Skip to main content

Il mio coming out – seconda parte

In occasione del festival Orlando di Bergamo, dedicato all’identità di genere, e della “Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia” del 17 maggio, Pequod ha chiesto a diversi ragazzi e ragazze di raccontare le loro esperienze di coming out e cosa hanno significato per loro. Di seguito riportiamo la seconda parte dei loro racconti (qui trovate la prima), editati e ridotti per ragioni di spazio e di chiarezza.

 

Dominguel Radesca, 28 anni, Bergamo

La prima volta che ho fatto coming out è stato a 19 anni circa con i miei capi scout. Era agosto ed eravamo da poco tornati da un viaggio in bici Bergamo-Roma, la più grande sfacchinata della mia vita. Una volta rientrati a casa, ricordo di aver pensato: «Se sono riuscito ad arrivare fino a Roma in bici, posso anche dire al mondo di essere un finocchio…». Ho quindi chiesto ai miei capi scout di trovarci una sera perché dovevo dir loro qualcosa e così, davanti a una bottiglia di ottimo rum di Santo Domingo, ho fatto il mio primo coming out. Quello che più mi preoccupava era soprattutto come riuscire a conciliare la mia sessualità con l’appartenenza agli scout, notoriamenti cattolici. In realtà è andato tutto bene e abbiamo continuato serenamente a bere il nostro rum insieme. Da parte dei miei genitori, invece, la reazione è stata molto diversa. In particolare mio padre, dopo aver letto la lettera in cui gli spiegavo di essere gay, mi ha detto: «Siediti e stai zitto: io parlo e tu ascolti». Ha quindi iniziato a farmi un lungo discorso sulla Chiesa cattolica e il suo Magistero, a cui io non avevo alcun diritto di replica. Ripensandoci a posteriori, credo che forse avrei potuto aspettare un po’ a parlargliene, magari affrontando la questione in un altro modo. Credo che diverse associazioni per i diritti dei gay spingano i giovani omosessuali a fare coming out con la rassicurazione che non saranno soli, che avranno loro come famiglia, ma sono tutte bugie. In realtà in quel momento sei solo, sei tu di fronte alla tua famiglia e ai tuoi amici. E’ per questo motivo che la decisione di parlare o meno del proprio orientamento sessuale spetta esclusivamente all’interessato e a nessun altro.

Kevin, 28 anni – Tutti i diritti riservati.

Kevin, 28 anni, provincia di Venezia

La prima persona a cui ho confidato di essere gay è stata un’amica di lunga data, tra la prima e la seconda superiore. Era una persona dalla mentalità aperta e, dopo un’iniziale reazione di stupore, l’ha accettato senza alcun problema. Ho deciso di parlarne con lei e, in seguito, anche con il resto dei miei amici più stretti perché volevo essere più libero nel rapporto con loro, ma di riflesso anche in quello con me stesso. Volevo che mi accettassero per quello che ero e che continuassero a volermi bene come prima, due cose che all’epoca non davo affatto per scontate. Durante le superiori quindi, sentivo di vivere una sorta di doppia vita: mi sentivo in un modo all’interno del gruppo di amici che lo sapevano e in un altro con il resto della società, non è stato semplice. All’università, invece, essendomi “dichiarato” fin dall’inizio o quasi, mi sono sentito molto più libero e spontaneo, non dovevo più stare attento a quello che dicevo, mi preoccupavo meno di quello che avrebbero pensato gli altri.
Un altro coming out che per me è stato significativo è quello con mia madre, la cui approvazione per me era assolutamente essenziale. Devo dire che ha sofferto molto all’inizio, era in ansia perché aveva paura di quello che sarebbe potuto accadermi, di come mi avrebbe trattato la gente. In breve tempo, però, si è resa conto che non c’erano pericoli reali e adesso è molto tranquilla al riguardo, ne parliamo senza problemi e il nostro rapporto non ne ha assolutamente risentito. Per quanto riguarda mio padre, invece, lui è stata l’ultima persona a cui l’ho detto, solo qualche mese fa. Avrei voluto farlo da tempo, ma mia madre mi ha chiesto di evitare, perché non voleva che si creassero ulteriori tensioni in famiglia. Per me però era importante che lui lo sapesse da me e non da altri, perché mio padre rappresentava la fascia di società che sapevo essermi ostile e spettava quindi a me affrontarla. Come prima reazione ha subito bollato la cosa come “anormale”, preoccupandosi di cosa avrebbero pensato i suoi amici. Mi ha anche chiesto chi era stato a violentarmi, perché credeva che per diventare gay si dovesse necessariamente aver subito una violenza. Conoscendo mio padre, con la sua ossessione per la “normalità” e il suo ideale di famiglia del Mulino Bianco, non mi aspettavo una reazione positiva ed ero quindi preparato. Sono comunque felice di averlo fatto. Ora non provo più l’ansia di dover cambiare discorso quando lui entra nella stessa stanza con me e mia madre. Non credo che lui se ne sia ancora fatta una ragione, ma io mi sento più libero.

