Arlecchino, il migrante sociale
Bergamo al tempo del Rinascimento non è che brillasse per fermento culturale o grandi corti di intellettuali. C’era cultura a Bergamo, ma non c’era una cultura bergamasca e salvo i colti festini della cricca del Colleoni, il resto della popolazione guardava alla Serenissima con la voglia di prendere e partire. Sia gli intellettuali che i popolani sentivano il bisogno di una nuova linfa vitale: molti decisero di andarsene dalle impervie valli per dirigersi verso città portuali come Pisa, Livorno, Genova e Venezia, dove i bergamaschi di montagna, laboriosi e forzuti, erano molto ricercati.
Facchino, manovale, servo erano i lavori più abbordabili nonché i più degradanti e, come accade ancora oggi: “Maledetti questi bergamaschi che ci rubano il lavoro!”. Dalla loro però avevano da giocarsi la carta della simpatia: un aspetto ridicolo, il gozzo – causato da acque cattive e pessima alimentazione – che gonfiava il collo e un dialetto molto stretto, ma che fornì a queste persone l’occasione di diventare degli attori professionisti.
L’ “Arte” della Commedia, infatti, altro non è che “mestiere”, e i nuovi protagonisti della scena avevano mestiere da vendere: abilità diverse (canto e ballo, recitazione e acrobazie) si adattavano all’esile drammaturgia dei ‘canovacci’, in un continuo alternarsi di comico e drammatico, di battibecchi tra borghesi saccenti e Zanni sempliciotti ma efficienti e delle romanticherie degli innamorati; trame semplici e ‘tipi fissi’ che attirano il favore di ogni tipo di pubblico.
Il segreto del fascino della Commedia dell’Arte stava nell’improvvisazione, una ricerca lunga una vita che non ha nulla a che fare con l’incompetenza. Pensate a qualcosa come una jam session: in scena gli attori improvvisavano sul testo affiancando alle battute collaudate i detti popolari e riferimenti ammiccanti all’attualità del posto; attori che assimilavano qualsiasi forma spettacolare incontrata in viaggio, rinnovando continuamente la propria presenza scenica.
Accademici ed ecclesiastici aberravano tutto questo ciarlare nelle piazze: «i loro costumi sono questi: il saper vivere sempre per le osterie, l’essere vagabondi, spergiuri, ciarloni, puttanieri, giocatori e per corona di tutto bugiardi sopraffini». Le loro donne? Catalogate come «puttane erranti».
Già l’essere attori faceva di loro persone al limite della società; aggiungeteci il fatto di non vivere stabilmente a corte, sotto le dipendenze di un nobile signore, ma per strada: la piazza era il palcoscenico. Perché piacevano questi Zanni? Perché parlavano di tutto il popolo, del contadino bergamasco e dello schiavo veneto, dello spocchioso capitano di ventura e del dottore intellettualoide. La società che li accoglieva, nel bene e nel male, era l’ispirazione per lo sviluppo di trame rocambolesche dove gli unici obbiettivi dei servi Zanni e Arlecchino erano mangiare, bere e concludere qualcosa con la servetta di turno.
Ma dietro la maschera c’è molto di più: tra coriandoli e stelle filanti, nel Carnevale riaffiora un rito antichissimo, il gioco magico e religioso del travestimento che è alle origini della storia dell’uomo.
Dietro la maschera c’è un attore che sfida i propri limiti, che smaschera bugie e lusinghe della parola e della mimica facciale rivelando la verità del linguaggio del corpo.
Dietro la maschera c’è un uomo che si trasfigura per adattarsi o opporsi a una nuova società, ieri come oggi.
Con buona pace degli aristocratici, i comici dell’arte hanno avviato una grande rivoluzione teatrale e sociale. La Commedia dell’Arte è alle origini del teatro moderno, fatto di attori professionisti e pagati, ma anche dell’emancipazione della donna, per la prima volta accolta su un palcoscenico senza dubbi sulla sua moralità, e dell’emancipazione sociale di chi, vagabondo per necessità, ha fatto dell’itineranza una scelta di vita o, almeno, un viaggio alla scoperta dell’altro e di se stesso.
Articolo di Sara Alberti e Alice Laspina
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