Dal ponte sul Bosforo al traghetto di Canakkale. Sulle strade della Turchia centrale e occidentale
Ultimo zaino lanciato a perfezione nel bagagliaio e via. Lasciamo Istanbul con il nostro Vito bianco, accompagnati nei primissimi metri dalle strombazzate degli automobilisti turchi, ma del resto bisogna abituarsi a guidare macchine del genere e dunque decidiamo di considerarli semplici gesti di saluto.
Inserita la quinta, inizia il nostro primo spostamento dopo tre giorni – quasi sedentari – di città e il ponte sul Bosforo è il tramite che ci permette di abbandonare il continente europeo per iniziare a percorrere l’Asia.
31 luglio 2013
Prima tappa: Göreme, Cappadocia, 736 km, 8 ore e 40 minuti di viaggio. Quello che doveva essere a priori il “viaggio del disagio”, viene fortunatamente alleviato dalle trasformazioni paesaggistiche della Turchia Centrale.
Ankara, città enorme e apparentemente deserta, costruita a gruppi di case uguali, identiche per forma, colore e distanza, senza una moschea visibile o una piazza, si lascia attraversare come una città fantasma che avrebbe, forse, meritato di essere scoperta. Il Lago salato Tuz Gölu, invece, non ci permette di proseguire; le sue acque circondate da un esteso strato di sale ci impongono di fermarci: lo stacco cromatico fra il bianco del sale e il blu tendente al viola delle acque suscita troppo stupore per non aprire di fretta e furia la portiera scorrevole del mezzo.
Lo strato di sale è talmente spesso che a fatica si riesce a sollevare il piede per procedere e una volta ritornati in macchina, l’erba gialla e i bastoncini non riusciranno a salvare i tappetini dal miscuglio di sale e fango. Nel frattempo, a qualche metro da noi, una bancarella ai lati della strada vende meloni gialli. Un vecchietto bruciato dal sole ce ne fa provare tre tipologie differenti… Ne indichiamo uno a caso, ma la bilancia mostra un prezzo poco ragionevole: 40 L, quaranta lire turche, quasi 15 euro per un solo melone. Ridendo e scuotendo la testa ce ne ritorniamo per la nostra strada, per scoprire poi, a distanza di una decida di giorni, che in realtà il prezzo indicato era relativo ai centesimi. Rimarremo un poco dispiaciuti di aver fatto la figura dei genovesi.
Al tramonto arriviamo a Göreme: dietro una curva, si apre davanti a noi la Cappadocia, nel momento migliore, quando la luce dorata del sole restituisce alla roccia tonalità calde e le luci delle abitazioni iniziano ad accendersi.
Il nome Cappadocia risale ai Persiani, che diedero alla terra il nome di “Katpatukya”, ovvero “Terra dai bellissimi cavalli”. Da quei tempi, la Cappadocia ha vissuto il susseguirsi di numerose e differenti civiltà e altrettante invasioni; di conseguenza, per ragioni difensive, la popolazione ha trovato un affascinante stratagemma: le città sotterranee. L’intera regione è disseminata da circa 200 rifugi e noi abbiamo avuto la fortuna di visitare Derinkuyu, uno dei più antichi insediamenti, come dimostrano le primissime testimonianze derivanti da Senofonte (430/425 a.C.-355 a.C.).
Pian piano, un passo dietro l’altro, seguiamo la nostra guida nel discendere gli stretti gradini scavati nel tufo, attenti a non scivolare e a cercare di curvare la schiena il più avanti possibile per proseguire nell’intricato tunnel. Senza una persona esperta del posto, non si può accedere alle città: Derinkuyu conta una profondità di 85 metri, organizzata su ben 8 livelli differenti, ognuno dei quali composto da cunicoli e stanze che fungono da stalle, chiese, abitazioni, e cucine atte alla preparazione del vino («per passare piacevolmente il tempo», a detta della guida). Insomma, si può perdere facilmente l’orientamento.
In questi rifugi la popolazione si nascondeva per mesi, con l’aiuto dei camini di ventilazione e l’utilizzo di falde acquifere, aspettando che i nemici si stancassero di cercarli: non solo le donne e i bambini si nascondevano, bensì anche gli uomini evitavano lo scontro aperto. Chi arrivava, trovava abitazioni vuote.
