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Mese: Febbraio 2016

Si stava meglio quando gli altri stavano peggio

Il dibattito riguardo l’ambiente e i cambiamenti climatici sta diventando fortunatamente ogni anno più acceso e l’attenzione ad uno sviluppo sostenibile è finalmente diventata una priorità per alcuni Stati, anche per alcuni storicamente reticenti all’affrontare questa tematica, come si è potuto vedere dai risultati (anche mediatici) della COP21 di Parigi.

Tuttavia l’approccio a questi temi è quantomai variegato e servirebbe fare un poco di chiarezza.

Questo articolo, che dovrebbe essere una sorta di contraltare all’intervista fatta dagli amici di Pequod al presidente del ‘Movimento per la decrescita felice’, propone di analizzare, in modo assolutamente non esaustivo, alcune proposte dei teorici della decrescita. 

Infatti, benché io mi possa trovare sotto molti aspetti d’accordo con le loro posizioni, ritengo che siano da riportare alcune precisazioni, anche di carattere terminologico e tecnico.

Oggigiorno l’impatto dell’uomo sull’ambiente è indiscutibilmente enorme e dovrebbe senza dubbio essere ridotto. Purtroppo, per ottenere quest’obiettivo solamente due strade sono possibili: o si effettua unadecisa riduzione dei consumi o si ottiene una migliore efficienza energetica, passando anche attraverso l’utilizzo di fonti pulite o rinnovabili.

La decrescita è, per definizione, il primo dei due percorsi appena proposti e presenta enormi criticità: una contrazione dei consumi porta logicamente ad una riduzione del PIL che di per sè potrebbe anche non essere un problema (secondo le teorie di Bauman, ad esempio) ma questo significa al contempo una altrettanto inevitabile riduzione dei posti di lavoro.

E qua la faccenda si complica un poco.

Ad oggi (quasi) nessun occidentale baratterebbe il proprio impiego per un minore livello di emissioni. Allo stesso tempo, l’esigenza di un ambiente più pulito è percepita dalla maggior parte della popolazione come secondaria e sottostante ad altri bisogni, primari e non (dal cibo allo smartphone, per intenderci).

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Serge Latouche, autore del libro “Breve trattato sulla decrescita serena” e altri testi affini.

Ma consumiamo davvero così tanto? Serve davvero ridurre il nostro tenore di vita?

Abbastanza. In Europa, di media, si consumano poco meno di 5 GWh all’anno (fonte Banca Mondiale), la metà dei cittadini USA e molte volte il consumo di un paese in via di sviluppo.

Posto che il limite minimo di consumo annuo per un essere umano è da considerare attorno ad 1 GWh, ovvero l’energia contenuta nel cibo necessario al sostentamento, si potrebbe ragionevolmente ipotizzare di poter contrarre il nostro fabbisogno di energia di un 20-25% arrivando a circa 3,8KWh.

Tuttavia questa riduzione non potrebbe rappresentare un equilibrio stabile e sostenibile, a tecnologie date, sul lungo periodo.

Infatti, qualora ogni persona al mondo consumasse questa quantità, si arriverebbe ad un livello totale di energia richiesta superiore a quello attuale: ad oggi il consumo medio si attesta a soltanto 2KWh circa, grazie soprattutto al grave ritardo di sviluppo di alcuni paesi molto popolosi, come l’India, dove ogni cittadino consuma meno di 1 GWh/anno. Tuttavia questo divario si sta progressivamente assottigliando e i governi dei paesi in via di sviluppo sono tutt’altro che favorevoli ad un rallentamento, come affermato durante la conferenza di Parigi.

Inoltre serve anche precisare che una stagnazione della nostra economia, se non coincidente con un analogo freno dei paesi emergenti, farebbe perdere all’occidente il proprio ruolo di guida mondiale. E anche questo tema credo possa essere non troppo condiviso dalla popolazione e dai governi.

