Skip to main content

Mese: Febbraio 2014

Inbook, ovvero come il libro digitale trasforma il sistema letterario

Che cosa è un Inbook?

L’Inbook è una delle prime conseguenze della digitalizzazione della civiltà delle lettere, è il nuovo genere letterario che propone al lettore una trama interattiva. L’autore di eBooks, al momento della creazione letteraria, inserisce in momenti particolari della storia la possibilità di scegliere come far procedere la trama tramite due o più tracce.

Ad esempio: nel bel mezzo di un giallo, il lettore può decidere verso quale indiziato far procedere l’indagine.

Ma non solo. L’Inbook non si limita alle scelte del suo lettore, può essere programmato all’interazione con le condizioni climatiche in cui il fruitore si ritrova al momento dell’atto di lettura.

Ad esempio: la trama può cambiare se letta di giorno o di sera. Di notte l’investigatore potrebbe avere problemi a trovare indizi, oppure, durante una nevicata, potrebbe facilmente ritrovare le tracce lasciate sulla neve.

La letteratura ha dunque acquisito una nuova forma collaborativa tramite il passaggio verso il digitale, il quale negli ultimi anni ha investito ogni settore della cultura. Tale spostamento si è presentato nel sistema letterario con la nascita dell’eBook, supporto che sin da subito ha raccolto il malcontento e i nasi storti dell’intellettualità italiana, forti sostenitori della carta.

Gian Arturo Ferrari, per anni Direttore generale della Divisione Libri del Gruppo Mondadori e oggi Direttore del centro per la diffusione del libro, sfata il mito della pagina e considera il libro digitale una «rivoluzione, un taglio netto con il passato» (Gian Arturo Ferrari: “L’e-Book? La fantascienza del libro è ora”, di L. Landò), sottolineando che il libro non è sempre stato cartaceo, ma anzi, l’invenzione della stampa – grande innovazione tecnologica – è stata una grande cesura nella storia libraria. Anche in questo caso il passaggio dal vecchio al nuovo suscitò insoddisfazioni dell’aristocrazia del tempo, la quale preferiva e stimava di maggior valore culturale il manoscritto anziché i libri stampati, ritenuti brutti e volgari.

Nonostante le prime antipatie, il libro cartaceo, nuovo supporto letterario, riuscì ad affermarsi grazie all’abbassamento dei prezzi: un libro stampato costava cento volte di meno di uno scritto a mano, come oggi un eBook può arrivare a costare il 60-70% in meno di quello cartaceo.

La digitalizzazione sta a poco a poco trasformando tutti i molteplici componenti del sistema letterario. L’invenzione della stampa riuscì in passato a creare il nuovo genere del romanzo, mentre l’invenzione dell’eBook riesce oggi a creare e proporre una nuova forma di scrittura interattiva, immersiva (neologismo, n.d.r.), capace di far collaborare assieme autore, creatore del prodotto letterario, e lettore, fruitore oramai attivo dell’opera.

L’idea stessa di opera d’arte tenderà a rinnovarsi di fronte a questa scrittura molto più fluida e a poco a poco si distaccherà maggiormente dalla nozione europea, formatasi durante il Romanticismo, per cui l’arte sarebbe indissolubilmente plasmata dall’originalità e individualità dell’artista.

Altra conseguenza è la ridefinizione del testo originale.

L’autore, difatti, può cambiare il suo operato in qualsiasi momento, senza lasciare traccia alcuna e continuando a vendere il suo testo su Internet come se nulla fosse successo. In questo modo, alcuni lettori acquisteranno la prima versione, mentre altri leggeranno inconsapevolmente la seconda versione dell’opera. Curioso sarà osservare come gli studi filologici si comporteranno di fronte a questo nuovo procedere.

Il capitale umano di Virzì: molte polemiche e nessuna distanza

Come la maggior parte delle polemiche mediatiche, anche quella sul film Il capitale umano di Paolo Virzì si è spenta in pochi giorni, risolvendo poco delle questioni più interessanti che aveva aperto. Perché le recriminazioni localiste e le dichiarazioni di lesa dignità sono giunte da più parti, ma nascono da uno stesso gap culturale, esteso ben al di là della cerchia dei polemisti.

