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L’orgoglio delle differenze

Avete mai partecipato a un Pride?

Ricordo il mio primo Pride, ero a Genova ed era il 2009. Ricordo che, raggiunto il concentramento, mi trovai circondata da migliaia di volti e di corpi. Vidi Don Andrea Gallo a bordo del carro della sua comunità di San Benedetto al Porto, attorniato da tutte le sue magnifiche trans salvate dalla strada. Ricordo l’abbondanza e i colori di alcune di loro, la trattenuta semplicità ed eleganza di altre. Per la prima volta realizzai di trovarmi in mezzo alla differenza, alle differenze.

Solo camminando fianco a fianco di queste persone ho capito negli anni quanto un Pride possa effettivamente educare alle differenze, insegnandoti ad apprezzarle e a farle diventare parte di te. Condividere i propri passi con emeriti/e sconosciuti/e che camminano al tuo fianco per i tuoi stessi motivi è qualcosa di altamente formativo, che non impari sui libri di scuola. Il Pride è la celebrazione stessa delle differenze, una manifestazione che accoglie ogni identità e sospende il giudizio, perché è casa di tutti/e.

Lo striscione “Educare alle differenze” durante il corteo di RompiamoIlSilenzio Bergamo (foto di RompiamoIlSilenzio, Tutti i Diritti Riservati).

Ho sempre ritenuto che i miei genitori fossero delle persone progressiste e sufficientemente flessibili. Eppure quando si parlava di Pride non perdevano mai l’occasione di definirlo una buffonata, un carnevale osceno che danneggiava soltanto l’immagine delle persone LGBTQI. Per anni ho provato a convincerli del contrario, cercando di mostrargli un’altra realtà, non certo quella trasmessa dalla televisione. Eppure il loro pensiero è cambiato soltanto l’anno scorso in occasione del primo Bergamo Pride. Condividendo con loro le gioie e le frustrazioni dell’organizzazione della manifestazione, hanno iniziato a rendersi conto che il Pride era qualcosa di più. Finché, con mia grande commozione e sorpresa, non sono scesi in piazza lo scorso 19 maggio, altrettanto commossi. Era il loro primo Pride ed erano orgogliosi di me, di quello che avevo contribuito a realizzare. E così molti altri genitori, fratelli e sorelle, amici e parenti, colleghi/e e compagni/e di scuola dei miei amici e delle mie amiche attivisti/e. Ricordo che l’intera famiglia di Stefano, amico attivista, camminò al nostro fianco, accompagnandolo con emozione.

Sono convinta che i miei genitori, come la famiglia di Stefano e molte altre persone, siano tornati a casa con qualcosa in più, una ricchezza mai sperimentata prima. Qualcosa che va oltre ai pregiudizi e si trasforma in esperienza diretta del mondo LGBTQI.

Manifestanti con il volto coperto per protesta durante il corteo di RompiamoIlSilenzio Bergamo (foto di RompiamoIlSilenzio, Tutti i Diritti Riservati).

Ma l’educazione alle differenze ha assunto anche un ruolo più istituzionale nell’ambito di Bergamo Pride 2018, quando abbiamo organizzato un convegno proprio su questo tema. Abbiamo coinvolto il forum nazionale di Educare alle differenze, l’associazione culturale Immaginare Orlando e altre realtà territoriali che si occupano di educazione alle differenze per condividere buone prassi e esperienze. Da questo incontro è emersa la necessità, da parte di formatori/trici, studenti e docenti, di trattare l’inclusione e la prevenzione del bullismo attraverso l’intervento nelle scuole, reso però sempre più difficoltoso dai sostenitori dello spauracchio “gender”.

Educare al rispetto delle persone, al superamento dei pregiudizi di genere, alla inclusività, all’anti-razzismo e alla non-discriminazione viene infatti strumentalmente letto da qualcuno come “un incentivo al transessualismo” – come se la transessualità si potesse insegnare o trasmettere! -, come ci ricorda il recente attacco mediatico da parte di due parlamentari leghisti al progetto di educazione alle differenze portato avanti da Immaginare Orlando e dalla Cooperativa Impresa Sociale HG80 in collaborazione con il Comune di Bergamo.

Pregiudizi come questi, che diventano sempre più istituzionalizzati, non fanno altro che ostacolare il raggiungimento della piena consapevolezza e del rispetto di sé e dell’altro/a. Così facendo, proprio le famiglie che si vorrebbero “proteggere” vengono lasciate sempre più sole ad affrontare i bisogni dei loro figli e delle loro figlie, lasciati/e in balia della convinzione che se sei femmina certe cose non le puoi fare perché sono ad appannaggio esclusivamente maschile e viceversa, o che sia giusto nascondere e negare la tua omosessualità o il tuo transgenderismo  perché è qualcosa di cui ti devi vergognare. O, ancora, che sia giusto molestare o stuprare una donna perché indossa una minigonna. O picchiarla fino a farla abortire perché sono un compagno o un marito geloso

Lo striscione di Non Una Di Meno durante la manifestazione di Bergamo Pride 2018 (foto di Bergamo Pride, Tutti i Diritti Riservati).

Bergamo Pride 2019 – Orgoglio oltre le mura continuerà il percorso di educazione alle differenze avviato l’anno scorso, proponendosi come punto di riferimento per la libera espressione di identità e diversità. Il corteo finale del 18 maggio si costituirà infatti come spazio sicuro entro il quale poter manifestare liberamente chi siamo ed entrare in contatto con la cittadinanza.

A questo proposito, organizzeremo in collaborazione con il Cinema Capitol la proiezione di Boy Erased, prevista per il 14 marzo, film basato sulla storia vera di Garrard Conley, diciannovenne costretto dai genitori a seguire una terapia di conversione dall’omosessualità dopo aver fatto coming-out.

Il comitato aderirà e parteciperà inoltre alla manifestazione contro la violenza di genere indetta da Non una di meno che si terrà a Bergamo l’8 marzo e proseguirà il proprio lavoro di ricerca nell’ambito della due giorni letteraria in programma per aprile, occasione in cui ci confronteremo con autori, autrici, attori, attrici e attiviste sul tema delle differenze.

Quando ho visto diecimila persone ballare al Pride

Il piazzale della Malpensata si staglia dritto davanti a me. Il battito cardiaco accelera all’improvviso. Manca poco all’orario di inizio del concentramento del primo Pride della città di Bergamo. Nel parcheggio solo auto e agenti in divisa. Un unico pensiero: lo abbiamo fatto davvero.

Sono Laura, ho 30 anni e sono un’attivista LGBTQI bergamasca dal 2009. Di omo-transfobia avevo letto solo sui libri, ma quando le notizie di aggressioni ai danni di persone gay, lesbiche e transgender iniziarono a fare il giro dei quotidiani nazionali e delle reti televisive, decisi che i libri non bastavano più.

Il 2009 fu un anno emblematico in questo senso. In numerose città italiane sorsero dei comitati che organizzavano manifestazioni di solidarietà e protesta: la comunità LGBTQI si stava mobilitando, alimentata da una nuova forza e da un nuovo senso di coesione. Nacque così Bergamo contro l’omofobia, dapprima comitato fondato da due sparute ragazzine, Laura ed Elisa, poi associazione di promozione sociale che contava quasi un centinaio di iscritti.

Il corteo del Bergamo Pride 2018 (foto di Camilla Giubileo, Tutti i Diritti Riservati).

