuori dagli schemi, spesso caratterizzate dal massiccio consumo di alcol e droghe.

Un’attenzione che in alcuni casi arriva alla falsificazione, come è successo a Vivian Maier, protagonista nel 2013 dell’opera di Siskel e Maloof: Alla ricerca di Vivian Maier. Dopo aver ritrovato stampe e negativi in un magazzino acquistato all’asta, Maloof si dedicò infatti alla creazione di un’immagine della Maier come di una bambinaia misantropa, segretamente dotata di un’innata capacità di anticipare la street photography. Per ottenere questo effetto avanguardistico, lo scopritore si dedicò alla selezione e alla stampa di quei negativi che potevano rispettare l’ideale estetico che si voleva proporre, ma che forse l’autrice non avrebbe apprezzato: si sa, ad esempio, che la Maier riquadrava tutte le fotografie che stampava per rispettare il formato rettangolare della carta, mentre a noi sono per lo più offerte stampe a pieno negativo. L’artista stessa, del resto, pare aver avuto presentimento del destino della sua opera, quando spiegò a un datore di lavoro che «se non avesse tenuto nascoste le sue fotografie, qualcuno le avrebbe rubate o usate male».

Se possiamo ipotizzare che la fotografa della Chicago degli anni ’50 e ’60 non avrebbe probabilmente apprezzato i metodi e l’estetica dell’era dei social, non possiamo sostenere con la stessa certezza che gli artisti underground a lei contemporanei avrebbero avuto la stessa opinione. Né è così facile convincersi che sia stata la rete informatica a distruggere i canoni della cultura alternativa: se infatti l’obiettivo era liberarsi da schemi preimpostati, ottenere libertà espressiva e trovare lo spunto narrativo nella vita quotidiana e in quella dei bassifondi, allora i social network possono essere considerati un mezzo e non un ostacolo alla controcultura, a patto certo di dedicarsi non alla mitizzazione del passato, ma a una nuova spontaneità artistica.

 

Copertina del DVD di Alla ricerca di Vivian Maier di John Maloof e Charlie Siskel del 1013 e un’opera della fotografa.

 

Del resto, al giorno d’oggi moltissimi artisti underground utilizzano i social network come principale canale di comunicazione; esempio eclatante sono gli street writers, che spesso tutelati dalla garanzia di anonimato offerta dalla rete informatica, riescono a dare risalto e rivendicare come proprie le opere con cui colorano le vie cittadine. Le piattaforme informatiche diventano così vetrine e musei, raddoppiando lo spazio urbano e offrendo un nuovo palcoscenico a quell’arte che rifiuta la propria canonizzazione e mercificazione. Proprio il fattore economico diventa così elemento critico nel rapporto, in origine di aperta opposizione, tra gli artisti che si riconoscono come underground e la realtà del mainstream: il diritto a fruire l’arte diventa pubblico e gratuito; di contro un campanello d’allarme suona a ricordare che quello di artista è pur sempre un lavoro e va pagato.

È probabilmente proprio per evidenziare queste innumerevoli contraddizioni interne al mondo dell’arte che la scorsa settimana all’Asta di Sotheby’s si è assistito alla performance autodistruttiva di Banksy, che tramite un tagliacarte inserito nella cornice, ha ridotto in strisce la stampa Girl with Balloon, appena venduta per un milione di sterline. Nonostante le precauzioni dell’artista siano state tutte indirizzate a vanificare la vendita all’asta della sua opera, gli ingranaggi del sistema dell’economia di mercato non sembrano essersi bloccati: delle 600 copie originali dell’opera, 598 mantengono il loro valore originale (attorno le 40 mila sterline), mentre quella tagliuzzata, dal cui pagamento l’acquirente non è retrocesso, pare aver ora raddoppiato il valore di mercato raggiunto in sede d’asta. Unica copia a perdere valore economico (sceso a 1 sterlina) è quella di un anonimo che, convinto di poter accrescere il valore della stampa in suo possesso, ha operato gli stessi tagli visti nel video di Sotheby’s, guadagnandosi un’accusa di vandalismo mossa dalla casa d’aste stessa.

In contemporanea, anche grazie alla pubblicazione di Banksy stesso del video che spiega i meccanismi inseriti nella cornice della stampa sul suo profilo instagram, canale preferenziale dell’autore, il successo dell’artista continua la sua ascesa e sempre più libri e mostre si concentrano su questo autore; sarà forse un caso, ma proprio Girl with Balloon è l’opera rappresentata sulla locandina di The Art of BANKSY. A VISUAL PROTEST, personale non autorizzata dall’artista, che dal 21 Novembre sarà in mostra al MUDEC di Milano.

 

Banksy, Girl with Balloon, sul muro di Londa, South Bank, dove apparve nel 2002, accanto alla scritta “THERE IS ALWAYS HOPE” (C’è sempre speranza).

 

In copertina: Basquiat, Notary, 1983. Acrilico, pittura a olio e collage di carta su tela montata su supporti in legno. Collezione Famiglia Schorr; in prestito a lungo termine al Princeton University Art Museum.

A Milano succedono Rob de matt

La scommessa da qualche mese è stata vinta! Esattamente dal 7 Aprile, il quartiere milanese di Dergano ospita un nuovo ristorante, il Rob de matt, il primo del suo genere in città: l’unico, al momento, in grado di offrire una reale e concreta opportunità di lavoro a persone con disagio psichico.

Questo è stato possibile grazie all’intraprendenza di tre amici che, autofinanziandosi, hanno deciso di declinare il lavoro a leva di inclusione sociale. Il locale, con ingresso da via Enrico Annibale Butti, sorge all’interno della grande sede de L’Amico Charly Onlus, dove con ampi e ammodernati locali e un grande giardino, ha riqualificato quello che fino a qualche anno fa si sarebbe presentato come l’ennesimo sito di archeologia industriale, trasformando il sito delle dismesse officine milanesi in officine sociali, in grado di includere attraverso una forte richiesta di partecipazione attiva. Infatti come spiega Francesco, uno dei cofondatori, «solo abbandonando la ghettizzazione e permettendo ai propri collaboratori di rafforzare la propria autostima e cognizione, si possono ottenere risultati».

Certo, non è facile: il percorso deve essere quanto più costante e frazionato perché occorre «riuscire a garantire una crescita costante ma sempre attenta alle singole peculiarità del collaboratore». Per esempio, una “strategia” potrebbe essere quella di partire dai servizi di catering, più semplici e arrivare poi alla cucina per sala, riuscendo man mano ad estrapolare motivazioni in grado di rafforzare la personalità e la sicurezza nello svolgere un determinato lavoro.

Sono sei i ragazzi che attualmente lavorano in questa neonata realtà: vengono costantemente supportati dai loro educatori e lavorano grazie alle borse di lavoro disposte dal Comune di Milano, che vanno da un periodo previsto di alcuni mesi prorogabile fino ai due anni.

L’obbiettivo è quello di riuscire a raggiungere una stabilità lavorativa ed economica, quindi il traguardo di un contratto a tempo indeterminato. Le mansioni ricoperte vanno dall’amministrazione all’assistenza di sala finanche appunto alla cucina, luogo destinato ai corsi di formazione per i nuovi assunti, dove i ragazzi possono apprendere e professionalizzarsi.

È proprio dal cuore pulsante del ristorante, che lo chef Edoardo, uno degli ideatori dell’intero progetto Rob de matt, esce radioso e, mentre mi descrive alcune sue ricette, intanto mi aiuta a definire la visione della loro attività: partendo dall’attenzione alla sostenibilità dei prezzi e l’assenza del coperto. Tutto il cibo che viene proposto è biologico, infatti il menù si alterna tra le stagionalità, la filiera corta e piatti etnici, pensati anche e soprattutto come occasione di conoscenza e scambio interculturale. Il vino e la birra sono forniti da piccoli produttori e il contatto con questi è diretto.

I progetti per il futuro sono tanti e tutti in ebollizione dalle brillanti idee dei fondatori, mi spiegano: «noi vorremmo che il ristorante diventi un centro propulsore, un centro culturale per la zona nord della città, non fermandoci al solo servizio di ristorazione, ma affiancandolo a progetti in grado di attrarre il quartiere». Già diverse iniziative di questo tipo hanno trovato lo spazio perfetto a Rob de matt, infatti già alcuni di questi progetti sono già in atto, come per esempio l’evento domenicale Rob de piscinin, laboratorio per bambini, piuttosto che Rob de market un esposizione di oggettistica di autoproduzione locale e ancora, Rob de relax per uno yoga domenicale rigenerante e rilassante. Insomma, appuntamenti utili a stimolare gli abitanti del quartiere a vivere la comunità partecipando.

Infine, chiedo ai ragazzi quale sarà il prossimo obbiettivo e chiara e decisa è la risposta di Edoardo: «sicuramente l’orto sarà da allargare e concludere, perché rimane un utilissimo esempio didattico. Permette ai nostri ragazzi di toccare con mano le materie che poi andranno a lavorare». É un modo perfetto di immortalare i risultati per cui si lavora, certificando l’abnegazione per un progetto, perché un piatto di farina possa diventare pane.

 

Becoming Jake. Viaggio da un genere all’altro

Appena entro nel locale in cui ci siamo dati appuntamento, il mio sguardo inizia a scrutare i volti di chi è seduto ai tavoli finché non si posa sulle spalle di un ragazzo intento a leggere. Lui è Jake, Giacomo Arrigoni Gilaberte, classe ’91, nato in Brasile ma cresciuto in Italia. Jake è un giovane transessuale FtM (Female to Male, sigla per la transizione da un corpo femminile a uno maschile), che da circa due anni ha iniziato la terapia ormonale sostitutiva (TOS) per diventare colui che ha sempre sentito di essere: un uomo.

Durante l’inesorabile susseguirsi degli anni, ognuno di noi è soggetto al continuo rimodellamento della propria identità. Cruciale è il periodo a fine scuola elementare, quando dal corpicino di bimbo cominciano a spuntare i primi segni di una prosperosa femminilità o di una muscolatura virile. Jake non possiede un nitido ricordo che condusse colui che una volta era conosciuto come Jessica al desiderio di vivere come Giacomo. Ricorda tuttavia di essersi posto tantissime domande alle quali non trovava risposta: «A dodici anni non mi piaceva nulla del mio corpo. Pensavo comunque di essere un’adolescente come tante che si sentiva troppo grassa o troppo brutta… Ma con il passare degli anni mi sono accorto che non riuscivo a mostrarmi». Assieme alle prime esperienze, Jake si crede una donna e lesbica, incapace però di sentirsi a proprio agio nell’intimità sino ad arrivare al punto di considerare il sesso sopravvalutato.

La svolta avviene durante una puntata de “Il Testimone”, il programma di MTV Italia firmato da Pif, dove un gruppo di ragazzi si svela alle telecamere raccontando la propria transessualità. Sin da subito, Giacomo si ritrova nelle esperienze e parole degli intervistati e pian piano, assieme ai primi Pride e ai primi incontri, inizia cautamente a farsi strada l’uomo che c’è in lui. «Una sera, in discoteca, una mia amica mi presenta a un ragazzo transessuale (FtM come Jake, n.d.r.): mentre lui mi mostrava i vergini muscoli che si erano appena rafforzati su braccia e spalle (grazie alla terapia ormonale, n.d.r.), io rimasi rapito dal suo entusiasmo e capii che quella poteva essere la mia strada».
Una volta giunto allo Sportello ALA Milano Onlus, Giacomo incontra l’attivista e Responsabile Antonia Monopoli, che lo invita a iniziare un percorso psicologico: «Grazie alla bravissima Chiara Caravà, ho iniziato ad aprirmi e a parlare di tutto sino al fatidico giorno in cui mi ha detto “Per me, sei pronto”». Jake ha circa 22 anni quando si reca per la prima volta all’Ospedale Niguarda di Milano.

