Ho visto Nino Di Matteo
Il contesto è accademico, i contenuti riguardano la società, la gente, il popolo italiano che ogni giorno si trova a dover sopportare (o supportare!) le conseguenze della corruzione che nel nostro Paese sembra trovare sempre terreno fertile. Siamo nell’aula 208 dell’Università “Statale” di Milano, quella che da qualche anno porta i nomi dei giudici Falcone e Borsellino. La stessa aula dove ieri è intervenuto il PM che da anni conduce le indagini sulla mafia e sulla trattativa che lo Stato ha intentato con essa negli anni più atroci del nostro passato recente. Insieme a Di Matteo, anche il Procuratore aggiunto di Palermo Petralia, il consigliere della Corte di Cassazione Bruno Giordano e il giornalista de L’Espresso Lirio Abbate.
Tema della conferenza: gli strumenti giuridici per la lotta alla criminalità organizzata. Come spesso ci siamo trovati a scrivere sulla nostra rivista, il fenomeno mafioso non si sviluppa e circoscrive soltanto in seno alle associazioni criminali, sarebbe meglio dire che queste stesse associazioni hanno ormai ingurgitato altri “ambienti” della società. Ma forse, in questo modo la cronaca delle due ore trascorse ad ascoltare gente che sta facendo una cosa folle in Italia in questo momento storico, ovvero cercare di dare un senso alla parola “giustizia”, rischia di essere un resoconto che si trascina a fatica in un pantano di concetti assodati e di scontata retorica.
E invece vi racconterò che ho ascoltato Di Matteo, uno che sta portando avanti un processo che vede tra gli imputati lo Stato per cui lui stesso lavora (mi sono detto che forse non dev’essere una bella posizione). E non dev’essere nemmeno tanto piacevole sapere, come afferma lui stesso, “che l’onorevole Silvio Berlusconi è chiamato in causa per fare le riforme e gli atti processuali riferiscono che lo stesso abbia ricevuto protezione da parte degli uomini di Cosa Nostra”.
Occorre anche soffermarsi sul tema principale che riguardava gli strumenti, anche e soprattutto legislativi, in termini di lotta alle mafie. Si è ricordato come l’Italia abbia una legislazione antimafia molto avanzata, e di come, al contempo, andrebbe rinnovata, adeguata ai tempi e all’evoluzione criminale. Gli addetti ai lavori hanno evidenziato l’importanza di norme fondamentali per l’azione giudiziaria (il 416bis, le innovazioni introdotte nel codice di procedura penale a partire dal 1988/89), ma hanno anche sottolineato come spesso, l’azione del legislatore, sia tesa alla burocratizzazione delle procedure, come se ci fosse un interesse a rallentare l’azione della magistratura. E si è tornati al punto di partenza, imprescindibile.
Si è parlato, dunque, di azioni. Viviamo in un luogo, l’Italia, dove spesso l’azione dello Stato arriva in ritardo oppure è limitata all’operato di pochi uomini, quando non addirittura di una persona soltanto. Ho visto Antonino Di Matteo. Ho visto un uomo che forse sa molte più cose di quelle che dice o che può dire, anche se quest’ultime sarebbero già abbastanza per farci riflettere sulla situazione del nostro (quanto mai presunto) Paese civile. Ho visto molti ragazzi osservarlo estasiati e attenti. Ho visto un magistrato che sta lottando per accendere coni di luce in fasci, troppo spessi, di ombre.