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Seconde generazioni queer – Così ho ucciso mia madre

Ho chiesto a molti di raccontare la propria storia. È giusto che anche io vi parli della mia. Per voi, che state leggendo e cercate un confronto.

Sono nato in una casa di sole donne, posta all’estremità di una collina, in un Marocco rurale. Una piccola repubblica rosa, capeggiata da mia nonna. Fin da piccolo, ho sempre avuto a che fare solo con donne: mia madre, le mie sette zie, la sorella di mia nonna, le mie 11 cugine e tutte quelle che passavano per le telenovelas. Gli uomini erano tutti lontani, sparsi per l’Europa a cercar fortuna. Compreso mio padre.

A 4 anni arrivai per la prima volta in Italia. Salto un po’ di anni e arrivo ai miei 12, quando presi realmente consapevolezza della mia omosessualità, che accettai fin da subito, con tranquillità estrema. Ciò che non accettai fu la mia identità araba e tutto ciò che aveva a che fare con quel mondo, ormai così lontano ai miei occhi, e così violento. La consuetudine vuole che si litighi con se stessi a quell’età.

“Sarò malato? Perché sono diverso? Perché mi piacciono gli uomini? Devo cambiare? Dio vuole questo per me?’’: nulla di tutto ciò mi ha mai toccato. Ho iniziato, piuttosto, a prendere le distanze dal mio Marocco e dalle persone che lo compongono. Questo rifiuto non ha una sola dimensione, ne ha molteplici e riguarda anche l’aspetto linguistico, culturale e tradizionale del Marocco. L’aspetto religioso non mi ha mai interessato: elaborai fin da piccolo un agnosticismo embrionale che pian piano prese forma.

Per anni mentii alla mia insegnante di francese, che certa del fatto che i miei genitori sapessero il francese – mentre erano e sono completamente analfabeti – mi prendeva sempre in causa nelle sue lezioni. Mi vergognavo della verità. Non accettavo l’analfabetismo dei miei genitori.

Eppure vedevo lo sforzo di mia madre nel capire le cose, la sua voglia di conoscere il mondo, vedevo come i suoi occhi scrutavano gli oggetti, vedevo come si accostava a me mentre facevo i compiti e l’unica domanda che mi poteva e riusciva a fare era se poteva aiutarmi a colorare qualcosa, qualche scheda o qualche disegno già iniziato. Mia madre con quei suoi occhi attenti, vispi. Una lingua che non si fermava mai e un corpo sempre in movimento per un dove. Vivevo a stretto contatto con un’altra bambina, mia madre.

Il periodo liceale è stato un susseguirsi di scoperte, amicizie, i primi sentimenti che prepotenti uscirono fuori. La voglia di affermarsi e di dichiararsi a tutti quanti, con la mia elezione a rappresentante di istituto. Mi costruivo nel dubbio e in quel dubbio iniziai a capire il mio naturale modo di esistere nel mondo. Mentre, dall’altra parte, andavo sempre di più isolando i miei genitori dal mio mondo. Non volevo che iniziassero a capire chi fossi realmente.

E a conclusione della quinta liceo arrivò il difficile: spiegare ai miei genitori cosa fosse l’università e a cosa servisse. Mancarono le parole. Io con il mio arabo singhiozzante e loro con quella manciata di italiano fra i denti e la lingua. Che contrasto. Che lotta. Che guerra continua. Ancora oggi quella lotta di definizioni non è finita.

Quando pensavo a un mio probabile coming out con mia madre, cercavo le parole più corte e quelle più comprensibili. Pensavo che “Mamma, mi piacciono i ragazzi” fosse una frase troppo lunga e che potesse richiedere una spiegazione altrettanto lunga. L’unica parola che conoscevo, attribuibile alla mia sessualità, era “zamel”, ovvero: frocio, finocchio, ricchione. Ma non volevo parlare di me in questi termini. E quindi? Dove stavano tutte quelle parole che sembravano voler sfuggire da me?

Solo dopo scoprii le parole di cui avevo bisogno, attraverso la lingua lirica di Abdellah Taïa e dei suoi romanzi [Il Grande Colibrì]. C’è una terminologia tutta recente, coniata nei primi anni del 2000 per indicare l’omosessualità in una realtà neutra: “mithli” (مثلي) per omosessuale e “mithliya” (مثلية) per omosessualità.

