Essere giovani archeologi nel 2016: sfide e possibilità
L’Italia è uno dei Paesi al mondo con più scavi e ritrovamenti archeologici, luogo di origine di reperti invidiati da tutto il mondo. Allo stesso tempo, però, l’archeologia nel Bel Paese è un campo caratterizzato da croniche mancanze di fondi e precarietà per gli addetti ai lavori.
Abbiamo parlato di cosa comporti la carriera di un giovane archeologo oggi con Jennifer Alvino, dottoranda in Etruscologia presso l’Università La Sapienza di Roma.
Partiamo dalla formazione. Qual è il percorso di studi più indicato per diventare archeologi?
Se si ha fin da giovanissimi il sogno di fare l’archeologo, la scelta più indicata alle superiori è il Liceo Classico, in quanto dà una solida formazione sia in latino che in greco. Ciò non significa che scegliere una scuola diversa precluda l’accesso alla carriera di archeologo – basti pensare che io ho frequentato il Liceo Linguistico – ma sicuramente può essere d’aiuto per superare con più facilità gli esami universitari. Per quanto riguarda l’università, i corsi di laurea triennale più indicati sono Lettere Antiche oppure Scienze dei Beni Culturali, poi in seguito si può scegliere la specializzazione in Archeologia. Dopo la laurea magistrale ci sono due opzioni, si può scegliere di frequentare la Scuola di Specializzazione, che dura due anni e prevede dei dei corsi da sviluppare inerentemente al proprio argomento di ricerca, oppure fare un Dottorato della durata di tre anni, che non prevede lezioni vere e proprie ma solo brevi seminari e che permette di portare avanti la propria ricerca per poi pubblicare la tesi.
Terminati gli studi quali sono le possibilità di carriera?
Ci sono due strade possibili. Se ci sono dei concorsi attivi si può cercare di diventare ricercatori presso le università e in seguito, se ci sono posti disponibili, intraprendere una carriera accademica. In alternativa, si può lavorare con la Sovrintendenza, sia tramite contratti temporanei limitati ad un progetto specifico ed ottenibili tramite concorso, sia cercando di diventare funzionario della Soprintendenza attraverso il cosiddetto “concorsone”. Quello di funzionario è un ruolo molto ambito, in quanto da un lato si tratta di un posto fisso e non precario e dall’altro è una posizione di grande responsabilità e prestigio. Non nascondo che entrambe le carriere sono difficili e che spesso per raggiungere una buona posizione bisogna sopportare molti anni di precarietà.
La tua specializzazione è in Etruscologia, come mai questa scelta? È stato più frutto di un tuo interesse personale o di un’opportunità che ti si è presentata?
Sicuramente i corsi universitari hanno avuto un ruolo importante nel definire quale fosse l’ambito che mi interessava. Ad esempio, seguendo il corso di Archeologia greca mi sono resa conto che la cultura greca, con il suo pensiero filosofico astratto, non era quella che più mi appassionava, mentre il corso di Etruscologia ha rappresentato per me una continua scoperta di una popolazione piccola ma per molti versi diversa da tutte le altre.
Inoltre, un aspetto della cultura etrusca che mi ha affascinato fin da subito è stata la loro lingua, che per certi versi è ancora molto misteriosa. Finora si è infatti riusciti a decifrare diverse parole, per lo più quelle di ambito funerario incise sui sarcofagi – padre, madre, età, funzione del defunto nella società – ma conosciamo ancora ben poco della struttura della lingua. Avendo frequentato un liceo linguistico, le lingue mi sono sempre interessate e questo aspetto ancora poco studiato dell’etrusco ha contribuito ad avvicinarmi ulteriormente a questa cultura.
Parliamo un po’ degli scavi a cui hai preso parte finora presso il complesso monumentale della Civita di Tarquinia. Che cosa avete scavato e qual è stata la scoperta che più ti ha emozionata?