Giacomo ha fatto molti coming out nella sua vita. Il primo è stato per lo più taciuto: «Decisi di vivermi la mia identità da lesbica fregandomene del pensiero altrui, per poi scoprire che non mi bastava. Ciò che ero non rappresentava il vero me stesso… dovevo fare di nuovo coming out». E così Jake si è affidato al canale YouTube, grazie al quale l’involucro Jessica si è spezzato per far apparire per la prima volta Giacomo. Il timore maggiore era la paura che gli altri non riuscissero ad accettare il fatto che Jessica fosse stata sempre e solo mero rivestimento. Come a rimarcare il ruolo che i Social media detengono nella nostra società, Giacomo afferma che «condividendo il video sul mio profilo Facebook, mi sono tolto il peso di dover andare da ognuno e iniziare con “Ti devo dire una cosa”. Dopo la condivisione, invece, molte persone sono venute a chiedermi di parlarne assieme». In famiglia, Jake non ha fatto fatica a essere accettato e anzi, si ritiene fortunato poiché non pochi sono stati i casi di ragazze o ragazzi trans allontanati da casa.
«Il coming out lo vivo tutt’oggi – continua Giacomo – soprattutto con persone che ho appena conosciuto e in situazioni che non posso evitare. Ad esempio, se siamo in giro e mi scappa la pipì, non posso dirigermi in un angolo come qualsiasi uomo, quindi devo spiegare a chi ancora non mi conosce il perché debba cercare un bagno. E comunque anche nei bagni maschili ho le mie difficoltà: spesso le porte non si chiudono».

Non sono dunque i familiari o gli amici ad aver deluso Giacomo di fronte al suo presentarsi non più come ragazza ma come uomo: «Sono state le istituzioni e la burocrazia. Per iniziare la cura ormonale devi aver superato un percorso psicologico e avere l’approvazione dal Tribunale. Un giorno vado quindi in comune per ottenere l’atto di nascita da consegnare al Tribunale e inizio a compilare dei moduli di richiesta appositi per la transizione assieme alla signora dello sportello… la quale continua a chiamarmi “signorina”. Un’altra volta invece sono andato a fare i prelievi del sangue e un infermiere, leggendo la mia cartella e poi guardandomi, mi fa: “Ma sei un uomo o una donna?”. O ancora il medico di base, che durante il solito controllo della pressione, sdraiato sul lettino, mi alza i pantaloni e mi dice: “Ma sei sicura? È proprio un peccato”. Ma se ho bisogno di assistenza medica a chi posso far affidamento se non a un medico?!». Questi sono solo alcune delle violenze di genere che Jake ha dovuto subire da parte delle istituzioni pubbliche al servizio del cittadino.

In Italia non è difficile accedere alla procedura di transizione, mi confessa Jake, sebbene l’iter sia tremendamente lungo e lento. Giacomo iniziò il 3 dicembre 2013 le punture di testosterone e da allora un po’ di cose sono cambiate.
Nel successivo frizzante video, i cinque cambiamenti più significativi dei primi 9 mesi di terapia ormonale:

Ma a che punto siamo con il rispetto dei diritti delle persone transessuali in Italia? «Sulla carta sono sì rispettati, ma poi la realtà è ben diversa. C’è molta ignoranza in materia! Senza contare che la comunità trans italiana non si è ancora affermata definitivamente e questo è un peccato poiché potrebbe far tanto per sopperire alle lacune delle istituzioni. Certo è che ognuno di noi fa coming out quando può ed è pronto».

Dopo gli ultimi due sorsi di birra, lascio Jake partendo dalla prima domanda che gli feci: come stai? «Ah! Da due anni a questa parte sono solo gioie! Mi sveglio benissimo, sempre proiettato verso il futuro: domani è sicuramente un giorno migliore perché è un giorno in più verso quello che voglio essere. Verso Giacomo».

Fotografie di Giacomo Arrigoni Gilaberte

Provincia mia, ti lascio e vado via (o forse no)

La provincia, croce e delizia. Vivere lontani dalle grandi città, nella dimensione placida e rassicurante dei paesi e delle cittadine italiane, ha sicuramente un che di poetico e rétro. Parlando con gli anziani della città lombarda di provincia in cui sono cresciuta, il tipico luogo cosiddetto “a misura d’uomo”, mi accorgo che nel loro immaginario Milano è dipinta come un gigante di cemento e palazzoni pronto ad ingoiare le ingenue creature provenienti dai rassicuranti paesi della provincia. Capisco che la grande città incuta soggezione a chi ha sempre vissuto in un contesto diverso, provinciale. Del resto, si teme ciò che non si conosce, o ciò che si conosce per sentito dire.

Il discorso è un po’ diverso per i più giovani. Oggi i ragazzi di provincia si abituano a conoscere la città fin da piccoli, imparano che spesso quello che non trovano nel loro paese lo potranno facilmente reperire in città. Nel mio piccolo, quando ero più giovane e gli acquisti online non li faceva nessuno, andavo mensilmente in pellegrinaggio a Milano per comprare gli album dei miei cantanti preferiti, che nella mia città non vendevano da nessuna parte. Che fortuna, pensavo, potersi comprare i cd sotto casa! Poi si cresce e la consapevolezza delle possibilità offerte al di fuori del microcosmo provinciale aumenta: le università delle grandi città offrono più indirizzi, più corsi. Gli sbocchi lavorativi in città sono nettamente superiori a quelli nel paesello, così come gli stimoli culturali e le occasioni di conoscere nuova gente. Io stessa mi sono spesso trovata ad invidiare lo stile di vita dei miei coetanei che si sono trasferiti in città e a non capirne le lamentele quando si dicono stressati dal traffico, dalla gente, dalle cose da fare. In cuor mio qualche volta mi sono detta che chi si lamenta delle grandi città non si merita di viverci e di avere tutte quelle opportunità; l’abusatissima citazione di Samuel Johnson when a man is tired of London, he is tired of life riecheggia nella mia mente rafforzando la mia convinzione sul primato della città. Poi, però, quando la sera esco nel mio tranquillo capoluogo di provincia e per raggiungere i miei amici dall’altra parte della città impiego dieci minuti, confesso che la mia fierezza da wannabe-cittadina vacilla. Dove riesco a vedermi davvero realizzata e nel contesto adatto ad una persona della mia età?

Ho deciso di confrontarmi con chi un’idea chiara sul luogo della sua vita ce l’ha per comprendere davvero il significato che noi giovani attribuiamo alla difficile scelta fra città e provincia. Cristian ha trent’anni, di cui ventisette trascorsi in un paese della provincia bergamasca. Da tre anni si è trasferito a Milano e mi racconta il perché della sua scelta. «Avevo ventisette anni e attraversavo un periodo un po’ di passaggio, ero insoddisfatto e volevo riprendere in mano la mia vita. Nonostante avessi già una casa di proprietà e un contratto a tempo indeterminato, non ero più così sicuro di trovarmi nel posto giusto per me. L’illuminazione è arrivata all’improvviso, in una serata estiva: stavo guidando in autostrada e a un certo punto mi sono detto che era ora di cambiare aria. Impulsivo come sono, in poco più di tre mesi ho organizzato tutto e traslocato la mia vita». E nonostante Milano sia a poche decine di chilometri dal suo paese d’origine, la vita di Cristian è cambiata radicalmente, a detta sua in meglio. Quando gli chiedo cosa apprezza in particolare della vita nella metropoli, Cristian mi spiega che a Milano è tutto a portata di mano.

Vista dal vecchio appartamento milanese di Cristian. Fotografia per gentile concessione di Cristian

Cerco di capire se il suo amore per la vita cittadina si contrapponga ad una sorta di disprezzo verso la provincia che ha scelto di abbandonare. Rispondere non è facile per Cristian, che non riesce ad elencarmi qualcosa che davvero odiasse della sua vita precedente: «Faccio una fatica enorme a ripensare in modo razionale al luogo in cui sono cresciuto. Il cambiamento mi ha travolto in modo talmente intenso e soddisfacente che, quando cerco di fare un confronto tra il mio passato e il mio presente, mi rendo conto di essere davvero ingeneroso nei confronti di quelle che sono e rimarranno le mie radici e il mio punto di partenza. Credo che ciascuno abbia una dimensione ideale e, semplicemente, la mia non era lì».

C’è chi invece ha la fortuna di sapere fin dall’inizio dove sia la propria dimensione ideale: Adriano, ventisettenne della provincia bergamasca, riesce a dedicarmi qualche minuto di tempo nella sua frenetica vita di provincia per raccontarmi il suo percorso. Dopo diciotto anni trascorsi serenamente in provincia e senza alcun desiderio represso di cambiare aria, decide di iscriversi al Politecnico di Milano: «Io, in realtà, non volevo uscire dalla valle in cui sono cresciuto. Sono andato a Milano contro me stesso, per sfidare i miei limiti. Ho fatto anche esperienze di studio in America e in Sudafrica. Ho voluto aprire i miei orizzonti». Dopo la laurea in Ingegneria Gestionale arriva la proposta, un contratto da ingegnere informatico. In quel momento avviene la decisione, la conferma che Adriano conosce bene quale sia il suo luogo della vita: rifiuta il lavoro e inizia a seminare un ettaro di mais spinato di Gandino, una varietà antica di granoturco. «Volevo qualcosa che mi tenesse legato alla mia terra, ho cercato il modo di valorizzare il mio territorio e, partendo da questo forte desiderio, ho costruito la mia azienda agricola».

Adriano al lavoro nella sua azienda agricola. Fotografia per gentile concessione di Adriano (www.agrigal.com)

La forza del progetto di Adriano è proprio il luogo da cui proviene e il legame viscerale con il suo paese, con la sua provincia. E la fedeltà alla sua terra lo ha ripagato: oggi la sua azienda vende in tutta Italia e la sua esperienza è talmente riconosciuta da essere oggetto di convegni specialistici e laboratori didattici. Adriano non nega che le esperienze fatte a Milano o all’estero siano state fondamentali, ma ora l’obiettivo è sempre quello di rafforzare ancora di più il rapporto con la sua provincia.

Due storie diverse quelle di Cristian e Adriano, ma con un aspetto in comune: la convinzione di avere preso la decisione giusta, di aver trovato la propria dimensione. E dalle loro parole quello che percepisco è che forse non ci sono luoghi più giusti o più sbagliati di altri, ma che probabilmente il luogo che cerchiamo, città e provincia che sia, è quello che davvero ci rappresenta.

 

In copertina: uffici a San Donato Milanese (ph. Marcuscalabresus CC BY-SA 3.0 via Wikimedia Commons).

Al carcere di Bollate… si cucina!

Sono quasi le 18 quando entriamo nel ristorante InGalera. Alcuni redattori di Pequod ed io ci siamo addentrati tra le pentole e i fornelli del carcere più stellato d’Italia, al penitenziario di Bollate in provincia di Milano, per raccontare la storia di questa attività e dei suoi protagonisti. Iniziamo dunque a curiosare in cucina…

Appena varcata la soglia, un profumo di timo e rosmarino ci avvolge: Mirko, il secondo chef, sta tritando con maestria gli ingredienti che poi andranno ad aromatizzare il pane. Esperto di secondi piatti, Mirko racconta delle prelibatezze di carne e pesce che è solito preparare, forte della sua esperienza in cucina iniziata nel 1982. Per stasera verrà servito un timballo di agnello al ginepro, con crema di broccolo e pane: «Il nostro menù è stagionale e segue le differenti disponibilità del mercato». A gestire i fornelli di InGalera ci sono 4 chef e un pasticciere, i quali studiano e provano assieme varie ricette, sebbene la decisione finale spetti all’Executive Chef del ristorante.

