
Touba, città di fede e resistenza
È già notte inoltrata quando mio nipote Ndiaw mi avvisa che è ora di raccogliere le nostre cose e partire per Touba. Mentre chiudo il libro tra le cui pagine ingannavo l’attesa, lancio un ultimo sguardo alla sagoma di Cheikh Ibrahima Fall, riprodotto in carboncino quasi a grandezza naturale sulla parete della stanza: il suo corpo possente rimane quello di un gigante anche nella ventina di centimetri che il ritrattista ha tolto alla sua altezza, la veste nera di una povertà spiazzante diventa maestosa in virtù della massa muscolare che riveste e la verticalità delle sue pieghe indirizza lo sguardo a posarsi sul volto, capace di esprimere la severa serietà della sua fede e al contempo l’idea di un sorriso.

In quelle labbra appena arricciate verso l’alto, in quegli occhi luminosi si legge ancora la vivacità del giovane scapestrato che correva nel villaggio di Ndiaby Fall, approfittando spesso della straordinaria forza dei suoi grandi muscoli per creare un po’ di scompiglio, ma c’è soprattutto la serenità quasi ultraterrena di un uomo che per tutta la vita ha portato avanti una scelta radicale: spogliarsi dei beni della ricca famiglia e farsi servo di un Santo. È forse questa contraddizione tra la ferocia adolescenziale e la mansueta umiltà, che nell’82 lo mise in cammino alla ricerca di Cheikh Ahmadou Bamba Mbacké, a fare di lui la guida prescelta da tanti giovani senegalesi, un modello per chi, ancora pieno di vita, fatica a onorare i ritmi di una religione che chiede la rinuncia a ogni vizio e la costanza di una preghiera quotidianamente scandita.
Persa in queste riflessioni, seguo Ndiaw fuori casa, soffermando lo sguardo sulle innumerevoli riproduzioni di Cheikh Ibrahima Fall e del suo Maestro che decorano i muri delle case, le vetrine dei negozi, persino la carrozzeria dei veicoli per strada; seppure è vero che Dio stesso lo esautorò dalle cinque preghiere del giorno e dal digiuno del Ramadan, anche i mussulmani più tradizionalisti chinano il capo di fronte a quest’uomo, il cui canto sempre votato ad Allah saliva al cielo dai campi dove lavorava senza posa. Sotto una di queste immagini, ci fermiamo dal venditore appisolato tra il tepore che promana dalla grossa pentola di ghisa al suo fianco; i suoi occhi ciechi si schiudono appena il tempo di versare due tazze di caffè touba e sorridere ancora una volta di questa madame bianca che non vuole zucchero a lenire la piccante amarezza della bevanda, mentre con gesti da giocoliere aggiunge dolcificante per Ndiaw, travasando ripetutamente il liquido tra due tazze. Un’ultima sigaretta e saliamo sul bus che ci porterà a Touba.