Allora non capivo cosa ci spingesse a soli 20 e 18 anni a dedicare giornate intere alla costruzione di sit-in, eventi,  raccolte fondi per autofinanziare le nostre attività e incontri di sensibilizzazione nelle scuole. Ricordo solo che rinunciavo persino allo studio, osservando i miei esami universitari naufragare: Bergamo contro l’omofobia era sempre più importante di qualsiasi altra cosa dovessi o avessi in programma di fare.

Questa dedizione non comportò soltanto dei sacrifici, ma fu anche ripagata da grandi soddisfazioni. Riuscimmo infatti a presentare una nostra piccola mostra di baci al Parlamento Europeo di Strasburgo. E, cosa più importante, i giovani gay e le giovani lesbiche di Bergamo ci contattavano per chiederci consigli, per capire come accettarsi e farsi accettare dai loro cari, per entrare nelle loro scuole e confrontarci con i loro coetanei. Stavamo diventando un piccolo punto di riferimento.

Dopo otto lunghi e intensi anni come presidente di Bergamo contro l’omofobia prima e socia volontaria dopo, ho deciso che il mio percorso in quella associazione era terminato e ho scelto di dedicare tutte le mie energie alla costruzione del primo Pride della città di Bergamo. Era giunto il momento di sondare se il cambiamento su cui avevamo lavorato per anni era effettivamente arrivato. E la risposta a questa domanda sono state le diecimila persone scese in piazza lo scorso 19 maggio. Bergamo era finalmente pronta.

Tra quelle diecimila persone, però, c’era solo una piccola manciata di attivisti/e che hanno potuto vivere sulla propria pelle l’incredibile difficoltà dell’organizzare un evento di tale portata.

Quando fai attivismo, la frustrazione è uno degli effetti collaterali che devi sempre tenere in considerazione. A volte le difficoltà sembrano insormontabili e la scarsa risposta di pubblico è demotivante. Essere attivista implica mettersi in discussione costantemente, scontrarsi con l’ostilità esterna, mettere a rischio le proprie relazioni personali e sperimentare un forte senso di solitudine. Riunioni infinite, notti in bianco, concitazione e ansia, la paura di sbagliare e quella di non fare mai abbastanza contribuiscono a darti un senso di impotenza. Pensateci: non è facile incassare un no dalle istituzioni, essere ricoperti di insulti da un esercente omofobo o essere descritti/e come depravati da parlamentari, senatori della Repubblica, politici, interi partiti o movimenti che addirittura scelgono di manifestare apertamente contro la tua libertà o di organizzare veglie di preghiera contro il Pride. Ma forse tutto sommato è proprio l’ingiustizia il motore che spinge ad andare avanti. Se non ci fosse la necessità di contrapporsi a una ingiustizia, non ci sarebbe bisogno di attivismo.

Il corteo del Bergamo Pride 2018 (foto di Cristian Bonanomi, Tutti i Diritti Riservati).

Sono convinta che l’attivismo sia qualcosa che hai nel sangue, che si traduce in una motivazione talmente forte che ti spinge a superare la frustrazione di non essere invincibile, perché l’obiettivo è collettivo, non personale, e per questo è più grande persino delle tue paure. Essere a bordo del carro di Bergamo Pride l’anno scorso e spiare da dietro le quinte la folla di gente sotto di me che ballava, rideva, si divertiva e vestiva la propria identità con orgoglio e alla luce del sole è stata una emozione unica che mi ha ripagato di tutto il tempo speso a chiedermi che senso avesse quello che stavo tentando di fare.

Perché in fondo di questo si tratta: tentativi. Non custodisci la formula perfetta o la soluzione a tutti i mali, procedi per tentativi, alcuni dei quali vanno a vuoto. E questo è l’attivismo per me: un tentativo costante di mettere in atto pratiche di libertà che non si esauriscono in un evento, ma che al contrario trovano sempre più vie di intersezione, in quanto la sistematicità dell’oppressione si reitera e si estende a tutte le categorie discriminate, dalle persone LGBTQI ai migranti, passando per le donne e via dicendo. Come scrive l’attivista Angela Davis, l’importanza di fare attivismo sta nell’effetto, più che nei risultati. Le mobilitazioni hanno infatti insegnato agli individui a unirsi, a risolvere problemi attraverso la solidarietà e la condivisione delle lotte. Hanno insegnato il valore di essere movimento. E questo, a parer mio, deve fare un/una attivista oggi: risvegliare il senso di responsabilità collettiva che sta alla base di ogni comunità.

Insisterò quindi a tentare anche in vista di Bergamo Pride 2019 – Orgoglio oltre le mura, cercando di trasformare questi valori in impegno concreto, continuando a essere volontaria all’interno del comitato organizzatore e continuando a essere, semplicemente, attivista, per poter vedere altre diecimila e forse più persone ballare sotto il carro del Pride del prossimo 18 maggio.

In copertina: il corteo del Bergamo Pride 2018 (foto di Camilla Giubileo, tutti i diritti riservati).

Il diritto di provocare

Andrea Giuliano, artista e fotografo, si definisce attivista per i diritti umani e, in particolare, per i diritti di una minoranza LGBTQI oppressa, antifascista, femminista, estremamente critica nei confronti delle oppressioni politiche, culturali e religiose. La sua vita ha avuto una svolta in Ungheria, nel 2014: ora, rappresentato da TASZ (Unione Ungherese per le Libertà Civili), vuole mostrare al mondo un documentario su ciò che gli è accaduto. The right to Provoke è stato presentato a Bergamo il 13 maggio e Pequod ha voluto approfondire la storia di Andrea.

Andrea Giuliano vestito da prete al Budapest Pride nel 2014.

Cosa è accaduto in Ungheria?

Ero stanco di trovarmi di fronte a due forze che spesso in Ungheria vanno a braccetto: la destra estrema e la chiesa, sia cattolica che protestante, così come alcune frange della comunità ebraica. Nel 2007 gruppi di neo-nazisti hanno attaccato il Budapest Pride con atti di violenza e vandalismo, provocando paura e diversi feriti: da allora la situazione non si è più calmata e il Pride è stato delimitato da cordoni di polizia, con un ingresso e un’uscita, quasi come se fosse una gabbia. Era perciò necessario alzare la voce. Stanco della continua oppressione, di aver paura e di sentirmi a disagio, al Budapest Pride del 2014 mi sono vestito da prete e ho parodiato il logo di un’associazione neofascista: ho trasformato “Nemzeti Érzelmű Motorosok” (Motociclisti dal Sentimento Nazionale) in “Nemzeti Érzelmű Faszszopók” (Succhiacazzi dal Sentimento Nazionale). “Faszszopó” – “succhiacazzi”, è uno dei tipici epiteti che i fascisti usano per riferirsi alla nostra comunità. Nei giorni seguenti ho iniziato a ricevere minacce di morte da parte loro: mi pedinavano, erano a conoscenza di tutti i miei dati personali, del luogo dove vivevo e di quello dove lavoravo, e hanno addirittura messo una taglia sulla mia testa. Dovevo nascondermi e avevo paura.

Ho denunciato i fatti alla polizia ma le cose sono peggiorate: ho iniziato a ricevere visite e telefonate continue da parte di finti (o veri?) poliziotti. In questura hanno registrato il mio caso come non grave, insultandomi palesemente. Nell’inverno 2015 ho scoperto di essere sotto processo, perché il presidente di “Nemzeti Érzelmű Motorosok” mi aveva denunciato per danni all’associazione. Dopo un paio di settimane mi hanno licenziato dal lavoro con delle scuse infondate: mi sono trovato sotto processo e senza lavoro, ho traslocato cinque volte in un anno, ho subito un attacco e ne ho scampati molti altri. Quando la notizia della mia storia si è diffusa in Italia, ho iniziato a ricevere minacce anche da gruppi fascisti italiani.

