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Le maschere della fragilità umana, olio su tela

Ecco un viaggio mascherato all’interno della storia dell’arte: la maschera come mezzo per fuggire dalla realtà, per nascondersi e salvare la propria profondità. La maschera come simbolo delle ipocrisie e dei mascheramenti della civiltà occidentale.

Rileggendo Nietzsche, ricordo il travestimento come qualcosa che non appartiene all’uomo naturalmente, ma che si assume deliberatamente in vista di qualche scopo. Questo travestimento viene assunto per combattere uno stato di paure e debolezza e la finzione, nella sua accezione generale, copre il dissimularsi e l’escogitare finzioni utili quali concetti scientifici ed è in ogni caso legata alla paura, all’insicurezza, alla lotta per l’esistenza.

Partiamo da Antoine Watteau (1684 – 1721) fu un pittore che si specializzò nel tema delle cosiddette Feste galanti, ovvero i momenti mondani della nobiltà francese settecentesca come i gran balli, i balli in maschera, la caccia, i concerti all’aria aperta, le passeggiate. Watteau ci restituisce tutte le atmosfere Rococò, aiutandoci a riportare a galla la vita quotidiana della società aristocratica francese settecentesca. Il pittore, figlio del suo tempo, si specializza nella “pittura di genere”, in particolare quello teatrale. Innanzitutto questo tipo di pittura nasceva come testimonianza delle messinscena del suo tempo, ma in seguito si evolverà con l’inserimento dei personaggi mascherati della Commedia dell’Arte all’interno di situazioni non sempre consone a questo tipo di teatro. Sono i personaggi mascherati di Watteau: tolti dal palcoscenico e inseriti nei paesaggi idilliaci e pastorali che tanto piacevano all’aristocrazia. Nei suoi dipinti le maschere teatrali diventano delle presenze, non più sceniche, ma elementi metaforici o giocosi all’interno di scenette per lo più arcadiche.

Nelle sue opere numerosissime sono le scene di mascherate in giardino, maschere della Commedia dell’Arte italiana che diventano un soggetto ricorrente, quasi ossessivo e con un valore in sé, ma senza riferimenti narrativi: i commedianti di Watteau sono sempre ritratti in posizioni statiche, in qualche momenti di pausa e rarissimamente impegnati in qualche azione scenica.

Dettaglio da “Gilles”, Antoine Watteau, 1719, olio su tela, 184×149 cm., Louvre, Parigi

Gilles è forse uno dei quadri più noti del pittore: un Pierrot francesizzato, la maschera malinconica del pagliaccio bianco innamorato, che se ne sta lì dando le spalle ai sui compari un po’ pensoso un po’ stralunato è forse la metafora dell’amore non corrisposto.

Cambia la storia, cambiano gli umori e a mezzo secolo di distanza Francisco Goya (1746 – 1828) ci da una rappresentazione pittorica della maschera che si scontra brutalmente con gli idilliaci paesaggi pastorali del Rococò: l’arte per Goya è l’esorcismo con cui evoca e depreca i mostri dell’oscurantismo, una superstizione laica contro quella religiosa. Nei suoi Capriccios del 1799 la ragione evoca dall’inconscio i mostri della superstizione e dell’ignoranza che i sonno della ragione ha generato. Goya non è un pittore visionario ma descrive l’immagine del pregiudizio e del fanatismo con lucidità volontaria, senza l’ironia superiore del filosofo, ma con un furioso sarcasmo. Rivela la superficialità, la precarietà e la menzogna che il suo tempo dava di sé, risultandone così minati i valori e le credenze.

Oppone la realtà del brutto all’ideale del bello: il vero realismo sta nel tirar fuori tutto quello che si ha dentro senza nascondere nulla, senza scegliere. È quello che Goya fa nella sua confessione generale, circondandosi dei suoi fantasmi perché vive in essi e che rappresentano la sola e vera realtà.

Dettaglio da “Caprichos no. 49: Duendecitos”, Francisco Goya, 1799, acquaforte, Museo del Prado, Madrid

Nella prospettiva di Goya non c’è posto per “il bello”: non è per scrupolo morale che non indugia a osservare il bell’effetto di luce o di colore ma vuole l’esatto opposto, presentando una realtà che non è eterna.

