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Viaggiare e scrivere accompagnati dalla Sindrome di Asperger

Navigando nei meandri del web capita, a volte, di imbattersi in siti interessanti, particolari. Succede quasi per caso: magari stai ascoltando una canzone su YouTube, sbirciando tra qualche social e, nel frattempo, vuoi compiere una breve ricerca su un argomento che hai poco chiaro. Succede che invece di aprire il primo link, il tuo occhio cada sul secondo e che, spinto dalla curiosità del nome, tu lo apra.

Ecco, questo è ciò che è capitato a me circa due settimane fa. Il sito in questione, o meglio, il blog si chiama Operazione Fritto Misto e, chiaramente, almeno un’occhiata l’ho dovuta dare! Perché… Perché nel nome c’è “fritto misto”; quindi, mi chiedo io: vuoi non aprire un link che ha “fritto misto” nel nome?

Le mie aspettative vengono subito deluse: ingolosito al pensiero di veder apparire sul monitor immagini di ciotole colme di verdure miste e piatti di carni e pesci rivestite di superfici croccanti, non appena lo apro scopro che il blog non tratta solo ed esclusivamente di cucina! Colpa mia che non ho letto tutto il titolo del sito: Operazione Fritto Misto – Ceci n’est pas un blog de cuisine. Causa la mia sbadataggine e forse l’appetito, non avevo colto l’originale punto di vista del blog, racchiuso nella bellissima citazione all’opera di Magritte, Ceci n’est pas une pipe. Di cucina e di ricette se ne parla, diciamo che c’è “Un po’ di cucina” (come titola la rubrica dedicata), ma gli argomenti di cui è possibile leggere spaziano dai libri alle serie tv, passando per i film e diversi viaggi. Insomma, un vero fritto misto!

A incuriosirmi, inizialmente, è più che altro il fatto di capire quale sia il collante, il filo conduttore di tutti questi post; così, esplorandolo un po’ scopro che la proprietaria, nonché unica autrice, si chiama Alice, ha 28 anni, è torinese di nascita e lavora come hostess d’hospitality allo stadio. Una blogger come tante, apparentemente, se non per il fatto che Alice è portatrice della sindrome di Asperger; un disturbo di scoperta relativamente recente, i cui sintomi, difficili da indagare sia per le loro molteplici sfumature sia per la mancanza di informazioni scientifiche circa le cause della sindrome, sono legati alla sfera sociale dell’individuo.

E come nasce l’idea di aprire un blog che parla di sé, in una persona che ha difficoltà nell’avere interazioni sociali? Non resisto all’invito “Contattami” che appare nell’elenco in menù, da cui Alice risponde a tutte le mie curiosità: «Come tutti i possessori di un blog ho iniziato a scrivere per puro piacere. A spingermi ad aprire Operazione Fritto Misto, però, è stata la difficoltà di comunicazione, il bisogno di una forma di socializzazione adatta al mio modo di essere, che conciliasse la necessità di condividere gli interessi alla facilità dell’espressione scritta. Per questo, scrivere, per me, vuol dire comunicare senza pressioni».

Il blog, nato come blog di cucina «vegetariana, simpatizzante vegana», presto si è aperto a una grandissima varietà di temi: «Stavo stretta in mezzo a sole ricette; così ho ampliato gli argomenti e si sono aggiunti i viaggi, Torino, libri e film. Un fritto misto, insomma», mi racconta Alice. E proprio sui viaggi di Alice ritengo opportuno soffermarmi, immaginando non sia facile cambiare ambiente e incontrare nuovi spazi, per chi come lei sente la necessità di vivere in una comfort zone, ossia un ambiente privo di rischi o fonti di ansietà, quanto più familiare possibile: «Per anni ho viaggiato in camper, il che mi ha dato l’opportunità di visitare moltissimo l’Italia, di cui ho amato il giro di tutta la costa sarda e la Puglia; ma anche il sud della Francia, la Svizzera (soprattutto Locarno, città d’origine di mio nonno) e l’Austria. Poi c’è Londra, che mi ha fatto innamorare ancora prima di visitarla, e Copenaghen, che nel periodo natalizio mi è entrata nel cuore».

