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Touba, città di fede e resistenza

È già notte inoltrata quando mio nipote Ndiaw mi avvisa che è ora di raccogliere le nostre cose e partire per Touba. Mentre chiudo il libro tra le cui pagine ingannavo l’attesa, lancio un ultimo sguardo alla sagoma di Cheikh Ibrahima Fall, riprodotto in carboncino quasi a grandezza naturale sulla parete della stanza: il suo corpo possente rimane quello di un gigante anche nella ventina di centimetri che il ritrattista ha tolto alla sua altezza, la veste nera di una povertà spiazzante diventa maestosa in virtù della massa muscolare che riveste e la verticalità delle sue pieghe indirizza lo sguardo a posarsi sul volto, capace di esprimere la severa serietà della sua fede e al contempo l’idea di un sorriso.

Cheikh Ibrahima Fall (1855-1930), detto anche Lamp Fall (Lampada della Fede) con il titolo Babul Mouridina (Porta del Mouridismo) per essere stato il primo discepolo di Cheikh Ahmadou Bamba. Strinse con lo Cheikh un Diebelou, un patto che lo rendeva servo del Maestro prescelto, per il qual lavorava incessantemente; il suo esempio ha dato vita al movimento dei Bayefall: essi vivono seguendo le tradizioni precoloniali senegalesi, in comunità dove è bandito l’individualismo e lavorando gratuitamente la terra, dissodando ogni anni ettari di terreno destinati alla coltivazione di miglio e arachidi.

In quelle labbra appena arricciate verso l’alto, in quegli occhi luminosi si legge ancora la vivacità del giovane scapestrato che correva nel villaggio di Ndiaby Fall, approfittando spesso della straordinaria forza dei suoi grandi muscoli per creare un po’ di scompiglio, ma c’è soprattutto la serenità quasi ultraterrena di un uomo che per tutta la vita ha portato avanti una scelta radicale: spogliarsi dei beni della ricca famiglia e farsi servo di un Santo. È forse questa contraddizione tra la ferocia adolescenziale e la mansueta umiltà, che nell’82 lo mise in cammino alla ricerca di Cheikh Ahmadou Bamba Mbacké, a fare di lui la guida prescelta da tanti giovani senegalesi, un modello per chi, ancora pieno di vita, fatica a onorare i ritmi di una religione che chiede la rinuncia a ogni vizio e la costanza di una preghiera quotidianamente scandita.

Persa in queste riflessioni, seguo Ndiaw fuori casa, soffermando lo sguardo sulle innumerevoli riproduzioni di Cheikh Ibrahima Fall e del suo Maestro che decorano i muri delle case, le vetrine dei negozi, persino la carrozzeria dei veicoli per strada; seppure è vero che Dio stesso lo esautorò dalle cinque preghiere del giorno e dal digiuno del Ramadan, anche i mussulmani più tradizionalisti chinano il capo di fronte a quest’uomo, il cui canto sempre votato ad Allah saliva al cielo dai campi dove lavorava senza posa. Sotto una di queste immagini, ci fermiamo dal venditore appisolato tra il tepore che promana dalla grossa pentola di ghisa al suo fianco; i suoi occhi ciechi si schiudono appena il tempo di versare due tazze di caffè touba e sorridere ancora una volta di questa madame bianca che non vuole zucchero a lenire la piccante amarezza della bevanda, mentre con gesti da giocoliere aggiunge dolcificante per Ndiaw, travasando ripetutamente il liquido tra due tazze. Un’ultima sigaretta e saliamo sul bus che ci porterà a Touba.

Diversi oggetti tipici della tradizione senegalese precoloniale sono oggi simbolicamente legate alle figure dei Bayefall. Nella foto, accanto ad alcune immagini iconografiche di Cheikh Ibrahima Fall e Cheikh Ahmadou Bamba, si vedono appesi gli umili monili che spesso si trovano al collo dei Bayefall. I collari in pelle ricordano la scelta di povertà di Cheikh Ibra Fall, che indossava gli stessi abiti fino alla loro totale usura, quando di essi non restava altro che il collo; i colori intrecciati alla pelle nera permettono di identificare la guida spirituale prescelta dal Bayefall che li porta. Sulla destra, due cruss: anziché rispettare le cinque preghiere quotidiane, i Bayefall pregano recitando, anche più volte al giorno, il rosario mussulmano, scorrendo le perle in ebano senegalese.