Nella stagione dei cinepanettoni, l’arrivo dell’ultimo film di Virzì nelle sale italiane, dal 9 gennaio 2014, è atteso con grande interesse e annunciato come una novità di sostanza sia nella filmografia del regista sia in quella nazionale. «Volevo sperimentare qualcosa di diverso rispetto alla solita commedia», afferma Virzì, perciò abbandona i lidi sicuri della goliardia toscana, vira verso le arti d’oltreoceano per poi approdare nel nord Italia con un thriller sul mondo della speculazione finanziaria, sulle facili speranze di ascesa sociale, sull’infelicità discreta delle élite. Genere e temi poco frequentati dal nostro cinema e dal regista livornese, che supera lo scarto geografico-culturale con la trasposizione del romanzo omonimo di Stephen Amidon dal Connecticut alla Brianza, una terra altrettanto esotica per Virzì, di una «bellezza inquietante» quanto la storia nera de Il capitale umano.

Il regista avverte: «Non è una condanna moralistica dell’avidità, non chiedetemi il messaggio», ma dopo l’intervista rilasciata a La Repubblica, in cui parla della ricerca di «un paesaggio che mi mettesse in allarme, un paesaggio che mi sembrasse gelido, ostile e minaccioso», trovato tra «i grumi di villette pretenziose» e le «ville sontuose dai cancelli invalicabili» del brianzolo, quel suo unico messaggio non poteva essere più colto.

Il primo a reagire è Andrea Monti, assessore al Turismo della provincia Monza-Brianza, che accusa il regista di mistificare la realtà lombarda probabilmente perché «terra del nemico politico», trascurando che è «una delle aree che più contribuisce a finanziare i bilanci di questo Stato, compreso il Ministero dei Beni Culturali» da cui Virzì ha ricevuto 700 mila euro per la realizzazione del film. Concorda il Presidente della Provincia Dario Allevi, a cui dispiace che i piccoli e medi imprenditori siano ridotti a stereotipi falsi e negativi e che «la gente possa vedere il film e pensare che la Brianza sia davvero un luogo così».

Virzì spiega la metafora dell’immaginario paese di Ornate come terra indefinita del profitto («buffa retromarcia (smentita) paracula» per Monti, appoggiato su Twitter da Formigoni), mentre Luigi Cavadini e Mario Lucini, rispettivamente assessore alla Cultura e sindaco di Como, difendono le generalizzazioni sulla loro città, rappresentata nel film dal Politeama, teatro chiuso e in rovina eletto da Virzì a simbolo del degrado culturale di una città ricchissima.

2. Una scena del film

Dai quotidiani a Twitter e ritorno. L’8 gennaio Libero dedica ampio spazio (almeno cinque facciate, con editoriale di Belpietro) ai «presunti intellettuali» che, come Virzì, fanno la morale con i soldi pubblici insultando la parte «se non migliore, più virtuosa d’Italia».

È a questo punto che il regista dà sfogo alla sua amarezza: «Dopo 25 anni di cinema e undici film mi ero illuso di meritarmi una polemica seria. Volevo essere maltrattato sul contenuto, rispondere a un tema documentato, affrontare una critica oggettiva», e non giustificare il suo lavoro ambientato in una località immaginaria e sostenuto da «un finanziamento pubblico che, come sa chiunque non faccia propaganda, deve essere restituito e può rivelarsi persino un affare per lo Stato che anticipa parte dei soldi».

Libero, 8 gennaio 2014
Libero, 8 gennaio 2014

Soprassediamo sull’assoluta assenza di polemiche sui personaggi furbetti e corrotti alla Cetto Laqualunque, sulla proliferazione di fiction televisive su mafia e mafiosi, perfino sulle macchiette lombarde nei vari Vacanze di Natale. Atteniamoci alle parole, spesso poco ponderate, che hanno animato il dibattito; ricordiamo che Virzì ha voluto «creare un allarme nello spettatore che è poi un allarme sul nostro tempo grazie a una struttura narrativa che lo consentiva», raccontando una storia in cui l’ingordigia di denaro e una morale confusa degenerano fino a incasellare persone e affetti in valori ragionieristicamente predisposti. Un contrasto che Il capitale umano palesa nel suo titolo, che è anche la definizione economica dei parametri legali di valutazione della vita umana.