Così, la sezione “Sì Viaggiare” del blog ha iniziato a prendere forma: in questo spazio, Alice racconta i suoi viaggi, di quelli passati ma anche di quelli che un giorno ha intenzione di fare. A tal proposito ha scritto un articolo, datato Gennaio 2016, dal titolo “Traveldreams 2016 Per Sognare in grande”, in cui stila una lista di quei Paesi che in futuro vorrebbe visitare; dalla Namibia alla Polinesia francese, passando per la Scozia, l’articolo racconta alcune delle fantasie di viaggio che Alice coltiva da tempo . Sorpresa: al punto 6 c’è l’Italia, perché, cito testualmente, «chi l’ha detto che i viaggi da sogno si trovino a distanze transoceaniche?». Nel sito non mancano consigli da viaggiatori: suggerimenti sui trasporti economici, tra cui particolare attenzione ottiene Megabus, cui Alice dedica un #diarioditrasferta su Instagram; innumerevoli recensioni culinarie, non senza riferimenti all’ambienti e all’economia; critiche sincere (irresistibili quelle al Balcone di Giulietta a Verona, la cui parete retrostante è «ormai cimitero di microbi e saliva») e commenti senza peli sulla lingua (ammette che «Parigi mi ha delusa», anche se per affrontarla impara ad apprezzarne il fascino, seguendo il suo principio di «curare la paura con la bellezza»).

Infine una certa attenzione è riservata a Torino, ai suoi eventi, ma anche ai suoi luoghi più nascosti e interessanti; immancabili sono i consigli su dove fermarsi a mangiare, mentre alcune curiosità sui piemontesismi più diffusi potranno aiutarvi nell’approccio ai torinesi.

Alla base di tutti questi viaggi c’è la sindrome di Asperger che la fa (quasi) da padrona. «I primi momenti – mi spiega Alice – non è stato facile perché partire senza i miei genitori, all’epoca parte integrante della mia comfort zone, si è rivelato psicologicamente tumultuoso: ero felice di andare ma inspiegabilmente ero terrorizzata, al punto di stare male per tutta la durata del soggiorno. Non mi sono voluta arrendere, così ho iniziato a cercare un modo per reagire, come faccio nella vita di tutti i giorni».

Ed è da quel momento che le cose hanno iniziato a prendere una piega diversa, e il viaggio ha assunto, per Alice, un sapore nuovo: «Mi sono accorta che a spaventarmi erano gli imprevisti e l’ignoto come, ad esempio, un metal detector che suona, un quartiere sconosciuto, o persone che mi parlano in un’altra lingua, e che quindi la soluzione era prepararsi adeguatamente, cercando più informazioni possibili senza lasciare troppo al caso. Certo gli intoppi ci sono sempre, ma riderci su e viaggiare con qualcuno di cui mi fido aiuta sempre».

Fotografie di Operazione Fritto Misto

BeRevolution: raccogliere sogni dall’Italia al Giappone a bordo di una 500

Ho speso lungo pensare nella ricerca di una definizione di ‘Eroe’ che mi soddisfacesse. Per vedersi attribuire questa nomea il filantropo atto di coraggio è condizione prima, ma non risolutiva; reputo che l’appellativo d’eroe debba essere un’etichetta senza scadenza che non si conferisce per un singolo atto lodevole, quanto piuttosto per una costante condotta, uno stile di vita.

Il paladino evolve nell’impresa e, tramutato, riprende il mare per un’idea di luce; lo fa cambiando in positivo le vite degli uomini (di chi lo incontra e di chi ne sente raccontare) avventurandosi altrove, ovunque, smanioso di partecipazione. Così, nel movimento, diviene canale universale di bontà diffusa.

Ecco che nell’impresa itinerante, nel viaggio, si compie l’ideale metamorfosi.

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È circa metà luglio 2015 quando la mia curiosità viene stuzzicata da un logo scorto per caso tra mille finestre aperte su internet: le lettere della parola ‘revolution’ disegnano un’automobilina pronta a partire, sormontata da una valigia griffata “Be”.

BeRevolution, sii la rivoluzione, è il nome del progetto di due cugini di Chieri (TO), Luca e Andrea Bonventre, che in quei giorni montano su una piccola utilitaria Fiat 500 alla volta dell’estremo oriente.

14 stati da attraversare, 27000 km da percorrere, un anno di viaggio.

Tokyo come meta. L’epopea Euro-asiatica.

Vogliono assaggiare culture estranee, scoprire se «la macchinina può arrivare sin dove punta il Cuore di chi la guida» e, soprattutto, che questo loro azzardo risulti utile: l’intento è di raccogliere fondi e dar visibilità alla fondazione Forma Onlus di Torino, al fine di poter acquistare apparecchiatura d’eccellenza e introdurre nuovi progetti terapeutici nel polo pediatrico dell’ospedale infantile Regina Margherita.

