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Un giorno da predone

Dall’alto delle sue colline, possenti e accoglienti al contempo nella dolcezza delle loro curve maestose, la Toscana è un’illimitata distesa di sfumature verdi, che muta di tono alla svolta d’ogni rilievo e seguendo i capricci del tempo, gli spostamenti del sole, l’agire delle intemperie e il ciclo delle stagioni. Lo sguardo si perde nel tentativo di definire le tinte e si aggrappa alla ricerca di pochi dettagli; la presenza umana, sincronizzatasi ai ritmi della terra e adattatasi alle sue esigenze, si è mimetizzata tra il succedersi di boschi da legna e colture d’ulivi, prati per il pascolo e terreni agricoli.
La mattina poi, il sole giocando a intrecciare i raggi di luce ai fili d’erba confonde le pupille, illudendo che sia giorno prima del tempo, prorompendo in un cielo che è solo per lui, limpido e sgombro, asciugando coltri di rugiada, sollecitando la fauna a cantare in versi il ritorno alla veglia. È in un mattino così soleggiato che Davide sorprende le mie palpebre, impegnate nella ricerca dentro una tazza di caffè della forza di alzarsi, con una proposta che non mi aspettavo di ricevere qui a Ripacci, in questo ritiro sulle colline maremmane: «Se hai voglia, oggi andiamo a vedere i resti di una villa romana, dopo aver portato le mucche al pascolo».

Con facce pulite e scarpe comode entriamo e usciamo dalle stalle. Accompagnati dal ciondolare lento delle anche bovine, muoviamo i nostri passi su quei paesaggi di cui all’orizzonte è impossibile delimitare i confini: scendiamo attraverso il bosco che con il deposito di legna si affaccia su un piccolo lago artificiale; circumnavighiamo la schiera ordinata di ulivi, che d’inverno si lasciano coccolare dal letame caldo adagiato ai loro piedi; arriviamo a una radura vergine su cui le mucche si disperdono, contaminando la pace mattutina. Lasciamo gli animali liberi di pascolare e torniamo sui nostri passi.
All’altezza del piccolo specchio d’acqua, Davide mi indica di svoltare e per qualche passo sembra, in effetti, che seguiamo un sentiero, ma presto la natura prende il sopravvento e noi ci troviamo a passeggiare in un campo di erba incolta da tempo. Mi perdo facilmente dietro il volo di un lepidottero, nel frinito di una cicala, al punto che quasi non mi accorgo di Davide che mi sta prendendo in giro: «Ehi! Almeno entrando in casa chiedi permesso!». Abbasso lo sguardo, scoprendo che mattonelle rosse sbucano dalla terra e via via si fanno sempre più spazio tra i ciuffi d’erba, che s’insinuano tra le intercapedini e slanciandosi verso il cielo nascondono le tracce di quello che un tempo era un pavimento. Indovinando le fondamenta di un angolo, inseguo con lo sguardo ciò che rimane del perimetro dei muri, supplendo con la fantasia le tracce che il tempo ha cancellato; qualche residuo di impiantito, evoca il fasto di un’antica pavimentazione ramata, ottenuta dall’incasellamento minuzioso di piastrelle squadrate con perizia manuale.
Davide sa darmi poche informazioni: «Costruita tra il 200 a.C. e il 200 d.C.», dice. Un lasso di tempo troppo vasto, troppo poco definito, che per un istante mi porta a dubitare delle sue parole e della storicità del posto in cui mi trovo; in fondo, si tratta di qualche mattonella e un po’ di cemento abbandonati a loro stessi, in balia degli eventi, senza nulla che ne segnali la presenza, a parte il fatto di esser lì, anonimi e silenziosi. Ad ammonire i miei pensieri, svoltando per avere una vista diversa sulla villa, interviene il basamento di una colonna ancorato a terra, all’incirca al centro dell’abitazione, con il suo stile inequivocabile, che attribuisce significato a tutto quanto lo circonda, rendendo giusto valore all’archeologia del paesaggio.

