Skip to main content

Piccola Bretagna: il referendum europeo visto da una migrante

Il mio primo periodo a Londra fu caratterizzato dall’impressione che la mia vita si fosse improvvisamente rimpicciolita. Tutte le cose che avevo considerato importanti fino a quel momento sembrarono recedere sullo sfondo, mentre mi concentravo sugli aspetti pratici dell’iniziare una nuova vita. Prima di tutto dovetti adattarmi alla goffaggine del mio inglese: nonostante lo scoraggiamento iniziale riuscii in qualche modo ad affittare una stanza da un’agente immobiliare che non voleva saperne di parlare più lentamente, non importa quante volte la pregassi. Questo fu niente se paragonato al tentativo di prenotare un appuntamento per ottenere il codice fiscale britannico tramite un’operatrice telefonica la cui parlata mi risultava incomprensibile, e che però fu tanto paziente da scandire ripetutamente le sue parole per me, una nuova arrivata confusa da quello che solo più tardi avrei scoperto essere un marcato accento del nord. Mi sentii terribilmente insicura anche sotto lo scrutinio dell’impiegato che mi permise di aprire un conto in banca solo dopo averlo assicurato oltre ogni dubbio che avrei iniziato un lavoro a tempo pieno la settimana successiva. Infine dovetti soccombere allo schiacciante disorientamento che mi pervase nei mesi successivi, mentre cercavo di capire come funzionasse tutto quanto: dai mezzi di trasporto alle sottigliezze dell’interazione sociale.

Non ero completamente nuova a questo tipo di esperienza: la mia famiglia si trasferì in Italia nel 1992 per sfuggire alla guerra in Jugoslavia, e mi ricordo chiaramente quanto fu difficile per i miei genitori trovare un impiego e qualcuno che si fidasse ad affittare loro un appartamento. Mi ricordo come anche le loro vite sembrarono rimpicciolirsi per anni, mentre si battevano contro l’insopportabile lentezza della burocrazia italiana e cercavano di adattarsi al senso di impotenza e isolamento che caratterizzano l’esperienza migratoria in una piccola cittadina di destra. Mi ricordo ancora vividamente la sensazione dell’essere osservati e valutati dagli abitanti del luogo quando i miei genitori ed i loro amici cercavano di ricreare un senso di casa bevendo caffè dopo caffè (com’è d’uso nei Balcani) al bar centrale, ridendo e parlando ad alta voce nella loro lingua madre. Mi ricordo anche come i bambini del posto mi escludessero dai loro giochi perché non ne conoscevo le regole e nessuno aveva la pazienza di insegnarmi. Ancora oggi sono dolorosamente consapevole di quanti usi e costumi italiani ci siano sconosciuti, nonostante i tanti anni passati nel paese, un’incompletezza che mi ricorda come la nostra italianità sia stata acquisita attraverso un percorso accidentato, non tramite il privilegio di usi e costumi tramandati ma andando per tentativi e facendo errori.

Foto di Elliot Stallion / Pixabay
Foto di Elliot Stallion / Pixabay

Per me l’esperienza della migrazione si può riassumere nella sensazione che la tua vita si rimpicciolisca, mentre il tuo vissuto si riduce ad un numero limitato di problemi pratici ed emozioni spiacevoli. Ma proprio come era successo ai miei genitori in Italia, il processo si invertì gradualmente anche per me ed infine la gamma completa delle emozioni ed esperienze che compongono il vissuto mi tornò di nuovo accessibile. Oggi la mia vita è più ricca grazie al tempo passato nel Regno Unito e mi rendo conto che il rimpicciolimento che percepii inizialmente era parte di un processo che oggi mi permette di guardare il mondo attraverso una prospettiva più completa. A Londra ho completato un Master, ho lavorato nella ristorazione, all’università e nel sociale, ho conosciuto persone provenienti da ogni angolo del mondo ed ho fatto esperienze che mi hanno spinta a rivedere le mie opinioni ed i miei valori. Col tempo ho imparato ad apprezzare la vastità di questa città e la diversità dei suoi abitanti e sono diventata orgogliosa di far parte di una società che valorizza la pluralità e la tolleranza. Diamine, ho persino imparato a capire gli accenti del nord!