Nel corso dei miei primi tre anni di scavi il mio gruppo si è dedicato esclusivamente allo scavo di una grande fossa, formata da strati su strati di materiale bruciato: argilla, ceneri, ossa animali, ecc. Per molto tempo non siamo riusciti a determinare che cosa stessimo scavando. Solo dopo due anni, attraverso lo studio e il confronto con altri ritrovamenti, abbiamo stabilito che si trattava di una capanna e che gli strati di bruciato erano dovuti agli incendi causati dai due focolari, uno esterno e uno interno, e dai materiali facilmente deperibili con cui era costruita. A prima vista può sembrare una scoperta da poco, ma in realtà non è così scontata. Degli Etruschi sono infatti molto studiate le necropoli, di cui abbiamo moltissimi ritrovamenti, ma sappiamo poco o nulla dei loro complessi abitativi. E’ stato quindi molto appassionante riuscire a identificare di cosa si trattasse nonostante i pochi reperti a disposizione per fare dei confronti.
Il fatto che gli Etruschi siano per molti aspetti ancora poco studiati significa che sono un ambito promettente per la ricerca archeologica? Dopotutto c’è ancora molto da scoprire.
E’ vero che ci sarebbe ancora molto da scoprire, tuttavia, essendo una popolazione più piccola e meno conosciuta rispetto ai Greci o ai Romani, i fondi destinati alla ricerca e le persone che se ne occupano sono limitati. Basti pensare che il dottorato in Etruscologia presso l’università La Sapienza di Roma è l’unico nel mondo e prevede solo tre posti all’anno, mentre le opportunità di studio e carriera per chi si occupa di archeologia classica o egizia sono ben più ampie. Questo limita notevolmente anche la possibilità di fare nuove scoperte, in quanto da un lato il numero di scavi, che sono molto costosi, è ridotto e dall’altro ci sono meno possibilità di comparare studi e reperti e quindi di portare avanti in maniera efficace la ricerca sugli scavi effettuati.
La mancanza di fondi è quindi la principale difficoltà per un archeologo oggi?
Sì, il problema principale è che purtroppo non si riesce a vivere facendo l’archeologo, perlomeno non all’inizio della propria carriera. E’ un lavoro caratterizzato da stipendi bassi e precarietà estrema, a meno che non si raggiunga un posto fisso come professore universitario o funzionario della Soprintendenza, ma la strada per raggiungere queste posizioni è lunga e in salita. Oltre a vincere i (rari) concorsi, è essenziale cercare di far conoscere la propria ricerca nell’ambiente accademico tramite pubblicazioni e partecipazioni a convegni e a tal scopo è molto utile avere dei professori all’interno dell’università e del proprio campo di studi che sostengano e promuovano il tuo lavoro.
Per concludere, quali consigli daresti a un ragazzo/a che vorrebbe diventare archeologo?
Il mio consiglio è di cercare di comprendere il prima possibile se si tratta di una passione duratura e fondata su basi solide. Fare l’archeologo è una strada difficile e costellata di grandi sacrifici, che si possono sopportare solo se c’è una forte passione alla base, altrimenti si rischia solo di perdere tempo e ritrovarsi dopo l’università senza sbocchi e motivazione. Per questo motivo, sarebbe molto utile partecipare fin dalle superiori a esperienze di scavo di una o due settimane aperte a volontari, come quella del sito archeologico di Domo a Bibbiena (AR), oppure proposte dalla propria scuola, come il “Progetto Archeostage” organizzato da alcuni licei di Bergamo presso il Parco Archeologico di Velia (SA) a cui io stessa ho preso parte e che si è rivelato determinante nella mia scelta di studiare Scienze dei Beni Culturali all’Università. Partecipando a degli scavi si può capire fin da subito se ci si trova a proprio agio a stare chinati nel fango per ore e a fare un lavoro che è anche molto impegnativo a livello fisico. Se così non è, l’archeologia non è la strada giusta ed è forse più opportuno indirizzarsi sugli studi storici o di storia dell’arte. Se si capisce di avere una vera passione e determinazione per questo lavoro, la professione dell’archeologo può invece regalare immense soddisfazioni. Per me finora è stato così ed è una carriera che, nonostante le possibili difficoltà future, mi sento di consigliare.
In copertina: Archeologi al lavoro presso gli scavi del complesso monumentale di Tarquinia (foto fornita dallo staff).
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