Get your kicks on Route 66
Get your kicks on Route 66, cantava nel lontano 1946 Nat King Cole. Il brano, successivamente arrangiato da altri artisti quali Chuck Berry nel 1961, i Rolling Stones nel 1964 e i Depeche Mode nel 1987, canta lo stile della più famosa highway americana, la Route 66 appunto, che taglia trasversalmente gli USA. Forse più attratti dai luoghi che dal sistema yankee, la mia famiglia ha deciso di intraprendere il lungo viaggio a stelle e strisce nel luglio 2009: tre settimane per attraversare in macchina sette stati, partendo da Chicago ma “deviando” all’altezza di Las Vegas per raggiungere San Francisco in aereo. Ebbene, quella strada ha generato in me un vero cambiamento: partita con un mucchio di pregiudizi sulla società americana, volti, storie, luoghi e scenari d’ogni genere mi hanno smentita e, piacevolmente, ho scoperto un’America inedita e molto più “umana” di quanto pensassi.
L’avventura è cominciata sotto il cartello che segnala l’inizio della Route 66, a Chicago (Illinois): nella città aleggia ancora un’aria da inizio Novecento, quando i cantieri del Monadnock Building erano appena stati dismessi; quando il Loop, la metropolitana sopraelevata, sferragliava per le vie del centro; quando Al Capone muoveva i suoi primi passi nel crimine del quartiere Cicero. Ad accomunare l’Illinois al Missouri c’è Springfield, la cittadina che è tanto comune negli States quanto le città intitolate ai Santi qui in Italia: io ho dormito nella Springfield del Missouri, nel primo di una lunghissima serie di motel scelti al momento sulla strada.
Risotoratici in Missouri è già tempo di ripartire ed eccoci in Kansas, a Joplin; qui ho incontrato l’anziano proprietario dell’Eisler Brother’s General Store, una piccola drogheria sperduta tra i campi di mais, che con una cadenza fastidiosamente americana mi ha detto: «Io adoro Italia». “Sì – ho pensato – gli piaceranno la pizza e l’idea che s’è fatto della mafia”. Ma ecco la prima smentita: quella persona aveva imparato a cantare la lirica italiana da un’insegnate d’altri tempi, e amava l’Italia per le sue note melodiose, per i suoi figli Giacomo Puccini e Giuseppe Verdi. Sulle note della nostra musica siamo così arrivati in Oklahoma. Verde e ricca d’acqua (bellissimo il lussureggiante laghetto con scivolo a forma di balena nella città di Miami), è stato ad Oklahoma City che la maledizione del viaggiatore ci ha colpiti: la ruota anteriore della nostra Chrysler è rimasta a terra.
Ce lo dovevamo aspettare e, aggiustata la gomma, siamo ripartiti alla volta della spaventosa Texola: la città fantasma più austera di sempre segna il confine tra Oklahoma e Texas dove, tuttavia, trova dimora un luogo storico della Route, il Cadillac Ranch di Amarillo. Progettata nel 1974 da Chip Lord, Hudson Marquez e Doug Michelsdal, l’opera, dieci auto rottamate di marca Cadillac piantate nel terreno, è diventata anche titolo di una canzone di Bruce Springsteen dell’ album The River. Il New Mexico non mi è piaciuto: il caldo e i finti pueblos mi hanno proprio stancata, per fortuna che siamo giunti in Arizona e al Grand Canyon.
Lo spettacolo è stato davvero imponente, tra gole di pietra, il letto del Colorado, piccoli arbusti qua e là. E uno scoiattolo talmente avvezzo agli umani da rubare a un incauto turista un hot dog con senape e ketchup.
A King Man abbiamo salutato la Route per dirigerci a Las Vegas (Nevada): se non fosse per la bella centrale idroelettrica che, dagli anni Venti, fornisce energia alla città più finta del mondo, Las Vegas sembrerebbe davvero un miraggio nel mezzo del deserto: la finta Venezia, la finta Tour Eiffel, la finta Sfinge, i finti matrimoni con finti Elvis.
Ma a farci tornare a una (bella) realtà ci ha pensato San Francisco, con i tram che, giunti da tutto il mondo, scalano le colline della città, il meraviglioso Golden Gate, la paurosa Alcatraz, la cappella interconfessionale della Grace Cathedral col trittico firmato Keith Haring. Ed è stata umanità allo stato puro.
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