Metafora, simbolo e contrasto sono solo alcuni dei meccanismi attraverso i quali il reale trova una trasfigurazionenell’opera d’arte – filmica o d’altro tipo. All’opposizione ricchi-poveri, variante della più classica buoni–cattivi, Il capitale umano preferisce una costruzione per geometrie e associazioni, divisa in tre capitoli (tra una breve apertura e un epilogo) che presentano la stessa storia da punti di vista diversi.

La scelta di un libro straniero, di un altrove lontano dalla solarità livornese e della suddivisione in capitoli sono riconducibili a una stessa presa di posizione sulla quale si struttura il film intero. Virzì racconta le sfumature dell’impotenza umana prendendo le distanze dai suoi personaggi, filtrando le vicende per restituirci storie più che giudizi e soprattutto per offrirci la possibilità di uno straniamento, unica via per non fraintendere e pensare «che la Brianza sia davvero un luogo così».

Matilde Gioli, nel film Serena Ossola
Matilde Gioli, nel film Serena Ossola

In quest’ottica, la polemica intorno a Il capitale umano lascia emergere la crisi culturale di questo Paese, spesso privato degli strumenti per distinguere tra reale e verosimile; disorientato dal bombardamento mediatico o, ancora peggio, tentato di fare dell’arte una fonte di informazioni incontrovertibili per sopperire a lacune stratificate nel tempo. Quella distinzione è la stessa che divide l’artista dal cronista e il cronista dall’opinionista e ci restituisce uno sguardo pulito, libero dai pregiudizi.

 

Lisbona. Qualche appunto sconclusionato

Maria Lisboa
Fa la pescivendola, usa scarpe basse,
si muove come se un po’ brilla.
Nel cesto, la caravella;
nel cuore, la fregata.

Al posto dei corvi, sullo scialle
si posano gabbiani.
Quando il vento la porta al ballo,
danza al ballo con il mare.

È di conchiglie il vestito;
sono alghe i capelli;
e nelle vene, come un rimorso,
il rombo del motore di un peschereccio.

Vende sogni e mareggiate,
preannuncia tempeste.
Il suo nome, Maria.
Il cognome, Lisboa.
David Mourão-Ferreira
La prima qualità che colpisce – diretto, agli occhi – il visitatore, è la luce del sole, bianchissima, che in pieno giorno si riflette a meridione sulla foce del Tago. Cammini per il Chiado, rivolgi lo sguardo al fiume (che è come un preannuncio di mare) e la luce ti inonda, motteggiando un miracolo; annulla i colori degli azulejos in un’istantanea chiarissima, sovraesposta. Non si tratta di un nitore toscano, di quelli che rendono più chiari i colori, più razionali gli spazi; si tratta di un lucore atlantico che abbaglia, confonde la vista. Perché Lisbona non è già più una città mediterranea. È una città limite, appesa all’estremo del vecchio continente, con un piede sull’ultimo sperone di roccia lusitano, e l’altro già immerso nell’oceano.
Si sarebbe portati quasi a crederci, al mito che la vuole fondata da Ulisse durante le sue errabonde navigazioni mediterranee; da Ulyssippo a Lisbona, l’etimo è breve. Mi immagino l’Ulisse dantesco approdare al sicuro, nel golfo protetto dalle acque grigio-verdi del Tago: giusto il tempo di fondare un’estrema città, prima di lanciarsi nella folle traversata della virtute e dell’ubrica canoscenza.
Alla periferia della vita europea, schiacciata dal regno di Castiglia per terra, e da quello d’Aragona per mare, Lisbona ha logicamente cercato uno sbocco nell’ignoto. Fino alla fine del medioevo è stata una città scalo, una tappa di collegamento tra i commerci baltici e quelli mediterranei. È chiaro dunque come, a fronte di una geografia estrema e isolante, per crescere e slegarsi dalla dipendenza di altre città, Lisbona abbia dovuto trovare nuove rotte, uscire da se stessa, dalla casa rassicurante del Mediterraneo. La caravella, strumento principe di questa sfida, è frutto del genio portoghese; e non stupisce trovare tra i signori leggendari di questo paese un Enrico soprannominato “il navigatore” (1394-1460).
C’è un racconto di Saramago che meglio di un intero saggio storico definisce questo spirito di sfida, questo sbilanciamento verso il non-conosciuto costitutivo della nazione portoghese. Semplice e profondo come le parabole del vangelo, O conto da ilha desconocida (1997) incarna, in un uomo senza nome, la storia di un intero popolo.