In sostanza, una riduzione dei consumi, e la decrescita, non sembrano rappresentare una soddisfacente risposta per contrastare l’impatto ambientale dell’uomo, ormai vincolato alla sua eccezionale dimensione demografica.

Ragionando in tema di tecnologie verdi si potrebbero forse dischiudere spazi un poco più ampi: in questo caso si parla comunque di sviluppo sostenibile, cosa ben diversa da decrescita.

Purtroppo la disponibilità energetica da fonti pulite non riesce ad oggi non solo a colmare l’attuale domanda (fonte David MacKay, Without Hot Air, libro fatto benissimo, che si trova gratuitamente online e che incoraggio a leggere) ma risulta essere anche estremamente dispendiosa: in questo senso solo un progressivo miglioramento delle tecnologie potrà portare ad un aumento del loro impatto sul bilancio energetico globale.

Sfortunatamente la ricerca di queste nuove soluzioni è molto dispendiosa in termini economici e nessun privato è in grado (o interessato) ad affrontare quest’impresa. Ecco dunque che i ruoli della politica e dello stato diventano centrali, anche se complicati.

Domani mattina il caucus dell’Iowa esprimerà le prime effettive indicazioni rispetto ai candidati repubblicani alla Casa Bianca e tutti i paesi del mondo occidentale guardano a questo evento con interesse in quanto sarà il primo elemento del futuro puzzle mondiale: tuttavia una cosa è certa, nessuno dei candidati parla di ambiente e di clima e questo è emblematico.

Infatti, uno dei più grandi meriti dell’amministrazione Obama è stato quello di porsi come obiettivo insindacabile l’autonomia energetica attraverso le fonti tradizionali e al contempo di disporre concreti piani di sussidio per la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie verdi. Purtroppo, ad oggi, questi finanziamenti non hanno portato a risultati concreti e probabilmente saranno un grosso scotto da pagare per i democratici nelle elezioni di Novembre.

I cittadini statunitensi hanno, da una quarantina d’anni, una scarsissima passione per l’intervento statale e la spesa pubblica, specialmente se questa non genera profitti. E gli investimenti in materia energetica sono spesso sostenuti in un’ottica differente rispetto al mero ritorno economico.

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Questa realtà è enfatizzata nel caso statunitense proprio per la sua particolare condizione sociale e culturale, ma è presente in qualsiasi Paese: ad oggi i maggiori investimenti (in termini proporzionali) sulla sostenibilità energetica sono prevalentemente effettuati da quei Paesi che si trovano in ‘deficit positivo’, dall’Europa del Nord (Norvegia e Danimarca) agli Emirati Arabi (Abu Dhabi), e che possono quindi affrontare delle spese non remunerative e non di immediata utilità.

Al contrario, tutti le grandi nazioni europee, che si trovano a dover districarsi tra le complicate problematiche di bilancio emerse dalla crisi del debito sovrano, faticano a racimolare consenso su questa tematica, soprattutto tra le classi più deboli della popolazione.

Anche in questo caso diventa quindi fondamentale la volontà politica e sociale che, attraverso una nuova coscienza condivisa e responsabile, può portare lo Stato ad ampliare il proprio impegno nello sviluppo sostenibile.

Serve quindi creare questa nuova prospettiva, e su questo tema sono perfettamente d’accordo con il Movimento per la decrescita felice: senza una chiara e decisa presa di posizione di tutti verso una maggiore responsabilità sociale sarà molto più difficile, se non impossibile, conseguire i necessari risultati perché nessuno avrà abbastanza credito e tempo per farlo.

Articolo di Andrea Armani.

