Quale sarà l’eredità di EXPO?
Da pochissimi giorni si è alzato il sipario su EXPO Milano 2015; ci sono stati eventi, inaugurazioni, discorsi, inni, proteste e incidenti. I primi giorni di apertura hanno regalato sorrisi, ottime impressioni e previsioni scintillanti per il futuro della manifestazione. Va detto, però, che il futuro in questione non è esattamente a lungo termine: il 31 ottobre lo stesso sipario calerà, bisognerà tirare le somme, fare un bilancio di quello che è stata la manifestazione, stabilire se sia stata proficua per i visitatori e per il territorio che l’ha ospitata.
In altri termini si tratterà di stabilire se EXPO 2015 avrà generato un’eredità, una legacy. Due sono, in verità, le legacy che i grandi eventi lasciano: la prima è quella spirituale, fatta di ricordi, nuove consapevolezze, sensazioni ed esperienze condivise, che possono rendere l’evento stesso una boa nella storia. In questo senso, il tema dell’esposizione si presta assolutamente ad approfondimenti e riflessioni che la stesura della Carta di Milano rende e renderà fondamentali nella buona riuscita della grande fiera.
Di altra pasta è la seconda eredità: si tratta di tutto ciò che di materiale un grande evento lascia dietro a sé e in questo caso, l’analisi è più terra terra.
L’esperienza italiana dietro ai grandi(ssimi) eventi è, come noto, del tutto particolare, ma non sempre si è potuto concludere che l’aver portato il mondo in città sia stato dannoso. Negli ultimi 25 anni ci sono state diverse occasioni, sfruttate tutte in modo agrodolce: i mondiali di calcio del 1990 hanno dato vita a cementificazione sregolata e scriteriata, l’EXPO 1992 a Genova è stata un mezzo buco nell’acqua, almeno in termini di visite ed incassi (13 miliardi di Lire, contro i 45 previsti). A Torino, nel 2006, sono state organizzate le Olimpiadi invernali, il cui ritorno è stato invece vantaggioso per la città, che si è vista infrastrutturare strategicamente, andando anche a riqualificare punti focali del proprio tessuto. Certamente rimangono anche punti oscuri, come lo stato di abbandono di alcuni impianti – la pista di bob, skeleton e slittino di Cesana Pariol o il trampolino per il salto con gli sci di Pragelato.
Il problema della riconversione delle aree destinate a manifestazioni straordinarie, tuttavia, non è solo italiano e volendo stringere il focus solo sulle Esposizioni, ci sono diversi precedenti che ne illustrano la difficoltà: quello di Siviglia (EXPO ’92 – in coabitazione con Genova) e Hannover (EXPO 2000). In entrambi i casi le aree edificate si sono rivelate poco appetibili; tutt’oggi esistono padiglioni abbandonati che favoriscono il degrado anche delle aree circostanti. Ancora, sempre in entrambi i casi, è stato sovrastimato il numero dei visitatori, con il risultato di avere zone dedicate eccessivamente estese e troppo costose per l’economia della manifestazione.
Discorso diverso per Lisbona, che ha avuto un’ottima legacy dalla sua EXPO (nel 1998), vedendo la zona fieristica integrata nel tessuto urbano, creando una propria centralità che ha permesso anche ai quartieri limitrofi di beneficiarne, in termini di qualificazione qualitativa ed economica.
E a Milano? Le notizie recenti creano un po’ di inquietudine, sia per quanto riguarda l’area intera che a proposito dei singoli padiglioni.
Il polo fieristico sorge su un terreno controllato da AREXPO, una società creata ad hoc per la gestione immobiliare. La stessa AREXPO ha creato un masterplan, che illustra come dovranno essere utilizzati gli spazi dopo il 31 ottobre, con l’intento di cedere gli stessi con un bando di gara, partendo dalla cifra di 315 milioni di Euro. Bando di gara che scadeva il 15 novembre scorso e che ha visto il seguente numero di partecipanti: nessuno. Il masterplan, che prevede la creazione di un grande parco, il riutilizzo di alcune strutture per scopi aderenti a quelli di Expo, il divieto all’edificazione di centri commerciali di dimensioni superiori a 2500 metri quadrati, resta comunque attivo come linea guida, anche se si sta pensando di dividere le alienazioni in diversi lotti. Ciò dovrebbe rendere più semplice la vendita e il recupero dell’investimento iniziale.
Per quanto riguarda i padiglioni la certezza è una: verranno smontati per fare in modo che non rimangano canne al vento. Solo il padiglione Italia resterà intatto, sebbene alcuni paesi (Israele, Kazakhstan ed Emirati Arabi Uniti) sembrano aver acconsentito a regalare le proprie strutture all’organizzazione per farne ciò che meglio crede – in teoria sarebbe un contributo alla creazione della famosa legacy di cui sopra.
Un discorso particolare lo merita anche l’Albero della Vita, l’opera che è stata designata come simbolo di questa nostra Expo: secondo alcuni sarebbe necessario conservarla, proprio a memoria di quello che è stato e come monito per quel che sarà e trapiantarla nel cuore della città. Dove? Proprio in mezzo a Piazzale Loreto, che, adeguatamente riqualificato anche dal punto di vista viabilistico, andrebbe ad ospitare un altro pezzo di storia del nostro paese. Non solo, si sostiene anche che metterlo lì vorrebbe anche dire ricucire, almeno parzialmente, la distanza fra il centro e la periferia, dato che il piazzale è il punto di congiunzione di molte vie che portano fuori città.
Ad oggi non è dato sapere come, veramente, EXPO Milano 2015, si farà ricordare da chi l’ha vissuta o da chi ne ha soltanto sentito parlare. Si può affermare che la città, per ora, ne abbia giovato? Sobbarcandosi spese e costi in termini sociali (leggasi proteste, dibattiti, scandali, disagi…traffico) è stato possibile migliorare alcune infrastrutture o crearne di nuove, più funzionali e sostenibili. Creare, costruire, in modo coscienzioso e lungimirante è la chiave per fare in modo che gli eventi restino nella memoria e ne creino, che la Babele di culture che c’è ad Expo non consista solo di insetti fritti e turisti asiatici, ma una legacy tangibile tanto nei cittadini quanto nella città.
In copertina, Expo Future Food District [ph. Cesco 82 CC BY-SA 4.0/Wikimedia Commons]
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