Foto dal progetto fotografico Deconstructing the Male di Andrea Giuliano (© Andrea Giuliano).

A inizio 2016 mi sono visto rifiutare tutti i ricorsi fatti in Ungheria, perché, secondo la Procura, la polizia aveva indagato, anche se in realtà non è stato così, e non aveva trovato i colpevoli dei crimini nei miei confronti. Il processo contro di me invece è stato archiviato, perché in aula non è stato possibile quantificare il danno che mi avevano accusato di aver fatto.

Vista la connivenza delle forze dell’ordine e della politica ungherese con le persone che mi volevano morto, ho lasciato il Paese e denunciato lo Stato ungherese alla Corte Europea dei diritti umani nel 2016. Ad oggi, non ho ancora ricevuto nessuna risposta. Per questo ho deciso di creare un documentario sulla mia storia: non è possibile che la polizia rifiuti un caso evidente e conclamato di violenza, abuso, tentato pestaggio e omicidio, in un Paese dove esiste anche una legge antiomofobia.

Il fatto che esista una legge antiomofobia è un grande differenza con l’Italia. Secondo te una legge simile cambierebbe le cose qui?

In Ungheria esiste una legge anti-omofobia, bifobia e transfobia e non viene applicata, in Italia non esiste proprio. Se venisse emanata ci vorrebbe un sacco di tempo per metterla in atto, come è stato ad esempio per la legge sulle unioni civili, dalla quale in realtà poche persone possono trarre beneficio. La legge è stata osteggiata da diversi partiti e comuni, e lo è tuttora, ma sempre meno frequentemente: credo perciò che l’esistenza di una legge anti-omofobia, bifobia e transfobia aiuterebbe la questione. In ogni caso la lotta è appena cominciata, i diritti sono ancora pochissimi e per ottenerli è necessario un lavoro di accettazione del prossimo, rispetto e non violenza.

Foto dal progetto fotografico Deconstructing the Male di Andrea Giuliano (© Andrea Giuliano).

Il Pride di Bergamo: come lo sostieni?

Considerando che Bergamo è una città piuttosto conservatrice, è importantissimo lanciare il messaggio secondo il quale essere diversi non vuol dire essere cattivi, e soprattutto il concetto di richiedere i propri diritti civili non deve confondersi con quello di privilegio. Per questo la mia missione come attivista non è solo il raggiungimento di una legislazione esistente, monitorata e applicata, ma anche trasmettere l’insegnamento della distinzione tra gusto personale e crimine, tra opinione e legge.

Abbiamo letto che hai ricevuto delle critiche per le tue azioni. Quali e come rispondi?

È stato criticato il mio voler bullizzare il bullo, ma ho dimostrato cosa succede quando qualcuno fa qualcosa di non proibito in uno stato che è praticamente fascista: le autorità difendono la parte che è più vicina a loro, la legge non è uguale per tutti.

Per quanto riguarda le critiche legate al simbolo religioso, ho parodiato con rabbia perché la chiesa cattolica è uno dei principali catalizzatori di omobitransfobia. Volevo fare un dito medio a chi crede che siamo malati o che andremo a morire all’inferno, perché non credo che il loro sia un atteggiamento sano dal punto di vista politico, sociale e mentale e non è giusto restare in silenzio di fronte a questi oltraggi. Non volevo mettermi in mostra, ma lanciare un messaggio, purtroppo però non ho ricevuto il supporto mediatico necessario per fare pressione sulla Comunità Europea, sull’Ungheria e sull’Italia. Ho il diritto di ricevere un processo: non per vincerlo, anche se ho tutte le prove necessarie, ma per dimostrare che tutto questo sta accadendo nel ventunesimo secolo, all’interno dell’Unione Europea, nonostante l’esistenza di una legge anti-omofobia. Perché il diritto di parodia esiste, ma il crimine va punito.

Foto dal progetto fotografico Deconstructing the Male di Andrea Giuliano (© Andrea Giuliano).

Quali sono i tuoi progetti ora?

Sto lavorando a un progetto fotografico che si intitola Deconstructing the Male, e tratta della decostruzione di quello che è un ideale tossico e malato della mascolinità. Cerco di sfatare il luogo comune del maschio forte, dai tratti e dall’aspetto mascolini, associato ai concetti di forza, potenza e arroganza, enfatizzando tutto ciò che nella figura maschile rimanda a delicatezza, sentimento, tatto, eleganza, e ponendo anche l’idea sessuale sotto una luce diversa. Tutto ciò è fatto con ironia e a volte in maniera più introspettiva, cupa e cruda. È un’arte che vuole divertire, informare ed esorcizzare tutto ciò che riguarda l’oppressione e la paura per la diversità.

 

In copertina: foto del Budapest Pride 2017 (Christo / CC BY-SA 4.0).

Come si organizza il primo Bergamo Pride?

Il primo Bergamo Pride della storia si avvicina e noi siamo trepidanti: ma cosa c’è dietro al corteo del prossimo 19 maggio? Chi lo organizza e come? Pequod l’ha chiesto a Martina, che fa parte del comitato Giù la maschera.

Quando avete iniziato a sentire il bisogno di organizzare un Pride e perché?

Il bisogno c’è più o meno da quando è stato fatto lo “Svegliati Italiaper la legge Cirinnà sulle unioni civili. La manifestazione è stata bellissima, poi però l’entusiasmo è andato scemando, anche perché non ci sono stati casi eclatanti di omofobia. Circa un annetto fa invece, con il caso del Secco Suardo (sul cui giornalino scolastico è stato pubblicato un articolo di posizione omofoba, ndr) ci siamo resi conto che la città aveva bisogno di un evento come il Pride.

Quali sono state le varie fasi dell’organizzazione del Pride?

Le fasi sono state molte, complesse e impegnative. Dai mesi di agosto e settembre scorsi, si sono seduti ad un tavolo il comitato “Giù la maschera” (composto dall’associazione Bergamo contro l’omofobia, dall’ex Arcilesbica Bergamo – ora Lesbiche XX Bergamo, ndr – e da qualcuno di Rompiamo il silenzio) e il comitato “Educare le differenze per combattere l’odio” composto principalmente da Arcigay. Di entrambi i comitati fanno poi parte anche amici, liberi pensatori, altri cittadini in qualche modo legati alla causa.

In seguito, incomprensioni tra associazioni e modi diversi di intendere il Pride, secondo un pensiero più rivoluzionario o più pacato, hanno portato alla fuoriuscita di Arcigay dal tavolo organizzativo. Siamo andati avanti senza di loro, tra riunioni, preventivi, telefonate e ricerca di sponsor. A gennaio ci sono state difficoltà perché Arcigay aveva deciso una data per il Pride, anche se non faceva più parte dello stesso tavolo organizzativo: avere il patrocinio per due Pride sarebbe stato però impossibile, quindi tra alti e bassi alla fine siamo riusciti ad accordarci su una data unica. Non ci interessa metterci la firma, l’importante è che la città si renda conto dei bisogni che hanno i suoi cittadini.  

L’organizzazione richiede un sacco di tempo e forze, ma vedere l’affluenza di persone ai primi eventi o i passanti sorridere quando notano l’adesivo del Pride sulle vetrine dei negozi, ci ha fornito la carica necessaria.

