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“Un altro me”, un documentario sulla violenza sessuale unico nel suo genere

Siamo nel carcere di Bollate, Milano.  Sergio, Gianni, Giuseppe, Valentino, Carlo ed Enrique fanno parte di un gruppo di 25 detenuti selezionati per seguire un progetto di rieducazione – primo e unico in Italia – specifico per autori di reati sessuali. Se normalmente il livello di recidiva per questo tipo di reati è altissimo, al contrario nel corso dei 10 anni di vita del progetto i casi di recidiva sono stati 7, su un totale di 250 detenuti trattati. Con il documentario Un altro me, il giovane regista Claudio Casazza segue il gruppo lungo tutto questo percorso della durata di un anno, gestito da un’equipe di terapeuti guidata dal criminologo Paolo Giulini.

Vincitore del Premio del Pubblico del Festival dei Popoli di Firenze e del Mese del Documentario di Roma, Un altro me è un documentario coraggioso e molto delicato, per il tema scelto e per l’ottica con cui è stato affrontato. Il regista si limita ad osservare le dinamiche interne tra terapeuti e detenuti, senza aggiungere commenti esterni ai loro scambi, ma registrandone tutti gli aspetti, inclusi quelli più duri e difficili da accettare. Allo stesso tempo non si sofferma mai sui dettagli o gli episodi più violenti che potrebbero catalizzare l’attenzione dello spettatore, ma lascia invece che emergano dei macro-temi su cui anche il pubblico possa interrogarsi: dagli stereotipi radicati su di sé e sulla società, alla presa di consapevolezza del proprio reato e del danno arrecato alle vittime.

Scena dal film “Un altro me”.

Se il regista da un lato lascia interamente la parola ai protagonisti del percorso, dall’altro riesce a fare un’ottima sintesi di questi temi attraverso l’imponente lavoro di montaggio che ha ridotto più di 200 ore di girato in 83 minuti di film, tutti perfettamente funzionali ai diversi aspetti che vuole affrontare.
Le scene sono disposte in ordine cronologico e mostrano l’evoluzione del percorso dei detenuti, che inizialmente tendono a non assumersi interamente la responsabilità del reato, a minimizzare e, in certi casi, addirittura a scaricare la colpa sulla vittima. «Il maschio paga le pene e lei no. È una puttanella da discoteca che va in giro a farsi agguappare e poi denuncia» afferma ad esempio un detenuto riferendosi alla vittima nel corso di uno degli incontri di gruppo. La reazione dei terapeuti non si fa attendere, per mettere in chiaro che provocare non è reato, mentre lo è agire contro il volere della persona.

A questi scambi, il regista contrappone costantemente le discussioni interne al team dei terapeuti, in cui si commentano i progressi compiuti o si rilevano problemi riscontrati con alcuni elementi del gruppo. In questo modo Un altro me riesce a mantenersi in perfetto equilibrio tra la volontà di mostrare il punto di vista dei detenuti e il rispetto per la delicatezza e la problematicità del tema, lasciando la giusta distanza tra pubblico e personaggi. Funzionale a questo scopo è proprio il fuori-fuoco dei visi dei detenuti, essenziale anche per proteggerne la privacy ed evitare ulteriori traumi alle vittime qualora vedessero il documentario.

Una delle locandine di “Un altro me”.

Tra i momenti più significativi ed emozionanti del film vi è certamente l’incontro tra il gruppo e Liliana, vittima di violenza sessuale. Se la reazione dei detenuti alla notizia dell’incontro è inizialmente molto scettica – i più pensano che non si tratterà di una vera vittima bensì di un’attrice – nel corso dello scambio con la donna devono necessariamente ricredersi e confrontarsi con le proprie emozioni, dal senso di colpa alla maggiore presa di coscienza nei confronti del danno compiuto. La frase più coraggiosa dell’intero film è forse quella pronunciata dalla stessa Liliana, che crede, nonostante la violazione subita, nella possibilità di riscatto: «Le vittime parlano tanto: ora tocca ai colpevoli parlare» – parlare del reato commesso e del percorso di rieducazione successivo.

Un altro me non è un film che vuole promuovere una tesi finale o dare risposte; al contrario, l’obiettivo è spingere il pubblico a porsi delle domande su un argomento delicato, e per molti versi tabù, e a farlo con maggior cognizione di causa.

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Lucia Ghezzi

Classe ’89, nata in un paesino di una valle bergamasca, fin da piccola sento il bisogno di attraversare i confini, percependoli allo stesso tempo come limite e sfida. Nel corso di 5 anni di liceo linguistico sviluppo una curiosa ossessione verso i Paesi dal passato/presente comunista, cercando di capire cosa fosse andato storto. Questo e la mia costante spinta verso “l’altro” mi portano prima a studiare cinese all’Università Ca’ Foscari a Venezia e poi direttamente in Cina, a Pechino e Shanghai. Qui passerò in tutto due anni intensi e appassionanti, fatti di lunghi viaggi in treni sovraffollati, chiacchierate con i taxisti, smog proibitivo e impieghi bizzarri. Tornata in patria per lavoro, Pequod è per me l’occasione di continuare a raccontare e a vivere la Cina e trovare nuovi confini da attraversare. Sono attualmente responsabile della sezione di Attualità, ma scrivo anche per Internazionale.

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