In concreto i due avventurieri hanno visitato 13 ospedali, 3 scuole e 3 orfanotrofi, recando ai bambini incontrati l’invito a disegnare i propri sogni su centinaia di fogli che andranno presto a comporre la raccolta “500 sogni in 500”.

E’ un’esperienza di desideri che si intrecciano: quelli di chi ha osato il gesto rivoluzionario con quelli degli uomini di domani.

Nei mesi, l’impresa è stata raccontata tappa per tappa attraverso un diario di viaggio in costante aggiornamento sul sito ufficiale del progetto. L’itinerario si è concluso con il rientro a Chieri i primi di luglio 2016; i propositi invece proseguono nel tempo, grazie alle donazioni attive tramite il sito e l’allestimento della raccolta d’immagini.

Cogliendo l’occasione del rientro dei due, ho contattato Andrea per un’intervista a caldo su alcuni aspetti che hanno solleticato il mio interesse.

Come nasce l’idea del viaggio e quindi del progetto?

L’idea nasce scherzando. Nell’estate del 2014 Luca ha acquistato la 500 da amici in Sardegna. La spedizione dell’auto aveva un costo molto elevato, allora decise di andarla a prendere personalmente. Invita anche me e Riccardo, suo fratello minore. Ci dicevano che eravamo matti, che la macchina è vecchia, insomma tutto il solito bla bla di raccomandazioni cui storicamente siamo stati sempre sordi. Ne nasce un viaggio di una settimana, campeggiando liberamente per le meravigliose spiagge dell’isola. Eravamo felici di aver percorso 1000 km, e ci sembrava già un’impresa. Arrivati a Chieri, dove viviamo, ci siamo detti: «Non ho voglia di andare a casa, andiamo a Bangkok!». Poi Bangkok ci sembrava troppo vicina; il resto è la storia che già conoscete…

Volevamo inoltre che il nostro sogno fosse utile, quindi abbiamo scritto un progetto legato al viaggio: BeRevolution. Essere la propria rivoluzione, lavorare al servizio dei propri sogni. Dimostrare quello che avevamo sperimentato in molti viaggi: il mondo è la casa di tutti. E quali sono i sogni che costruiranno il mondo di domani? L’abbiamo chiesto a chi il futuro brilla negli occhi: i bambini. Ci siamo concentrati soprattutto sugli ospedali pediatrici, dove i sogni devono avere un’eco più forte.

-Come è stata la convivenza continua tra di voi?

Come due fratelli. Si condivideva tutto, si litigava (poco), si era gelosi, felici. Ci completavamo nelle nostre mansioni, insomma una squadra vera.

-Macinare tanti km con quella piccola vettura è già di per sé un’impresa quasi impensabile; come si è comportata?

Stupendamente! Luca quasi non la conosceva una volta partiti ed è arrivato a capirla in ogni minimo dettaglio. E’ sempre stato attento a qualsiasi suono (la 500 si guida a orecchio!) provenisse dalla vettura e ha fatto in modo che non si verificassero mai grossi problemi. Poi, in un’ottica di viaggio overland un’auto meccanica ha parecchi vantaggi dacché costruita da uomini per uomini, non da macchine per macchine. Inoltre, avendo la 500 un motore molto semplice e conosciuto in tutto il mondo, non ci è mai mancato il supporto di meccanici in ogni paese.

-Quali sono stati i momenti salienti del viaggio?

I momenti importanti sono stati tutti. Il tempo vuoto e il tempo pieno si alternavano, ognuno fondamentale. Abbiamo condiviso l’esperienza con numerosi viaggiatori, siamo stati ospitati da contadini, zingari, consoli, ragazzi e signori anziani. Il viaggio vero inizia nell’incontro, si cresce imparando e nello scambio avviene la magia.

-Ci regalate un aneddoto e una sensazione?

Mentre scattavamo una foto (500 + elefante) in India, si avvicina un signore sui sessanta. Ci guarda con occhi sgranati ed esclama: «Ah, ma allora non vi siete estinti!». Era Adriano, viaggia attraverso l’India tutti gli anni dal 79′. L’ha vista senza plastica e ci raccontava di come in quegli anni fosse molto comune arrivare con una 500 o un mezzo simile sino in India. Ci ha portato da un Baba esperto in omeopatia; ci ha illustrato i templi abbandonati dove vivevano gli Hippies (quelli veri). Ci ha aperto le porte di un mondo che fin lì avevamo solo sognato.

-Che evoluzione avete avuto durante l’esperienza?