Perché un Pride a Bergamo? Nessuno aveva mai provato a organizzarlo prima? Se sì, come mai non è stato portato a buon fine?

Tra gli anni Ottanta e Novanta c’era stata una sorta di piccolo Pride, che aveva avuto poco successo. In seguito è mancata l’idea in sé di Pride e ci si è focalizzati sugli interventi nelle scuole e sugli incontri, piuttosto che sul corteo. Abbiamo però sentito la necessità di scendere in strada e farci sentire, togliendoci la maschera. “Giù la maschera” nasce infatti per unire I seguenti punti: siamo colorati, siamo di Bergamo, vogliamo vivere liberamente. Arlecchino è di Bergamo, è colorato, porta una maschera nera. E allora giù la maschera, perchè io voglio essere libero di camminare mano nella mano con chi voglio, di baciare il mio partner in pubblico senza essere insultato, di parlare della mia compagna o del mio compagno senza cambiare la vocale alla fine della parola per non sentirmi a disagio. Abbiamo già molte maschere nella vita di ogni giorno, di questa ne possiamo fare e meno e ce la togliamo in piazza, facendo una piccola rivoluzione nella provinciale e bigotta Bergamo.

Ci sono state difficoltà prettamente “bergamasche”? Forse in qualche altra città sarebbe stato più facile organizzarlo?

Solo a livello logistico l’impossibilità di fare il Pride a giugno, quando la città sarà blindata per l’arrivo della salma del Papa. Nonostante le difficoltà di una piccola città abbiamo trovato supporto: ci aspettavamo più chiusura e diffidenza. Durante il nostro giro tra i negozi, i proprietari di alcuni di essi si sono rifiutati di attaccare il nostro adesivo, ma quasi sempre con gentilezza. Le difficoltà sono nate nei pochi casi in cui ci hanno risposto male, dandoci addirittura dei “maiali”, ma abbiamo anche ricevuto donazioni da gente da cui proprio non ce lo saremmo mai aspettati.

Come è andata la promozione e quali sono state le reazioni?

Abbiamo utilizzato moltissimo i social network, ma la promozione più riuscita è stata quella del passaparola. Siamo andati direttamente dalle persone a spiegare perché è importante per noi il Pride: finché non ci si mette la faccia non si fa davvero la differenza. Andare nei Comuni dei vari paesi a fare una chiacchierata per ottenere il patrocinio porta molte più risposte positive che inviare mail, anche se richiede più tempo.  

Da febbraio inoltre abbiamo iniziato a organizzare serate, ad esempio l’aperitivo con la stilista e attivista indiana Divya Dureja che ci ha raccontato come i partecipanti del Pride di Delhi si coprano con mascherine di carta perché, se vengono riconosciuti, dopo il corteo rischiano letteralmente delle sassate. Abbiamo organizzato conferenze, come quella con Massimiliano Frassi dell’associazione Prometeo per la lotta alla pedofilia, e anche una lotteria con premi offerti dai commercianti. Avremmo potuto fare di più sicuramente, ma nonostante la grande quantità di tempo impiegato è stato importante per noi parlare faccia a faccia con le persone, da cui abbiamo ricevuto grande sostegno.

Il percorso del Bergamo Pride del 19 maggio.

Qual è stato l’evento più riuscito durante la promozione?

Secondo me l’aperitivo al Dolcevita, dove è stato presentato un libro per ragazzi dell’autrice Francesca Bonelli Morescalchi, intitolato “Siamo tutti arcobaleni”. All’evento ha partecipato davvero tanta gente, anche famiglie con bambini, e si è creato un ambiente bellissimo.

Cosa è fondamentale per la buona riuscita di un Pride?

Il concetto di Pride come spazio sicuro: al corteo parteciperanno drag queen, persone con vestiti ordinari, persone più o meno svestite o con vestiti particolari e vistosi, perché è il momento in cui ognuno ha il diritto di mostrarsi come vuole, nel limite minimo della decenza. Questo diritto va rispettato, perciò, se si vuole fare una foto si chiede il permesso, se un tentativo di approccio viene rifiutato bisogna accettarlo, la città va mantenuta pulita. È importante mantenere l’allegria, ma la festa non deve essere scevra di contenuti. Noi dell’organizzazione invitiamo a segnalare qualsiasi situazione che potrebbe creare problemi. Insomma, al pride ci divertiremo, saremo favolosi, ma con responsabilità.

Bergamo Pride si fermerà dopo il 19 maggio o…?

A giugno abbiamo ancora qualche serata organizzata, e speriamo che l’eco del corteo le renda ancora più frequentate di quelle precedenti. Per l’estate ci prenderemo una pausa e a settembre i comitati si riuniranno per tirare le somme e farsi domande riguardo al prossimo anno. È un periodo di cambiamenti per le associazioni e vedremo a cosa porterà. Nel frattempo, cosa avremo fatto alla città? Sicuramente del bene.

Outsport: combattere l’omofobia e la transfobia nello sport

Oustsport, la prima iniziativa a livello europeo creata per raccogliere documentazione scientifica sul fenomeno dell’omotransfobia nello sport, si pone l’ambizioso obiettivo di valorizzare il mondo sportivo come luogo di formazione e contrasto alle discriminazioni in continuità con la scuola e con la famiglia. Nata alcuni anni fa, Outsport è entrata a far parte del progetto Erasmus+, cofinanziato dall’Unione Europea. Abbiamo intervistato Rosario Coco, uno dei fondatori dell’iniziativa, che è anche project manager Erasmus+.

Quali sono gli obiettivi del vostro progetto?

Sin dall’inizio la nostra idea è stata quella di lavorare sulle discriminazioni contro le persone LGBTI (lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali) in maniera innovativa, dal punto di vista dei target, delle metodologie e di un approccio non più meramente identitario, ma concettuale, basato sulla radice sessista e maschilista del pregiudizio omotransfobico.

Come siete riusciti a coinvolgere l’Unione Europea?

Grazie a persone che avevano già esperienza, come per esempio Klaus Heusslein, ex co-presidente della European Gay and Lesbian Sport Association, che ci ha aiutato a individuare le associazioni partner, e a uno staff europeo e italiano che riassume diverse esperienze professionali e di attivismo. Nel maggio 2016, dopo due tentativi di presentazione della application, siamo riusciti a presentare il progetto con Gaycs, dipartimento LGBTI dell’ente di promozione sportiva AICS (Associazione Italiana Cultura e Sport), come promotore nell’ambito dell’azione Sport del programma Erasmus+. Ci eravamo dati l’ambizioso obiettivo di realizzare la prima ricerca europea sulle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere nello sport.

Si tratta di una ricerca molto importante: ci racconti come è nata?

Quando abbiamo scritto il progetto, nella prima versione del 2015, era da poco uscito “Out on the fields” (Fuori in campo), realizzato in Australia da Erik Denison, il primo studio specifico al mondo, che copriva principalmente Australia, Stati Uniti e Regno Unito. Oltre a quello c’era solo un dato sul sondaggio dell’Agenzia dell’UE per i Diritti Fondamentali (FRA) del 2012, per cui metà del campione (94mila persone in tutta l’Unione Europea) dichiarava di evitare determinati luoghi per paura di vivere apertamente la propria identità; tra loro, il 42% sosteneva di evitare gli ambienti sportivi. Data questa scarsezza di dati, abbiamo coinvolto la Deutsche Sporthochschule (Università dello sport tedesca) di Colonia, un’eccellenza mondiale nel settore, che dispone al suo interno anche di un dipartimento di sociologia e studi di genere.

