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Celebrare le differenze per creare inclusività: la cooperativa Il Cortile e il progetto Kirikù

Ci sono storie che è necessario narrare per trasmettere a chi le ascolta gocce di ispirazione, con cui innaffiare quotidianamente le idee per poi vederle fiorire; storie che dissemini lungo la strada come farebbe Pollicino con la mollica di pane, per non perderti nel buio, ritrovare la retta via e permetterti di guardare sempre avanti ricordandoti da dove sei partito. Come la trama di un tessuto, le storie si intrecciano e si tingono di significato: le più coinvolgenti sono quelle che parlano delle persone, dell’arricchimento costante come frutto di un contatto umano autentico, fatto di incontri fra differenze e abbattimento di barriere. Per ascoltare una simile storia mi sono affidata alla voce gentile della dott.ssa Sandra Sesenna, referente dell’area integrazione della cooperativa “Il Cortile” di Salsomaggiore Terme; Sandra è anche la coordinatrice del centro CABAS-based©” Kirikù, finalizzato all’abilitazione di bambini e ragazzi con autismo e disabilità rare: grazie alla sua collaborazione ho potuto comprendere più a fondo la dimensione in cui lavora.

Sandra, la Cooperativa il Cortile nasce quasi trent’anni fa dall’iniziativa di pochi, ma nel corso del tempo è andata strutturandosi sempre di più ed è arrivata a coprire realtà e progetti diversi, di cui Kirikù è solo uno fra i tanti. Qual è stata l’idea che ha permesso che si creasse questo progetto?

L’idea è nata dall’osservazione dei bisogni del territorio: Il Cortile nasce infatti nel 1990 con l’obiettivo preciso di lavorare con minori e disabili. Come dicevi, abbiamo diversi tipi di servizi presenti per rispondere a diverse necessità. Kirikù è piuttosto recente: nel 2010 ho seguito un corso di perfezionamento organizzato dall’Università di Modena e Reggio Emilia, relativo allo studio delle nuove metodologie di approccio per lavorare nell’ambito dello spettro autistico. All’epoca avevamo già attivo il centro disabili Why not e il servizio di assistenza scolastica; tuttavia volevamo impegnarci ulteriormente e crescere ancora di più. Alla fine del corso Angela Volta, presidente di ANGSA (Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici), una realtà bellissima attiva dal 1985 che coinvolge le famiglie di persone affette da disturbo dello spettro autistico, ha proposto di ragionare insieme per aprire sul nostro territorio un servizio di interventi abilitativi a persone con autismo. La realizzazione del progetto Kirikù è stata sostenuta anche dall’intervento della Fondazione Cassa di Risparmio di Parma. Siamo partiti in pochissimi: appena quattro bambini e sei educatori. Attualmente contiamo ventuno ragazzi solo nel progetto Kirikù.

Kirikù è un centro CABAS-based©: cosa significa questo?

Si tratta di un protocollo importato nel nostro Paese dalla Columbia University: la dott.ssa Fabiola Casarini, che tuttora supervisiona i nostri progetti a livello scientifico, si è fatta garante per l’Italia di questa metodologia. Il metodo Cabas© cerca di coniugare la rigorosa metodologia riabilitativa dell’analisi applicata del comportamento (ABA) a contesti naturalistici il più possibile vicini alla vita di tutti i giorni.

 

Una delle stanze adibite alle attività del progetto Kirikù (foto di Sandra Sesenna©).

Di quali fasce anagrafiche vi siete occupati più frequentemente?

Da quando è attivo Kirikù abbiamo intercettato soprattutto bambini piccoli; in particolare il progetto coinvolge minori che hanno appena ricevuto la diagnosi (dall’anno e mezzo ai due anni) fino ad arrivare a ragazzi di diciotto, diciannove anni. Si lavora in tutti gli ambiti di sviluppo della persona, a seconda dei casi che si affrontano e della situazione del singolo individuo.

Secondo quanto hai visto nella tua esperienza, quali sono stati i pregiudizi legati alla percezione delle persone con autismo che hai trovato più difficili da scardinare?