03 agosto 2013
Lasciamo il tufo calcareo per avvicinarci alla costa e al mare. Il nostro programma però prevede ancora una tappa nell’entroterra, a Konya. Tra tutte le città turche che ho visitato, Konya è stata senza dubbio la più conservatrice e, allo stesso tempo, la località che più mi ha permesso di entrare in contatto con la vera cultura turca, spogliata dai convenevoli per stranieri. Innanzitutto eravamo gli unici turisti in circolazione, riconoscibilissimi con il nostro bianco furgone nel bel mezzo di un bazar all’aperto, incastrati nelle viuzze piene di bancarelle, costretti a farle arretrare di qualche passo per far passare il retro del mezzo, sguardi divertiti che osservavano attraverso il finestrino.
Parcheggiamo di fronte a una panetteria e noi ragazze decidiamo di farci uno spuntino a base di pane: il proprietario ci guarda un poco affranto e sembra aver perso la parola. Non riusciamo a comunicare, nonostante i nostri mille sforzi in inglese, italiano e nell’universale linguaggio delle scimmie (ovvero, a gesti)… Sino a quando non entra Andrea a vedere come mai ci stiamo mettendo tanto: due parole e l’affare è concluso. È la prima volta in vita mia che un uomo rifiuta di parlarmi per il fatto di esser donna. Non si tratta una storiella di sdegni, slogan e tette al vento, ma di un’esperienza in una cultura in cui la donna è la padrona della casa, in cui con lei si parla solo di determinati argomenti perché solo di quelli è competente. Non c’era astio negli occhi di quell’uomo, solo imbarazzo di fronte a un’occidentale che vuole comprare.
Dopo Konya raggiungiamo Antalya, sul mare, e da lì iniziamo il giro della costa occidentale.
Il mare della Turchia non presenta differenze cromatiche fra Nord e Sud, ma solo di temperatura: ad Antalya, per esempio, non si riesce a stare sulla spiaggia per la troppa afa, e l’unica possibilità di sopravvivenza è rimanere in acqua perché appena si esce, ci si ritrova completamente asciutti (capelli compresi). Risalendo la costa, invece, il mare diventa freddo, molto freddo! Così può succedere, su una qualsiasi spiaggia ignota tra Foca e Pergamo (alla stessa altezza di Catanzaro, per intenderci) che tutta felice di farti un bagno, ti tuffi da un molo e ti ritrovi col fiato mozzato e il mal di orecchie.
07 agosto 2013
Arrivo a Pamukkale (letteralmente “Castello di cotone”), il famosissimo sito termale rinomato già ai tempi dei Romani e oggi patrimonio dell’umanità UNESCO. A me più che cotone, è sembrata neve: il sole della Turchia rende accecante la vista del bianco calcare, tanto che non è proprio consigliabile avvicinarsi, men che meno entrare, senza gli occhiali da sole.
Per raggiungere la sommità delle terme bisogna categoricamente salire a piedi nudi, sia per non rovinare la superficie calcarea sia perché si rischierebbe di scivolare: l’acqua termale scorre sulle pareti e sul terreno, ma grazie al suolo poroso non si fa il minimo sforzo, camminando senza pericolo come su una superficie asciutta.
Essendo proibito l’accesso alle vasche originali, ci dirigiamo in quelle appositamente costruite per i visitatori e, prendendo spunto da alcune signore incontrate anni fa alla Scala dei Turchi, decido di affondare una mano nell’argilla. Una manciata di melma e capelli biondi mi fa tornare in mente un ricordo d’infanzia, quando io e mio padre in un sito termale venimmo ammoniti da un saggio vecchietto: «Vi spalmate di fango come maiali!».
Da Pamukkale tagliamo verso la costa per arrivare alla città che presta il nome alla birra turca per eccellenza: Efeso, uno degli insediamenti ionici più grandi dell’Asia Minore; località perfetta per chi ama le rovine e si diletta a osservare orde di italiani in vacanza.
Nonostante Efeso sia uno dei siti archeologici più ampi del Mediterraneo, gli scavi hanno riportato alla luce solo poco più del 20%; il che fa supporre che fosse uno dei più importanti centri del mondo antico.
Il nostro viaggio continua verso Nord, superando Foca, la città di pescatori e spiagge a pagamento, per arrivare alla mitica Troia, ormai costituita da una riproduzione del cavallo di legno e da qualche muro, città antica che rivive nei musei di Berlino e di Anakara; ma non credete, se un giorno avrete voglia di conoscere la Turchia e passerete nei paraggi, nonostante la consapevolezza della sgombro di Troia, non potrete fare a meno di fare una deviazione!
È il mattino dell’11 agosto, siamo nella città di Canakkale, città portuale e universitaria; tra poco prenderemo il traghetto per lasciare le terre asiatiche e approdare in Tracia: altre 8 ore di strada ci condurranno nuovamente a Istanbul, per ritornare in Europa.
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