Con i Capricci, il pittore spera di educare il popolo, mostrandogli il suo vero volto attraverso uno spregiudicato uso di maschere grottesche e allegorie ammiccanti. I suoi “cattivi” non hanno volto, sono quasi deformi, simboli di violenza e di morte. Volti incomprensibili per cui si fatica a distinguere tra una maschera terribile o una deformazione animalesca e grottesca del viso. Con questa serie Goya crea un intero bestiario, deforma le fisionomie, disegna spettri grotteschi e spaventose maschere di morte. Usa tutti gli espedienti retorici e ne crea di propri per esecrare la tirannia che ammorba la vita del suo popolo e sua personale.

Un salto temporale e geografico ci porta nell’espressionismo fiammingo di fine ottocento: James Ensor (1860 – 1949) potrò nella sua pittura la tendenza a un immaginario inquieto e brulicante di personaggi grotteschi, le cui fonti erano pittori fiamminghi del passato come Bosch e Bruegel. Una qualche influenza sul suo modo di dipingere, che si presenta come un commento al gusto della borghesia meno raffinata, può essere addebitata all’attività della madre che gestiva una bancarella di maschere e souvenir sul lungomare di Ostenda. Più in generale l’artista rivalutò il teatro di strada, il Carnevale e altri aspetti del folklore, fino ad allora considerati troppo volgari per venir citati dalla cultura di alto livello. Contrariamente a ciò, Ensor era convinto che “La ragione è nemico dell’arte” e amò l’irrazionalità tipica del linguaggio popolaresco. Da questo imparò a mescolare nei suoi dipinti personaggi di tutti i giorni a personaggi-metafora: dalle allegorie che compaiono nelle carte di Tarocchi, nelle leggende superstiziose, dalla morte al diavolo, dagli amanti segreti al matto del paese.

“L’Entrée du Christ à Bruxelles”, James Ensor, 1888, olio su tela, 253×431 cm, Getty Museum, Los Angeles

Il tema delle maschere e dei burattini ricorrerà in forme sempre più frequenti e quasi ossessive nell’attività artistica ensoriana a partire dal 1883 con il dipinto Le maschere scandalizzate. Nel frattempo le sue tele cominceranno a popolarsi di bizzarre figure fino a raggiungere l’apoteosi del sovraffollamento in quello che è considerato il suo capolavoro: L’entrata di Cristo a Bruxelles, 1888.

La banale risata che appare sui volti-maschera di Ensor si arricchisce di una superiore valenza spirituale poiché, come tutto ciò che appartiene all’uomo ha un’origine e una fine, anche il riso ha come sua estrema tappa la morte. Unitamente al riso, il motivo della maschera assume un valore ambivalente perché il suo uso permette, attraverso il travestimento, di modificare ciò che dietro vi si nasconde. Maschera e risata sono strumenti che illudono l’uomo sulla possibilità di un superamento collettivo della morte. Il riso acquista valore di forza sociale e proprio quelle strane figure che sembrano il frutto di allucinate visioni attingono invece a una realtà sovrannaturale.

Lo smascheramento è necessario per uscire dalla nostra bolla di debolezza, insicurezza e finzione. Giù la maschera.

In copertina: La Mort et les masques, James Ensor, 1897, olio su tela, 78,5x 100 cm., Musée d’Art contemporain de la Ville, Liège

Ph credits: wikiart

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Sara Alberti

Nata sulle colline bergamasche nel 1989, percuoto dall’età di otto anni, quando ho iniziato a studiare batteria e percussioni da orchestra nel Corpo Musicale Pietro Pelliccioli di Ranica (W la banda!). Dopo essermi barcamenata tra le varie arti, la Musica ha avuto la meglio e mi è valsa una laurea in Musicologia. Profondamente affascinata dal vecchio e dall’antico, continuo a danzare e suonare nella Compagnia per la ricerca e le tradizioni popolari “Gli Zanni” e per il mio grande amore balcanico Caravan Orkestar. Su questa nave di pirati sono la responsabile della sezione Nuove Premesse, della cambusa e della rubrica musicale.

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