Enorme! Ogni giorno, ogni tappa era un apprendere qualcosa. Non si può preparare un viaggio del genere, bisogna viverlo e basta. E vivendolo sperimentando siamo stati in grado di sviluppare capacità che non credevamo nemmeno nostre. L’evoluzione è stata tale da vedere ora tutto con occhi diversi, o meglio che vedono più elementi rispetto a prima.

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La carne è triste, ahimè,

e ho letto tutti i libri.

Fuggire! Fuggire laggiù!

Partirò!

[Mallarmè]

Nella terra dei Taxi: Uber? Forse…

25 Maggio 2015, Tribunale di Milano: “Uber concorre slealmente contro i taxi”. Così pare essersi pronunciato, almeno in via preliminare, il Giudice chiamato a valutare la portata operativa e la modalità con la quale l’azienda di San Francisco gestisce i suoi contatti e distribuisce cittadini a suon di passaggi tra le più importanti città italiane del nord (Torino – Milano – Genova) e non solo.

L’entrata in scena della società americana sul palcoscenico della mobilità urbana ha indubbiamente modificato le nostre abitudini in tema di trasporti. In passato si arrivava alla stazione della città e scesi dal treno si poteva optare per il consueto, quanto molto spesso vetusto servizio pubblico, o in alternativa, per il taxi. I più avventurosi potevano invece immolarsi con improvvisati autisti abusivi, divenuti in seguito popolari, persino nelle macchiette della commedia italiana.

Tutto questo era prima, poi vennero la connessione di rete mobile, i social, gli smartphone e le loro app, questo neolinguaggio, questa costante interattività, ha permesso lo sviluppo di canali di contatto ancora da dover normare completamente, perché fortemente in contrasto con vecchi schemi mentali, ancora non totalmente pronti o più verosimilmente ancora troppo corporativi per accettare il cambiamento.

Il semplice fatto che dei privati, puntualmente registrati su una stessa piattaforma tecnologica, si organizzino per muoversi, accompagnarsi dietro concordato obolo, agita le compagnie di Servizio Taxi e il perché resta facilmente intuibile.

Quello che, a detta delle Società di Radio Taxi, resta intollerante, è che società come Uber, riescano a mettere in connessione persone tra loro sconosciute e quindi palesare ed intercettare il lavoro delle prime, sostituendosi ad esse. Svolgendo e simulando un servizio pubblico specificatamente regolato dalla legge attraverso le concessioni comunali rilasciate con il preciso scopo di garanzia per l’utente.uber2121

L’ambiguità, probabilmente si nasconde qui. È sbagliato mettere sullo stesso piano e dunque creare un meccanismo di dissonanza, di contrasto, tra due elementi completamente diversi.

A sottolineare le diversità tra le macchine bianche e gli uberisti, sì è pronunciata anche la Corte di Giustizia Europea, stabilendo infatti che, i taxi sono obbligati alla presa a bordo, sono riconoscibili, devono usare il tassametro e avere una conoscenza approfondita della città nella quale lavorano. Obblighi che non gravano, nella stessa misura, sui veicoli a noleggio con conducente.

Così il 19 Maggio, anche il Giudice di pace di Genova si è conformato alla idea di separazione tra le due classi, annullando la sanzione comminata a un driver del servizio di ride sharing sbarcato a Genova l’autunno scorso.

Il Giudice adito ha ritenuto non punibile, ai sensi dell’articolo 86 del codice della strada – quello che sanziona pure molto severamente l’esercizio abusivo del servizio di piazza- l’autista coinvolto, disponendo l’annullamento del verbale, così come le sanzioni in esso contenute.

Insomma, la guerra fra carte, tribunali e avvocati è solo all’inizio, con una parte della Giurisprudenza orientata a valutare il fenomeno come quello che realmente è “nuovo”, mentre l’altra (vedasi il Tribunale di Milano), convinta dell’approccio sleale perpetrato dalla Società Uber Italia nella gara concorrenziale contro le società di Radio-Taxi.

Datata 4 Giugno è la notizia, per la quale le toghe del capoluogo Lombardo, hanno confermato la loro precedente posizione assunta, imponendo alla multinazionale californiana il blocco del servizio, l’oscuramento del sito, stabilendo inoltre una penale pari a 20.000 € per ogni giorno in cui Uber Pop fosse rimasto eventualmente attivo.cq5dam.web.650.600

Va detto che le misure adottate, restano momentanee e cautelari fino alla definizione della causa.