Posso dire che nel corso del tempo le persone con autismo hanno acquisito sempre più spazio e voce: fino agli anni ’90 la diagnosi era molto differente rispetto ad oggi, all’epoca c’era sicuramente meno informazione e meno materiale disponibile. Trent’anni fa era diffusa la tendenza a individuare come causa principale dell’autismo dei bambini l’anaffettività delle madri: fortunatamente, quest’assurda teoria delle “mamme frigorifero” è stata poi smentita del tutto. Inoltre mi sto accorgendo con sollievo che anche la correlazione tra vaccini e autismo sta venendo sempre più frequentemente screditata dalla scienza: si tende ad avere delle convinzioni distorte in merito a questo tema, semplicemente perché i primi segnali di autismo percepibili a persone non esperte emergono in una fascia d’età che è coincidente con quella prevista per le prime vaccinazioni. Ancora una volta, l’informazione scientifica e la conoscenza si rivelano essere alleati fondamentali.

Materiale per le strategie d’intervento (foto di Sandra Sesenna©).

Parliamo della prospettiva delle nuove generazioni: nella coscienza dei più giovani, come viene percepito l’autismo vissuto dai loro coetanei?
È una percezione relativa, dipende dai contesti: dove questi sono stati precedentemente preparati, c’è una sensibilità maggiore. Solitamente l’inclusione risulta semplice se gli utenti sono piccoli: da questo punto di vista Kirikù è unico nel suo genere perché, da quando siamo nati, siamo sempre stati un’unica struttura legata ad un centro di aggregazione giovanile, anch’esso posto sotto l’ala della cooperativa Il Cortile. Il fatto di inserire i più piccoli all’interno delle attività del centro di aggregazione, favorisce indubbiamente l’inclusione. Man mano che si cresce, però, la gestione del tempo libero diventa spesso molto più complessa: una criticità che ci rilevano le famiglie dei ragazzi più grandi è che difficilmente una persona con autismo viene inserita a contatto con coetanei normotipici. Su questo aspetto c’è ancora molto lavoro da fare per raggiungere una completa inclusione.

I dati ISTAT rivelano che le scuole adattate alle necessità di alunni con bisogni educativi speciali sono il 18% e che solo il 32% degli istituti italiani risulta accessibile dal punto di vista delle barriere fisiche. Cosa ne pensi?

Per la mia esperienza, legata alle scuole del nostro territorio ed in particolare agli istituti di Fidenza e Salsomaggiore Terme, posso dire che la Regione Emilia Romagna si è attivata in maniera davvero incredibile. Al momento, tra l’altro, sta formando un gruppo di docenti specializzati sulla formazione dell’autismo. Dove il sistema è farraginoso e complesso, la differenza la fanno le persone: se l’ambiente è ricco di ostacoli ma ci sono la giusta consapevolezza e sensibilizzazione, le barriere fisiche passano in secondo piano, perché al primo posto viene la solidarietà. Anche dal punto di vista del personale educativo, credo che per lavorare a contatto con soggetti caratterizzati da disturbi dello sviluppo o bisogni educativi particolari non sia necessaria solo la competenza professionale, ma soprattutto un inesauribile desiderio di imparare attraverso il confronto e il contatto umano.

In copertina: momenti di gioco alla scoperta dei sensi (foto di Sandra Sesenna©)

La scuola dell’inclusione. Aspettative VS realtà

Integrazione e inclusione sono le parole d’ordine nella scuola in Italia. La rivoluzione nel sistema d’istruzione italiano avvenne alla fine degli anni Settanta, parallelamente al superamento dello stigma delle neurodiversità, con la destituzione definitiva delle scuole speciali e delle classi differenziali, le due istituzioni che fino a quel momento erano destinate ad alunni con diversi gradi di disabilità e disturbi dell’apprendimento e comportamentali di vario tipo.

Da allora la scuola ha cercato di riorganizzarsi proprio per eliminare qualsiasi tipo di discriminazione e allo stesso tempo garantire a tutti gli alunni, anche a quelli che un tempo sarebbero stati destinati alle scuole speciali, una forma di istruzione indicata per le loro necessità. Nella lunga e tortuosa strada per trovare un modello che includesse le innumerevoli esigenze dettate da disabilità fisiche, disturbi dell’apprendimento e problemi comportamentali si è passati attraverso leggi, piani e definizioni, fino a giungere nel 2012 alla definizione della categoria dei Bisogni Educativi Speciali, da cui l’acronimo BES. Questo acronimo abbraccia tre grandi sotto-categorie che cercano di includere tutti i possibili bisogni degli alunni della scuola italiana; sono considerati BES la disabilità, i Disturbi Specifici dell’Apprendimento (noti come DSA) o i disturbi evolutivi specifici e, come terzo sottogruppo, lo svantaggio socioeconomico, linguistico o culturale.