Se ho potuto godere delle sfide e delle ricompense che comporta la vita in questo paese è stato grazie al privilegio della cittadinanza europea. Se da ragazzina ho potuto partecipare a progetti di scambio che mi hanno portato in Inghilterra e in Finlandia è stato grazie a borse di studio create dall’Unione Europea per favorire la mobilità dei giovani nei suoi Stati membri. Anche io penso che l’Europa abbia bisogno di cambiamento, ma nutrivo la speranza che sarebbe migliorata e che i suoi confini esterni si sarebbero allentati, non che l’avremmo vista implodere mentre ne nascevano di nuovi al suo interno. Per tutti questi motivi, quando i risultati del referendum sono stati annunciati la mattina del 24, la mia reazione è stata di sconvolgimento e preoccupazione per la direzione che avrebbero preso le cose dal quel momento in poi. Indipendentemente dalle conseguenze a lungo termine che l’uscita dall’Europa avrà sul Regno Unito, non riesco a non pensare che tramite questa decisione i cittadini britannici abbiano scelto di rimpicciolire volutamente le loro vite. All’interno del Paese ci sono molti motivi per preoccuparsi: il mercato del lavoro potrebbe indebolirsi ulteriormente, i cittadini britannici potrebbero perdere il diritto di viaggiare, lavorare e vivere nei Paesi europei senza visto, i finanziamenti europei al settore sociale e alla ricerca potrebbero sparire e c’è da chiedersi cosa ne sarà dei diritti umani e di quelli dei lavoratori una volta che le protezioni assicurate dall’Unione Europea saranno venute meno.

Foto by Alexas Fotos / Pixabay
Foto by Alexas Fotos / Pixabay

Nessuno sa esattamente cosa succederà una volta che l’articolo 50 sarà stato invocato e le negoziazioni avranno avuto luogo; è persino possibile che il libero movimento dei lavoratori ed il mercato unico vengano mantenuti. Ma il problema è più profondo: tutti coloro che vivono in questo paese sanno che l’immigrazione è stata il vero punto della questione e che l’attitudine britannica verso la diversità è stata drammaticamente ridefinita durante le campagne referendarie. Lo shock sui volti dei miei amici e colleghi britannici, che continuano a chiedersi come questo sia stato possibile, è testimone della loro riluttanza nell’accettare che i valori di cui il loro paese si è fatto portatore per così a lungo siano stati deliberatamente accantonati, se non proprio cestinati, nel periodo precedente al voto da entrambe le parti del dibattito politico. Li ascolto ed empatizzo con loro, mentre, forse per la prima volta nella storia del Regno Unito, contemplano la possibilità che le loro vite si rimpiccioliscano, senza che ne abbiano alcuna colpa.

Chi non impara le lezioni della storia è condannato a ripeterle. Lo shock dei miei amici britannici mi ricorda inevitabilmente quello della generazione dei miei genitori quando la disintegrazione della Jugoslavia ha avuto inizio: che i principi della coabitazione e del rispetto reciproco potessero essere abbandonati così facilmente a favore di interessi nazionalistici era per molti jugoslavi semplicemente inconcepibile, così come lo è per molti britannici oggi. L’Unione Europea non è perfetta, così come non lo era la Jugoslavia, ma sono dell’opinione che per far parte di un’unione politica sovranazionale sia necessario mostrarci pazienti l’uno verso l’altro mentre negoziamo le regole del gioco ed accettare il carattere accidentato del percorso attraverso cui è possibile costruire un senso di comunità, imperfetto ma condiviso. Mentre nel Regno Unito le segnalazioni di abusi motivati da odio razziale aumentano e le estreme destre europee si fanno forti del risultato del referendum britannico, temo che il Regno Unito e l’Europa si stiano riducendo a versioni sempre più piccole e limitate di se stesse. Mentre guardo l’ormai piccola Bretagna migrare via dall’Europa, non mi resta che sperare che questo processo possa invertirsi il più presto possibile.

brexit, Europa, featured, gran bretagna, UK, Unione Europea, Yugoslavia


Sara Gvero

Nata in Jugoslavia nel 1989, a due anni mi trasferisco in Italia con i miei genitori, decisi a non farsi risucchiare dal conflitto etnico alle porte. Migrante in tenera età, divento da subito sensibile alle tematiche culturali, politiche e sociali su cui si orienteranno i miei studi successivi ed il mio lavoro. A diciotto anni mi trasferisco dalle Marche a Roma, dove mi laureo in Letterature, Linguaggi e Comunicazione Culturale. Qui approfondisco la mia passione per tutto ciò che riguarda la cultura, l’arte e la letteratura, e nasce un nuovo amore per le teorie sociali e culturali critiche, in particolare quelle di genere. Nel 2011 entro a far parte del laboratorio di studi femministi Sguardi Sulle Differenze dell’Università La Sapienza e nel 2014 completo un Master in Genere, Media e Cultura a Londra. Concluso quest’ultimo inizio a far volontariato e poi a lavorare per il Women and Girls Network, organizzazione che si occupa di contrastare la violenza di genere. Nel tempo libero mi nutro di mostre d’arte e lettura, passeggiate lungo il Tamigi e visite ad amici e parenti sparsi per l’Europa. Per Pequod mi occuperò soprattutto di questioni di genere per Attualità ed Internazionale, contribuendo alle altre sezioni su temi di politica, società e cultura.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.