E tu perché vuoi una barca, si può sapere, fu ciò che di fatto chiese il re (…), Per andare alla ricerca dell’isola sconosciuta, rispose l’uomo, Che isola sconosciuta, chiese il re, camuffando il riso, come se avesse davanti a sé un pazzo fatto e finito, di quelli che hanno la mania delle navigazioni (…) L’isola sconosciuta, ripeté l’uomo, Frottole, non esistono più isole sconosciute, Chi ti ha detto, re, che non esistono più isole sconosciute, Sono tutte nelle mappe, Sulle mappe ci sono solo quelle conosciute, E che isola sconosciuta è questa che vuoi andare a cercare, Se te lo potessi dire, allora non sarebbe sconosciuta, Hai sentito qualcuno parlare di questa isola, chiese il re, adesso più serio, Nessuno, In questo caso, perché continui a dire che esiste, Semplicemente perché è impossibile che non esista un’isola sconosciuta.

Dall’altura del Castello di São Jorge, al tramonto, la città prende una forma più chiara. Si distinguono meglio aree e discontinuità: subito sotto al castello si stende il reticolo razionalista della Baixa, ascisse e ordinate che caratterizzano il vecchio cuore commerciale della città, il quartiere dei tristi contabili di Pessoa, oggi sciupato dal turismo. A Occidente, quasi alla stessa altezza del castello, si intravedono le strade eleganti del Chiado, gli edifici parigini rivestiti dall’azzurro-bianco degli azulejos, i negozi e il passeggio; più oltre il Bairro Alto, con le case umili e basse, meta di studenti sfaccendati, quartiere notturno.
Poco lontano dal Tago, a Oriente, il disordinato affastellarsi dell’Alfama, il quartiere popolare un tempo arabo, l’unico sopravvissuto autentico del terremoto del 1755. In basso, le forme tozze della Cattedrale Sé, i tram gialli scalatori con la lingua fuori dalla fatica; attorno un groviglio di strade nostalgiche e sporche, risuonanti fado a buon mercato che via via s’ingentiliscono, inerpicandosi sul monte, fino a lasciare spazio ai magnifici miradouros della Graça, la zona più bella della città.