Avere individuato queste categorie ha portato ad attuare delle strategie più mirate per far fronte ai diversi bisogni. Fra gli strumenti adottati vi sono i PDP, ovvero Piani Didattici Personalizzati per alunni con bisogni speciali, varie misure compensative e dispensative e, per gli alunni con disabilità, gli insegnanti di sostegno e gli assistenti educatori. Queste due figure lavorano insieme, ma con ruoli diversi, per favorire l’inclusione dell’alunno disabile. L’insegnante di sostegno è un docente a tutti gli effetti, lavora sulla classe e non in maniera esclusiva, mentre l’educatore opera ad personam, cercando di stimolare le capacità dell’allievo e di favorire la comunicazione e la mediazione con il resto della classe.

Fonte: Pixabay / CC0 Public Domain

Se a livello teorico il sistema funziona, nella pratica si inseriscono problemi di vario tipo che complicano il quadro e rendono la gestione dei bisogni educativi speciali degli alunni più difficile e spesso infruttuosa. Primo fra tutti vi è il dramma che affligge la scuola italiana, che si parli di sostegno o meno: la precarietà dei lavoratori. Se sulla carta l’insegnante di sostegno è una persona specializzata nella didattica speciale ed inclusiva, nella realtà si tratta spesso di un supplente che è sì qualificato per l’insegnamento per il grado del titolo di studio in suo possesso, ma che non ha nel suo percorso accademico alcun tipo di formazione in ambito educativo e soprattutto nel campo dei bisogni speciali. È il caso di Francesca, 28 anni, che da sei mesi lavora in una scuola media come docente di sostegno. «Ho una laurea magistrale in Musicologia e quando mi hanno chiamata per una supplenza in un istituto dove avevo mandato il curriculum ero felice dell’opportunità di lavorare in un ambiente che non avevo mai sperimentato», mi racconta. Da subito sono però subentrate le prime perplessità e i primi timori, visto il ruolo che le è stato assegnato: «Mi sono ritrovata a dover seguire alunni con disabilità e disturbi certificati e la paura non solo di non riuscire ad aiutarli, ma addirittura di fare qualche errore è stata molto forte». La buona volontà da lei dimostrata ha portato dei risultati, sia dal punto di vista strettamente didattico che da quello educativo, ma secondo Francesca questo non basta. «Tranne la responsabile delle attività di sostegno, tutti i miei colleghi sono precari che come me si sono laureati negli ambiti più disparati e senza precedenti esperienze educative; la sensibilità e l’impegno che come esseri umani possiamo mettere in questo lavoro non sopperisce purtroppo alla mancanza di preparazione nell’ambito dei bisogni educativi speciali». E conclude la sua riflessione con una dichiarazione amara, scaturita da quanto osservato in questi mesi: «A volte sento quasi di stare rubando il lavoro a qualcuno di qualificato, a qualcuno che davvero è specializzato nella didattica speciale. E soprattutto capisco che il continuo cambio di insegnanti, oltre alla mancata formazione adeguata degli stessi, non giova in primis agli studenti, che sono quelli che risentono di più dei problemi del sistema».