All’arrivo, a svegliarmi è la mano di Ndiaw che stuzzica il mio viso; il sole ancora non si è fatto strada in cielo e noi ci avviamo, guidati solo dalla fioca luce delle ultime stelle, in direzione della moschea. Abbiamo appena il tempo di toglierci le scarpe e iniziare a godere del fresco sollievo del marmo che corre tutt’attorno all’edificio, quando i primi raggi di luce iniziano a infiltrarsi tra i vetri colorati delle finestre della più grande moschea subsahariana e la voce del muezzin rompe il silenzio della notte. Tra il vibrare del canto di chiamata alla preghiera e l’arcobaleno di luce che si dipinge ai nostri piedi, i nostri cuori ammutoliti trovano raccoglimento e le menti non possono che restare basite di fronte alla magnificenza non solo di questo luogo, ma più ancora della storia sua e del suo fondatore. Touba è simbolo non soltanto di fede, Touba è simbolo di pace e libertà: la sua moschea, inaugurata nel 1963, sorge come coronamento di una vita, quella del suo fondatore Cheikh Ahmadou Bamba, che è sì esempio d’ascetica preghiera, ma anche e soprattutto di resistenza non violenta.

Nato nel 1853 in una famiglia d’illustri mussulmani e consiglieri di MBacké Baol, a soli trent’anni Cheikh Ahmadou Bamba divenne una tra le più ascoltate guide spirituali del Senegal, fondando la Mouridiya, la Via dell’Imitazione del Profeta. Le autorità francesi, impegnate a imporre sulla colonia una nuova forma di dominio basata sull’assimilazione culturale, furono presto intimorite dalla forza predicativa di questo marabutto, che attirava folle di fedeli nella neonata città di Touba, e già nel 1895 ne disposero l’arresto, senza riuscire a piegarne la volontà: fin dal suo primo colloquio con il Governatore di Saint-Luis, infatti, Ahmadou Bamba diede prova del suo rifiuto a sottomettersi, prostrandosi in direzione della Mecca per rivolgere la sua preghiera ad Allah dentro l’ufficio del Governatore stesso. Fu così disposto il suo esilio prima a Mayumba, in Gabon, nella speranza che la malaria portata dalle mosche che infestavano la regione ponesse fine alla sua esistenza, poi sull’isolotto di Wir Wir che veniva sommerso dall’alta marea, ma da cui Cheikh Ahmadou Bamba fece miracolosamente ritorno prima ancora dei suoi trasportatori, approdando sulla spiaggia di Mayumba dove lo aspettava un plotone d’esecuzione, che però rifiuto di colpirlo perché preso dal panico alla vista di angeli che montavano cavalli. Si dispose allora il suo arresto nel carcere Lambaréné, nel nord del Gabon, dove rimase per cinque anni, e poi un nuovo esilio nel 1903 in Mauritania, dove gli stessi che dovevano essere i suoi carcerieri si prostrarono ai suoi piedi e chiesero per lui il rimpatrio. Confinato prima nel villaggio di Thiéyenne e poi a Diourbel, Cheikh Ahmadou Bamba fu riabilitato dalle autorità francesi solo nel 1916, quando il Governo dell’Africa Generale dispose di farlo entrare nella propria orbita d’influenza, offrendogli il titolo di membro del Comitato Consultivo degli Affari Mussulmani; onorificenza che lo Cheikh rifiutò, evitando di presentarsi mai in assemblea. Trascorse i suoi restanti undici anni di vita seguendo l’esempio del Profeta Muhammad e istruendo alla via della Mouridiya, attraverso le numerose trascrizioni di testi richieste ai suoi discepoli, primo tra tutti Cheikh Ibrahima Fall.

Sulle navi dei coloni la preghiera mussulmana era proibita, in vista di una totale sostituzione della fede islamica con quella cristiana all’interno dei territori conquistati. Cheikh Ahmadou Bamba (anche chiamato Khadimou Rassoul, il Servo del Messaggero), imbarcato sul piroscafo Ville de Pernambouc diretto in Gabon, non si oppose alla legge dettata dal comandante: non potendo assolvere al dovere della ṣalāt (la preghiera quotidiana ripetuta cinque volte) sull’imbarcazione, egli stese il tappeto di preghiera direttamente sulle acque dell’oceano.

