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La scuola dell’inclusione. Aspettative VS realtà

Integrazione e inclusione sono le parole d’ordine nella scuola in Italia. La rivoluzione nel sistema d’istruzione italiano avvenne alla fine degli anni Settanta, parallelamente al superamento dello stigma delle neurodiversità, con la destituzione definitiva delle scuole speciali e delle classi differenziali, le due istituzioni che fino a quel momento erano destinate ad alunni con diversi gradi di disabilità e disturbi dell’apprendimento e comportamentali di vario tipo.

Da allora la scuola ha cercato di riorganizzarsi proprio per eliminare qualsiasi tipo di discriminazione e allo stesso tempo garantire a tutti gli alunni, anche a quelli che un tempo sarebbero stati destinati alle scuole speciali, una forma di istruzione indicata per le loro necessità. Nella lunga e tortuosa strada per trovare un modello che includesse le innumerevoli esigenze dettate da disabilità fisiche, disturbi dell’apprendimento e problemi comportamentali si è passati attraverso leggi, piani e definizioni, fino a giungere nel 2012 alla definizione della categoria dei Bisogni Educativi Speciali, da cui l’acronimo BES. Questo acronimo abbraccia tre grandi sotto-categorie che cercano di includere tutti i possibili bisogni degli alunni della scuola italiana; sono considerati BES la disabilità, i Disturbi Specifici dell’Apprendimento (noti come DSA) o i disturbi evolutivi specifici e, come terzo sottogruppo, lo svantaggio socioeconomico, linguistico o culturale.

Avere individuato queste categorie ha portato ad attuare delle strategie più mirate per far fronte ai diversi bisogni. Fra gli strumenti adottati vi sono i PDP, ovvero Piani Didattici Personalizzati per alunni con bisogni speciali, varie misure compensative e dispensative e, per gli alunni con disabilità, gli insegnanti di sostegno e gli assistenti educatori. Queste due figure lavorano insieme, ma con ruoli diversi, per favorire l’inclusione dell’alunno disabile. L’insegnante di sostegno è un docente a tutti gli effetti, lavora sulla classe e non in maniera esclusiva, mentre l’educatore opera ad personam, cercando di stimolare le capacità dell’allievo e di favorire la comunicazione e la mediazione con il resto della classe.

Fonte: Pixabay / CC0 Public Domain

Se a livello teorico il sistema funziona, nella pratica si inseriscono problemi di vario tipo che complicano il quadro e rendono la gestione dei bisogni educativi speciali degli alunni più difficile e spesso infruttuosa. Primo fra tutti vi è il dramma che affligge la scuola italiana, che si parli di sostegno o meno: la precarietà dei lavoratori. Se sulla carta l’insegnante di sostegno è una persona specializzata nella didattica speciale ed inclusiva, nella realtà si tratta spesso di un supplente che è sì qualificato per l’insegnamento per il grado del titolo di studio in suo possesso, ma che non ha nel suo percorso accademico alcun tipo di formazione in ambito educativo e soprattutto nel campo dei bisogni speciali. È il caso di Francesca, 28 anni, che da sei mesi lavora in una scuola media come docente di sostegno. «Ho una laurea magistrale in Musicologia e quando mi hanno chiamata per una supplenza in un istituto dove avevo mandato il curriculum ero felice dell’opportunità di lavorare in un ambiente che non avevo mai sperimentato», mi racconta. Da subito sono però subentrate le prime perplessità e i primi timori, visto il ruolo che le è stato assegnato: «Mi sono ritrovata a dover seguire alunni con disabilità e disturbi certificati e la paura non solo di non riuscire ad aiutarli, ma addirittura di fare qualche errore è stata molto forte». La buona volontà da lei dimostrata ha portato dei risultati, sia dal punto di vista strettamente didattico che da quello educativo, ma secondo Francesca questo non basta. «Tranne la responsabile delle attività di sostegno, tutti i miei colleghi sono precari che come me si sono laureati negli ambiti più disparati e senza precedenti esperienze educative; la sensibilità e l’impegno che come esseri umani possiamo mettere in questo lavoro non sopperisce purtroppo alla mancanza di preparazione nell’ambito dei bisogni educativi speciali». E conclude la sua riflessione con una dichiarazione amara, scaturita da quanto osservato in questi mesi: «A volte sento quasi di stare rubando il lavoro a qualcuno di qualificato, a qualcuno che davvero è specializzato nella didattica speciale. E soprattutto capisco che il continuo cambio di insegnanti, oltre alla mancata formazione adeguata degli stessi, non giova in primis agli studenti, che sono quelli che risentono di più dei problemi del sistema».