Francesca, 28 anni – Tutti i diritti riservati

E se la precarietà è un problema di una gravità disarmante, anche chiarire agli insegnanti di ogni sorta il concetto di inclusione sembra complicare la situazione nelle scuole italiane. Lo racconta Pietro, 28 anni, assistente educatore con un’esperienza di quattro anni negli istituti di ogni grado, dalla scuola dell’infanzia alle superiori. «Spesso i docenti non hanno chiara la differenza fra integrazione e inclusione: secondo alcuni inclusività equivarrebbe al tenere tutti gli alunni, disabili e non, in classe insieme. Questa prassi è però l’integrazione, che è stata fondamentale come primo passo negli anni Settanta e Ottanta, ma che da sola non basta. Inclusione significa invece permettere a tutti una piena partecipazione al processo di apprendimento e conoscenza». Pietro, che aveva iniziato a fare l’educatore durante gli studi, motivato più dalla possibilità di guadagno che dal desiderio di trovare realizzazione in questo impiego, ha imparato a ricredersi e dopo la laurea ha continuato a lavorare nelle scuole: «Amo il mio lavoro, riesce a darmi delle soddisfazioni che insegnare alla classe non penso mi darebbe. Ogni traguardo raggiunto da un mio ragazzo è anche un mio successo». Tuttavia gli ostacoli determinati dalla non sempre presente sensibilità degli insegnanti sul tema inclusione e dalle esigenze didattiche generano delle difficoltà nel suo lavoro, che risulta spesso snaturato: «Soprattutto nei gradi superiori della scuola aumentano le conoscenze e le competenze che l’alunno deve dimostrare, crescono le aspettative. Di conseguenza, messo sotto pressione, l’educatore deve concentrarsi sul programma e sul raggiungere gli obiettivi didattici, rinunciando all’aspetto educativo e inclusivo, che è poi quello che dovrebbe essere preponderante». Chiedendo a Pietro cosa spera per il futuro, non nasconde che gli piacerebbe vedere una nuova legge che finalmente sancisca il ruolo dell’educatore, che dia alla sua professione il riconoscimento che merita e che soprattutto tolga alcuni fastidiosi vincoli esistenti oggi. «Ci sarebbe da migliorare la coordinazione fra educatore e insegnante di sostegno, permettere all’educatore di lavorare a gruppi, visti i successi che le strategie di cooperative learning ottengono in altri Paesi, ad esempio», spiega Pietro. Del resto, conclude, la scuola dovrebbe essere una piccola comunità in cui si insegna ai ragazzi a vivere insieme, senza escludere nessuno: «Bisognerebbe mettere un po’ da parte la didattica per lasciare spazio allo scopo educativo ed inclusivo».

Riconoscere i bisogni educativi ed impegnarsi nell’inclusione sono stati passi importanti e necessari nel sistema scolastico italiano. Attuare delle strategie davvero in grado di raggiungere questi nobili obiettivi sembra richiedere ancora qualche sforzo in più…

 

I nomi degli intervistati sono stati cambiati su richiesta degli interessati.

“Le aquile sono nate per volare”… soprattutto se dislessiche!

Martina alle elementari faceva fatica a leggere ad alta voce. Ogni volta che la maestra la chiamava per alzarsi in piedi e continuare a leggere di fronte a tutta la classe il romanzo prescelto, la mia compagna non aveva altra scelta: pur di non continuare a incespicarsi fra le aguzze consonanti, lasciava perdere il senso del testo e si lasciava trasportare dal suono delle parole. Martina ha un disturbo specifico dell’apprendimento (DSA) assai diffuso, la dislessia, che si ripercuote sull’abilità del leggere, dello scrivere e del calcolare in modo corretto e fluente. Solitamente, tali disturbi si presentano all’inizio della scolarizzazione e solo dal 2015 il MIUR ha iniziato a diffondere dati specifici sugli alunni DSA, che nell’aa.ss. 2014/2015 erano 186.803, ovvero il 2,1% degli studenti di istituti statali e non.

Per comprendere meglio un disturbo sempre più comune, Pequod ed io abbiamo incontrato Rossella Grenci, logopedista presso l’Ospedale San Carlo di Potenza, nonché autrice del libro “Le aquile sono nate per volare”.

Buongiorno Dott.sa Grenci. Può spiegarci meglio che cosa si intende per dislessia?
Per dislessia intendiamo un disturbo specifico dell’apprendimento (DSA), che esclude qualsiasi tipo di difficoltà cognitiva, deficit neurologico e importanti problematiche psichiche ed emotive. Di conseguenza, un bambino dislessico possiede semplicemente uno sviluppo nella norma, ma ha difficoltà nella lettura e nella scrittura. O nel calcolo matematico.

Quando ci si accorge di avere un disturbo dell’apprendimento? E quali sono i sintomi principali?
Uno dei segni premonitori della dislessia è la difficoltà di linguaggio già in età prescolastica. Ad esempio, un banale disturbo di pronuncia. Quando inizia la scuola, si notano in genere diverse difficoltà ad apprendere i rudimenti di lettura e scrittura, come il confondere lettere morfologicamente e/o foneticamente simili. Chiaramente non tutte le dislessie seguono lo stesso percorso: alcuni bambini mostrano segnali più evidenti; altri, solitamente quelli con quoziente intellettivo alto, riescono a mascherare il disturbo sino alle scuole medie o addirittura superiori, quando iniziano a riscontrare più problemi. Questi spesso sfociano nel rifiuto allo studio, fino ad arrivare a veri e propri sintomi fisici quali emicranie o vomito.