Nel frattempo polemiche, proposte e punti di vista impazzano e mentre da una parte della barricata i tassisti e le organizzazioni sindacali festeggiano  quella che è a tutti gli effetti sembra essere una vittoria, d’altra parte la società di Travis Kalanick e Garrett Camp non si dà per vinta. La contromossa è già viva sui Social, spalleggiata da associazioni di consumatori e cittadini. Intanto è notizia importante che l’autorità dei trasporti ha segnalato a governo e parlamento la necessità di dover intervenire con nuove proposte sulla norma sui trasporti pubblici non di linea, datata ormai 1992, andando incontro a tutti gli attori coinvolti. A partire dalla cosiddetta sharing economy, che sta imponendo in tutto il mondo una presa di posizione del legislatore.

Anche secondo una precisazione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato sul blocco di UberPop, infatti, “Internet rappresenta un grande fattore di sviluppo economico che non può essere fermato, ma occorrono regole per definire soluzioni equilibrate fra i vari interessi in gioco“. E, aggiungo io, che permettano ad un mercato di essere veramente libero, concorrenziale e inserito nel proprio tempo, con la tecnologia che lo stesso offre, evitando magari che l’unica forma di mobilità urbana, ad eccezione di quella di linea, sia costituita esclusivamente da un mezzo elitario, dove 4 Km in una mattina di Milano possono venire a costare più di 20 euro.

Damanhur: i colori dell’umanità nei sotterranei della Valchiusella

A nord di Torino, nella Valchiusella, si incrociano quattro delle linee sincroniche che, come fiumi impetuosi, trasmettono idee e pensieri e mettono in contatto ogni punto del mondo con l’universo. No, non siamo in preda ad una crisi mistica, questo luogo esiste davvero, si chiama Damanhur. Il nome significa ‘Città della luce’ ed è stato premiato dalle Nazioni Unite in quanto più grande società ecosostenibile presente in Europa.

I damanhuriani riciclano, sperimentano nuove tecnologie verdi, si riscaldano bruciando legna nei camini, e, soprattutto, bandiscono accendino e sigarette, anche negli spazi aperti. Inoltre l’eco-società sostiene numerosi enti locali e non, che si occupano di ristorazione, distribuzione commerciale di alimenti bio, o vendita di abbigliamento handmade.

L’ambiziosa etica new age si basa sulla convinzione che in ogni individuo sia presente una scintilla divina da portare alla luce grazie alla meditazione e all’impiego di particolari forme a spirale che permettono il fluire di energie positive.

 

Ma la ‘Città della luce’ è anche la città del colore e dell’arte, infatti è divenuta meta turistica di grande attrattiva per la rilevanza estetica in ambito pittorico, plastico e del vetro soffiato. A Damanhur tutti sono artisti e a tutti è permesso colorare le strade del villaggio con le tinte del proprio pennello.

La comunità offre un ventaglio di possibilità davvero vasto per chi desideri esprimere se stesso attraverso l’estetica delle forme, del colore e dei materiali, è possibile infatti accedere a corsi di formazione artistica o semplicemente frequentare i laboratori di statuaria, della lavorazione del vetro, di ceramica e di mosaico.

 

Tutte le tecniche acquisite nei vari atelier hanno permesso ai damanhuriani di incastonare, nei sotterranei, quello che è stato annoverato tra le meraviglie del mondo: i Templi dell’umanità.

 

Questo organismo sacro è composto di sette sale, sempre visitabili e utilizzabili da gruppi di fedeli di qualunque confessione religiosa per celebrare le proprie cerimonie. La costruzione iniziò nel 1978 ad opera degli stessi abitanti e fino circa al 1991 la sua esistenza rimase segreta anche a molti dei membri della comunità, in quanto non esistevano leggi che autorizzassero la creazione di strutture sotterranee di questo genere.

Gli ambienti sono così distinti: sala degli specchi, dell’acqua, dei metalli, della terra, delle sfere, il labirinto ed infine il tempio azzurro. Una luce particolare inonda l’aura sacrale di questi spazi, nei quali, al di là di ogni convinzione personale, si respira indubbiamente un’intensa spiritualità.

Le varie sale sembrano porsi in una dimensione dove tutte le forme fluttuano, dando vita a linee che nella loro semplicità creano effetti che non possono lasciare l’occhio indifferente. Il colore è l’indiscusso protagonista, tinte diverse e contrastanti si stagliano sui dipinti parietali rappresentanti simboli di ogni culto, figure umane sorprendentemente realistiche, ed elementi naturali.

