
Teranga: i miei venti giorni in Senegal
In wolof esiste una parola che indica il senso di ospitalità, di accoglienza e di rispetto verso l’ospite, una delle virtù fondamentali della cultura senegalese. Ne ho sentito parlare solo pochi giorni prima del mio rientro in Italia, e così ho potuto dare un nome alla sensazione che per i venti giorni che ho passato in Senegal mi ha accompagnato in ogni luogo e in ogni situazione: teranga.
Sono partita senza aspettarmi nulla, cercando di avere la mente sgombra da ogni immaginario preconcetto sull’Africa e la sua gente per riempirla della mia esperienza.
Ora il Senegal per me è l’odore speziato dell’aria, i tetti bianchi, le corse in taxi e le piogge torrenziali; è i rumori del traffico, i richiami del minareto e i versi degli animali; è i baobab di Mbour, le spiagge immense di Yoff, le conchiglie di Joal Fadiouth e i colori di Gorée; è la musicalità del wolof, le strette di mano e i colori dei vestiti delle donne, elegantissime; è il riso mangiato insieme da un unico piatto, il sapore forte dell’ataya (tè alla menta) ogni sera e delle guerté bou toy (arachidi tostate nella sabbia) sulla spiaggia, guardando il sole, grandissimo, tuffarsi nell’oceano.
Ma più di tutto il Senegal per me è teranga, e di come mi abbia fatto sentire a casa fin dal primo giorno.
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