Davide è diventato Executive Chef nell’ottobre 2016, dopo aver ottenuto la facoltà di poter lavorare grazie all’Articolo 21 dell’ordinamento penitenziario che permette ai detenuti o agli internati di poter svolgere attività lavorative all’esterno del carcere. «Mi occupo della creazione del menù, faccio la spesa e scelgo i fornitori», racconta Davide: «Quando sono subentrato in autunno, ho voluto portare il mio gusto in cucina, scegliendo ricette che trasmettessero cosa significhi per me cucinare. La mia idea di cucina è una cucina semplice, bella e fatta con passione. La semplicità sta negli elementi, come l’acqua, la bellezza nella presentazione, la passione sta nel fatto che nella mia cucina sono coinvolti i cinque sensi». La passione Davide l’ha dimostrata anche in cella, dove senza strumenti a disposizione ha comunque studiato per non perdere l’allenamento. Nella cucina di InGalera non ci sono tecnologie, è tutta chimica: «Quello che prima, fuori, sapevo fare con la tecnologia, ora lo rifaccio con le mani». Il pasticciere Federico non permette a Davide di proseguire oltre, posando in tavola un esempio pratico di ciò che InGalera può offrire, ossia un piatto che ci farà posare le penne per impugnare i cucchiaini…

Questa è la cheesecake del ristorante! Nell’ampolla di ghiaccio, il vostro cucchiaino incontrerà la purea di kiwi e formaggio fuso da contornare con la base di torta sgretolata ai piedi dell’ampolla, da favorire con un ribes o un kiwi. Una torta tutta da assemblare e assaporare. «La passione per la cucina me l’ha tramessa mio nonno, cuoco professionista – ci confessa Federico – Sin da subito sono rimasto affascinato dal potere del cibo: capitava a volte di sedersi a tavola arrabbiati o frustrati, ma appena il piatto veniva posato di fronte agli ospiti, le persone si rilassavano per godersi la pietanza. Poi, si poteva ritornare alle proprie faccende, ma lo si faceva sempre con tranquillità, dopo la soddisfazione di un bel pasto».

Al ristorante InGalera, collaborano sia cittadini liberi che gli ospiti del carcere di Bollate detenuti, per la maggior parte non a digiuno né dell’arte culinaria né di attività nell’ambito della ristorazione. Il ristorante, aperto dal settembre 2015, nasce per offrire ai carcerati regolarmente assunti la possibilità di riappropriarsi o apprendere la cultura del lavoro. Silvia Polleri, Responsabile della cooperativa “abc La Sapienza in Tavola” e del ristorante, ci spiega come l’idea di aprire un’attività di questo tipo, a Bollate, sia nata «da un’esigenza espressa dai detenuti, dopo anni passati a lavorare nel servizio catering». InGalera è il primo ristorante della storia italiana a essere aperto all’interno di un carcere e sin da subito il penitenziario ha colto l’immensa potenzialità: «In carcere – prosegue Silvia – finiscono coloro che hanno trasgredito le regole e non a caso nei ristoranti si dice “Brigata di sala” e “Brigata di cucina”. È un terminologia ripresa dalla marina e adattata alla ristorazione per sottolineare le ferree regole che necessariamente bisogna seguire».

Per mangiare InGalera bisogna prenotare poiché il locale, curato e spazioso, non sempre riesce ad accogliere tutti coloro che desiderano assaggiare questa cucina. Di conseguenza, ci dirigiamo al nostro tavolo, saggiamente prenotato, e attendiamo che ci raggiunga l’orario di cena. Per ingannare il tempo, fumiamo una sigaretta con il maître Massimo, professionista decennale del settore: «Lavoro in questo ristorante e non in altri per l’esperienza in sé. A volte è difficile interfacciarsi con i colleghi detenuti; alcuni ragazzi vogliono sfruttare semplicemente l’occasione per non stare in cella, altri invece mettono cuore e anima per imparare un mestiere poiché non tutti sono entrati qui con esperienze professionali alle spalle. Il mio lavoro è anche quello di riconoscere questo impegno e incoraggiare i ragazzi». Tuttavia, il confine che separa l’esterno dall’interno di un carcere non è né netto e né definito, ma sottile e varcabile da chiunque: «Spesso arrivano clienti attirati dai pregiudizi che girano attorno alla figura del galeotto. Quello che però la gente non capisce, tante volte, è che non è così difficile finire in un penitenziario. Tutti coloro che non si immaginano di finire in carcere, prima di giudicare per partito preso, dovrebbero realizzare come chiunque possa commettere un errore che lo porti dentro». Un preconcetto che si dovrebbe destrutturare soprattutto nel momento in cui un detenuto ha scontato la pena e ritorna cittadino libero: «Io sono libero da giugno 2016, ma continuo a lavorare qui perché non riesco a trovare lavoro all’esterno. Lo sconto della pena pare non essere abbastanza per il reintegro nella società», mi racconta Mirko.

Arrivano i primi clienti, il menù ci viene consegnato. Non sappiamo scegliere, perciò ci affidiamo a Davide con il menù degustazione che qui voglio riportarvi sotto forma di fotografia. Buon appetito!

Ştefan, ragazzo rumeno di 23 anni, serve come cameriere InGalera da luglio 2016. Si trova molto bene, anche se ogni tanto «è dura». Non posso fare a meno di chiedergli dei suoi clienti: sono educati? Hanno mai rimandato un piatto indietro? «Sono molto variegati e può succedere, come in tutti i ristoranti. Altre volte, invece, capita che insistano sul perché io sia finito in carcere». La vulcanica Silvia, impegnata come responsabile non solo del ristorante ma anche (e soprattutto) dei “suoi ragazzi”, si avvicina e cercando di sussurrare dichiara: «Qui i camerieri sono troppo educati, fosse per me risponderei “Ma fatti i cavoli tuoi!”». Lo Chef Davide invece, senza batter ciglio, ha deciso di percorrere una strada più pacata: «Io di solito rispondo che ho avvelenato un cliente».

Il momento del caffè. Forse l’attimo più intenso della serata: Davide e Federico ci raccontano come tutti i piatti degustati fino ad ora siano frutto di una cucina di alto livello e della loro professionalità. Per il caffè, però, vorrebbero offrirci qualcosa di loro, un assaggio della loro vita quotidiana e accoglierci come ci accoglierebbero in cella, nei momenti liberi: «In cella abbiamo un fornello, una tazza di plastica e un mestolino di legno. Quando ci incontriamo prepariamo il caffè alla napoletana, con una scorza di limone nella moka. La tazza serve invece per montare lo zucchero e creare la crema del caffè… prego, questi siamo noi».

InGalera

Via Cristina Belgioioso, 120

20157 Milano

Tel. 02 91577985 Cell. 334 3081189

www.ingalera.it

ristoranteingalerabollate@gmail.com

Il viaggio superato. Calabria e India in due fughe “all’altro millennio”

Il battesimo del volo lo presi ch’ero bimbo, a 5 anni, nell’Agosto del ’95.
Per quel che i miei ricordano dovette essere anche il primo reale viaggio dopo il mio “arrivo”.
Al tempo la trama era quella di un’Orio al Serio che timidamente si approcciava alla scena aeroportuale nostrana, di tratte aeree low cost comparse sporadicamente solo oltreoceano e in nord Europa e assolutamente nessun cenno di velivoli RyanAir sopra i cieli italiani.
Così, l’esordio di questa “gita” fu: Milano Linate- Lamezia Terme.
200.000 lire a capo per la traversata del paese. Erano bei soldi all’epoca!

Il primo computer, a casa, lo vidi non prima dei 12 anni; perciò, senza ausilio di scatole onniscienti (per altro la linea internet approdò in Italia soltanto nella seconda metà degli ’80 e ancora pochissimi erano i fruitori del world wide web), il babbo organizzò il soggiorno a Vibo Valentia con l’appoggio di quell’entità capace ch’era l’agenzia turistica.
Non si parlava pressoché mai di “Online”; di conseguenza l’agenzia di viaggi operava esclusivamente in un luogo fisico, uno spazio contenitore che tutto offriva in soluzione alla smania organizzativa di itinerari e permanenze, elargendo depliant e guide turistiche per ogni angolo del globo.

Certo, io ero solo un marmocchio prima del nuovo millennio e poco ricordo del nostro peregrinare estivo; tanto meno delle strategie organizzative che permettevano la buona riuscita del viaggio.
Inoltre, per i miei (da giovani) le spedizioni lontane erano assai sporadiche. All’epoca erano poche le famiglie che si permettevano viaggi extracontinentali, mentre i più preferivano le vicine coste del belpaese.

Volo Alitalia

Assai più esaustivo l’episodio indiano di Bobo, incallito (ex)amante dell’Asia meridionale incontrato sui colli della Maremma. Ragazzo, nell’81, parte per quello che si rivelerà essere il viaggio più duraturo nel suo bagaglio d’esperienze.
Ha indicativamente un concetto vasto di meta (India e dintorni, per l’appunto), un visto di 6 mesi, qualche bottiglia di whisky (poi capirete perché mai) e un biglietto sola andata per Nuova Delhi reperito tramite una delle suddette agenzie: viaggio e avventura risultavano spesso sinonimici.
Nel Nord del paese le giornate si spendono tra l’esplorazione, la ricerca di ospitalità o alloggio e gli spostamenti. Spostamenti tramite mezzi pubblici locali o -tadadadam- Autostop!

Obbligo di aprire una parentesi su questa pratica universalmente riconosciuta come hitchhiking (letteralmente: lunga escursione fatta a tratti).
In particolar modo negli anni 70, per ristrettezze economiche, ambientalismo (pare…) e ricerca d’avventura, la gioventù (e non solo) tendeva a optare per questo canale di trasporto facendo volentieri buon viso all’espansione notevole delle tempistiche di “crociera”.
Già dalla seconda metà degli ’80 però, con l’aumento del tenore di vita e la conseguente diffusione dell’automobile, il pollice alzato si ammoscia cadendo in uno stato di stasi.
All’avvento del nuovo millennio è addirittura una pratica osteggiata, diffondendosi i timori per i rischi legati allo salire su automobili sconosciute.
Solo oggi un parente stretto dell’autostop sembra tornare alla ribalta, proprio grazie allo sviluppo della rete di una realtà virtuale, che ne permette forma organizzata: BlaBlaCar e simili. Il “nipote” s’è fatto anche furbo e prevede solitamente un esiguo contributo economico da parte del passeggero. Ricomparsa di ristrettezze?

Tornando all’India: dal Rajasthan alla città di Patna dove, mediante dritte giunte per passaparola, Bobo sa di poter racimolare la quota necessaria del biglietto aereo per Kathmandu (Nepal) rivendendo a ottimo prezzo il whisky portatosi dall’Italia. (Questa mi è particolarmente piaciuta).

A questo punto noi infileremmo un what’suppino o una chiamata alla famiglia lasciata dall’altra parte del mondo però… incredibile! Fino a 20 anni fa non solo Internet non era diffuso ma pure il telefono portatile era in una sacca amniotica!
Mantenere contatti con casa, in generale, era tanto raro quanto più s’era lontani; ecco che il ruolo della cartolina si rivelava essere molto più sensibile ed essenziale di quello attribuitole oggi.
All’alba del 2000 ancora il mondo non era attraversato da onde wi-fi che permettessero di acchiappare conversazioni nell’aere; per avvisare casa era ancora necessario collegarsi alla rete telefonica, che si affacciava ad alcuni angoli di strada nella forma di cabine pubbliche. Oggi queste hanno l’aura dell’archeologico residuo di un passato recente.

Rientrando dalla divagazione: giusto il tempo necessario a perlustrare il nuovo stato ospite e via per il trekking sull’Himalaya. Nessuna guida per Bobo, perlomeno in carne e ossa: solo un minuscolo Lonely Planet, testo sacro e perenne compagno del viaggiatore, unica fonte d’informazioni oltre il sopracitato passaparola.
Il salvifico dispensario accompagnava chiunque in ogni tipologia di viaggio: lo trovavi in mano alla madre milanese in visita con famiglia a Firenze come in saccoccia al fricchettone danese volutamente “perdutosi” in Guatemala.
E allora, spaziando, rivedo paragrafi nella memoria dove sul cruscotto della Opel Kadett attende, spiegazzata, la tanto fedele quanto criptica mappa stradale. Quel leggendario menomato tomtom cartaceo che, combinato alla segnaletica per la via, era la fonte primaria d’orientamento.
E mi fa sorridere pensare che meno di una ventina d’anni fa, spesso, si sbagliava ancora strada; ci si affidava alla capacità (e all’azzardo) di decifrare un disegno intricato di colori, parole e linee e si sbagliava strada.
Non è che fosse piacevole in sé: ci scappava anche qualche moccolo, ma ti lasciava quella sensazione di avere una compartecipazione col tempo, che il tuo andare era anche uno smarrirsi e ritrovare, rispecchiando la romantica insicurezza che ci muove.

Telefono Sirio – Gratuitamente distribuito dalla SIP nelle case degli italiani tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000

In una fuga come quella di Bobo certamente vi era una dose di “spartanità” in più rispetto a una vacanza canonica di allora ma c’è da considerare che milioni di giovani optavano per viaggi similari; ne concentravano le caratteristiche, esasperandole. Scandagliavano l’adattabilità coi pochi agi e mezzi disponibili. Pochissima stabilità, la costante dell’imprevedibile.