Quali sono invece le cause principali di questo disturbo?
Più che vere e proprie cause gli studi sono andati a verificare se c’è una forma di familiarità: il 50% di bambini che presentano DSA hanno un genitore o un fratello con lo stesso disturbo. Alcuni studiosi stanno indagando in merito al tipo di alterazioni genetiche, ma i risultati non sono univoci. Dobbiamo ricordarci che la lettura, in fondo, è  un’“invenzione” culturale e pertanto non è possibile identificare il gene che determina in maniera specifica questa abilità; tuttavia esistono delle influenze genetiche sullo sviluppo delle abilità di lettura, alla cui determinazione concorrono diverse tipologie di geni.

Ritratto di Henry Winkler, dislessico, presente nel volume “Storie di straordinaria dislessia”, editore Erickson. Questo libro è scritto con il carattere Easy Reading, ideato per facilitare la lettura.

Come affronta un bambino la dislessia? E cosa può fare chi lo circonda?
Già dalle elementari i bambini si accorgono di avere maggiori difficoltà rispetto ai compagni di classe. Se si è fortunati, il bambino lo comunica alla famiglia, ma molti sono i casi in cui si vive la dislessia come una colpa che in seguito sfocia nella paura di non essere all’altezza e sentirsi meno intelligenti di altri. Tutto ciò può condizionare l’apprendimento e causare comportamenti problematici. La famiglia dovrebbe essere pronta a recepire i segnali di difficoltà per  aiutare il bambino prima che il gap aumenti con l’avanzare del percorso scolastico.

Come si è attrezzata la scuola italiana per agevolare l’apprendimento ai bambini dislessici?
In Italia la legge 170 del 2010 prevede che le scuole presentino piani didattici mirati e concordati assieme ai genitori. Questi piani personalizzati tengono in considerazione tutte le difficoltà dello studente, che verrà sostenuto sia con strumenti compensativi, ad esempio l’utilizzo di mappe tematiche, sia con misure dispensative, come l’astensione da compiti gravosi quali lo studio mnemonico di tabelline o la lettura ad alta voce.

E un adulto dislessico? Come vive questo disturbo?
La dislessia è un disturbo dell’età evolutiva: il cervello funziona in questo modo da sempre. Tuttavia, in passato non si prestava attenzione a questi disturbi e dunque può spesso capitare che un genitore ritrovi nei propri figli le medesime difficoltà riscontrate in età scolastica.

Le aquile sono nate per volare” (Erickson, febbraio 2015) è il libro cardine dei suoi scritti sulla dislessia, oltre a quello scritto a quattro mani con Daniele Zanoni “Storie di straordinaria dislessia” (Erickson, luglio 2015). Quale scopo si cela dietro questi progetti?
Ho iniziato a scrivere “Le aquile sono nate per volare”  quando il mio primo figlio, appena iscritto alla scuola elementare, manifestò per la prima volta dei disturbi DSA. Sin da subito mi sono resa conto dei tanti punti di forza che possiedono le persone dislessiche. Così ho iniziato a documentarmi e a fare ricerche, nonché a collezionare storie di personaggi famosi dislessici, fino a quando non ho rilevato una grande corrispondenza fra pensiero creativo e dislessia. Per questo ho iniziato a scrivere: quello che volevo era donare dignità alle persone dislessiche e dare una nuova visione di questo disturbo. Esistono molti vantaggi nell’essere dislessici!

Ad esempio?
Una caratteristica delle persone dislessiche è il maggior utilizzo dell’emisfero destro, ovvero la parte del cervello umano legato al pensiero visivo-spaziale e alla creatività. Un bambino dislessico usa la vista e l’udito, invece che il leggere e lo scrivere, per imparare e apprendere. Ciò significa che un dislessico pensa attraverso le immagini piuttosto che attraverso le parole e proprio per questo il pensiero funziona più velocemente e la creatività, allo stesso tempo, è maggiormente sviluppata.