All’arrivo, a svegliarmi è la mano di Ndiaw che stuzzica il mio viso; il sole ancora non si è fatto strada in cielo e noi ci avviamo, guidati solo dalla fioca luce delle ultime stelle, in direzione della moschea. Abbiamo appena il tempo di toglierci le scarpe e iniziare a godere del fresco sollievo del marmo che corre tutt’attorno all’edificio, quando i primi raggi di luce iniziano a infiltrarsi tra i vetri colorati delle finestre della più grande moschea subsahariana e la voce del muezzin rompe il silenzio della notte. Tra il vibrare del canto di chiamata alla preghiera e l’arcobaleno di luce che si dipinge ai nostri piedi, i nostri cuori ammutoliti trovano raccoglimento e le menti non possono che restare basite di fronte alla magnificenza non solo di questo luogo, ma più ancora della storia sua e del suo fondatore. Touba è simbolo non soltanto di fede, Touba è simbolo di pace e libertà: la sua moschea, inaugurata nel 1963, sorge come coronamento di una vita, quella del suo fondatore Cheikh Ahmadou Bamba, che è sì esempio d’ascetica preghiera, ma anche e soprattutto di resistenza non violenta.
Nato nel 1853 in una famiglia d’illustri mussulmani e consiglieri di MBacké Baol, a soli trent’anni Cheikh Ahmadou Bamba divenne una tra le più ascoltate guide spirituali del Senegal, fondando la Mouridiya, la Via dell’Imitazione del Profeta. Le autorità francesi, impegnate a imporre sulla colonia una nuova forma di dominio basata sull’assimilazione culturale, furono presto intimorite dalla forza predicativa di questo marabutto, che attirava folle di fedeli nella neonata città di Touba, e già nel 1895 ne disposero l’arresto, senza riuscire a piegarne la volontà: fin dal suo primo colloquio con il Governatore di Saint-Luis, infatti, Ahmadou Bamba diede prova del suo rifiuto a sottomettersi, prostrandosi in direzione della Mecca per rivolgere la sua preghiera ad Allah dentro l’ufficio del Governatore stesso. Fu così disposto il suo esilio prima a Mayumba, in Gabon, nella speranza che la malaria portata dalle mosche che infestavano la regione ponesse fine alla sua esistenza, poi sull’isolotto di Wir Wir che veniva sommerso dall’alta marea, ma da cui Cheikh Ahmadou Bamba fece miracolosamente ritorno prima ancora dei suoi trasportatori, approdando sulla spiaggia di Mayumba dove lo aspettava un plotone d’esecuzione, che però rifiuto di colpirlo perché preso dal panico alla vista di angeli che montavano cavalli. Si dispose allora il suo arresto nel carcere Lambaréné, nel nord del Gabon, dove rimase per cinque anni, e poi un nuovo esilio nel 1903 in Mauritania, dove gli stessi che dovevano essere i suoi carcerieri si prostrarono ai suoi piedi e chiesero per lui il rimpatrio. Confinato prima nel villaggio di Thiéyenne e poi a Diourbel, Cheikh Ahmadou Bamba fu riabilitato dalle autorità francesi solo nel 1916, quando il Governo dell’Africa Generale dispose di farlo entrare nella propria orbita d’influenza, offrendogli il titolo di membro del Comitato Consultivo degli Affari Mussulmani; onorificenza che lo Cheikh rifiutò, evitando di presentarsi mai in assemblea. Trascorse i suoi restanti undici anni di vita seguendo l’esempio del Profeta Muhammad e istruendo alla via della Mouridiya, attraverso le numerose trascrizioni di testi richieste ai suoi discepoli, primo tra tutti Cheikh Ibrahima Fall.

Cent’anni dopo, il nome di Cheikh Ahmadou Bamba mette ancora in moto centinaia di senegalesi di ogni età, che ogni anno invadono le strade verso Touba per ringraziare Allah d’aver preservato l’Islam dalla forza distruttrice dei coloni; ogni anno le vie attorno alla città si riempiono di auto che procedono a passo d’uomo, motorini che sopportano tre, quattro adolescenti per volta, carretti che sfidano la fisica resistendo alle imperfezioni della strada e piedi che camminano indifferenti a polvere e fatica: è il Magal, la festa del rispetto e della celebrazione della magnificenza di Dio. Noi arriviamo a Touba in un giorno di relativa quiete, eppure qui le occasioni per una preghiera collettiva non mancano mai; tra qualche giorno sarà Tabaski, la più importante festa mussulmana, e i bayefall, i nuovi discepoli di Cheikh Ibrahima Fall, preparano gli animi attraverso il Magal Darou Salam, la festa Portatrice di Pace. Arriviamo in centro a Touba guidati dal profumo di carni che bruciano sui grandi falò di ebano, misto all’aroma dell’immancabile caffè, e trascorsi pochi minuti, ci raggiunge anche il suono dei primi sabar ad annunciare l’arrivo del taalibé che sarà a Touba quest’anno; ci alziamo in fretta per non essere travolti dalla folla danzante al ritmo dei tamburi, che si mescolano al tintinnare delle monete gettate in offerta nelle grandi calebasse che gli uomini agitano tra le mani, mentre giovani bayefall mostrano la forza e la tenacia della loro fede fustigando i muscoli scuri con mazze di legno pesante e affilate sciabole, la cui lama non oltrepassa mai l’invincibile pelle del fedele.
Mentre lo sguardo si perde, tra l’aleggiare di questi tessuti rattoppati con stoffe colorate, in memoria della scelta di povertà portata avanti dai due Sceicchi di Touba, l’animo inizia a distendersi nell’attesa d’ascoltare le preghiere che il califfo reciterà e si lascia trasportare dalle parole del canto di ringraziamento che i bayefall innalzano al cielo: « La ilaha illa Allah! Djeredjeuf Mame Bamba! Djarama Cheikh Ibra Fall! (Non c’è divinità se non Dio! Grazie Ahmadou Bamba! Grazie Ibrahima Fall!)».
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