The Bottom Up – Rivista

Intervista al Movimento per la decrescita felice, la critica al sistema economico tra Pil, coriandoli e Arlecchino

Coriandoli, maschere e carri: Carnevale sta arrivando! La dissolutezza, padrona vera della festa, potrà agire incontrastata, sovvertendo ordini sociali e rapporti di supremazia. Tutto viene capovolto, destabilizzato attraverso un’orgia di colore, perché questa festa è così; nasce per sovvertire e sublimare, centrifuga i ruoli e mischia le carte tra chi è servo e chi è servitore. Ne è un esempio la storia della celebre maschera orobica di Arlecchino, che con il suo comportamento furbesco e truffaldino prova a farsi beffe del padrone per il quale lavora, arrivando talvolta ad umiliarlo. È il caso del padrone diventato cieco, deriso a sua insaputa e vessato da “servili” fendenti di bastone utili a condurlo come una bestia da soma.

Soffermandoci su questa maschera, importante protagonista della Commedia dell’arte italiana dal XVI secolo, non possiamo fare altro che annotare il suo ruolo di sberleffo colorato della società borghese, classe sociale dominante di allora.

 

Come Arlecchino ieri, oggi un’associazione, il Movimento per la decrescita felice, si diverte a smontare e sovvertire il pensiero dominante contemporaneo, discostandosi dalla logica del successo misurato con il PIL; anzi, ritenendo che ad ogni aumento del PIL si possa riscontrare una proporzionale diminuzione della qualità della vita. Qualità, questa, ritrovata e valorizzata con il ritorno alla campagna. Come? Insegnando ai giovani le tecniche di recupero delle pratiche tradizionali, adoperate dai nonni nelle campagne d’Italia e oggi utili per affrontare la crisi economica e l’oscura emergenza ecologica planetaria. E qui troviamo l’ennesima similitudine con Arlecchino, o meglio, con il suo avo medioevale, Hellequin, personaggio proveniente dalle fredde e cupe lande nordiche (la trasposizione contemporanea, vien da sé, va alle sconfinate aree urbanizzate), e successivamente migrato verso latitudini meridionali, dove si sarebbe sovrapposto ai riti di estrazione agricola legati al culto della fecondità vegetale.

 

Ma ora proviamo a capire quali sono gli obbiettivi, il pensiero e gli strumenti del Movimento per la decrescita felice; ne parliamo con Jean-Louis Aillon, presidente dell’associazione.

Buongiorno presidente.

Buongiorno Mirko. Siamo coetanei, perciò diamoci del tu, ti va?

Certo! Allora, anzitutto parlami della visione del Movimento per la decrescita felice.

L’associazione si fonda su un pensiero che è anche una filosofia di vita, un progetto non solo sociale ma anche politico, spirituale, che si sviluppa attorno a un concetto: “si vive meglio consumando meno”. Attraverso un percorso di decrescita, o meglio, di rinuncia alla fede cieca della crescita come unico scenario percorribile dall’umanità.

Quali sono le azioni concrete per attuare tale rivoluzione culturale?

Sono azioni quotidiane connesse tra loro: sicuramente lo sviluppo della tecnologia non fine a se stesso, ma funzionale all’aumento dell’efficienza energetica; successivamente un progetto politico pronto a cogliere il cambiamento, dove per “progetto politico” s’intende non di un sistema partitico, ma di una gestione attenta della polis, sganciata dalla logica del profitto a tutti i costi. L’economia deve tornare uno strumento dell’uomo e non viceversa.

Una politica fatta di gesti quotidiani: in che senso?

Una gestione della polis che provi a diffondere un diverso paradigma culturale. Facciamo qualche esempio: per noi bere l’acqua in borraccia è un gesto politico, fare un orto in città è un gesto politico, andare in bicicletta è un gesto politico… insomma, comunicare alla gente che c’è un modo più credibile e più sostenibile per vivere.

E il legislatore?

Se ci sarà qualcuno in grado di fare delle leggi in questa direzione, ben venga. Noi vogliamo assumere il ruolo di ispiratori, ci piacerebbe che qualcuno, all’interno dello scacchiere politico, cogliesse il nostro input culturale. Perché oggigiorno è chiaro che sia la destra che la sinistra non si discostano dalla ricetta della crescita, dalla stessa errata visione: c’è bisogno di introdurre nuove idee, nuovi valori in politica.

