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L’Italia e i giovani, se l’università è solo una spesa (pubblica)

L’Italia è un Paese per vecchi? Secondo recenti dati Istat, il tasso di fecondità nel 2015 continua a diminuire, mentre la popolazione anziana è il 21,4% del totale, una percentuale destinata a salire nel giro di un decennio. Alcune prevedibili conseguenze: la progettazione di un welfare a misura di anziano e giovani che cercano fortuna altrove o lavorano più a lungo per finanziare le pensioni.

Lunga vita ai giovani!

Se queste sono le condizioni attuali e le prospettive di vita future della società italiana, possiamo fantasticare su un Paese che crede nei giovani e che investe risorse significative anzitutto su un sistema d’istruzione inclusivo e lungimirante per la piena affermazione nel mercato del lavoro. Ma qual è l’investimento reale dell’Italia sulla formazione universitaria? Sono proprio i freddi dati statistici, relegati a pubblicazioni sporadiche o a strumentalizzazioni politiche, a fare chiarezza sullo scenario di un’Italia giovane che sceglie di continuare gli studi e, talvolta, di emigrare verso altri lidi.

Numeri caldi

L’ultimo rapporto dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) sui sistemi d’istruzione nei 34 Stati membri, Education at a glance, rivela che nel 2012 le istituzioni universitarie hanno investito 10.071 dollari per studente, solo due terzi della spesa media OCSE; una quota pari allo 0,09% del PIL nazionale, più vicina a Brasile e Indonesia e distante anni luce dal 2% o più di Stati Uniti e Canada, ma anche del Cile e della Colombia.

Spesa per le istituzioni del settore dell’istruzione in percentuale del PIL da fonti pubbliche (in blu) e private (in azzurro) di finanziamento. Fonte: OCSE 2015
Spesa per le istituzioni del settore dell’istruzione in percentuale del PIL da fonti pubbliche (in blu) e private (in azzurro) di finanziamento. Fonte: OCSE 2015

Oltre al danno, la beffa: nel 2014 non solo è appena il 62% dei laureati tra i 25 e i 34 anni a trovare lavoro (la media OCSE è all’82%), ma si osserva che tra chi ha conseguito la laurea e chi solo il diploma di istruzione secondaria superiore la differenza di reddito è assai poca, come accade in Brasile, Messico e Turchia.

Redditi da lavoro relativi dei lavoratori (25-64 anni) con livello d’istruzione terziaria e loro quota percentuale rispetto alla popolazione complessiva (2013). Fonte: OCSE 2015
Redditi da lavoro relativi dei lavoratori (25-64 anni) con livello d’istruzione terziaria e loro quota percentuale rispetto alla popolazione complessiva (2013). Fonte: OCSE 2015

In Italia, insomma, i finanziamenti alle università non sembrano una priorità dell’agenda politica e una formazione più elevata non è il passepartout per un futuro più stabile. Il concomitante aumento delle tasse (da 736,91€ a 1.112,35€ circa in 10 anni, scriveva l’estate scorsa Corriereuniv.it) e dei laureati disoccupati (all’inizio del 2016 l’Eurostat avverte che solo il 53% lavora a 3 anni dalla fine degli studi), scoraggia i giovani a diventare matricole. E allora, perché non tentare di farsi una vita altrove, in un altro Paese?

Alla conquista dell’est(ero)

Non c’è bisogno di tante indagini per intuire che per molti giovani l’istruzione e il mondo del lavoro all’estero offrono più opportunità e l’emigrazione è una possibilità per il futuro. Tra questi, alcuni portano avanti studi universitari e ricerche con tenacia e con il sostegno economico dei Paesi che li accolgono. Infatti Roberta D’Alessandro, tra i ricercatori vincitori del bando europeo ERC Consolidator, ha frenato l’entusiasmo della ministra dell’Istruzione Stefania Giannini chiedendole di «non appropriarsi di risultati che italiani non sono».

Chi intraprende la carriera universitaria in Italia non ha vita facile. Ce ne parla Marco Passarello, professore di chimica in una scuola secondaria superiore, ex assegnista di ricerca. «Precario, ovviamente». Contratti al massimo di un anno, e agli ultimi mesi il solito pensiero: «Li rinnoveranno? Ci saranno fondi per finanziare la mia ricerca?». Magari si passa un periodo in atenei stranieri per applicare i metodi appresi in Italia, ma qui spesso le condizioni non sono ottimali. «Sono stato anche assunto per una sperimentazione su nuove strumentazioni di laboratorio, acquistate da tempo dall’università, ma arrivate ormai a metà del mio contratto».

Gente che va, gente che viene. Ma chi rimane?

Con dottorandi e ricercatori, se ne vanno dall’Italia sempre più giovani e tra questi il 30% ha una laurea. Non si tratta della solita polemica intergenerazionale, ma dell’evidenza di un’Italia che vede allontanarsi tanti giovani preparati e meritevoli. Gli stessi che potrebbero contribuire alla futura classe dirigente, all’innovazione tecnologica e al settore della cultura.

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Alice Laspina

Nata nella bergamasca da famiglia siciliana, scopro che il teatro, lo studio e la scrittura non sono che piacevoli “artifici” per scoprire e raccontare qualcosa di più “vero” sulla vita e la società, sugli altri e se stessi. Dopo il liceo artistico mi laureo in Scienze e Tecnologie delle Arti e dello Spettacolo e sempre girovagando tra nord e sud Italia, tra spettacoli e laboratori teatrali, mi sono laureata in Lettere Moderne con una tesi di analisi linguistica sul reportage di guerra odierno. Mi unisco alla ciurma di Pequod nel 2013 e attualmente sono responsabile della sezione Cultura, non senza qualche incursione tra temi di attualità e politica.

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