Per tornare a Vibo Valentia e a una manciata di estati successive la situazione fu molto meno audace; ma mappe stradali, cabine telefoniche e sorprese erano nella quotidianità dello spostarsi.

Rimugini una volta ancora su quanto cambi tutto nel tempo, in miriadi di ambiti delle nostre vite.
Viene naturale guardar su.
Stelle.
Altrove nel trascorso, in cammino, erano loro le guide.

Signori, non urlate per favore!

Stati Uniti, anni 20 del secolo scorso. Più precisamente New York. È sera tardi e le strade sono semideserte. Passa di tanto in tanto una pattuglia della polizia per il consueto turno di sorveglianza. Che fine hanno fatto le persone? Perché nessuno, o quasi, esce di casa? Il problema ruota tutto attorno ad una legge entrata in vigore il 16 gennaio 1920, mi riferisco al Volstead Act. Da quanto sancito veniva proibita la vendita ed il consumo di alcolici nei bar, la loro importazione ed il trasporto. Il tutto, secondo gli ideatori, era finalizzato ad una maggiore moralizzazione della società americana, vittima di crimini e violenze alla cui base, sempre secondo i legislatori, vi era la piaga dell’alcolismo.

Come conseguenza dell’entrata in vigore della legge, ogni tipo di bevanda alcolica venne bandito in tutti gli Stati Uniti: ciò, però, provocò la nascita e lo sviluppo di un mercato nero gestito prevalentemente dalla malavita. Importanti gangster, il più famoso dei quali è sicuramente Al Capone, iniziarono ad erigere veri e propri imperi del contrabbando di alcol in questi anni. La loro fortuna era dovuta principalmente al fatto che i cittadini americani, anche dopo l’entrata in vigore della legge, non vollero rinunciare a bere ed erano così disposti a pagare un prodotto talvolta di bassa qualità a prezzi raddoppiati. Oltre all’importazione da Paesi in cui gli alcolici erano ancora legali, come Canada e Messico, si diffuse, infatti, la pratica di realizzare birra e surrogati del whiskey in laboratori clandestini in modo da venderli ai vari clienti. Da sottolineare è il fatto che, almeno in un primo momento, semplici bottiglie venivano vendute sottobanco in negozi di generi comuni, poi però iniziarono a diffondersi i cosiddetti speak-easy e allora cambiò tutto.

Tradotto speak-easy significa letteralmente “parla pianoo parla a bassa voce, ma al tempo del proibizionismo stava ad indicare quei bar o club privati che illegalmente servivano bevande alcoliche ai propri clienti (in cui, ovviamente, era buona cosa non urlare molto se non ci si voleva far scoprire dalle autorità). Spesso camuffati con insegne di insospettabili negozi o botteghe, per accedervi serviva una parola d’ordine da riferire all’ingresso. Ciò però non bloccò le retate della polizia che si susseguivano molto frequentemente, il che contribuì a generare un vero e proprio clima di tensione per le strade delle città che non di rado erano teatro di scontri tra i gangster e le forze dell’ordine. A fronte di questo clima è opportuno specificare che gli speak-easy proliferarono comunque tanto che durante gli anni ’20 nella sola New York se ne potevano contare circa 32000. Successo, questo, a cui molti contemporanei hanno deciso di guardare e di imitare: così a distanza di quasi cent’anni dai ‘’ruggenti anni ’20’’ lo spirito dei bar clandestini torna in auge anche se di clandestino hanno poco o niente.

E di questo spirito vive 1930 cocktail bar a Milano in zona piazza cinque giornate. L’indirizzo vero e proprio non è dato saperlo se non si possiede la tessera dei soci, questo al fine di selezionare una clientela in grado di apprezzare appieno i prodotti offerti. Aperto nel 2013, il locale catapulta il cliente in uno speak-easy come si deve e, se si considera che bisogna imbucare una viuzza stretta e quasi nascosta e alla fine bussare a una porta del retro di una gastronomia etnica, l’effetto non può che essere più che stupefacente. Una volta entrati colpisce subito l’arredamento da jazz age, ma soprattutto sono sorprendenti i bicchieri e gli accessori per i cocktails. E a proposito di cocktails nulla è lasciato al caso perché i vari barman offrono una selezione con i fiocchi: avete mai bevuto un ‘’Manhattan in Kentucky’’ o un ‘’Milanes’’, se la risposta è no, questo è il posto giusto per farlo. Significativa è anche la descrizione che il locale da di se stesso sulla propria pagina Facebook:

Why the name 1930?
We are at number 19 of the street, and its hidden in a bar called
“Caffetteria 30”. The tram 19 brings in Porta Genova, the tram 30
brings to 1930; we open at 19.30; 1+9+3+0 and equals 13, the day
of the opening of all our places.

Un luogo in cui tutto sembra sospeso tra passato e presente, esclusivo e misterioso, in cui poter bere ottimi drink è veramente un’ottima trovata che consente alle persone di tuffarsi in un’altra epoca e di vivere per qualche ora come al tempo del Gatsby di Fitzgerald.

Cibo in viaggio

Il viaggiatore goloso, che si muove alla scoperta dei piaceri culinari e delle specialità locali, può ora stare comodo e risparmiare chilometri: oggi è il cibo stesso che si sposta sulle quattro ruote; è il cibo dei food truck!
Di che cosa si tratta? Il food truck è attualmente il modo più creativo e dinamico per lavorare nel mondo della ristorazione, altresì un nuovo modo di mangiare e di stare insieme. L’aggettivo “nuovo” non è del tutto corretto: i furgoncini dei gelati non sono novità nel nostro Paese, così come i carretti di caldarroste degli autunni del nord Italia o i prodotti delle friggitorie del nostro Mezzogiorno. La novità dei food truck italiani risiede nell’abbinare ricette, sia della tradizione italiana sia importate, ad un’attenta cura dello stile e a un’elevata qualità delle materie prime. Gli chef del “cibo quattro ruote” scelgono di non esagerare con la disponibilità di pietanze in menù: la tendenza è quella di specializzarsi e di proporre poche e ricercate specialità.
I numeri parlano chiaro: sempre più imprenditori decidono di intraprendere questa via. Le motivazioni stanno sia nella proporzione dell’investimento monetario, decisamente inferiore rispetto a quello necessario per l’apertura di un locale, sia nella voglia di cavalcare l’onda di questo ritorno di fiamma degli italiani per il cibo consumato in strada. Da una parte cresce il numero dei food truck che investono in più unità mobili; dall’altra aumentano le aziende del mondo della ristorazione che richiedono piccoli mezzi itineranti con cui promuovere il proprio marchio per acquisire un numero maggiore di clienti.
Come riconoscere un food truck? Vi guiderà l’olfatto, ma non meno importante il colpo d’occhio: ape-car dalla texture “mortadella”, westfalia dai colori sgargianti ed eleganti furgoncini laccati di fresco; in questi e mille altri modi i proprietari dei food truck decidono di dare spazio alla loro fantasia e rendere unica l’esperienza che offrono.

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Abbiamo chiesto ad alcuni food truckers visti al The Big Food Festival un commento circa la nascita della loro attività e su quale pensano sia il punto di forza del cibo su strada. Ciò che accomuna le loro esperienze è una storia molto recente della loro impresa, tutte nate meno di un anno fa, dalle menti di giovani che avevano più o meno esperienza nel settore della ristorazione. Gli ideatori di Family Food propongono una rivisitazione delle famose ricette della cucina povera romana e laziale, attraverso la creazione di panini gourmet e primi da passeggio dal gusto unico. La loro ricetta è semplice: pensare ad uno street food con prodotti di alta qualità e con preparazioni curate come quelle che farebbe la nostra nonna. Quale il punto di forza del loro inconfondibile truck giallo? Ecco come ci hanno risposto: «Sicuramente la forza del nostro mestiere è il contatto diretto con i nostri clienti, ai quali offriamo cibo sì di strada, ma di qualità. Siamo convinti che non si parli più di “paninari” perché gli ingredienti vengono scelti accuratamente per creare ricette sempre nuove e che soddisfino appieno la ricercatezza degli streetfooders. La nostra forza è portare una cucina semplice ma varia con prodotti d’eccellenza italiana, ad esempio porchetta, mozzarella di bufala, trippa e cacio e pepe. Abbiamo pensato al cibo di strada come quello che ognuno preferisce mangiare a casa propria, in famiglia; infatti anche noi siamo una vera famiglia!»

hamburgeria

Anche i ragazzi di Frish hanno deciso di puntare sulla qualità: «La nostra esperienza nel mondo dei food truck inizia circa sei mesi fa e si sviluppa con l’intento di portare su strada un’altissima qualità di prodotto, abbinata a un’immagine bella e raffinata. Questo perché crediamo che ormai il livello del consumer si sia alzato molto e di conseguenza bisogna essere professionali e pronti nel dare un prodotto che sia all’altezza delle aspettative. Il punto di forza di un food truck è di poter far vivere un’esperienza diversa a portata di mano!» Propongono burger e fritture a base di pesce, uniche e distinguibili da una speciale pastella da loro artigianalmente lavorata.

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Anche l’esperienza della coppia che ha dato vita a Monster Cook Street Food è assai recente: «Il nostro progetto è cominciato sei mesi fa, dopo che insieme al mio compagno abbiamo deciso di mollare i nostri lavori: lui chef ed io pasticcera. Abbiamo intrapreso la nuova strada dello Street Food così da dare inizio ad un nostro sogno: lavorare per noi stessi, per un progetto tutto nostro e fare conoscere la cultura del cibo caraibico, rivisitato e offerto al cliente alla maniera street food. Penso che il punto di forza dello street food stia proprio nella possibilità di poter fare conoscere le proprie tradizioni culinarie, grazie alla possibilità di spostarsi.» Il menù propone frittelle di platano con persico al cocco e salsa di avocado; oltre all’ormai celebre sandwich cubano.

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Nonostante i costi siano inferiori rispetto a quelli richiesti dalla gestione di un ristorante, non sono tuttavia indifferenti: raggiungere festival lontani dalla città di provenienza non è semplice soprattutto se, come i gestori di SorryMama, hai deciso di specializzarti in un prodotto inusuale per il cibo da strada. SorryMama propone infatti un menù di lasagne artigianali, reinterpretando la lasagna classica in chiave moderna. Perché SorryMama? Perché la lasagna di solito la si mangia sempre e solo a casa ed è buona soprattutto quella cucinata dalla mamma! Ci hanno raccontato che specializzarsi nella preparazione di primi è raro: «La nostra esperienza ci insegna che i primi non sono il vero cavallo di battaglia dello street food e dei festival: vanno molto di più hamburger, carne e fritti. Nonostante ciò oggi il truck ci vuole per fare branding e per arrivare dove non arrivi con altri mezzi. Noi abbiamo un ape-car e per ora abbiamo deciso di fare eventi privati e di partecipare a festival non troppo lontani e costosi. Siamo ben inseriti negli eventi milanesi: curiamo quindi eventi, pranzi aziendali, senza dimenticare il nostro ape-car presente in strada a Milano! Punto di forza? Arrivare dove non arrivi con un ristorante.

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Che sia cibo tradizionale, casalingo o fusion la parola d’ordine è qualità a prezzi competitivi. Non da meno lo è il poter offrire un’esperienza culinaria differente, che sta ormai entusiasmando non solo i più giovani. Il successo è confermato dalle recensioni entusiaste degli utenti e dal grande seguito riscosso delle manifestazioni che propongono cibo da strada. Non ci resta che augurarvi buon viaggio e buon appetito!

Route 415, quello che non ti aspetti a 20 km da Milano

L’acqua, elemento essenziale della storia che andiamo a raccontare, scorre inesorabile e, come il tempo, passa e trasforma. Anni e secoli che lentamente modificano, rivoluzionano un territorio. Spesso l’urbanizzazione caotica ha portato con sé la cancellazione della memoria di luoghi e storie.