Jean-Louis, svaghiamoci un po’, andiamo al cinema o a teatro…

A questo proposito, bisogna dire che c’è tutta una produzione cinematografica che è funzionale al mantenimento del sistema predominante di valori.

Cioè?

Parlo del mainstream, della grande produzione hollywoodiana di massa. I valori vincenti e predominanti restano sempre il successo, il lavoro, un costante atteggiamento di dominio verso la natura, l’edonismo del consumo. A noi piacerebbe decolonizzare l’immaginario, proponendo una visione diversa, dove colui che risparmia non sia visto come un taccagno ma come una persona sobria, portatrice di un modello positivo, utile al benessere di tutti. Dove vivere senza sprechi possa essere una condotta vincente. L’arte è importante perché, se ben orientata, può incanalare messaggi e valori che potrebbero stravolgere questo mondo arrivando con immediatezza all’emotività delle persone.

 

Mi segnali qualche esempio di produzione “virtuosa”, fuori dagli schemi consolidati?

Penso a uno spettacolo teatrale molto bello proposto dalla compagnia Papalagi, composta da operatori e pazienti psichiatrici, organizzato dall’Usl di Lucca. È uno spettacolo incentrato sui racconti di un capo-comunità delle iole Samoa che fa ritorno alla sua tribù, che riporta tutto quello che l’Europa gli ha lasciato come viaggiatore, come testimone distaccato del nostro mondo.

Insomma, un’arte portatrice di valori condivisi nuovi o semplicemente rivisitati, come l’importanza dell’agricoltura e l’impegno dei giovani.

Sì, infatti il primo passo verso il cambiamento è l’evoluzione dell’immaginario collettivo, che in passato ha reso poco appetibile il contesto agricolo, il lavoro in campagna. Una mia amica insegnate raccontava che a Salerno un bambino veniva segnalato come “anomalo”, “problematico” perché riferiva di amare la terra. Non è necessario che facciamo tutti i contadini, chi non vuole potrà continuare a fare altro, ma la rivoluzione culturale dovrà portare a vedere il contadino come un mestiere nobile e ad arricchirlo con una formazione universitaria in grado di porre questa attività come un tassello per un futuro diverso.

Dunque il ritorno alla campagna può rappresentare un palliativo alla disoccupazione giovanile?

Sì, assolutamente. Se fatto con la testa, attraverso un percorso accademico professionalizzante, in realtà associative utili allo sviluppo della biodiversità e dell’eccellenza del territorio, secondo i metodi della permacultura.

Parlando di ritorno all’agricoltura, un cenno al  vegetarianesimo è d’obbligo…

Noi del movimento abbiamo un approccio assolutamente libero, rimane però la consapevolezza che sia la scelta più sostenibile. Lo dice un carnivoro che però si impegna a limitare fortemente il proprio consumo di carne.

E poi ci sarebbe il tema Expo, la neocolonizzazione chiamata eco-sostenibilità, la questione dei Paesi emergenti… Insomma, c’è materiale per scrivere un altro pezzo sulla rivoluzione del Carnevale, o forse su una vera e propria rivoluzione culturale, se è vero che oggigiorno la cultura dominante può essere ben sintetizzata da una massima del filosofo polacco Zygmunt Bauman: «Se lei fa un incidente in macchina l’economia ci guadagna. I medici lavorano. I fornitori di medicinali incassano e così il suo meccanico. Se lei invece entra nel cortile del vicino e gli dà una mano a tagliare la siepe compie un gesto antipatriottico perché il Pil non cresce. Questo è il tipo di economia che abbiamo rilanciato all’infinito. Se un bene passa da una mano all’altra senza scambio di denaro è uno scandalo».