La criminalizzazione del migrante nel nuovo Decreto Sicurezza
Abolendo le politiche di integrazione, il Decreto sicurezza e immigrazione porta, nei fatti, al formarsi di una situazione di maggior instabilità e insicurezza sociale: le analisi storiche e sociologiche hanno infatti più volte dimostrato (spesso proprio con italiani migranti come principali soggetti d’indagine) che marginalizzazione e criminalità sono fenomeni che spesso si intrecciano. La risposta del Decreto è quella di incrementare la morsa restrittiva nei confronti di chi non rispetta la Legge: reati quali lesioni personali gravi, furto aggravato, con scasso o in abitazione, minaccia o violenza a pubblico ufficiale saranno infatti puniti con la revoca della protezione internazionale per chi sia titolare di tale diritto e l’accelerazione dei tempi del procedimento per chi sia richiedente. Se superficialmente l’ostracismo sociale può apparire come giusta conseguenza del mancato rispetto delle regole della comunità, di fatto il provvedimento pone in questione aspetti tanto etici, quanto pratici.
Di fondamentale importanza è il risvolto teorico ed etico della stretta sulla concessione del diritto di asilo. La nuova norma, infatti, pone sullo stesso piano il rispetto delle leggi in vigore all’interno di uno Stato e la tutela di diritti umani che dovrebbero essere universalmente riconosciuti e che sono appunto materia per il diritto d’asilo; come dire che chi non rispetta la legge è giusto venga privato di diritti inalienabili all’essere umano. Ma anche da un punto di vista meramente pratico, la riduzione dei tempi di attesa è più un’utopia che una possibilità fattuale. Chiunque abbia avuto esperienza degli iter che coinvolgono le richieste di asilo sa perfettamente che in Italia, sebbene la legge preveda che il richiedente svolga il colloquio con la Commissione Territoriale, posta a stabilire il suo diritto o meno allo status di rifugiato, entro 30 giorni dalla data di deposito della domanda e riceva l’esito circa 3 giorni dopo tale colloquio, di fatto i tempi di attesa arrivano a un anno/un anno e mezzo. Durante questo periodo il richiedente dispone di un permesso teoricamente a rinnovo semestrale, nella realtà spesso scaduto, ma considerato valido quantomeno ai fini del diritto alla presenza sul territorio, sebbene inadatto all’accesso a mondo del lavoro e dell’istruzione.
Per sveltire le procedure, la soluzione avanzata è quella di stilare una lista di “Paesi sicuri” e “Aree sicure” all’interno degli Stati, cosicché il richiedente proveniente da tali zone, la cui domanda sarà teoricamente presa in considerazione in tempi ridotti (14 giorni dal deposito della domanda, con esito entro 2 giorni), dovrà dimostrare di avere gravi motivi per non rientrare al proprio Paese o quantomeno in un’area del proprio Paese ritenuta sicura. Così impostata, la domanda si scontrerà con sempre minori possibilità di accoglimento, in quanto molti richiedenti partiranno da una posizione di richiesta illegittima, che dovranno argomentare con prove, non così facili da reperire, oppure si troveranno ad affrontare l’ennesimo ricollocamento in aree che di fatto non sono quelle d’origine, bensì limitrofe a quelle da cui fuggono. A ciò si aggiunga che interpretare la politica di alcuni Paesi di provenienza dei richiedenti asilo non è così semplice: moltissimi Stati dei continenti asiatico e africano, infatti, pur essendo paesi con cui l’Europa ha stabilito un dialogo politico e trattati economici, che fanno sì che ai nostri occhi appaiano come regioni sicure, di fatto vivono una politica interna non identificabile come democratica. Basti pensare, ad esempio, alle deboli democrazie di paesi come il Kenya (investito da guerriglia civile a ogni elezione per via dei brogli elettorali), il Togo (guidato dalla famiglia Gnassingbé dal 1967), la Guinea Equatoriale (in balia di Teodoro Obiang Nguema Mbasogo dal 1979, seguito alla dittatura del primo presidente post-coloniale nonché suo zio); oppure i numerosi stati in cui è illegale l’omosessualità, dal Bangladesh (in cui è previsto l’ergastolo) alla Nigeria (fino 10 anni di carcere), o addirittura l’omofilia, considerata reato d’opinione.
Conseguenza diretta del restringersi delle possibilità di asilo e della rimozione del Sistema d’accoglienza diventa la presenza sul territorio italiano di un sempre maggior numero di individui sprovvisti di documenti che ne legittimino il soggiorno. Ad oggi si calcola che gli immigrati irregolari in Italia siano all’incirca 500˙000 e che il paese sia in grado di rimpatriarne 7˙000 all’anno. Al fine di potenziare le misure di rimpatrio, recita l’articolo 6 del Decreto, il Fondo[…] è incrementato di 500.000 euro per il 2018, di 1.500.000 euro per il 2019 e di 1.500.000 euro per il 2020. Problema non risolto è il fatto che, per quanto denaro l’Italia decida di investire nei rimpatri, non sussistono accordi internazionali con i Paesi d’origine, eccezion fatta per la Tunisia, e quindi mancano i presupposti politici per attuare quanto disposto per legge.
Del resto, proprio queste carenze nella comunicazione politica internazionale sono stati in passato alla base del problema del sovraffollamento dei Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR), il cui lavoro viene ulteriormente incrementato dal Decreto 480. Da un lato, infatti, nei casi di difficoltà di verifica dell’identità dei richiedenti, si dispone la possibilità di prolungare la permanenza, stabilita a un massimo di 30 giorni, negli hotspot e nelle strutture di prima accoglienza (CAS e CARA), ricollocandoli per ulteriori 180 giorni in CPR e, quindi, su disposizione del Giudice di Pace, in “strutture diverse e idonee nella disponibilità dell’Autorità di pubblica sicurezza”. Dall’altro si raddoppiano i tempi di possibile permanenza in CPR, da 90 a 180 giorni, stanziando a tal fine “1.500.000 euro per l’anno 2019, per i quali si provvede a valere sulle risorse del Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione (FAMI), cofinanziato dall’Unione Europea per il periodo di programmazione 2014-2020″.
Una disposizione che non tiene minimamente conto delle numerose segnalazioni dell’inadeguatezza strutturale e funzionale di questi centri nel garantire dignità e diritti. Lungi dall’essere aree di accoglienza, queste strutture rappresentano piuttosto centri di detenzione, i cui ospiti sono privati della loro libertà personale, pur non avendo di fatto compiuto alcun reato.
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