Come si è svolta la ricerca? Quali risultati vi aspettate?

Abbiamo realizzato un questionario attraverso una consultazione molto fruttuosa tra tutti i partner. Ognuno ha fatto il suo, dall’esperienza accademica a quella dell’attivismo sul campo, passando per diverse professionalità. Tutto ciò ci permetterà di avere più informazioni sull’esperienza concreta degli atleti LGBTQIA e di chi, più in generale, ha subito omotransfobia nello sport (anche le persone eterosessuali possono essere colpite da questa tipologia di discriminazione). A febbraio inizierà la diffusione via web, con una specifica campagna social nelle diverse lingue del progetto.

Gli sport sono di certo una grande opportunità per promuovere il rispetto per le identità di genere e gli orientamenti sessuali. Tuttavia in alcuni ambienti sportivi, come quello del calcio, sembra difficile riuscire anche solo a vincere l’omofobia – anche se alcuni paesi come la Germania sono più impegnati di altri su questo fronte [Il Grande Colibrì]. Cosa si può fare?

Occorre rovesciare la prospettiva: intervenire non si può, si deve! Che lo si voglia o no, che si parli dei ragazzi che giocano per strada, dei campioni che sono un esempio per tutti o dei tifosi, lo sport è uno spazio di educazione – o di diseducazione. Outsport, concentrandosi sullo sport di base, ha individuato alcuni meccanismi di intolleranza e discriminazione che sono comuni a molte discipline.

E quali azioni avete sviluppato?

Prima di tutto abbiamo creato i Rainbow Tips (Consigli arcobaleno), uno dei primi risultati della campagna di sensibilizzazione. Successivamente gli obiettivi che abbiamo individuato per utilizzare lo sport come strumento educativo sono state la formazione dei formatori e la costruzione del Final Training Toolkit, strumenti utili per gli operatori dello sport. Infine, al termine del progetto è prevista una relazione per la Commissione europea. Nei prossimi mesi cercheremo poi di coinvolgere atleti e atlete celebri che sostengano la nostra causa, in particolare dando visibilità alla ricerca scientifica e al questionario che verrà lanciato a febbraio.

Il vostro progetto riguarda cinque nazioni: Italia, Scozia, Germania, Austria e Ungheria. Come mai avete scelto di proporre Outsport in questi stati, apparentemente molto distanti tra loro riguardo al rispetto nei confronti delle sessualità “non conformi”?

La filosofia generale della programmazione europea 2020, in cui si inserisce il programma Erasmus+, ci chiede in buona sostanza di mischiare le carte, di condividere abilità, culture e conoscenze, di metterci in gioco. L’Unione Europea ha diversi limiti, strutturali e politici, ma esperienze di questo genere sono molto utili in un periodo storico in cui si alzano muri, anzi forse sono anche un punto di partenza per provare a risolvere i limiti dell’UE.

Quali sono le realtà coinvolte?

Il partenariato è stato costruito a partire dall’ente capofila, AICS. Abbiamo subito individuato nell’università dello sport di Colonia il partner ideale per la riuscita della ricerca. Poi abbiamo pensato a un’associazione di grande esperienza sul tema e con diversi progetti all’attivo nell’ambito dello sport di base come LEAP Sport Scotland (Leadership, uguaglianza e partecipazione attiva negli sport per le persone LGBTI in Scozia). Abbiamo quindi trovato nel Vienna Institute for International Dialogue and Cooperation (Istituto per il dialogo internazionale e la cooperazione di Vienna; VIDC) un soggetto esperto in progetti contro le discriminazioni che hanno coinvolto le grandi istituzioni del calcio come l’UEFA. Infine, abbiamo scelto l’associazione ungherese Friss Gondolat Egyesület (Organizzazione per idee fresche; FRIGO) per contribuire allo sviluppo di questi temi in un paese in grave difficoltà sul piano democratico.

Come vi dividete i compiti?

Colonia si occupa della ricerca, LEAP del follow-up e dei nuovi progetti, AICS e VIDC insieme stanno curando gli Info Day, mentre FRIGO, aiutata da tutti noi, ha l’importante compito di organizzare la conferenza finale a Budapest a fine 2019.

Come pensate di agire in un’Ungheria che appare sempre più insensibile ai temi dei diritti?

In effetti FRIGO aveva organizzato gli Eurogames (i giochi LGBTI europei) nel 2012, ma da allora la situazione è notevolmente peggiorata, al punto che abbiamo avuto notevoli difficoltà anche a trasferirgli la quota di budget, per via della legge approvata la scorsa primavera che limita i finanziamenti dall’estero a enti e associazioni. Quindi partiamo dalle basi, per esempio, oltre ai Rainbow Tips [Outsport], fornendo alcune conoscenze essenziali e contestualizzate nel mondo dello sport [Outsport], ovviamente anche in ungherese. Inoltre abbiamo supportato la nascita di una rete: grazie al corso di formazione per formatori, gli attivisti di FRIGO sono entrati in contatto con una ricercatrice in psicologia sociale molto preparata sui nostri temi, con cui hanno già realizzato un evento lo scorso mese, e con Foldi Lazlo, formatore per il Consiglio d’Europa nell’ambito del No Hate Speech Movement (Movimento contro i discorsi d’odio).

Dopo le cinque nazioni coinvolte, pensate a una possibile estensione del progetto a tutti gli stati dell’Unione Europea?

Certo, il progetto si presta a più di un follow-up, a partire dai risultati della ricerca, che può essere estesa anche agli altri paesi. La comunicazione, che parla già quattro lingue, potrebbe svilupparsi fino alla realizzazione di un magazine tematico sull’argomento, magari aperto anche a prospettive extra-europee. Infine, dopo aver formato i formatori e aver realizzato il Training Toolkit, la formazione va messa in pratica a livello locale con le National Trainings, che richiedono nuovi sforzi di progettazione a livello nazionale ed europeo. Tra i nostri obiettivi finali c’è la presentazione di una relazione alla Commissione per promuovere il tema dell’omotransfobia all’interno del prossimo Piano Europeo sullo Sport. La lotta all’omotransfobia nello sport, ad esempio, interessa anche le donne eterosessuali, spesso “accusate” di essere lesbiche perché fanno sport: è un passo avanti rispetto alla semplice idea della “presenza” delle donne nello sport.

Scritto da Michele.

Immagine di copertina: Profilo Facebook di Outsport.

Fonte: Il Grande Colibrì

Il mio coming out – seconda parte

In occasione del festival Orlando di Bergamo, dedicato all’identità di genere, e della “Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia” del 17 maggio, Pequod ha chiesto a diversi ragazzi e ragazze di raccontare le loro esperienze di coming out e cosa hanno significato per loro. Di seguito riportiamo la seconda parte dei loro racconti (qui trovate la prima), editati e ridotti per ragioni di spazio e di chiarezza.