L’esplorazione procede attraversando numerosi corridoi dalle volte dorate, ai cui lati troviamo curiose statuette in terracotta di soggetti non ben identificabili; vale la pena rivolgere il naso all’insù per ammirare i soffitti, spesso a cupola, finemente decorati da preziose vetrate o mandala dipinti.

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Ma non è tutto vetro quello che luccica, infatti numerose sono le testimonianze dei ‘fuoriusciti’ dalla comunità, i quali la descrivono come una vera setta che opera attraverso meccanismi coercitivi, pressioni psicologiche che porterebbero l’individuo a scindersi dal mondo al di fuori delle mura di Damanhur.

Nota è inoltre l’evasione fiscale di cui fu accusato il fondatore nel 2004 e l’abuso edilizio dovuto alla costruzione dei templi.

La sontuosità e bellezza di questi luoghi segreti rimane indiscutibile, ma non è necessario essere trascinati nella morsa delle forze spirituali per apprezzarne la meraviglia.

Quale sarà l’eredità di EXPO?

Da pochissimi giorni si è alzato il sipario su EXPO Milano 2015; ci sono stati eventi, inaugurazioni, discorsi, inni, proteste e incidenti. I primi giorni di apertura hanno regalato sorrisi, ottime impressioni e previsioni scintillanti per il futuro della manifestazione. Va detto, però, che il futuro in questione non è esattamente a lungo termine: il 31 ottobre lo stesso sipario calerà, bisognerà tirare le somme, fare un bilancio di quello che è stata la manifestazione, stabilire se sia stata proficua per i visitatori e per il territorio che l’ha ospitata.

In altri termini si tratterà di stabilire se EXPO 2015 avrà generato un’eredità, una legacy. Due sono, in verità, le legacy che i grandi eventi lasciano: la prima è quella spirituale, fatta di ricordi, nuove consapevolezze, sensazioni ed esperienze condivise, che possono rendere l’evento stesso una boa nella storia. In questo senso, il tema dell’esposizione si presta assolutamente ad approfondimenti e riflessioni che la stesura della Carta di Milano rende e renderà fondamentali nella buona riuscita della grande fiera.

Di altra pasta è la seconda eredità: si tratta di tutto ciò che di materiale un grande evento lascia dietro a sé e in questo caso, l’analisi è più terra terra.

L’esperienza italiana dietro ai grandi(ssimi) eventi è, come noto, del tutto particolare, ma non sempre si è potuto concludere che l’aver portato il mondo in città sia stato dannoso. Negli ultimi 25 anni ci sono state diverse occasioni, sfruttate tutte in modo agrodolce: i mondiali di calcio del 1990 hanno dato vita a cementificazione sregolata e scriteriata, l’EXPO 1992 a Genova è stata un mezzo buco nell’acqua, almeno in termini di visite ed incassi (13 miliardi di Lire, contro i 45 previsti). A Torino, nel 2006, sono state organizzate le Olimpiadi invernali, il cui ritorno è stato invece vantaggioso per la città, che si è vista infrastrutturare strategicamente, andando anche a riqualificare punti focali del proprio tessuto. Certamente rimangono anche punti oscuri, come lo stato di abbandono di alcuni impianti – la pista di bob, skeleton e slittino di Cesana Pariol o il trampolino per il salto con gli sci di Pragelato.

Il problema della riconversione delle aree destinate a manifestazioni straordinarie, tuttavia, non è solo italiano e volendo stringere il focus solo sulle Esposizioni, ci sono diversi precedenti che ne illustrano la difficoltà: quello di Siviglia (EXPO ’92 – in coabitazione con Genova) e Hannover (EXPO 2000). In entrambi i casi le aree edificate si sono rivelate poco appetibili; tutt’oggi esistono padiglioni abbandonati che favoriscono il degrado anche delle aree circostanti. Ancora, sempre in entrambi i casi, è stato sovrastimato il numero dei visitatori, con il risultato di avere zone dedicate eccessivamente estese e troppo costose per l’economia della manifestazione.

Probabilmente non è questo il futuro che immaginava EXPO Siviglia '92
Probabilmente non è questo il futuro che immaginava EXPO Siviglia ’92

Discorso diverso per Lisbona, che ha avuto un’ottima legacy dalla sua EXPO (nel 1998), vedendo la zona fieristica integrata nel tessuto urbano, creando una propria centralità che ha permesso anche ai quartieri limitrofi di beneficiarne, in termini di qualificazione qualitativa ed economica.

