Cosa pensano le femministe di Hillary Clinton?
La candidatura presidenziale di Hillary Clinton ha suscitato reazioni contrastanti all’interno del movimento femminista. Da una parte, il fatto che una donna sia arrivata così vicina ad essere eletta presidente degli Stati Uniti è stato esaltato da molte come il simbolo di un cambiamento epocale, di portata psicologica immensa per le nuove generazioni di donne. Dall’altra, è stato sottolineato che Clinton non rappresenta un esempio poi così virtuoso di femminismo, visto l’impatto che le sue scelte in campo di politica estera ed economica hanno avuto sulle vite di molte donne, in particolare quelle dei paesi colpiti dagli interventi militari da lei appoggiati, e sulle fasce meno privilegiate della popolazione americana. Clinton come rappresentante di una conquista storica per le donne da un lato, Clinton come esponente in vesti femminili di un sistema di potere caratterizzato da privilegio economico e razziale dall’altro. Sono queste, a grandi linee, le due posizioni principali del dibattito femminista sulla sua candidatura presidenziale, due orientamenti che rispecchiano un diverso modo di concepire la natura e gli obiettivi del femminismo.
Molte donne e femministe appartenenti alle generazioni più giovani, tra le quali trova molto seguito il socialista Bernie Sanders, hanno accusato Clinton di rappresentare un femminismo elitario, liquidando l’idea che il genere della candidata rappresentasse un motivo sufficiente per sostenerla: “non voto sulla base del mio genere, voto sulla base delle questioni che mi interessano” è stato il sentimento espresso ripetutamente da queste elettrici, molte delle quali sostengono Sanders per il suo programma radicale di riforma economica. Molto è stato detto sul fatto che l’appartenenza al genere femminile non basti a rendere Clinton ambasciatrice indiscussa dei problemi delle donne ed ancor più si è parlato del fatto che essere donna non basti per presentarsi come il candidato migliore per le elezioni presidenziali. Questo tipo di discorso dimostra una certa confusione tra la questione di Clinton come candidata femminista e quella di Clinton come candidata donna, con la conseguenza di creare un dibattito spesso ossessivamente centrato sulla banale questione del “Le donne ai vertici politici sono meglio purchessia?” come titola un articolo di Monica Lanfranco per Il Fatto Quotidiano.
Secondo Maria Serena Sapegno, professoressa di Letteratura Italiana e Studi di Genere all’Università La Sapienza di Roma, co-fondatrice del Laboratorio di Studi Femministi Annarita Simeone della stessa, e da sempre attiva nel movimento femminista italiano, ad essere importante non è tanto che Clinton sia una donna: “ma il fatto che lei sappia di esserlo, sappia appunto quale enorme tabù stia sfidando e insomma sia sempre stata una femminista. (…) per tutta la vita Clinton (…) ha saputo non perdere mai di vista la vita delle donne e la necessità di lottare per i diritti delle donne.” Il valore della candidatura di Clinton risiederebbe dunque nel portare avanti con tenacia le questioni femminili all’interno dell’ambito marcatamente maschile e maschilista della politica: “la società è costruita dagli uomini per loro e le donne sono necessarie nella sfera privata, punto. Ogni sforzo per entrare nella sfera pubblica, portandosi dietro il proprio corpo e la propria storia, confligge con quelle regole non scritte, e per questo tanto più difficili da contestare, di cui appunto si parla. O si cambiano le regole o non c’è spazio di libertà reale per le donne.”
Al centro delle critiche rivolte a Clinton all’interno del campo femminista risiede invece un desiderio di vedere il femminismo rompere non solo col monopolio maschile del potere, ma anche con un certo tipo di potere e politica. Come spiega Serena Natile, giurista e ricercatrice presso l’Università del Kent nel Regno Unito e il Centro di Law, Gender and Sexuality della stessa, ed ex collaboratrice di varie organizzazioni per i diritti sociali e i diritti di genere, ad essere importante non è solo “se e come una donna possa emergere in un sistema politico creato sulla base di una ‘norma’ maschile, ma quanto una donna al potere possa favorire (…) una politica che metta in discussione le dinamiche di potere anziché dimostrare al mondo come usarle a proprio favore.” Con il suo approccio interventista in merito di politica estera, l’appoggio passato a politiche economiche che hanno penalizzato le fasce più svantaggiate, e la vicinanza al potere economico di Walmart e quello finanziario di Wall Street, Clinton è dunque vista come rappresentante di un femminismo che, nelle parole della femminista americana Nancy Fraser: “vuole pari opportunità di scalare le gerarchie esistenti, senza mai metterle in discussione.”
Se molte donne e femministe si esprimono scettiche rispetto alla candidatura di Clinton, è dunque perché la candidata viene percepita come l’esponente di un femminismo incapace di offrire risposte valide ai loro problemi. Secondo Natile “Il fatto che questo tipo di critica venga mossa dalle femministe più giovani (…) risiede nel fatto che molte di loro stanno vivendo un periodo di precarietà che (…) garantisce poche sicurezze soprattutto sociali come lavoro, casa, sanità e servizi sociali pubblici.” L’esperienza della precarietà economica rende necessariamente poco attrattiva la scelta di Clinton di presentarsi come colei che è capace di sfondare ‘il tetto di cristallo’ del potere politico, senza però metterne in discussione il funzionamento, accentuando così la distanza tra lei e coloro che soffrono le conseguenze delle scelte (soprattutto economiche) prese da questo tipo di potere senza avere possibilità di intervenirvi, per motivi non esclusivamente legati al loro genere.
Chi vede con favore la candidatura di Clinton è spesso consapevole dei suoi limiti: Sapegno per esempio sostiene che, nonostante sia la candidata alla presidenza “più esperta e preparata che si sia mai presentata (…) si possono, e si devono, discutere alcune delle decisioni che ha preso”, mentre Natile ammette che “l’elezione di una donna presidente degli Stati Uniti è una svolta assolutamente positiva in termini di messaggio politico e uguaglianza formale”, anche se precisa che “Clinton dovrebbe riconciliare il movimento femminista che la supporta con quei movimenti sociali che espongono i limiti delle sue idee e azioni politiche”. Se il femminismo è diviso riguardo Hillary Clinton, è perché le varie correnti del movimento sembrano pretendere molto in termini di integrità e responsabilità da parte di quella che sembra essere destinata a diventare la prima donna presidente degli Stati Uniti, e questo non può che essere un bene.
Foto di copertina di Marc Nozell (CCA 2.0/Wikimedia Commons)
Clinton, elezioni, featured, FEMMINISMO, Hillary, usa