Da qui nasce il progetto Paullese Route 415, dalla necessità di conservare le ricchezze, talvolta poco conosciute, di un territorio così vicino ad una grande città europea, Milano, ma ancora così lontano da essa per panorami, colori e ambienti.

http://www.paullese415.it/
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«A noi» mi racconta il Sindaco Federico Lorenzini  «il compito di promuovere e sviluppare il nostro territorio. Registrando il marchio, il Comune di Paullo ha dato concretezza all’idea; ora con l’aiuto della società Weblizt stiamo provando a sviluppare il brand, utile a raccontare le bellezze di luoghi spesso poco conosciuti».

L’idea piace alle amministrazioni locali: per il momento sono otto i Comuni coinvolti nel progetto, si spazia da Peschiera Borromeo in provincia di Milano fino a  Castelleone in provincia di Cremona. Insomma, la bassa Lombardia sembra unita trasversalmente da un’unica visione.

Intervistando Marco, socio della Weblizt, ci si rende subito conto di quali sono i valori comuni che stanno unendo le forze pubbliche e private all’interno di questo scenario. La sostenibilità ambientale è una di queste, unita alla volontà di restituire ai cittadini la condizione di fruibilità di splendidi luoghi culturali incastonati in paesaggi rurali, dove la natura regna e non arretra.

Per dirla con le parole del Sindaco di Paullo, Comune titolare del progetto: «La strada paullese è un’importantissima arteria della Lombardia centrale, resta a noi il compito di far capire che fuori da quella linea di cemento c’è un mondo».

http://www.paullese415.it/
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Già, un mondo dove si uniscono boschi tutelati, castelli e santuari medioevali, antichi corsi d’acqua. Ma non solo: elemento aggiunto delle visite a questi territori è l’enogastronomia, ricca di storie e sapori delle pietanze senza tempo di questi luoghi in cui da sempre vengono cucinati.

E così, da queste premesse tutte “green” ha preso forma quella che era solo una visione. I percorsi, esclusivamente ciclabili, sono stati mappati, possiedono una partenza definita e  destinazioni condivise, narrate e illustrate. Ora, per chi fosse alla ricerca di svago e relax dalla monotonia urbana e dal grigiore del proprio ufficio, potrà tranquillamente studiare l’itinerario più incline ai propri interessi e alle proprie necessità.

http://www.paullese415.it/
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Accedendo direttamente dal portale, infatti, chi parte da Crema potrà scegliere di far visita al Castello di Pandino, percorrendo – pardon, rigorosamente pedalando – per una trentina di chilometri in compagnia delle guide locali. Oppure, con partenza da Paullo, si potrà far visita all’Oratorio Bramantesco di Rosate, costruito nel Quattrocento, dopo per aver visitato il santuario di San Giovanni del Caladrone, le cui tracce si perdono nella storia. Le prime notizie del luogo risalgono addirittura al 1261, secondo le antiche testimonianze trascritte su di una pergamena conservata nell’Archivio Vescovile di Lodi.

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Ma questo, come dicevo, è solo una delle tante storie di questo pezzo di pianura, dove storia, arte e sacralità si mescolano danzando con la natura, rivendicando la loro presenza. A noi allora il compito di dar voce, ammirandole; scoprendo che basta così poco per innamorarci ed emozionarci così tanto.

Fotografare fotografi: ritratti di turisti asiatici a Milano

Il turismo asiatico in Italia e in Europa sta acquisendo anno dopo anno una fetta sempre più ampia del turismo globale. L’importanza economica del fenomeno non è affatto marginale: molti Paesi europei hanno infatti scelto di investire in questo ramo del turismo, snellendo le procedure burocratiche per i viaggiatori e aumentando il personale parlante cinese-mandarino.

E fra le tante città europee visitate, Milano è da tempo una delle mete favorite. Un giro nel centro della capitale meneghina e si ha subito la conferma di questo trend, con insegne in giapponese e cinese nelle vetrine e commessi multilingue. Infatti, se in generale la Lombardia è la meta più ambita per lo shopping dagli stranieri, cinesi e giapponesi  fra tutti sono quelli che spendono di più durante le loro visite, specialmente nell’alta moda.

Ma a contraddistinguere il turista asiatico medio a Milano come altrove non sono soltanto le mille borse e pacchetti, frutto dello shopping nei negozi più costosi delle vie della moda, ma anche l’immancabile macchina fotografica. E soprattutto chi viene dal Giappone, patria di Nikon e Canon, sfoggia un’attrezzatura professionale da fare invidia, spesso impiegata per fotografare ogni singolo dettaglio, dal piccione di fronte al Duomo ai piatti di spaghetti. Questa frenesia nello scattare non è da imputare, come spesso si è detto malignamente, alla volontà di appropriarsi delle amenità occidentali per riproporle in patria attraverso l’imitazione: semplicemente lo sviluppo di rullini e l’acquisto di apparecchi fotografici è da sempre meno costoso in Asia, mentre in Europa soltanto l’avvento del digitale ha reso la fotografia meno proibitiva.

Abbiamo fatto un giro in Piazza Duomo a Milano, per immortalare i turisti asiatici intenti nella loro attività preferita. Che si tratti di una reflex o di uno smartphone con tanto di bastone per i selfie, la missione rimane sempre la stessa: scattare a più non posso per non dimenticarsi neanche un istante del proprio viaggio.

 

Il caffè americano in Italia: welcome Starbucks?

Il caffè è il prodotto più scambiato al mondo, secondo solo al petrolio sui mercati finanziari del pianeta, e con una produzione mondiale di 5,9 milioni di tonnellate. Quanto al consumo di caffè, ogni giorno in tutto il mondo se ne bevono quattro miliardi di tazzine. Apprezzato quasi quanto l’acqua, nel mondo esistono molteplici modi per produrlo. Dal 1885 l’Italia è considerata patria dell’amara bevanda grazie al brevetto internazionale dell’imprenditore torinese Angelo Moriondo, inventore della macchina per il caffè espresso. Sebbene al 7° posto della classifica europea sul consumo giornaliero, i dati presentati dalla Fipe – Federazione Italiana Pubblici Esercizi, sottolineano come l’Italia si gusti ogni anno 6 miliardi di tazzine espresso e cappuccini, servite in oltre 200.000 bar con un giro di affari intorno ai 6,6 miliardi di euro.

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«La caffetteria al bar è un prodotto di punta e rappresenta oggi il 30% del fatturato complessivo», dichiara Luciano Sbraga, direttore dell’Ufficio Studi Fipe. «Un dato che sancisce il ruolo fondamentale del bar nei consumi fuori casa e fa in modo che alcune grandi catene internazionali del settore non siano ancora entrate nel mercato italiano». Affermazioni datate febbraio 2016 e subito smentite dall’annuncio di Howard D. Schultz, presidente e CEO della famosa catena di caffetterie Starbucks, nei primi giorni di marzo di quest’anno, che aprirà il suo primo bar in Italia agli inizi del 2017 nel centro di Milano, sebbene per ora non si sappia ancora l’indirizzo esatto. Catena internazionale fondata nel centro di Seattle nel 1971, l’idea di creare Starbucks venne in mente a Schultz durante un viaggio fra Milano e Verona, lungo il quale rimase affascinato dall’immagine del bar italiano, dalla passione che il nostro Paese riserva alla preparazione della bevanda e dall’inconfondibile gusto espresso che, una volta ritornato a casa, adattò al mercato statunitense. La catena del famoso caffè americano ha seguaci in tutto il mondo, tanto che Shultz possiede oggi 24 mila negozi in 49 Paesi sparsi per il globo.

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Distribuzione di Starbucks nel mondo.

Cosa significa introdurre il caffè americano in Italia? Secondo i dati di Euromonitor il 90% delle caffetterie sono indipendenti, e fino a oggi i colossi internazionali (per esempio McDonald’s McCafe) non hanno sfondato. Assolutamente ottimista è invece il Gruppo Percassi, business company promotrice non solo di questa catena americana, ma anche di altre importanti partnership internazionali. Il proprietario è l’imprenditore bergamasco Antonio Percassi, scelto come licenziatario unico di Starbucks in Italia e che diventerà a breve proprietario e gestore dei locali.

3La sfida sarà riuscire a vendere un prodotto all’interno della forte “tradizione italiana” guidata dall’espresso: forse sarebbe il caso di comprendere la differenza fra un prodotto e un servizio. Per quanto riguarda il prodotto, il primo Starbucks italiano si adatterà alla nostra cultura, inserendo nel menù piatti tipici italiani e servendo una miscela di caffè creata appositamente per i gusti dei milanesi; altresì la struttura interna del locale, che riprodurrà il classico bancone da bar all’italiana. Scelta fondamentale se si vuole concorrere coi prezzi della nostra tazzina, che sta “sempre” attenta a non superare il costo di un euro. Shultz infine, da bravo imprenditore, ci tiene subito a sottolineare al Magazine del Sole24Ore che «Starbucks non arriva in Italia con la pretesa di insegnarvi a tostare il caffè o a consumare un espresso» ma «ci arriva con grande umiltà per presentarvi la nostra interpretazione del caffè, la cui componente essenziale è quella di creare un senso di comunità, di terzo luogo, tra casa e posto di lavoro».

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Il servizio di Starbucks non si limita solo ad ampliare l’offerta delle nostre caffetterie. La forza della sua prossima apertura giocherà indubbiamente sul servizio offerto alla clientela milanese: la presenza del wi-fi (non sempre presente dei nostri bar), la vendita di dischi e riviste, ampi spazi dedicati non solo al relax o alla condivisione. Il bar italiano medio è invece concepito per una clientela dotata di un numero ignoto di pause caffè, comunque non superiori ai cinque minuti. Strabucks cerca invece di dare risposta a quelle fascia di lavoratori che oramai va per la maggiore: i liberi professionisti. «Il piccolo dettaglio fin troppo trascurato è che la clientela liquida di chi non ha orari da ufficio tradizionale è in aumento, mentre l’altra in diminuzione», scrive il direttore Massimiliano Tonelli su “Gambero Rosso”.

Il fascino dell’occidentale caffè americano potrebbe dunque lusingare la clientela italiana, abituata almeno fra le nuove generazioni a usufruire della catena Starbucks all’estero. La prossima apertura, in una delle città più europee d’Italia, saprà sciogliere o confermare lo scetticismo di molti.

Combattere la noia è l’arte del pendolare

Quest’anno riprendo l’università. Ed inesorabile riprende la mia vita da pendolare.

Abitando in un paesino alle pendici di quella che si definisce alta valle e dovendo raggiungere la grande metropoli capoluogo lombardo, la scelta di spostarsi con i mezzi pubblici rappresenta una sfida che vuole una certa preparazione: si tratta complessivamente di un viaggio quotidiano di 8 ore, divise tra andata e ritorno; impegnarle è praticamente un lavoro per cui è bene organizzarsi.

Negli anni ho ormai fatto mia l’arte del pendolare, attitudine del “fuorisedemanontroppo”, prigioniero di un limbo dove non si è degni d’un appartamento, la patente di guida diventa inutilizzabile e le proprie gambe non bastano più. Quantomeno pensavo di averla fatta mia! Ma c’è sempre un giorno in cui l’automatismo delle nostre azioni fallisce; quel giorno, nella vita del pendolare si apre uno spazio per il più temuto nemico: la noia.

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Arrivando alla fermata dell’autobus quando ancora non ha finito di ritirarsi il buio della notte e solo grazie al passaggio di alcuni magnanimi lavoratori su turni, è difficile trovare la forza per abbattersi di fronte all’evidenza che l’iPod (estratto da una borsa sovraccaricata, dopo infinitesimali istanti di ricerche quasi geologiche, in virtù del ritardo dei mezzi) ha la batteria scarica. Poco male: è troppo presto per agitarsi, ma anche per tenere gli occhi aperti; l’arrivo del bus è accolto da me e dai pochi miei compagni d’attesa come fossimo a fine giornata, all’ora del meritato riposo. Finalmente si dorme!

Il risveglio è un vero e proprio trauma: ancora non è giorno e noi a occhi chiusi, come bestiame al pascolo, ci seguiamo dall’autobus al tram. Inizio a svegliarmi quel tanto per aver la forza di stupirmi ancora una volta del fatto che, fossimo tra fine ‘800 e inizio ‘900, non dovrei darmi la pena né di svegliarmi per attraversare a piedi la strada e cambiar mezzo né tantomeno di calcolare i minuti di ritardo che l’autista dell’autobus non potrà evitare sulla strada provinciale. Prima dell’era del petrolio, due tram attraversavano le valli bergamasche per raggiungere il capoluogo provinciale; così come altre infrastrutture italiane, sono state dismesse negli anni ‘50 per far spazio ad automobili e cemento ed ora le si vorrebbe indietro.