E a Milano? Le notizie recenti creano un po’ di inquietudine, sia per quanto riguarda l’area intera che a proposito dei singoli padiglioni.

Il polo fieristico sorge su un terreno controllato da AREXPO, una società creata ad hoc per la gestione immobiliare. La stessa AREXPO ha creato un masterplan, che illustra come dovranno essere utilizzati gli spazi dopo il 31 ottobre, con l’intento di cedere gli stessi con un bando di gara, partendo dalla cifra di 315 milioni di Euro. Bando di gara che scadeva il 15 novembre scorso e che ha visto il seguente numero di partecipanti: nessuno. Il masterplan, che prevede la creazione di un grande parco, il riutilizzo di alcune strutture per scopi aderenti a quelli di Expo, il divieto all’edificazione di centri commerciali di dimensioni superiori a 2500 metri quadrati, resta comunque attivo come linea guida, anche se si sta pensando di dividere le alienazioni in diversi lotti. Ciò dovrebbe rendere più semplice la vendita e il recupero dell’investimento iniziale.LEGACY_fl

Per quanto riguarda i padiglioni la certezza è una: verranno smontati per fare in modo che non rimangano canne al vento. Solo il padiglione Italia resterà intatto, sebbene alcuni paesi (Israele, Kazakhstan ed Emirati Arabi Uniti) sembrano aver acconsentito a regalare le proprie strutture all’organizzazione per farne ciò che meglio crede – in teoria sarebbe un contributo alla creazione della famosa legacy di cui sopra.

Un discorso particolare lo merita anche l’Albero della Vita, l’opera che è stata designata come simbolo di questa nostra Expo: secondo alcuni sarebbe necessario conservarla, proprio a memoria di quello che è stato e come monito per quel che sarà e trapiantarla nel cuore della città. Dove? Proprio in mezzo a Piazzale Loreto, che, adeguatamente riqualificato anche dal punto di vista viabilistico, andrebbe ad ospitare un altro pezzo di storia del nostro paese. Non solo, si sostiene anche che metterlo lì vorrebbe anche dire ricucire, almeno parzialmente, la distanza fra il centro e la periferia, dato che il piazzale è il punto di congiunzione di molte vie che portano fuori città.

L'Albero della Vita nella sua ipotetica nuova casa
L’Albero della Vita nella sua ipotetica nuova casa

Ad oggi non è dato sapere come, veramente, EXPO Milano 2015, si farà ricordare da chi l’ha vissuta o da chi ne ha soltanto sentito parlare. Si può affermare che la città, per ora, ne abbia giovato? Sobbarcandosi spese e costi in termini sociali (leggasi proteste, dibattiti, scandali, disagi…traffico) è stato possibile migliorare alcune infrastrutture o crearne di nuove, più funzionali e sostenibili. Creare, costruire, in modo coscienzioso e lungimirante è la chiave per fare in modo che gli eventi restino nella memoria e ne creino, che la Babele di culture che c’è ad Expo non consista solo di insetti fritti e turisti asiatici, ma una legacy tangibile tanto nei cittadini quanto nella città.

In copertina, Expo Future Food District [ph. Cesco 82 CC BY-SA 4.0/Wikimedia Commons]

Poesie di autostrade ed altro sull’autostop

Per uscire da Milano in direzione Bologna basta prendere la gialla fino a Rogoredo e poi con la navetta gratuita farsi portare all’Ikea di San Donato. Da lì bisogna camminare fino alla vicina entrata della tangenziale ed esporsi alla vista degli automobilisti. Si tenga presente che a un’automobile serve un po’ di spazio per fermarsi agevolmente.

Più difficile dirigersi verso Torino: metro rossa fino a QT8 e una decina di minuti di cammino costeggiando il parco Monte Stella. Da lì, solita storia: pollice alzato e cartello in bella mostra.

Per andare verso Genova conviene, da Famagosta, camminare verso nord paralleli al ponte da cui parte la A7 e piazzarsi o al semaforo o all’entrata del distributore di benzina.

Per abbandonare la città sforzesca e dirigersi verso il Veneto invece, occorre, dal capolinea della verde Cologno Nord, raggiungere il ponte che immette sulla Milano–Venezia e camminare per qualche minuto lungo l’erbetta che costeggia l’autostrada sino a raggiungere una piccola stazione di servizio. Una volta lì il gioco è fatto: «Scusi, vado verso Brescia, devo arrivare a Budapest in autostop e se riuscisse a lasciarmi qualche autogrill più in là, sarebbe più facile».