Sito Archeologico di Ghiaccioforte, Scansano
Sito Archeologico di Giaccioforte, Scansano

Sogno ad alta voce di poter scovare qualche antico reperto, provare l’emozione di spolverare un coccio di anfora romana o tastare un utensile rudimentale; Davide mi disillude immediatamente, facendomi notare con quanta probabilità il passaggio di altri visitatori prima di noi abbia fatto sì che oggi non ci sia più nulla da scoprire. Mi racconta di quanti siti si trovano così, sparpagliati tra un appezzamento e l’altro di terreno, dispersi tra la vegetazione collinare: fin dall’età arcaica, la Toscana ha accolto l’uomo con ospitalità materna nei suoi paesaggi gentili; oggi custodisce testimonianze del passaggio in diverse epoche storiche di diverse culture, dall’età del bronzo al Rinascimento, passando per le civiltà etrusca e romana. «Gli enti istituzionali si fanno carico solo dei siti dove le strutture sono meglio conservate; – spiega Davide – per le aree archeologiche meno significative non ci sono finanziamenti, così chiunque può accedervi e prelevare ciò che vuole. Capita di incontrare sulle colline qualche giovane archeologo, che sfrutta la mancanza di controllo su queste zone per provare a mettere in pratica ciò che ha studiato. Moltissimi ragazzi di Scansano sono laureati in archeologia, spesso proprio con l’obiettivo di recuperare il patrimonio dimenticato della loro terra».
Tra il perplesso e l’indispettito, metto ancora una volta in discussione le parole di Davide: possibile che una regione come la Toscana, capace nel corso dei secoli di rinnovare se stessa sempre nel rispetto della sua propria natura, passando ad esempio dall’estrazione di metalli pesanti alle colture d’eccellenza nella produzione dell’olio d’oliva, fino alla conversione negli ultimi anni di molti casali nei principali promotori di un turismo etico e sostenibile; possibile, dicevo, che una terra così rinunci al valore estetico e storico di queste oasi di archeologia? «La maggior parte dei turisti continua a preferire le capitali europee ai rilievi della Maremma, così come avviene per moltissimi centri storici della penisola italiana: bellezze architettoniche dimenticate. – costata Davide – Il comune di Scansano ha puntato molto sul turismo in questo senso, soprattutto nell’area archeologica etrusca di Ghiaccio Forte, ma operare su tutto il territorio è ancora impensabile».

Voglio una prova di questa assenza di controllo, della facilità di frode cui questo spazio si trova in balia: mi abbasso a raccogliere un paio di piastrelle, disancoratesi da terra ma ancora posizionate nell’ordine geometrico dell’incasellamento; le metto in tasca.
A letto la sera, riguardo il mio piccolo reperto archeologico, lasciato ancora impolverato sul comodino, all’apparenza muto. Lascio divagare lo sguardo come a sfiorare i bozzi che ne determinano la forma rettangolare; d’un tratto il mio reperto prende a parlare: racconta di uomini che inventavano forme nell’atto di scolpirle; di idee che si tramutano in progetti e diventano strutture; di persone che vivono in quelle forme, quei progetti, quelle strutture e lì pongono le basi per una storia che arriva fino a me. Una storia che solo il mio reperto, dalla nicchia nel pavimento cui l’ho rubato, può raccontare.
Domani torno alla villa, a rimettere nel suo disordine il mio angolo di impiantito.

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Sara Ferrari

Nata e cresciuta nelle valli bergamasche a fine anni 80, con una gran voglia di viaggiare, ma poca possibilità di farlo, ho cercato il modo di incontrare il mondo anche stando a casa mia. La mia grande passione per la letteratura, mi ha insegnato che ci sono viaggi che si possono percorrere anche attraverso gli occhi e le parole degli altri; in Pequod faccio sì che anche voi possiate incontrare i mille volti che popolano la mia piccola multietnica realtà, intervistandoli per internazionale. Nel frattempo cerco di laurearmi in filosofia, cucino aperitivi e stuzzichini serali in un bar e coltivo un matrimonio interrazziale con uno splendido senegalese.

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