Affronto il troncone di ferrovia ricostruito nel 2009 tentando invano di riprender sonno e fissando invidiosamente gli altri passeggeri: quasi tutti assorti nella musica che passa dagli auricolari, molti a occhi chiusi, qualcuno concentrato sul telefono, probabilmente in qualche social network. Mi preparo per la prossima ora di treno, cercando nella borsa un libro da leggere, ma ancora una volta la fortuna non mi assiste: sul mio comodino sono rimasti sia il romanzo che cercavo sia il libro di testo che sto studiando. Ho con me solo testi da riconsegnare e appunti già ripassati.

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Per il resto del tragitto, la mia unica attrazione sono gli altri viaggiatori.

Quasi tutti dispongono di un mezzo tecnologico, la maggior parte di uno smartphone, alcuni di un portatile; sprovvista di un telefono munito di connessione internet, a quest’ora del mattino mi sento esclusa dal mondo, che sembra essersi spostato nella dimensione virtuale. Tento di spiare gli schermi attorno a me: Candy Crush Saga regna sovrano; mi tornano alla mente i Polly Pocket e i Mini Pony dei viaggi per il mare con mamma nei primi anni ’90: i colori e le forme sono ancora gli stessi, rimasti immutati nel passare del tempo e delle evoluzioni tecnologiche. Al tempo, i genitori compravano i Tamagotchi, i primi diari elettronici, i Gameboy per i figli; oggi genitori e figli stringono alleanze, si regalano frutta, si scambiano vite in forma virtuale.

Ancora stretto il legame tra tecnologia e informazione: le notizie fioccano tra i pixel, s’ingrandiscono sotto i polpastrelli. Qualcuno ancora sfoglia i giornali, per lo più approfittando pigramente dei fogli lasciati agli ingressi delle stazioni, ma la maggior parte dei pendolari si affida alla rete e velocemente scorre da un contenuto all’altro.

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Ultima tappa: metropolitana milanese.

La capitale dell’industria non delude e mi regala immagini di pura attualità: uomini e donne in carriera si tuffano nei treni avvolti da cuffie insonorizzanti, discutendo dentro microfoni invisibili, gesticolando su multitouch screen, sfogliando pagine letterarie su opachi kindle.

Stretto tra loro, un giovane universitario si mantiene perfettamente in equilibrio al centro del corridoio, stringendo tra le mani un libro su cui spicca il sigillo della biblioteca. Questa è la vera arte del pendolare.

Storie di Non-Mafia

Parlare di mafia non è facile ma nel 20° anno di celebrazione della Giornata della Memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, c’è bisogno di raccontare; raccontare storie, di vittoria e di rinascita perché la mafia può essere vinta.

Il punto di vista è diverso, è quello dei beni confiscati, di quei possedimenti che non sono paragonabili a nessun’altra tipologia di bene e che rappresentano, simbolicamente, il potere dei boss cui apparteneva e della loro invasività nel controllo del territorio.

Girando per Milano si possono incontrare delle realtà differenti come Opera in fiore una cooperativa agricola sociale, assegnataria di un terreno confiscato, che promuove il lavoro nelle carceri con laboratori e programmi di formazione, anche Unkode Lab lavora per l’inserimento nella società di persone con difficoltà ed ex detenuti strizzando però l’occhio al mondo della moda, oppure il Bar Balzo (in copertina) ex edicola ‘ndranghetista che oggi offre un’esperienza fuori dall’ordinario con un diversamente aperitivo e camerieri speciali dai sorrisi inebrianti, o ancora, l’Associazione Terza Settimana e il suo Social Market, che del negozio d’alta moda dietro cui si nascondeva il traffico di cocaina non ne è rimasto nulla e lo stesso vale per il magazzino di Aromi a tutto campo, gastronomia take away di cucina vegetariana e vegana.

Cooperativa agricola sociale Opera in fiore, via Ettore Ponti 13, Milano

Queste sono solo alcune, tante altre sarebbero le storie da ascoltare, oltre che per la bellezza anche per comprendere le difficoltà che operatori e responsabili devono affrontare. Troppo lunghi i tempi che intercorrono fra sequestro, confisca, destinazione e assegnazione del bene, troppo complesse le normative e nessun aiuto economico, ma su tutto, a vincere, sono la gentilezza e il sorriso di chi ha fatto della propria vita e lavoro un punto di riferimento per aiutare gli altri.

Cooperativa agricola sociale Opera in fiore
Cooperativa agricola sociale Opera in fiore

 

Unkode Lab, via Vallazze 26, zona Lambrate, Milano
Unkode Lab

 

Bar Balzo, via Ceriani 14, Milano
Bar Balzo

 

Associazione Terza Settimana – Social market, via Leoncavallo 12, Milano
Associazione Terza Settimana – Social market Milano

 

Aromi a tutto campo, via Passerini 18, Milano
Aromi a tutto campo

 

Arlecchino part-time

≪Arlecchino era un mezzo diavolo, ha a che fare coi sogni, quelli che ritrovi in certe persone≫

   Intervista a Paolo Rossi – Andrea Pocosgnich

 

Nella settimana del carnevale non si può non pensare alla figura di Arlecchino, prima espressione del mascheramento, con la sua tunica di pezze colorate e la maschera demoniaca.

Egli nella Commedia dell’Arte è uno Zanni (antica maschera bergamasca) un servo, buffo ma soprattutto furbo, in grado di mandare avanti l’azione improvvisando e rinnovandosi di volta in volta, nella Commedia dell’Arte come nella vita.

Oggi l’Arlecchino, furbo e benevolo, è tornato all’attualità, non solo per l’impresa dei grandi registi contemporanei di rimettere in scena il teatro delle maschere, quanto più come riflesso di un atteggiamento sociale.

Gli Arlecchini nel 2016, sono quelli che tentano di capire come difendersi da una situazione economica, sociale e civile; tanto difficile da non permette di intravedere soluzioni o vie d’uscita. Con prontezza e scaltrezza, giovani e meno giovani, si reinventano per adattarsi e sopravvivere in un mondo in cui il problema principale oltre alla crisi economica è il cibo e la mancanza di materie prime, una società tanto malata che nonostante ciò non sa vedere oltre i concetti di guadagno, successo e visibilità; ma fortunatamente ci sono gli Arlecchini che tentano il confronto e cercano di fare discorsi intelligenti, per smuovere una coscienza critica reincarnandola nella satira.

È questa la situazione dei tanti migranti sociali, intesi non solo come quelli che lasciano la terra natia alla ricerca di nuove vie, ma anche di quelli che per andare avanti cambiano lavoro ogni mese, si mettono nelle mani delle agenzie interinali, sfruttano ogni occasione e non si lasciano abbattere; è la società dei freelance, collaboratori esterni, di quelli con la partita iva, compenti e capaci; che saranno la svolta per una civiltà che guarda al cambiamento.

 

Una cantata anarchica per De André

Erano tante le persone che lunedì sera, nonostante il freddo e la minaccia di pioggia, si sono incontrate in piazza del Duomo, a Milano, per omaggiare, con le sue stesse note e parole, una delle voci più amate del cantautorato italiano, quella di Fabrizio de André, nel giorno del diciassettesimo anniversario della sua morte.

Tra chitarre, percussioni, abbracci e bottiglie di vino si è svolta la Cantata Anarchica, un raduno che, nato spontaneamente, da cinque anni a questa parte è diventato tradizione consolidata e richiama sempre più gente, di ogni età e provenienza: c’erano giovani e meno giovani, italiani e stranieri; c’era chi sapeva suonare, chi sapeva cantare, e anche i meno intonati, al suono delle parole di Faber, si sono uniti al canto, che è durato dalla sera fino a mattina.

La partecipazione di una tale quantità e varietà di persone è la dimostrazione di come la poesia di De André, per un poco, senza pretese, sia riuscita ad entrare nel cuore di molti, in modi e momenti diversi, e rimanga viva anche oggi.

 

EXPO: aspettative e prospettive di una grande opera italiana

A meno di due settimane dalla chiusura, Pequod torna a parlare di Expo 2015 per riflettere sulle problematiche che hanno segnato la sua storia e capire cosa resterà del grande evento quando si spegneranno i riflettori e i turisti andranno altrove.

Il punto (interrogativo) sui visitatori

La notizia è di questi giorni: Expo 2015 ha tagliato il «traguardo minimo obbligatorio» dei 20 milioni di visitatori. Pochi ci avrebbero scommesso all’inizio, quando le previsioni “expottimiste sui 4-5 milioni di entrate nei primi mesi risultarono, nei fatti, più che dimezzate: l’amministratore delegato Giuseppe Sala aveva diffuso dati “gonfiati” e indifferenziati, includendo biglietti omaggio, volontari e addetti ai lavori. Così è partito il tormentone degli sconti sui biglietti, dai 10 € per gli universitari all’omaggio a persone con imponibile inferiore ai 10 mila euro annui, fino al recentissimo 2×1. Grazie a una campagna pubblicitaria pervasiva, Expo chiuderà con più di 100.000 visitatori al giorno, con il picco dei 259.093 del 26 settembre.

«Non che i numeri siano il fattore principale», dichiara soddisfatto Sala. Ma intanto pensa a un nuovo obiettivo: abbiamo fatto 20, facciamo 21 (milioni).

Code interminabili all’ingresso di Expo, così lunghe che un cittadino romano non è riuscito a visitare i padiglioni e si è rivolto al Codacons: è la prima causa italiana contro Expo.
Code interminabili all’ingresso di Expo, così lunghe che un cittadino romano non è riuscito a visitare i padiglioni e si è rivolto al Codacons: è la prima causa italiana contro Expo.

«Sicurezza» sul lavoro

Le polemiche sui contratti “pirata” giocati al ribasso avevano chiarito agli aspiranti lavoratori prima dell’inaugurazione che non sarebbe stata Expo 2015 a garantire la sicurezza di un impiego. Ma non ci si aspettava nemmeno che per «motivi di sicurezza» si potesse negare il pass o licenziare un neoassunto. Tra i 70 mila dipendenti ignari sottoposti a controlli di polizia, 680 sono stati segnalati dalla Questura di Milano per pendenze risolte o senza ragioni. Dopo i primi ricorsi, il vertice del 23 giugno tra sindacati ed Expo spa decide per la revisione dei profili “non idonei” e il possibile reintegro di 200 persone. Peccato che molte, ormai, avevano perso il lavoro.

Il vero problema è nel metodo per Antonio Lareno, delegato Cgil all’Expo, «quello per cui si possa andare a cercare nel passato di una persona per decidere se darle il diritto di lavorare oppure no».

Per chi il lavoro l’ha ottenuto, comunque, i disagi non sono mancati. Su Change.org è ancora aperta la petizione per chiedere più tornelli e parcheggi riservati, precedenza sulle navette e ai punti ristoro. Ma la fine del mese è vicina, è già tempo di pensare a un nuovo impiego.

 Il volantino dell’organizzazione San Precario, che offre assistenza ai lavoratori precari di ogni tipo, anche agli assunti di Expo
Il volantino dell’organizzazione San Precario, che offre assistenza ai lavoratori precari di ogni tipo, anche agli assunti di Expo

Toto-Expo: l’eredità materiale di Expo 2015

Partiamo dalle buone nuove. Il successo estivo della Darsena fa ben sperare sulla riuscita dell’opera di riqualificazione dell’area: prosegue il piano di pedonalizzazione e si azzarda di arrivare fino a via Tortona; alla movida serale si potrebbero affiancare gare di vela e canoa e le attività di Mercato Metropolitano.

Le proposte più quotate per il dopo-Expo sono la nuova Città Studi dell’Università Statale, con un campus, residenze per studenti e strutture per la ricerca; ma anche la “Silicon Valley” di Assolombarda, un parco tecnologico sull’agroalimentare. E l’Albero della Vita? Lasciarlo dove si trova o portarlo in piazzale Loreto, in Darsena, a Rho? Ma soprattutto, chi ne sosterrà le spese?