Francesca, 28 anni – Tutti i diritti riservati

E se la precarietà è un problema di una gravità disarmante, anche chiarire agli insegnanti di ogni sorta il concetto di inclusione sembra complicare la situazione nelle scuole italiane. Lo racconta Pietro, 28 anni, assistente educatore con un’esperienza di quattro anni negli istituti di ogni grado, dalla scuola dell’infanzia alle superiori. «Spesso i docenti non hanno chiara la differenza fra integrazione e inclusione: secondo alcuni inclusività equivarrebbe al tenere tutti gli alunni, disabili e non, in classe insieme. Questa prassi è però l’integrazione, che è stata fondamentale come primo passo negli anni Settanta e Ottanta, ma che da sola non basta. Inclusione significa invece permettere a tutti una piena partecipazione al processo di apprendimento e conoscenza». Pietro, che aveva iniziato a fare l’educatore durante gli studi, motivato più dalla possibilità di guadagno che dal desiderio di trovare realizzazione in questo impiego, ha imparato a ricredersi e dopo la laurea ha continuato a lavorare nelle scuole: «Amo il mio lavoro, riesce a darmi delle soddisfazioni che insegnare alla classe non penso mi darebbe. Ogni traguardo raggiunto da un mio ragazzo è anche un mio successo». Tuttavia gli ostacoli determinati dalla non sempre presente sensibilità degli insegnanti sul tema inclusione e dalle esigenze didattiche generano delle difficoltà nel suo lavoro, che risulta spesso snaturato: «Soprattutto nei gradi superiori della scuola aumentano le conoscenze e le competenze che l’alunno deve dimostrare, crescono le aspettative. Di conseguenza, messo sotto pressione, l’educatore deve concentrarsi sul programma e sul raggiungere gli obiettivi didattici, rinunciando all’aspetto educativo e inclusivo, che è poi quello che dovrebbe essere preponderante». Chiedendo a Pietro cosa spera per il futuro, non nasconde che gli piacerebbe vedere una nuova legge che finalmente sancisca il ruolo dell’educatore, che dia alla sua professione il riconoscimento che merita e che soprattutto tolga alcuni fastidiosi vincoli esistenti oggi. «Ci sarebbe da migliorare la coordinazione fra educatore e insegnante di sostegno, permettere all’educatore di lavorare a gruppi, visti i successi che le strategie di cooperative learning ottengono in altri Paesi, ad esempio», spiega Pietro. Del resto, conclude, la scuola dovrebbe essere una piccola comunità in cui si insegna ai ragazzi a vivere insieme, senza escludere nessuno: «Bisognerebbe mettere un po’ da parte la didattica per lasciare spazio allo scopo educativo ed inclusivo».

Riconoscere i bisogni educativi ed impegnarsi nell’inclusione sono stati passi importanti e necessari nel sistema scolastico italiano. Attuare delle strategie davvero in grado di raggiungere questi nobili obiettivi sembra richiedere ancora qualche sforzo in più…

 

I nomi degli intervistati sono stati cambiati su richiesta degli interessati.

BES, DSA, educatori, featured, neurodiversità, PDP, scuola, scuola pubblica


Margherita Ravelli

Nata nel 1989 ad ovest della cortina di ferro, dalla mia cameretta della provincia di Bergamo ho sempre guardato con curiosità verso est, terra dei gloriosi popoli slavi. Dopo aver vagabondato fra Russia, Ucraina e Polonia ho conseguito la laurea magistrale in lingua e letteratura russa, con una tesi sul multilinguismo e sulla multiculturalità nella repubblica russa del Tatarstan. Sono responsabile della sezione Internazionale di Pequod, oltre che redattrice occasionale per attualità, cultura e viaggi.

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