Sabrina, 27 anni, Bergamo

Il mio non è stato un vero e proprio coming out, nel senso che non sono mai andata dai miei genitori dicendo «Mamma, papà, sono lesbica». E’ semplicemente successo che a 14 anni, in prima superiore, ho fatto amicizia con una mia compagna di classe e il nostro rapporto si è gradualmente trasformato in qualcosa d’altro. All’inizio ne ero molto confusa, davo la colpa al fatto che quando uscivamo insieme spesso eravamo magari un po’ alticce… Col tempo invece siamo diventate una coppia vera e propria: andavamo in giro mano nella mano, ci baciavamo in pubblico. Di conseguenza tutti l’hanno saputo, inclusi i miei genitori, che non l’hanno presa molto bene. Durante i due anni in cui io e la ragazza siamo state insieme, mia madre non mi ha mai permesso di portarla a casa, non ne voleva sapere. Mio padre si sforzava di più di capire, di ampliare un po’ la sua visione del mondo, ma comunque la nostra storia non è mai andata giù alla mia famiglia. Per me all’inizio non è stato semplice, perché molti mi guardavano storto, mi giudicavano; io, però, mi sono circondata delle persone che mi avevano accettata e continuavano a starmi vicino e a volermi bene. Adesso la mia vita è cambiata, sono sposata e quella relazione ormai fa parte del mio passato. Tuttavia sono ancora convinta che l’amore è amore e possiamo amare chi ci pare, uomo o donna che sia.

 

Sandra, 24 anni

Il mio coming out vero e proprio è stato con i miei genitori a 21 anni, quando mi sono fidanzata per la prima volta con una ragazza. Dormivo quasi sempre fuori casa, cosa che non era mai successa prima, così mia madre mi ha chiesto se stavo frequentando qualcuno e le ho risposto semplicemente: «Sto con una ragazza».  E’ stato solo in un secondo momento che ho spiegato a mia madre che sono anche attratta dagli uomini, perché temevo che se gliel’avessi detto subito lei avrebbe continuato a sperare che un giorno sarei arrivata in casa con il principe azzurro e io questo non lo volevo. Entrambi i miei genitori non hanno reagito molto bene alla notizia. Mia madre ha esclamato una frase piuttosto infelice, del genere «Vabbe’, prendiamoci anche questa disgrazia», mio padre non l’ha proprio accettato. Ci sono molti pregiudizi nei confronti dei bisessuali e paradossalmente la bifobia più accesa l’ho riscontrata proprio all’interno della comunità LGBTQ, forse perché siamo visti come traditori dell’identità omosessuale, quando in realtà il nostro è un orientamento sessuale che, in quanto tale, va rispettato. Inoltre, viviamo in una società per cui o sei carne o sei pesce, quindi se si sta nel mezzo si è qualcosa di strano, di non inquadrabile.

Anahì Gendler, 28 anni – Tutti i diritti riservati.

Anahì Gendler, 28, Bergamo, di origine israeliana

Il mio coming out effettivo è avvenuto piuttosto tardi, intorno ai 24-25 anni, dopo un percorso alquanto lungo e graduale. Già al liceo avevo avuto un’esperienza molto intensa dal punto di vista emotivo con una ragazza, ma ho iniziato ad assumere una vera e propria consapevolezza della mia sessualità a 22 anni, quando lavoravo – non a caso – presso un centro per i diritti LGBT a Tel Aviv. In quel contesto mi sentivo al sicuro e ho iniziato quindi a parlarne a colleghi, amici e, infine, anche a mia madre. Con lei è stato più complicato, sentivo di averla spiazzata, non sapeva cosa dire o fare, era come se non riconoscesse più sua figlia, era spaventata. Mio padre, invece, quando ha affrontato l’argomento l’ha fatto con un sorriso sincero e pieno di affetto e alla fine ha commentato: «Be’, sappi che a me va bene tutto, mi basta che tu sia felice». Non mi ha chiesto come, quando e perché, quasi ad analizzarmi come se avessi contratto una strana malattia; mi ha fatto capire che andava bene, perché era qualcosa che mi apparteneva e quindi era anche qualcosa di bello. Parlando in generale, la cosa che più mi dispiace è che si debba parlare del proprio orientamento sessuale sempre con la sensazione che sia qualcosa che bisogna conquistarsi perché diverso. Vorrei tanto che un giorno non fosse più necessario fare coming out, che far parte della comunità LGBT non venisse più considerato un problema, bensì una risorsa.

Su richiesta di alcuni intervistati, alcuni nomi sono stati cambiati per proteggerne l’anonimato.

Interviste di Lucia Ghezzi e Amir Saleh.

In copertina: due ragazze si baciano di fronte alla manifestazione battista contro i diritti omosessuali a Westboro

bifobia, coming out, featured, gay, LGBTQ, omofobia


Lucia Ghezzi

Classe ’89, nata in un paesino di una valle bergamasca, fin da piccola sento il bisogno di attraversare i confini, percependoli allo stesso tempo come limite e sfida. Nel corso di 5 anni di liceo linguistico sviluppo una curiosa ossessione verso i Paesi dal passato/presente comunista, cercando di capire cosa fosse andato storto. Questo e la mia costante spinta verso “l’altro” mi portano prima a studiare cinese all’Università Ca’ Foscari a Venezia e poi direttamente in Cina, a Pechino e Shanghai. Qui passerò in tutto due anni intensi e appassionanti, fatti di lunghi viaggi in treni sovraffollati, chiacchierate con i taxisti, smog proibitivo e impieghi bizzarri. Tornata in patria per lavoro, Pequod è per me l’occasione di continuare a raccontare e a vivere la Cina e trovare nuovi confini da attraversare. Sono attualmente responsabile della sezione di Attualità, ma scrivo anche per Internazionale.