Pare una barzelletta: proprio ora che avevo le parole giuste, non ero sicuro che i miei genitori le conoscessero, visto l’utilizzo così recente di queste parole. Ridono di me queste parole, tanto ricercate quanto inutili nel mio caso. Non riempirono mai una stanza, ma rimasero sempre scritte nel mio diario. Temevo di dimenticarle.

Sento di aver ucciso mia madre. Sì.

L’ho uccisa perché come un dittatore l’ho sempre lasciata in uno stato di minorità intellettuale, creandole attorno una barriera anticulturale. Ciò, se prima mi serviva a impedirle di far parte del mio mondo, ora è diventata una condanna. Ostracismo. Un peso morto che grava sulla mia coscienza. Invece di darle gli strumenti giusti per farle capire chi fossi e chi sono ora, le ho sempre regalato sentenze assicurate e senza via d’uscita.

Cara madre, hai lo stesso nome della moglie del profeta: Khadija. Ma il tuo nome sembra quasi anticipare una tua condanna. Un marchio di minorità. Khadija significa “figlia nata prematura”. Pare quasi che le parole ci siano avverse. Hanno sempre le carte giuste. Ora non possiamo vincere. Hanno la meglio contro di noi. E come una figlia nata prematura, non hai avuto le forze per ridestarti.

Noi, che siamo a digiuno di parole. La mia è stata una ricerca filologica che non ha avuto pubblico. Voglio quindi fermare questa ricerca di parole e dare a questo insieme di lettere e di suoni un reale lettore, farle finalmente vivere. Lo faccio qui, ora. Anche se queste parole non arriveranno a mia madre, so che arriveranno a voi. Tutte quelle parole ricercate e trovate avranno almeno un senso.

Sento di dover fare questo passaggio. Sento di dovere e di potere partecipare al dibattito culturale e interreligioso che riguarda noi seconde generazioni LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer, intersessuali e asessuali) cresciute o nate in Italia. Non possiamo solo subire passivamente. Sento di dover contribuire, con una mia parola, con un mio verso. Questo dibattito è già presente in Francia, Inghilterra o Spagna perché c’è chi ha saputo e avuto il coraggio di urlarle, quelle parole. Se la comunità LGBTQIA araba in Marocco, Algeria, Libano, Tunisia, eccetera, non ha paura di emergere e sfida con coraggio le autorità locali [Il Grande Colibrì], perché noi non possiamo fare lo stesso qui, in Italia?

Con gli anni ho notato come la generazione dei miei genitori, e non solo, fosse decisamente improntata a una logica della conservazione. Quando ci si sente minoranza, quando si è lontani da casa propria, quando come nel caso dei miei genitori si è portati a essere fuori dalla realtà in cui si vive, per via dell’assenza di strumenti, si tende a salvare ogni piccola tradizione identitaria del proprio paese, si tende a diventare, quindi, dei conservatori. Questo conservatorismo è ancora più accentuato quando l’integrazione viene a mancare.

E mentre il dibattito su diritti civili, laicismo e ateismo inizia a prendere piede in alcuni paesi arabi e vediamo una iniziale apertura, notiamo al contrario conservatorismo e immobilismo da parte di chi vive nella bella Italia. Si è creato uno stato nello stato, con regole e moralità proprie. Non dobbiamo e non possiamo fare lo stesso noi. Siamo la generazione liquida, quella che non può avere timore di parlare di laicità e di ateismo nelle comunità dei fedeli musulmani o in qualsiasi altra comunità, da quella cinese a quella senegalese.

Molti di noi provengono da paesi nel quale essere omosessuali è un crimine. Dove questo tema, assieme a quello dei diritti civili, è difficile che venga ben rappresentato da televisione e giornali, o non viene rappresentato affatto. Il web è e sarà il luogo naturale dove avverrà la nostra rivoluzione, la nostra primavera. Parlare di noi sarà lo sgarro verso chi fa finta di non vederci.

Siamo in tanti e molti di noi hanno paura a firmarsi, perciò inizierò io, certo del fatto che arriveranno al Grande Colibrì altre storie e altro coraggio. Scrivete a questo indirizzo: info@ilgrandecolibri.com. Raccontatevi! Svelatevi! Amatevi!

Articolo di Anas Chariai

Fonte: Il Grande Colibrì

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