Cent’anni dopo, il nome di Cheikh Ahmadou Bamba mette ancora in moto centinaia di senegalesi di ogni età, che ogni anno invadono le strade verso Touba per ringraziare Allah d’aver preservato l’Islam dalla forza distruttrice dei coloni; ogni anno le vie attorno alla città si riempiono di auto che procedono a passo d’uomo, motorini che sopportano tre, quattro adolescenti per volta, carretti che sfidano la fisica resistendo alle imperfezioni della strada e piedi che camminano indifferenti a polvere e fatica: è il Magal, la festa del rispetto e della celebrazione della magnificenza di Dio. Noi arriviamo a Touba in un giorno di relativa quiete, eppure qui le occasioni per una preghiera collettiva non mancano mai; tra qualche giorno sarà Tabaski, la più importante festa mussulmana, e i bayefall, i nuovi discepoli di Cheikh Ibrahima Fall, preparano gli animi attraverso il Magal Darou Salam, la festa Portatrice di Pace. Arriviamo in centro a Touba guidati dal profumo di carni che bruciano sui grandi falò di ebano, misto all’aroma dell’immancabile caffè, e trascorsi pochi minuti, ci raggiunge anche il suono dei primi sabar ad annunciare l’arrivo del taalibé che sarà a Touba quest’anno; ci alziamo in fretta per non essere travolti dalla folla danzante al ritmo dei tamburi, che si mescolano al tintinnare delle monete gettate in offerta nelle grandi calebasse che gli uomini agitano tra le mani, mentre giovani bayefall mostrano la forza e la tenacia della loro fede fustigando i muscoli scuri con mazze di legno pesante e affilate sciabole, la cui lama non oltrepassa mai l’invincibile pelle del fedele.

Mentre lo sguardo si perde, tra l’aleggiare di questi tessuti rattoppati con stoffe colorate, in memoria della scelta di povertà portata avanti dai due Sceicchi di Touba, l’animo inizia a distendersi nell’attesa d’ascoltare le preghiere che il califfo reciterà e si lascia trasportare dalle parole del canto di ringraziamento che i bayefall innalzano al cielo: « La ilaha illa Allah! Djeredjeuf Mame Bamba! Djarama Cheikh Ibra Fall! (Non c’è divinità se non Dio! Grazie Ahmadou Bamba! Grazie Ibrahima Fall!)».

Oltre ai cruss e alle immagini iconoclastiche, caratteristiche tipiche dell’aspetto dei Bayefall sono i capelli che liberamente prendono forma di dreadlocks, in memoria della scelta di Cheikh Ibra Fall di non tagliare i propri capelli se non quando Cheikh Ahmadou Bamba glielo avesse chiesto, e gli abiti ndiakhaas, vestiti composti da toppe (99 più una, come i nomi di Dio) e costituiti solitamente da due pezzi: i larghi pantaloni thiaya e la lunga tunica stretta da un alta cintura (zikar). Diverse sono le occasioni che spingono i Bayefall a incontrarsi in raduni più o meno numerosi; tra le attività principali di queste occasioni, vi sono la raccolta di offerte, poi devolute ai Califfi, e il canto: in gruppo e battendo il tempo con i piedi, spesso nudi, intonano gli zikar, canti della tradizione wolof, caratterizzati dalla ripetizione del nome di Dio e di ringraziamenti a Lui rivolti. [ph. Grazia De Laurentis /tutti i diritti riservati]
In copertina: Moschea di Touba (Fonte: Franco Visintainer/CCBY3.0)

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Sara Ferrari

Nata e cresciuta nelle valli bergamasche a fine anni 80, con una gran voglia di viaggiare, ma poca possibilità di farlo, ho cercato il modo di incontrare il mondo anche stando a casa mia. La mia grande passione per la letteratura, mi ha insegnato che ci sono viaggi che si possono percorrere anche attraverso gli occhi e le parole degli altri; in Pequod faccio sì che anche voi possiate incontrare i mille volti che popolano la mia piccola multietnica realtà, intervistandoli per internazionale. Nel frattempo cerco di laurearmi in filosofia, cucino aperitivi e stuzzichini serali in un bar e coltivo un matrimonio interrazziale con uno splendido senegalese.

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