Lisbona come città estrema, dunque; quasi condannata al viaggio, all’esplorazione, al pionierismo. Mi chiedo quanto abbiano influito questi caratteri nella definizione del sentimento nazionale, scolpito dai versi di Pessoa, di Camões, dalle melodie struggenti e dolorose del fado e dalla voce potente di Amalia Rodrigues. Sentimento riassunto nella parola saudade: il rimorso per la terra lasciata alle spalle, il sentimento gravoso dell’addio, sia per chi va, sia per chi resta. La sospensione dell’esistenza nel viaggio, nell’attesa del ritorno.
Il Museu Nacional de Arte Antiga di Lisbona è conosciuto al grande pubblico soprattutto per ospitare un capolavoro ipnotico dell’arte occidentale, ovvero il trittico delle Tentazioni di Sant’Antonio di Hieronymus Bosch (1501). Si tratta un sabba inquietante, esseri mostruosi tipici della pittura dell’olandese, tanto più fantasiosa quanto più realistica, che già Foucault aveva assurto a esempio della mentalità tardo medievale, secondo la quale tutto è immagine di tutto: la natura è uno specchio infinito di simpatie e similitudini, nella quale le cose non hanno ancora parole definite per isolarle dal resto, e l’analogia ripetuta permette che “tutte le figure del mondo possano essere accostate”. Ed è così che oggetti diversi, che gli animali più disparati si aggrumano in forme impossibili – eppure possibili, poiché tratte dalla realtà. Una realtà disordinata ma non insensata, e per questo ancora più disturbante. Qui vediamo un uccello con gambe umane pattinare su un laghetto ghiacciato; là una fragola gigante si fa tenda per contenere mostri di ossa che suonano la lira; in cielo, una caravella volante è, a ben vedere, fusa nel corpo di un mostro pisciforme.
Jeroen_Bosch_(ca._1450-1516)_-_De_verzoeking_van_de_heilige_Antonius_(ca.1500)_-_Lissabon_Museu_Nacional_de_Arte_Antiga_19-10-2010_16-21-31
Ma c’è un’altra sala, meno conosciuta ma altrettanto interessante, che ospita esempi unici di una corrente artistica giapponese chiamata Nanban.
A metà del 1500 gli esploratori e i mercanti portoghesi, ripetendo a livello mondiale lo schema che era già stato collaudato da veneziani e genovesi per il Mediterraneo, fatto di basi commerciali e rapporti coloniali, si erano estesi in territori che andavano dal Brasile all’India, dall’Angola a Timor Est. Era l’impero portoghese.
Nel 1543 (annus mirabilis), per la prima volta, gli occidentali mettono piede in Giappone. Vengono chiamati Nanban, ovvero “i barbari del Sud”, venuti per commerci e per diffondere il verbo cristiano (non li sopporteranno per molto: un secolo dopo, i giapponesi opteranno per un isolamento totale, alla facciazza dei gesuiti). La vista di questi uomini bizzarri, delle loro barche, dei loro vestiti, del loro modo di parlare e comportarsi, ha influenzato gli artisti giapponesi, tanto quanto la vista della loro arte influenzerà la nostra pittura nel 1800.
Vedere i byōbu nanban conservati nel Museu Nacional è un esercizio di relativismo culturale inappagabile: la chiarezza narrativa di quelle immagini è spiazzante. In questi magnifici paraventi decorati, il tipo occidentale è visto attraverso gli occhi orientali: le teorie di Said vengono confermate, a contrario, dalle immagini delle caravelle portoghesi, panciute e gremite di equipaggio scimmiesco appeso al sartiame – eppure adornate di bandiere di stile palesemente orientale; dai ritratti dei mercanti portoghesi, baffuti e sicuri di sé nei loro pantaloni enormi, coi loro cani al guinzaglio, scortati dai servi neri porta-ombrello – eppure anch’essi insigniti di inequivocabili occhi a mandorla.
NanbanCarrack
Namban-08
Eccoli passeggiare per le strade di una città giapponese senza nome, recanti merci mai viste, scimmie, libri, armi da fuoco, tabacco, Cristo – i ritratti dei preti, in particolare, sono curiosissimi: figure nere in disparte, leggermente inquietanti – e già si possono vedere la madre e il figlio giapponesi, fermi sulla soglia di casa, scambiarsi uno sguardo d’intesa, tra il divertito e l’imbarazzato.
Si arriva a Cabo da Roca prendendo un autobus da Cascais. Ad ogni curva si riapre all’orizzonte l’oceano, come se il continente avesse deciso di finire all’improvviso, per tacito accordo, arrestandosi lungo una linea di trincea a strapiombo contro l’acqua. C’è un vento costante che non lascia crescere nulla, se non rossastre piante grasse; un vento che rintrona nelle orecchie e, in basso, gonfia schiuma contro scogli colossali. L’oceano, dall’alto, sembra respirare lentissimo; permea l’aria di un brontolio ininterrotto. Non un animale, non una speranza di vita tra queste scogliere. Cabo da Roca è il punto più occidentale del continente europeo.