Mentre il piano di smantellamento partirà a novembre, il governo sembra voler rilevare le quote di Arexpo per investire sul futuro del sito. Poche certezze per ora, a parte l’attenzione dei cittadini milanesi, lombardi, italiani che chiedono trasparenza: sulla rifunzionalizzazione dell’immensa area e lo smaltimento dei rifiuti speciali, ma soprattutto sul rispetto del protocollo di legalità. Perché non si ripetano le storie di corruzione che hanno macchiato Expo 2015 (tra gli ultimi lo scandalo dell’appalto truccato per Palazzo Italia e il commissariamento di Set Up Live, l’azienda che si è occupata dell’allestimento dei cluster, sospettata di rapporti con la ‘ndrangheta). Perché non si sprechi l’occasione di lasciare alla collettività, principale finanziatore dell’impresa, spazi rinnovati e fruibili.

Il grande sito dell’Esposizione milanese, esteso per 1milione e 100mila metri quadrati…
Il grande sito dell’Esposizione milanese, esteso per 1milione e 100mila metri quadrati…
… e l’Albero della Vita
… e l’Albero della Vita

Carta in tavola: l’eredità culturale di Expo 2015

Nutrire il pianeta, energia per la vita, ovvero salvaguardia delle biodiversità, pratiche agricole sostenibili e diritto al cibo. Questi i temi di cui l’Expo milanese doveva farsi promotrice, ma sembra che, per quanto i padiglioni si siano ispirati alle linee-guida (e non sempre è così evidente), ben poco sia stato percepito dai visitatori. Così la pensa una visitatrice “speciale”, Sara Pezzotta. Appena tornata da 6 mesi di lavoro in Sud Sudan, è stata catapultata nella sfavillante fiera per rappresentare le attività dell’onlus Tonjproject.

«Ho visto molta contraddizione. Ho visitato i padiglioni dei Paesi africani: sembravano delle attività puramente commerciali». Un’altra amara scoperta lo spazio di Save the children, che illustra la cruda storia di un bimbo africano che soffre la fame: «Molto forte, ma troppo “spettacolarizzata”». E infine il supermercato tecnologico di Coop: «Pensavo fosse una provocazione. Tocchi un prodotto e un pannello interattivo ne mostra origine e proprietà. A prendere la frutta ci pensa un braccio meccanico. Uno scenario futuristico angosciante». Più confortante l’«interattività sobria» dei percorsi sensoriali di Slow Food.

L’impressione è che Expo 2015 abbia sacrificato i grandi temi in nome dell’autopromozione dei singoli Paesi e dello spettacolo visivo. Non ci si aspettava una rivoluzione delle coscienze, ma la coerenza di essere i primi promotori del cambiamento che si auspica nel mondo.

Il possibile riscatto è la Carta di Milano, documento sottoscritto da autorità di tutto il mondo e cittadini comuni, discussa l’11 ottobre tra 26 tavoli tematici. Grande assente, per Caritas Internationalis, è «la voce dei poveri»: manca una strategia per la risoluzione di problemi come «la speculazione finanziaria, l’accaparramento delle terre, la diffusione degli Ogm e la perdita di biodiversità». Gli obiettivi a lungo termine di questo grande evento sono ambiziosi e impegnativi: speriamo non rimangano solo parole sulla carta.

#MilanoFilmFest: Intervista a Sarah Saidan, le donne in Iran e l’animazione

Sarah Saidan è una giovane e promettente animatrice e regista: quest’anno ha presentato un cortometraggio al Milano Film Festival dal nome Beach Flags – Une épreuve de sauvetage, con cui ha già partecipato al Festival di Cannes, al Sundance Film Festival e ha vinto il Premio Amnesty al Giffoni Film Festival.

In Beach Flags Sarah racconta la storia di Vida, una giovane bagnina iraniana, che vuole partecipare a una competizione internazionale in Australia. Quando Sareh si unisce alla squadra delle bagnine, le cose iniziano a cambiare per entrambe.

Pequod ha intervistato in esclusiva Sarah, per sapere qualcosa di più sulla sua vita e sul suo piccolo e curatissimo capolavoro.

 

Sarah, quando hai iniziato ad amare l’animazione?

«Amo l’animazione sin da quando sono bambina, come tutti a quell’età, ma non avrei mai pensato che un giorno avrei potuto far parte di questo mondo! Così, quando studiavo Graphic Design, ho frequentato un corso di animazione, ma dal momento in cui ho visto i miei disegni muoversi non ho avuto più dubbi: ho deciso che sarei diventata un animatore, anche se a quel tempo pensavo che non sarebbe stato facile.

Dopo circa dieci anni, grazie a Sacrebleu Productions, ho finalmente avuto la possibilità di avere il giusto budget e un vero team per realizzare il mio primo cortometraggio professionale, che è stato per l’appunto Beach Flags nel 2013. Tutto quello che ho fatto prima sono stati piccoli corti senza budget e quasi senza alcuna diffusione».

Quando e perché hai deciso di raccontare la storia di Vida?

«La situazione delle donne atlete in Iran mi ha sempre interessato. Vivono in una condizione difficile, specialmente le nuotatrici: ho parlato molte volte con loro e mi hanno raccontato di come non possono essere viste in costumi da bagno in luoghi pubblici e di come non possano prendere parte a competizioni internazionali, perché a loro non è permesso. Questo, per me, è oltraggioso.

Un’amica, un giorno, mi ha raccontato che sorprendentemente le bagnine iraniane avevano vinto in una specie di competizione per guardaspiaggia. Non riuscivo a capire come fosse stato possibile, ma dopo qualche domanda ho scoperto che in queste competizioni per bagnine ci sono molti giochi, e uno in particolare è chiamato Beach Flags: una corsa di 20 metri sulla sabbia per raccogliere delle bandierine. Siccome la competizione non ha luogo in acqua, le ragazze possono partecipare con il velo e completamente coperte.

Questa era una buona notizia, ma allo stesso tempo ho avuto in mente quest’immagine ironica delle nuotatrici, che corrono sulla spiaggia ma non posso partecipare alle competizioni di nuoto… Dovevo fare qualcosa con quest’immagine che non avrebbe lasciato la mia mente».

 

 

Con quale dei tuoi personaggi di Beach Flags ti identifichi di più? Con Sareh o con Vida?

Non so, penso con entrambe. Vida è assorta nel pensiero della vittoria, è molto competitiva e ha grandi sogni: corre per vincere. Sareh ha enormi difficoltà nella vita, lei sta scappando, non ha letteralmente altra possibilità. Alla fine queste due ragazze scoprono che entrambe corrono per la stessa causa, la quale le porta a qualcosa di significativo per entrambe.

 

 

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Al momento sto lavorando a un cortometraggio per TED-ED, ma allo stesso tempo anche alla storia e al copione del mio prossimo film, che tratterà ancora di una donna e del suo vissuto.

Non ci resta che augurare buona fortuna a Sarah Saidan per il suo lavoro, perché di questa talentuosa ragazza sentiremo parlare ancora in futuro! Chissà… Oggi su Pequod, domani agli Oscar!

#MFF – Linea Gialla, una fotografia di Milano che cambia

In occasione dei suoi sessanta anni, MM (Metropolitana Milanese) in collaborazione con il Milano Film Festival, presenta Linea Gialla, quattro proiezioni, tre lungometraggi e una serie di cortometraggi dove Milano e il genere noir/giallo sono il filo conduttore.

Con la scelta di queste pellicole hanno costruito una fotografia di Milano che mostrata la trasformazione che nel corso degli anni la città ha vissuto. Linea Gialla si apre con Milano Nera di Gian Rocco e Pino Serpi, film-caso dei primi anni sessanta, lo sceneggiatore, che era Pier Paolo Pasolini, ritrattò poi il suo contributo per apparire solo come collaboratore. Il Film conserva però lo “sguardo” di Pasolini, perfetto per inquadrare i margini della società milanese mentre il boom rilevava le sue contraddizioni.

Vermisát di Mario Brenta, è invece un disperato ritratto di un ex contadino senza fissa dimora e senza lavoro che per vivere raccoglie vermi nei fossati del milanese per venderli come esche ai pescatori. Si ammala ma non si fida degli ospedali e delle loro medicine, si affida alle cure di un ciarlatano, il Medicon, che gli fornisce delle medicine, fasulle, in cambio di sangue.

La città che sale, una serie di cortometraggi di autori milanesi sulla città: scorci di vite vissute e in divenire, e di luoghi familiari.
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Ieri sera è stata la volta, invece, di  A casa nostra, in ordine cronologico si può considerare come ultimo film di questo percorso; del 2006, è diretto da Francesca Comencini con Valeria Golino, Luca Zingaretti, Giuseppe Battiston, Laura Chiatti e Luca Argentero. È una fotografia spietata di una Milano degli anni duemila, dove se hai il denaro, di conseguenza, hai il potere, e ogni personaggio raccontato ha una propria ossessione.

Racconta diverse storie, vite parallele che non s’incroceranno mai, e il denaro protagonista di tutto; denaro per acquistare oggetti, sentimenti, vite, favori, potere. Nel finale invece tutte le micro-storie si incrociano. Il potere e il denaro subiscono una sconfitta, l’amore e la giustizia, ottengono un parziale riscatto.

Il personaggio di Valeria Golino, Rita, nella scena del primo confronto faccia a faccia con Ugo (Zingaretti), dice una frase che nell’arco di nove anni non è diventata vecchia e rappresenta la voce di molte persone: «No, voi, come vi permettete! Pensate di fare come vi pare, eh? Ma questo paese è anche casa nostra».

Linea Gialla racconta perfettamente con l’uso delle storie raccontate nei vari film, il cambiamento che Milano ha vissuto e che tuttora è in corso.

XXth Milano Film Festival: la città e le storie

Si è ufficialmente aperta con la conferenza stampa a Palazzo Reale la ventesima edizione del Milano Film Festival, il sempre più atteso appuntamento del capoluogo lombardo con il cinema internazionale. Un appuntamento che negli anni ha saputo offrire eventi unici che lo hanno ampiamente ripagato in termini di pubblico e sponsor e che oggi lo rendono uno dei festival culturali più interessanti in ambito cinematografico.

Lontano dallo stile red carpert, il Milano Film Festival è un festival di storie e sguardi da tutto il mondo che specie nell’anno di Expo ha saputo coinvolgere e intrecciare lingue e culture differenti in un cinema etico ed estetico allo stesso tempo. E nasce sempre da questo desiderio di apertura e connessione al mondo il progetto del Milano Film Network, la rete che unisce l’esperienza e le risorse dei sette festival cinematografici di Milano (Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina, Festival Mix Milano, Filmmaker, Invideo, Milano Film Festival, Sguardi Altrove Film Festival, Sport Movies & Tv Fest) per una città che non sente mai la mancanza del grande evento ma vive il cinema tutto l’anno.

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La ventesima edizione del MFF si snoda attraverso varie sezioni: Concorso lungometraggi, Concorso cortometraggi, le varie rassegne (Colpe di stato, The Outsiders, Breathe.Austria, Linea Gialla), e i focus (dedicati all’animazione, al documentarista Nikolaus Geyrhalter, al regista francese Jean-Gabriel Périot e allo svizzero Nicolas Steiner).

Il MFF è senza dubbio un’occasione per vivere il cinema e la città in un connubio perfetto che ha portato ad estendere sempre di più le location utilizzate e a coinvolgere il pubblico: tra le novità di quest’anno la “proiezione segreta”, il gioco che coinvolgerà il pubblico in una sorta di caccia al tesoro cinematografica, snocciolando nei prossimi giorni indizi circa luogo di proiezione e film in questione (che possiamo anticiparvi sarà un’anteprima assoluta).

Ma il MFF è anche e soprattutto un festival giovane. Giovane per i tanti eventi musicali in programma, ma giovane anche perché da sempre interessato ai registi alle prime armi. A tal proposito, assolutamente da non perdere gli incontri della sezione Schermi di classe, dedicata ai progetti in collaborazione con le università milanesi (in particolare: Accademia di Brera, Politecnico di Milano, IULM e Università degli Studi di Milano) e le scuole di cinema della città (Centro Sperimentale di Cinematografia e Civica Scuola di Cinema).