Viaggiare gratis quarant’anni dopo il tempo degli hippy è possibile e pare che i nostalgici, gli squattrinati e i cacciatori di avventure che alzano il dito siano ancora assai numerosi. Numerosi e organizzati, tanto da aver creato hitchwiki.org: una piattaforma virtuale ispirata a wikipedia (il nome stesso è una fusione dell’enciclopedia libera con il verbo inglese “to hitch-hike”, fare autostop. Il sito, di cui non esiste una versione in lingua italiana, oltre a suggerire i miglior posti dove mettersi a cercar passaggi, raccoglie consigli, testimonianze, norme di comportamento in caso di incontri ravvicinati con la polizia e in alcuni casi persino suggerimenti su dove trovare alloggio qualora la tappa in una data città dovesse rivelarsi più lunga del previsto. Si segnalano anche, quando non banali, gli accorgimenti rivolti a viaggiatrici solitarie, disabili in carrozzina e autostoppisti con cani o bambini.

Una delle più vive preoccupazioni legate a questa modalità di viaggio è quella della sicurezza. Presunte leggende metropolitane si sbizzarriscono nel dipingere ritratti di autostrade tempestate di pazzi omicidi e assetati di sesso. Esiste una letteratura in merito, così come casi più o meno celebri di tragici epiloghi (il più famoso è quello di Pippa Bacca, l’artista nipote di Piero Manzoni che nel 2008 è stata uccisa in Turchia durante la performance itinerante che la vedeva attraversare undici Paesi in abito da sposa).

Per quante se ne raccontino, non è possibile stabilire se surfare per stazioni di servizio sia più o meno pericoloso che prendere un aereo. Bisogna decidere a chi dare la propria fiducia e per quanto cinico e riduttivo possa sembrare questo concetto, non c’è molto altro da aggiungere: il bello e il brutto del viaggio in modalità beat generation è che si decide di affidarsi agli eventi e alle persone. Si sceglie di esporsi al mondo in una condizione di totale impotenza: trovarsi per puro caso al posto giusto nel momento giusto permette di apprezzare una chiacchierata con un trasportatore polacco a cavallo dei comodi sedili del suo camion, ma un simile fortuito incontro può avvenire dopo ore trascorse al freddo in una strada poco trafficata di una località sconosciuta. Un viaggio rilassato di qualche centinaia di km può concludersi in piena notte nell’ultima stazione di servizio prima dalla destinazione finale, il che significa che si devono perdere ore prima di trovare qualcuno che si fermi, accetti di dare un passaggio ed esca alla prima uscita facendo sì che si giunga davvero a destinazione.

C’è però nell’autostop un risvolto romantico che non può essere taciuto. Il bisogno di risparmiare due soldi non può essere il solo motivo che spinge centinaia di viaggiatori a cacciarsi in situazioni insolite e a farsi bollare come incoscienti: ci deve essere dell’altro. Forse quest’altro è la sensazione di vivere sentendo il tempo che passa senza poterlo in alcun modo gestire o dominare. Intraprendere un lungo viaggio a pollice alzato costringe a tuffarsi in un presente che diventa importantissimo. L’autostoppista può pensare all’arrivo ma non lo può vedere e di conseguenza si lega a quello che si trova davanti, l’unica certezza che può possedere: autostrade, stazioni di servizio, sudore, nuvole, inquinamento, monotonia.

Quando si arriva in posti come La Jonquera, prima città spagnola oltre la frontiera francese, località di pochi abitanti costruita soprattutto per gente di passaggio, con i suoi negozi di sigarette e di souvenir, con il campo da calcio e la signora che esce a far pisciare il cane in mezzo a paesaggi fatti di camion, si ha la sensazione di vivere con maggiore intensità la sete, il freddo, la gioia, la fame, il sonno.

Per parlare davvero di autostop bisognerebbe ascoltare l’abruzzese che vive a Roma e ha voglia di raccontare di sua sorella che suona l’arpa, o la gentile francese che da Montpellier va a Lione a trovare i genitori e lungo il tragitto ascolta musica trash a volume alto e fuma sigarette senza dire una parola; bisognerebbe scrivere di tutti i tasselli di viaggi di cui non rimangono che le testimonianze e dare voce a quelli che sono stati importantissimi attimi presenti e che ora aspettano solo di essere dimenticati come la polvere ai lati delle strade su cui già cammina un ennesimo anonimo in cerca di un passaggio.

Nella speranza che queste parole che puzzano di spiritualità new age non sembrino l’ultimo discorso di un radical chic che gioca a fare l’illuminato.

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