 

Dominguel Radesca, 28 anni, Bergamo

La prima volta che ho fatto coming out è stato a 19 anni circa con i miei capi scout. Era agosto ed eravamo da poco tornati da un viaggio in bici Bergamo-Roma, la più grande sfacchinata della mia vita. Una volta rientrati a casa, ricordo di aver pensato: «Se sono riuscito ad arrivare fino a Roma in bici, posso anche dire al mondo di essere un finocchio…». Ho quindi chiesto ai miei capi scout di trovarci una sera perché dovevo dir loro qualcosa e così, davanti a una bottiglia di ottimo rum di Santo Domingo, ho fatto il mio primo coming out. Quello che più mi preoccupava era soprattutto come riuscire a conciliare la mia sessualità con l’appartenenza agli scout, notoriamenti cattolici. In realtà è andato tutto bene e abbiamo continuato serenamente a bere il nostro rum insieme. Da parte dei miei genitori, invece, la reazione è stata molto diversa. In particolare mio padre, dopo aver letto la lettera in cui gli spiegavo di essere gay, mi ha detto: «Siediti e stai zitto: io parlo e tu ascolti». Ha quindi iniziato a farmi un lungo discorso sulla Chiesa cattolica e il suo Magistero, a cui io non avevo alcun diritto di replica. Ripensandoci a posteriori, credo che forse avrei potuto aspettare un po’ a parlargliene, magari affrontando la questione in un altro modo. Credo che diverse associazioni per i diritti dei gay spingano i giovani omosessuali a fare coming out con la rassicurazione che non saranno soli, che avranno loro come famiglia, ma sono tutte bugie. In realtà in quel momento sei solo, sei tu di fronte alla tua famiglia e ai tuoi amici. E’ per questo motivo che la decisione di parlare o meno del proprio orientamento sessuale spetta esclusivamente all’interessato e a nessun altro.

Kevin, 28 anni – Tutti i diritti riservati.

Kevin, 28 anni, provincia di Venezia

La prima persona a cui ho confidato di essere gay è stata un’amica di lunga data, tra la prima e la seconda superiore. Era una persona dalla mentalità aperta e, dopo un’iniziale reazione di stupore, l’ha accettato senza alcun problema. Ho deciso di parlarne con lei e, in seguito, anche con il resto dei miei amici più stretti perché volevo essere più libero nel rapporto con loro, ma di riflesso anche in quello con me stesso. Volevo che mi accettassero per quello che ero e che continuassero a volermi bene come prima, due cose che all’epoca non davo affatto per scontate. Durante le superiori quindi, sentivo di vivere una sorta di doppia vita: mi sentivo in un modo all’interno del gruppo di amici che lo sapevano e in un altro con il resto della società, non è stato semplice. All’università, invece, essendomi “dichiarato” fin dall’inizio o quasi, mi sono sentito molto più libero e spontaneo, non dovevo più stare attento a quello che dicevo, mi preoccupavo meno di quello che avrebbero pensato gli altri.
Un altro coming out che per me è stato significativo è quello con mia madre, la cui approvazione per me era assolutamente essenziale. Devo dire che ha sofferto molto all’inizio, era in ansia perché aveva paura di quello che sarebbe potuto accadermi, di come mi avrebbe trattato la gente. In breve tempo, però, si è resa conto che non c’erano pericoli reali e adesso è molto tranquilla al riguardo, ne parliamo senza problemi e il nostro rapporto non ne ha assolutamente risentito. Per quanto riguarda mio padre, invece, lui è stata l’ultima persona a cui l’ho detto, solo qualche mese fa. Avrei voluto farlo da tempo, ma mia madre mi ha chiesto di evitare, perché non voleva che si creassero ulteriori tensioni in famiglia. Per me però era importante che lui lo sapesse da me e non da altri, perché mio padre rappresentava la fascia di società che sapevo essermi ostile e spettava quindi a me affrontarla. Come prima reazione ha subito bollato la cosa come “anormale”, preoccupandosi di cosa avrebbero pensato i suoi amici. Mi ha anche chiesto chi era stato a violentarmi, perché credeva che per diventare gay si dovesse necessariamente aver subito una violenza. Conoscendo mio padre, con la sua ossessione per la “normalità” e il suo ideale di famiglia del Mulino Bianco, non mi aspettavo una reazione positiva ed ero quindi preparato. Sono comunque felice di averlo fatto. Ora non provo più l’ansia di dover cambiare discorso quando lui entra nella stessa stanza con me e mia madre. Non credo che lui se ne sia ancora fatta una ragione, ma io mi sento più libero.

Sabrina, 27 anni, Bergamo

Il mio non è stato un vero e proprio coming out, nel senso che non sono mai andata dai miei genitori dicendo «Mamma, papà, sono lesbica». E’ semplicemente successo che a 14 anni, in prima superiore, ho fatto amicizia con una mia compagna di classe e il nostro rapporto si è gradualmente trasformato in qualcosa d’altro. All’inizio ne ero molto confusa, davo la colpa al fatto che quando uscivamo insieme spesso eravamo magari un po’ alticce… Col tempo invece siamo diventate una coppia vera e propria: andavamo in giro mano nella mano, ci baciavamo in pubblico. Di conseguenza tutti l’hanno saputo, inclusi i miei genitori, che non l’hanno presa molto bene. Durante i due anni in cui io e la ragazza siamo state insieme, mia madre non mi ha mai permesso di portarla a casa, non ne voleva sapere. Mio padre si sforzava di più di capire, di ampliare un po’ la sua visione del mondo, ma comunque la nostra storia non è mai andata giù alla mia famiglia. Per me all’inizio non è stato semplice, perché molti mi guardavano storto, mi giudicavano; io, però, mi sono circondata delle persone che mi avevano accettata e continuavano a starmi vicino e a volermi bene. Adesso la mia vita è cambiata, sono sposata e quella relazione ormai fa parte del mio passato. Tuttavia sono ancora convinta che l’amore è amore e possiamo amare chi ci pare, uomo o donna che sia.

 

Sandra, 24 anni

Il mio coming out vero e proprio è stato con i miei genitori a 21 anni, quando mi sono fidanzata per la prima volta con una ragazza. Dormivo quasi sempre fuori casa, cosa che non era mai successa prima, così mia madre mi ha chiesto se stavo frequentando qualcuno e le ho risposto semplicemente: «Sto con una ragazza».  E’ stato solo in un secondo momento che ho spiegato a mia madre che sono anche attratta dagli uomini, perché temevo che se gliel’avessi detto subito lei avrebbe continuato a sperare che un giorno sarei arrivata in casa con il principe azzurro e io questo non lo volevo. Entrambi i miei genitori non hanno reagito molto bene alla notizia. Mia madre ha esclamato una frase piuttosto infelice, del genere «Vabbe’, prendiamoci anche questa disgrazia», mio padre non l’ha proprio accettato. Ci sono molti pregiudizi nei confronti dei bisessuali e paradossalmente la bifobia più accesa l’ho riscontrata proprio all’interno della comunità LGBTQ, forse perché siamo visti come traditori dell’identità omosessuale, quando in realtà il nostro è un orientamento sessuale che, in quanto tale, va rispettato. Inoltre, viviamo in una società per cui o sei carne o sei pesce, quindi se si sta nel mezzo si è qualcosa di strano, di non inquadrabile.

Anahì Gendler, 28 anni – Tutti i diritti riservati.

Anahì Gendler, 28, Bergamo, di origine israeliana

Il mio coming out effettivo è avvenuto piuttosto tardi, intorno ai 24-25 anni, dopo un percorso alquanto lungo e graduale. Già al liceo avevo avuto un’esperienza molto intensa dal punto di vista emotivo con una ragazza, ma ho iniziato ad assumere una vera e propria consapevolezza della mia sessualità a 22 anni, quando lavoravo – non a caso – presso un centro per i diritti LGBT a Tel Aviv. In quel contesto mi sentivo al sicuro e ho iniziato quindi a parlarne a colleghi, amici e, infine, anche a mia madre. Con lei è stato più complicato, sentivo di averla spiazzata, non sapeva cosa dire o fare, era come se non riconoscesse più sua figlia, era spaventata. Mio padre, invece, quando ha affrontato l’argomento l’ha fatto con un sorriso sincero e pieno di affetto e alla fine ha commentato: «Be’, sappi che a me va bene tutto, mi basta che tu sia felice». Non mi ha chiesto come, quando e perché, quasi ad analizzarmi come se avessi contratto una strana malattia; mi ha fatto capire che andava bene, perché era qualcosa che mi apparteneva e quindi era anche qualcosa di bello. Parlando in generale, la cosa che più mi dispiace è che si debba parlare del proprio orientamento sessuale sempre con la sensazione che sia qualcosa che bisogna conquistarsi perché diverso. Vorrei tanto che un giorno non fosse più necessario fare coming out, che far parte della comunità LGBT non venisse più considerato un problema, bensì una risorsa.

