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Davide, l’artigiano delle scarpe da settant’anni

Piove a dirotto quando entriamo nel laboratorio di Davide, calzolaio classe 1932 di Ranica, un paese di quasi seimila anime in provincia di Bergamo. Il calore ci avvolge da subito, sebbene da qualche anno la bottega non venga più usata quotidianamente. Le fotografie appese alle pareti, la legna per il camino e il tavolo al quale l’artigiano e la moglie Anna ci fanno accomodare lasciano intendere che fra le mura di quella piccola stanza è passata la storia di una famiglia, oltre che quella di un antico mestiere.

Anna è una signora di quasi ottant’anni, anche se non si direbbe. Comincia lei a parlare del marito, orgogliosa ci racconta gli esordi di Davide all’età di undici anni. «Era la vigilia della Quaresima quando la madre di Davide aveva chiesto al calzolaio del paese se avesse bisogno di un ragazzo. All’epoca funzionava così, tutti i giovani apprendevano un mestiere da un artigiano». Davide continua il racconto: «Dopo una settimana di prova ho iniziato ad andare a lavorare tutti i giorni, da mattina a sera. Il lavoro mi piaceva, sono stato fortunato».

E così cominciano gli anni della gavetta per il giovane calzolaio che, fra una bottega e l’altra, vede scorrere la storia dell’Italia e quella del suo piccolo paese: «Ricordo che in tempo di guerra venivano i tedeschi a far mettere il ferro al tacco degli stivali». Si lavorava molto in paese; del resto, specialmente negli anni della guerra, non c’erano molte persone che potessero permettersi delle scarpe nuove, quindi ci si accontentava di farle riparare per farle durare il più possibile. Nonostante ciò Davide voleva imparare tutto delle calzature e la sera, dopo il lavoro, si recava da un artigiano più anziano che faceva le scarpe a mano.

«A diciassette anni lavoravo già per conto mio» ci spiega Davide. Certo, in quegli anni era più facile aprire un’attività, come ci fa notare Anna: «Chiedevi il permesso e aprivi la tua attività. Quando passava il daziere si pagava, non c’erano molte altre formalità da sbrigare». Così, dopo tanti sacrifici, il calzolaio Davide continua la sua carriera da artigiano in proprio, tenendo attiva la bottega fino a pochi anni fa. Gli strumenti che ci mostra hanno dieci, vent’anni, ma sono ancora funzionanti. Basta un attimo a Davide per mostrarci in modo sapiente come piegare il filo per cucire le scarpe, o come far funzionare gli attrezzi del mestiere. La manualità è rimasta, così come il luccichio negli occhi quando racconta del suo lavoro.

«Ha lavorato tanto mio marito, ma grazie ai suoi sforzi abbiamo cresciuto sei figli, siamo stati in grado di dare loro una casa. Certo, non siamo stati una generazione molto fortunata, noi dovevamo soltanto lavorare, non avevamo scelta. Se avevi una qualche dote non veniva assecondata, venivi subito mandato dall’artigiano del paese o, peggio ancora, in fabbrica» ci spiega Anna. «Un tempo nel nostro paesino c’erano tantissime botteghe di artigiani. Eravamo poco più di tremila abitanti, ma avevamo quattro calzolai, quattro fornai, poi macellai, salumieri…i ragazzi andavano da loro ad imparare il mestiere. Poi sono arrivate le fabbriche e per i genitori la cosa più importante era che i figli, i miei coetanei, trovassero posto da operai». Il racconto di Anna è infarcito di amarezza, nonostante la fierezza con cui parla della carriera di Davide e della famiglia che hanno costruito insieme: «A differenza dei nostri genitori noi abbiamo supportato i nostri figli nelle loro scelte, li abbiamo fatti studiare quando hanno voluto. La loro generazione ha avuto la libertà, a differenza della nostra, la generazione dei fantasmi».

Anna ci saluta, è ora di preparare il pranzo. Ed è quando rimaniamo soli che Davide ci dice: «Io nella mia vita sono stato davvero fortunato. La chiamo fortuna, non saprei come chiamarla altrimenti. Non solo ho trovato un mestiere che davvero mi ha appassionato. La mia vera fortuna è stata mia moglie, una donna che ha saputo stare al mio fianco e ha supportato le mie decisioni. Del mio mestiere non dico che sono innamorato, anche se mi è piaciuto molto, perché è di una donna come Anna che ci si innamora!». Con queste parole, pronunciate dal cuore e con una sincerità disarmante, usciamo dal laboratorio e torniamo sotto la pioggia. Salutiamo Davide e lo ringraziamo, mentre lui, dubbioso, si interroga se le nostre scarpe di fattura industriale siano davvero impermeabili…

Fotografie di Martina Ravelli

Testo di Margherita Ravelli

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Martina Ravelli

Sono Martina e sono nata vent'anni fa nel paesino della bergamasca dove ancora vivo e da cui ogni tanto mi piace scappare per vedere qualcosa di nuovo. Per paura di dimenticare quello che vedo e la voglia di avere sempre qualcosa da ricordare, nel mio zaino non manca mai una fotocamera, un quadernino e una penna. Cosciente di questa mia ossessione e incoraggiata dalla passione per le arti, dopo il diploma al liceo linguistico mi trasferisco e studio per un anno al DAMS di Bologna: l'assenza di un contatto diretto con l'arte però mi porta ad abbandonare i portici di via Zamboni e tornare a Bergamo, dove ora studio Nuove tecnologie dell'arte all'Accademia Carrara e faccio volontariato nella galleria d'arte moderna e contemporanea GAMeC. Qui su Pequod mi occupo di grafica e fotoreportage, sezione di cui sono responsabile.

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