Infine da seguire anche le proiezioni al “Salon des refusés”, lo spazio allestito alla Scatola Magica per dare voce anche alle opere non ammesse al festival. Insomma tanti gli appuntamenti dal 10 al 20 settembre; il programma più dettagliato potete trovarlo al link seguente: MilanoFilmFestival.

 

 

Nella terra dei Taxi: Uber? Forse…

25 Maggio 2015, Tribunale di Milano: “Uber concorre slealmente contro i taxi”. Così pare essersi pronunciato, almeno in via preliminare, il Giudice chiamato a valutare la portata operativa e la modalità con la quale l’azienda di San Francisco gestisce i suoi contatti e distribuisce cittadini a suon di passaggi tra le più importanti città italiane del nord (Torino – Milano – Genova) e non solo.

L’entrata in scena della società americana sul palcoscenico della mobilità urbana ha indubbiamente modificato le nostre abitudini in tema di trasporti. In passato si arrivava alla stazione della città e scesi dal treno si poteva optare per il consueto, quanto molto spesso vetusto servizio pubblico, o in alternativa, per il taxi. I più avventurosi potevano invece immolarsi con improvvisati autisti abusivi, divenuti in seguito popolari, persino nelle macchiette della commedia italiana.

Tutto questo era prima, poi vennero la connessione di rete mobile, i social, gli smartphone e le loro app, questo neolinguaggio, questa costante interattività, ha permesso lo sviluppo di canali di contatto ancora da dover normare completamente, perché fortemente in contrasto con vecchi schemi mentali, ancora non totalmente pronti o più verosimilmente ancora troppo corporativi per accettare il cambiamento.

Il semplice fatto che dei privati, puntualmente registrati su una stessa piattaforma tecnologica, si organizzino per muoversi, accompagnarsi dietro concordato obolo, agita le compagnie di Servizio Taxi e il perché resta facilmente intuibile.

Quello che, a detta delle Società di Radio Taxi, resta intollerante, è che società come Uber, riescano a mettere in connessione persone tra loro sconosciute e quindi palesare ed intercettare il lavoro delle prime, sostituendosi ad esse. Svolgendo e simulando un servizio pubblico specificatamente regolato dalla legge attraverso le concessioni comunali rilasciate con il preciso scopo di garanzia per l’utente.uber2121

L’ambiguità, probabilmente si nasconde qui. È sbagliato mettere sullo stesso piano e dunque creare un meccanismo di dissonanza, di contrasto, tra due elementi completamente diversi.

A sottolineare le diversità tra le macchine bianche e gli uberisti, sì è pronunciata anche la Corte di Giustizia Europea, stabilendo infatti che, i taxi sono obbligati alla presa a bordo, sono riconoscibili, devono usare il tassametro e avere una conoscenza approfondita della città nella quale lavorano. Obblighi che non gravano, nella stessa misura, sui veicoli a noleggio con conducente.

Così il 19 Maggio, anche il Giudice di pace di Genova si è conformato alla idea di separazione tra le due classi, annullando la sanzione comminata a un driver del servizio di ride sharing sbarcato a Genova l’autunno scorso.

Il Giudice adito ha ritenuto non punibile, ai sensi dell’articolo 86 del codice della strada – quello che sanziona pure molto severamente l’esercizio abusivo del servizio di piazza- l’autista coinvolto, disponendo l’annullamento del verbale, così come le sanzioni in esso contenute.

Insomma, la guerra fra carte, tribunali e avvocati è solo all’inizio, con una parte della Giurisprudenza orientata a valutare il fenomeno come quello che realmente è “nuovo”, mentre l’altra (vedasi il Tribunale di Milano), convinta dell’approccio sleale perpetrato dalla Società Uber Italia nella gara concorrenziale contro le società di Radio-Taxi.

Datata 4 Giugno è la notizia, per la quale le toghe del capoluogo Lombardo, hanno confermato la loro precedente posizione assunta, imponendo alla multinazionale californiana il blocco del servizio, l’oscuramento del sito, stabilendo inoltre una penale pari a 20.000 € per ogni giorno in cui Uber Pop fosse rimasto eventualmente attivo.cq5dam.web.650.600

Va detto che le misure adottate, restano momentanee e cautelari fino alla definizione della causa.

Nel frattempo polemiche, proposte e punti di vista impazzano e mentre da una parte della barricata i tassisti e le organizzazioni sindacali festeggiano  quella che è a tutti gli effetti sembra essere una vittoria, d’altra parte la società di Travis Kalanick e Garrett Camp non si dà per vinta. La contromossa è già viva sui Social, spalleggiata da associazioni di consumatori e cittadini. Intanto è notizia importante che l’autorità dei trasporti ha segnalato a governo e parlamento la necessità di dover intervenire con nuove proposte sulla norma sui trasporti pubblici non di linea, datata ormai 1992, andando incontro a tutti gli attori coinvolti. A partire dalla cosiddetta sharing economy, che sta imponendo in tutto il mondo una presa di posizione del legislatore.

Anche secondo una precisazione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato sul blocco di UberPop, infatti, “Internet rappresenta un grande fattore di sviluppo economico che non può essere fermato, ma occorrono regole per definire soluzioni equilibrate fra i vari interessi in gioco“. E, aggiungo io, che permettano ad un mercato di essere veramente libero, concorrenziale e inserito nel proprio tempo, con la tecnologia che lo stesso offre, evitando magari che l’unica forma di mobilità urbana, ad eccezione di quella di linea, sia costituita esclusivamente da un mezzo elitario, dove 4 Km in una mattina di Milano possono venire a costare più di 20 euro.

Black Puppet: l’innovazione video-producer tutta italiana che non ti aspetti

Siamo nel XXI secolo, la tecnologia avanza e sempre più impetuosa diventa virale; un’era all’avanguardia la nostra, orientata al futuro ma ancora succube di un passato imponente e aggressivo che disorienta e fa paura.

In questa realtà vacillante e precaria emerge il progetto Black Puppet, una casa di produzione video e service di figure professionali quali producer, operatori, montatori, autori e fotografi, nata dall’idea e dalla collaborazione di un gruppo di compagni universitari circa tre anni fa a Milano. Forti di una preparazione teorica incisiva e di una buona dose di tenacia, iniziano quella che poi diventerà loro carriera a tutti gli effetti con la produzione di cortometraggi, arrivando ad affermarsi nel mondo pubblicitario e della comunicazione.

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Una squadra organica e ben organizzata, ad oggi formata da quattro componenti: Luigi Vitiello, autore, sceneggiatore e montatore, un narratore forte della sua passione per ogni forma di racconto; Giuseppe Salerno meticoloso e tecnologico DOP, operatore e fotografo, occhio attento e perspicace del progetto; Martina Manoli, razionale e abile produttore esecutivo, ma anche amministrativa, manager e responsabile; Claudio Pastafiglia creativo regista, aiuto regista e operatore, coordinatore generale del set.

Una casa di produzione innovativa, tecnologica, più leggera che riesce, tramite tempistiche più veloci, a dimezzare le spese fisse ottenendo un risultato impeccabile.

Dalla breve intervista a Luigi Vitiello emerge una complicità unica, tangibile sul campo e vero caposaldo del gruppo, che li porta a collaborare anche ai progetti personali di ognuno e a manifestare la propria identità in progetti di terzi:  «In questo momento all’Istituto dei Ciechi a Milano c’è una mostra, Leonardo racconta il cenacolo, all’interno della quale è possibile ammirare in scala 1:1 la proiezione dell’ultima cena di Leonardo.

Ogni venti minuti il quadro viene sostituito da un breve documentario in cui un Leonardo moderno e accattivante ci spiega e commenta la sua opera. In questo caso la Black Puppet ha collaborato con il regista Maurizio Sangalli e con la sceneggiatrice Renata Avidano; Giuseppe si è occupato della ripresa mentre io (Luigi) ho fatto da aiuto regia e mi sono occupato del montaggio».

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Un inizio sperimentale quello di Black Puppet, diviso tra report, serate, spot, con una breve parentesi contest, passando per diversi documentari e arrivando a specializzarsi attualmente in spot web, brevi pubblicità virtuali dalla forte impronta virale veicolate dai più grandi social network.

La necessità e il desiderio di produrre in prima persona un’idea, un progetto, li porta ad aprire uno studio associato con partita IVA unica a gennaio 2015, grazie anche ai cambiamenti nella domanda di mercato in ambito comunicativo-pubblicitario, alla quale le case di produzione più affermate, abituate a fare prodotti televisivi con il vecchio assetto, non sono preparate.

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L’obiettivo più grande è l’affermazione nazionale e internazionale di Black Puppet, incrementando la produzione e il valore del lavoro svolto, con un piccolo grande sogno nel cassetto orientato al cinema.
Rimanere collegati è quindi d’obbligo.

Prenota e scappa: l’arte della partenza intelligente

Mare o montagna? Città d’arte? Quando l’estate si avvicina il pensiero fisso è senza dubbio trovare una meta per le vacanze. Se le destinazioni per un viaggio estivo sono infinite (..ma chi non ama il mare?), i modi per raggiungerla, ma non in senso letterale, sono al giorno d’oggi essenzialmente due: o un’agenzia viaggi o il grande internet. Ma diciamoci la verità, le agenzie viaggi sono perlopiù per coppiette in viaggio di nozze, tant’è che la maggior parte delle persone, soprattutto giovani, si affida al web per prenotare viaggi o vacanze, specialmente dalla diffusione delle compagnie aeree low cost. Esistono una vastità di siti dedicati, ma bisogna innanzitutto fare una premessa. Si deve distinguere tra una OTA (Online Travel Agency) come eDreams o Expedia e un metasearcher come Skyscanner o Kayak: con la prima l’utente acquista direttamente dall’OTA, la quale paga alla compagnia aerea o all’hotel o a entrambi, trattenendosi una commissione, mentre un metasearcher propone semplicemente una combinazione di voli, reindirizzando in seguito alle pagine web delle compagnie, che verseranno una commissione al metasearcher.

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Osservando nello specifico cosa può essere più economico per i viaggiatori: «Prenotare su un OTA risulta più conveniente, con un risparmio per il consumatore di circa il 30% su voli e pacchetti» ci dice Angelo Ghigliano, country director eDreams Italia «In particolare per 3 fattori: il mix di prodotto, cioè il poter combinare voli di andata e di ritorno con differenti compagnie aeree di linea e low cost, la libertà di viaggiare e pianificare i propri voli in base alle proprie esigenze e i prezzi vantaggiosi, grazie ad accordi commerciali con alcune compagnie aeree».
Se sperate in un qualche trucchetto sicuro per fregare il sistema e prenotare voli e vacanze a meno di 1€ cascate male: qualche tempo fa uno studio sulla Ryanair rivelava che il momento migliore era prenotare con 8 settimane d’anticipo, ma una volta diffusa la notizia, la compagnia irlandese ridusse a 6 le settimane, cambiando le modalità e lasciando a bocca asciutta i furboni. Ma qualche accorgimento per cogliere il momento giusto si può ancora seguire: «Nei periodi normali prenotare 2 o 3 mesi prima può permettere all’utente di acquistare il biglietto al costo più basso, ma ogni sito ha le sue strategie tariffarie» continua Ghigliano «Prenotare durante i weekend e la notte aumenta la possibilità di trovare delle tariffe più economiche. La maggior parte delle ricerche e acquisti di voli e vacanze si effettuano durante la settimana, nell’orario di lavoro (quindi dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 17). Queste ricerche fanno lievitare i prezzi, mentre nel fine settimana aumenta la possibilità di trovare tariffe accessibili. La maggior parte delle persone preferisce volare durante i weekend, per questo i voli infrasettimanali spesso costano meno. Se si parte il mercoledì o il martedì, ad esempio, si risparmia sempre».
Detto tutto ciò, se non sapete ancora dove andare in vacanza, eccovi dunque le mete favorite per l’estate 2015: in testa il sud Italia, con Catania, seguita da due capitali europee, Londra e Parigi; al quarto posto Palermo e poi Barcellona, volando dopo dall’altra parte dell’oceano fino a New York. In settima posizione Cagliari, poi Milano (..EXPO?), Roma e soltanto alla fine, per i nostalgici, Ibiza (non siamo più negli anni ’80..).

Buona estate!

Reg. Tribunale di Bergamo n. 2 del 8-03-2016
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