Su richiesta di alcuni intervistati, alcuni nomi sono stati cambiati per proteggerne l’anonimato.

Interviste di Lucia Ghezzi e Amir Saleh.

In copertina: due ragazze si baciano di fronte alla manifestazione battista contro i diritti omosessuali a Westboro

Il mio coming out – prima parte

In occasione del festival Orlando di Bergamo, dedicato all’identità di genere, e della “Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia” del 17 maggio, Pequod ha chiesto a diversi ragazzi e ragazze di raccontare le loro esperienze di coming out e cosa hanno significato per loro. Di seguito riportiamo i loro racconti, editati e ridotti per ragioni di spazio e di chiarezza.

Andrea, 28 anni, Nembro (BG)

Ho parlato apertamente della mia omosessualità per la prima volta a 14 anni con la mia migliore amica, compagna di classe al primo anno di liceo artistico. Dopo di lei progressivamente tutti hanno saputo di me, non c’era più nessun tabù. Amici e famiglia, genitori inclusi, mi avevano accettato serenamente e non aveva più senso omettere ciò che era parte di me. Il mio coming out è stato una scelta dettata dalla necessità di condurre una vita alla luce del sole, lontano da paure e paranoie, da bugie, sotterfugi e omissioni. Vivere onestamente con sé stessi è un’esperienza esclusivamente positiva: non potrei accettare di vivere diversamente.  

Foto di Lorenzo – Tutti i diritti riservati.

Lorenzo, 28 anni, Ranica (BG)

Il mio coming out è stato a 22-23 anni, con la psicologa che vedevo da alcune settimane. Reprimere la mia sessualità mi aveva reso una persona infelice e profondamente insicura. Ho iniziato a soffrire di attacchi d’ansia regolarmente e senza motivo apparente, al punto che rinunciavo a partire per un viaggio o ad uscire con gli amici. La situazione era diventata insostenibile e questo mi ha spinto a iniziare il percorso di psicoterapia che poi mi ha portato a fare coming out. Da quel momento la mia vita è stata rivoluzionata in senso positivo. Ne ho parlato con tutte le persone a me più vicine, per me era fondamentale che sapessero chi ero, è stata un’esigenza quasi fisica. Inoltre, da bambino e adolescente evitavo situazioni o comportamenti che vengono comunemente associati all’omosessualità, cercavo di reprimere atteggiamenti considerati femminili che mi avrebbero fatto additare come “frocio”, il classico epiteto per denigrare chi come me non si comportava “da maschio”. Sicuramente il mio coming out è stato rallentato dall’aver interiorizzato questa omofobia “silenziosa” senza che ne fossi davvero consapevole. Fare coming out mi ha consentito di iniziare a vivere la mia sessualità ma anche di accettare il mio corpo ed esprimere in modo più libero la mia personalità, quindi per me è stato un po’ come ricominciare a vivere.

Arthur, 27 anni – Tutti i diritti riservati.

Arthur, 27 anni, Pavia, brasiliano di origine

Ho parlato per la prima volta del mio orientamento sessuale a 17 anni con i miei genitori mentre eravamo in vacanza. Si è trattato più che altro di dire quello che già sapevano, in quanto fin da piccolo avevo atteggiamenti effeminati. Se mio padre ha reagito in maniera assolutamente serena e tranquilla, mia madre all’epoca ci è rimasta un po’ male. Devo dire che la sua reazione mi ha sorpreso. Ha sempre avuto più amici gay che eterosessuali, quindi credevo che l’avrebbe presa piuttosto alla leggera. Dopo di loro l’ho detto ai miei amici, che non hanno avuto alcun problema ad accettarlo, anzi, mi hanno rispettato ancora più di prima. Ognuno deve fare coming out in base ai suoi tempi, non bisogna spronare qualcuno a dichiararsi se non si sente pronto, ma farlo è una liberazione.

Adele, 27 anni, Bergamo

Il mio primo coming out è stato con un’amica a 15 anni. E’ successo un po’ all’improvviso, senza pensarci. Chiacchieravamo del più e del meno e mi è venuto naturale confidarmi con lei. Sul momento l’ho vissuto come una liberazione e la mia amica mi ha convinta a parlarne con mia madre la sera stessa. All’epoca pensavo che fosse la cosa giusta da fare, ora se tornassi indietro forse non agirei tanto d’impulso… La reazione di mia madre mi ha lasciata completamente spiazzata. Fin da subito non ha accettato la cosa; l’ha minimizzata, dicendomi che era solo una fase e che col tempo avrei capito e sarei cambiata, e mi ha criticata, dicendo che era qualcosa “che faceva schifo”. Mi ha inoltre espressamente chiesto di non dirlo ad altri. Lavorando in ambito scolastico temeva il giudizio del suo ambiente, non voleva che si venisse a sapere. La sua reazione è stata traumatica per me e ha portato a quasi dieci anni di silenzio in famiglia. Mi ha profondamente ferita, soprattutto all’inizio, e i primi anni sono stati duri. Poi però è sopraggiunta una forte voglia di ribellione e di rivincita e ho iniziato a dirlo a tutti, per dimostrare che io non dovevo vergognarmi proprio di niente. Non è stato facile, ma dopo averlo detto a mia madre non mi sono più nascosta, avevo capito chi ero, non ho represso più nulla. Credo che lei non l’abbia ancora accettato e probabilmente non lo farà mai, ma col tempo abbiamo ripreso i rapporti e ora le cose tra noi sono migliorate. Se dovessi dare un consiglio a dei genitori su come reagire in caso il loro figlio faccia coming out con loro, direi loro soprattutto di non giudicarlo, di non dire frasi che lo possano ferire, perché se le porterà dentro per tutta la vita.

Francesca (a destra) con la sua ragazza Anna (a sinistra) – Tutti i diritti riservati

Francesca D’Onghia, 20 anni, Valbrembo (BG)

Ho fatto coming out per la prima volta all’età di 14 anni circa, con mia madre. Stavo già con la mia attuale ragazza allora, ma ero troppo giovane per vivere in modo sano la relazione. Ero abituata a tenermi tutto dentro e a piangere in silenzio, avevo bisogno di sfogarmi con qualcuno o non sarei riuscita a sopportare la situazione ancora a lungo, perciò ho deciso di parlarne a mia madre. All’inizio ero in grande imbarazzo, perché fin da piccola mi ero accorta di provare attrazione per le ragazze, ma non riuscivo ad accettarlo: era troppo strano, ero troppo strana. Mia madre invece mi ha fatto subito sentire a mio agio, calmando le mie paranoie e lasciandomi sfogare. Ricordo quella sera come una sera di lacrime, sì, ma la annovero tra le più soddisfacenti della mia vita. Da allora sempre più persone sono venute a conoscenza della mia relazione e ormai credo che tutti siano consapevoli del mio orientamento sessuale. Non provo vergogna, ma orgoglio, orgoglio di essere finalmente ciò che voglio, ovunque e con chiunque. Questo è il consiglio che darei a un adolescente che non ha ancora fatto coming out: non bisogna fingere di essere quello che non si è solo per adattarsi alle aspettative degli altri. Gli amici che non ci comprendono e non ci accettano forse non sono poi così amici. La famiglia che spera che il figlio non sia gay è forse la stessa che pensa che la sua vita gli appartenga. Tutti noi siamo figli, amici, nipoti e fratelli, ma non apparteniamo a nessuno, se non a noi stessi. Nessuno può influenzare la nostra vita al punto da costringerci ad interpretare un ruolo che non ci appartiene.

 

Su richiesta di alcuni intervistati, alcuni nomi sono stati cambiati per proteggerne l’anonimato.

Interviste di Sara Alberti, Francesca Gabbiadini, Amir Saleh.

In copertina: due ragazzi si baciano davanti alla chiesa battista di Wesboro (ph. Karen Bleier/AFP/Getty)

“Il mondo che sogno”: migranti e rifugiati contro l’omofobia

Per la Giornata internazionale contro l’omofobia, la transfobia e la bifobia, che si celebra come ogni anno il 17 maggio, Il Grande Colibrì ha prodotto il video che potete vedere qui sotto, e che vi chiediamo di condividere il più possibile. È stato completamente ideato, progettato e realizzato da persone immigrate, rifugiate o di “seconda generazione”, tutte diverse nella propria nazionalità e nel proprio orientamento sessuale, ma unite dal vivere in Italia e dall’impegno a contrastare lo stereotipo, il pregiudizio e l’odio.

Il messaggio che ci danno è apparentemente semplice, ma in realtà incredibilmente ambizioso: sogniamo un mondo senza omofobia e senza transfobia. Non si chiede un passo indietro del pregiudizio, ma la sua totale capitolazione. Lo ripetono tutti nella propria lingua madre: lo fa la nostra volontaria libica Amani, che ha ideato il video; lo fa il nostro vicepresidente algerino Lyas, che ha coordinato il progetto; lo fa il regista pachistano Wajahat Abbas Kazmi, che lo ha reso possibile tecnicamente e ha aiutato tutti a sfruttare al meglio gli scarsi mezzi a disposizione; e lo hanno fatto tutti i 14 testimoni provenienti da 12 paesi del mondo.

Ogni persona ha anche denunciato la situazione del proprio paese: le leggi omofobe, la persecuzione poliziesca, l’esclusione sociale delle persone omosessuali, gli omicidi diffusi di quelle transessuali. Alcuni di questi testimoni hanno ricevuto asilo in Italia proprio a causa delle discriminazioni e delle violenze che raccontano, altri sono eterosessuali che non sopportano l’intolleranza nei confronti delle minoranze sessuali. Questo sguardo sul pianeta ci ricorda che la lotta è inevitabilmente globale, che dobbiamo impegnarci per il nostro orticello di casa ma anche per il mondo – perché il mondo è il nostro orticello di casa, perché il nostro orticello di casa contiene il mondo, e poi perché è semplicemente giusto così.

Tra le denunce non poteva mancare quella relativa all’Italia: da una parte, anche questo paese ha un lungo cammino da fare, dall’altra non dobbiamo dimenticarci che dalla lotta contro il pregiudizio nessuno può e deve sentirsi escluso, né tanto meno il pregiudizio altrui (che “altrui” non è affatto) può giustificare le nostre forme di intolleranza, come la xenofobia o l’islamofobia.

Non è allora un caso se questo video parla in italiano agli italiani. Tutti i testimoni del video assumono giustamente un ruolo di attori politici pieni, svincolati dalla tutela di un paternalismo benevolo, liberi dal bavaglio di una xenofobia malevola. Parlano di diritti umani nell’unico modo sensato: come esseri umani portatori di diritti e di doveri scritti nella carne della nostra comune umanità, e non nella sabbia di scandalose distinzioni o di fumose riconoscenze. Perché non ci possono essere limiti al rispetto o scuse all’odio in base all’etnia, alla nazionalità, alla religione, all’orientamento sessuale o all’identità di genere.

Non è poi così difficile da capire, basta ascoltare Miguel, splendido e combattivo figlio di due combattive e splendide mamme sudamericane. Lui, “italiano, peruviano e brasiliano”, rappresenta l’Italia nel video, perché è lui l’Italia del futuro. È lui l’Italia e il mondo che sogniamo. È lui l’Italia e il mondo che vogliamo. È lui l’Italia e il mondo che costruiremo, perché gli abbiamo promesso un mondo senza omofobia e transfobia e non potremo fermarci finché non glielo avremo dato.

Articolo di Pier.

Fonte: Il Grande Colibrì

Test per eterosessuali contro l’omofobia

Ogni tanto in questo strano mondo dove la paura e l’ignoranza di quello che non si conosce generano mostri, troviamo episodi illuminati che fanno sperare in un futuro meno cupo e omofobo.

Negli Stati Uniti d’America, un professore universitario dello Stato della Florida ha voluto dare ai suoi studenti un segnale forte e concreto contro l’omofobia e l’ha fatto in modo originale e semplice, creando un questionario gay in chiave eterosessuale. Un questionario al contrario, formato dalle assurde domande che sono fatte agli omosessuali, ma questa volta in formato eterosessuale. Un modo per far comprendere l’assurdità e l’omofobia cui sono sottoposte le persone LGBT ogni giorno.

“Domande per gli eterosessuali della classe” questo il titolo del questionario lanciato dal professore universitario statunitense e queste le domande:

  1. Cosa pensi che abbia causato la tua eterosessualità?
    2. Quando hai deciso di essere eterosessuale?
    3. È possibile che la tua eterosessualità sia soltanto una fase da cui tu possa uscire?
    4. Perché insisti nello sfoggiare la tua eterosessualità? Perché non puoi essere semplicemente quello che sei e stare in silenzio?
    5. Perché voi eterosessuali vi sentite costretti a sedurre gli altri?
    6. Hai mai considerato di andare in terapia per provare a cambiare le tue tendenze eterosessuali?

Un questionario rivolto ai suoi studenti e condiviso su Twitter da più di 19mila utenti. L’Huffington Post Italia riporta alcuni commenti degli utenti: “Certamente questo è uno dei metodi migliori per insegnare qualcosa” e anche “Penso sia magnifico. Serve a far riflettere gli studenti sul fatto che essere gay non è una scelta”.

Purtroppo gli omofobi non si limitano a quelle domande ma vanno oltre, scomodando il loro Dio, accusando i gay di essere degli anormali, dei malati da curare con tecniche che riportano al regime Nazista, dei pedofili, dei mezzi uominiuomini senza attributicompratori di uteri e molto altro. Negli Stati Uniti d’America abbiamo il professor Nicolosi che ‘cura’ i gay, trasformandoli in eterosessuali. Troviamo inoltre campi in cui vengono ‘curati’ i gay con la preghiera e tecniche di lavaggio del cervello. In Italia abbiamo Mario Adinolfi e i suoi amici che non perdono occasione per attaccare i cittadini italiani LGBT con il solo scopo di annientarli a livello di diritti e forse anche a livello fisico.

Essere gay non è una scelta. Essere omofobi è una scelta.

Articolo di Andrea Sanna.

Fonte: Io sono minoranza

In copertina, due coppie omosessuali ad un simposio, dalla tomba del tuffatore di Paestum.

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