Ritratto di Agatha Christie, dislessica, presente nel volume “Storie di straordinaria dislessia”, editore Erickson. Questo libro è scritto con il carattere Easy Reading, ideato per facilitare la lettura.

Ritornando allo scritto “Storie di straordinaria dislessia”, in cui possiamo leggere le biografie dei dislessici più famosi al mondo, qual è il personaggio che più l’ha affascinata?
Indubbiamente Agatha Christie, poiché è riuscita a far convivere dislessia e abilità di scrittura – altra prova di come ai dislessici non sia precluso nessun tipo di professione. Agatha è stata l’autrice che ha scritto più libri gialli in vita, quella più largamente retribuita e addirittura più tradotta di Shakespeare.

Un tratto comune a tutte le biografie riportate nel libro è la costante volontà di voler superare i propri limiti. Anche quando vengono derisi o colpiti nell’amor proprio, i dislessici non si tirano mai indietro da una sfida: la sorella di Agatha aveva scommesso con Agatha stessa che mai sarebbe riuscita a diventare autrice di libri gialli. A 25 anni Agatha pubblica il suo primo libro. Nei successivi anni, invece, si rese famosa anche per la sua rinomata capacità di lavorare a due romanzi gialli contemporaneamente.

In copertina: ritratto di Carlo Magno, dislessico. Immagine gentilmente concessa da Rossella Grenci (“Storie di straordinaria dislessia”, editore Erickson). Tutti i diritti sono riservati.

 

Bulli di ieri, vittime di oggi: quello che (non) cambia

Greta ha dodici anni e l’aspetto tipico di un’adolescente: il fisico sottile che lascia intravedere un approccio di forme femminili, la pelle fresca intervallata da qualche punto nero, il sorriso timido decorato da un apparecchio argento. Osservandola, niente fa pensare che possa essere diversa da una qualsiasi altra sua coetanea né che possa essere pensata come una vittima o una minaccia. Eppure nell’ultimo anno, Greta si è vista escludere dal gruppo-classe e diventare bersaglio delle “leader” della classe.

«Tutto è cominciato quando mi sono ammalata e ho dovuto trascorrere molto tempo in ospedale perché i medici non capivano il mio problema: avevo dei forti cali di pressione, quindi non potevo andare a scuola perché rischiavo di svenire in qualsiasi momento. Un po’ alla volta il rapporto con le mie compagne è cambiato: capitava che mi passassero le lezioni sbagliate e quando rientravo a scuola, ero spesso esclusa dai discorsi. All’inizio non ci facevo troppo caso: pensavo che fosse abbastanza normale non essere troppo coinvolta. Non avevo capito che alcune compagne cercavano sempre più di escludermi».

Sguardi maliziosi, risatine soffocate, parole sprezzanti appena sussurrate. Fino a quando la cattiveria gratuita non cerca nemmeno più di mascherarsi.

«Ho avuto la certezza di essere presa di mira durante le vacanze, il giorno della festa di compleanno di Maria. Su WhatsApp una compagna di classe, la “leader”, ha scritto che non potevo andare alla festa perché secondo lei e le sue amiche io ero una persona falsa e bugiarda. Da questo primo messaggio ho scoperto una realtà di cui non mi ero accorta: da quando mi ero ammalata, alcune compagne di classe avevano iniziato a sostenere che in realtà fingevo di svenire e non avevo alcun problema di salute; per sostenere questa tesi, avevano nei mesi inventato una serie di mie fantomatiche bugie, cui il resto della classe aveva creduto. Da quel giorno hanno smesso di tenere la cosa nascosta: per il resto delle vacanze ho ricevuto nella chat di classe ogni tipo di accusa, letto false storie su di me e ricevuto diversi insulti. Tornati a scuola, i compagni semplicemente mi ignoravano, parlavano alle mie spalle usando un soprannome per deridermi».

Quando Stefano e Michele (nomi di fantasia) andavano alle medie WhatsApp non c’era, ma quindici anni fa probabilmente avrebbero fatto parte dei bulli, quelli da cui Greta si sente minacciata. Oggi Stefano lavora in mezzo ai ragazzi, come educatore, e nel tempo libero ama viaggiare e suonare la chitarra. Anche a Michele piace la musica, tanto che ci mostra entusiasta la sua raccolta di vinili mentre cambia disco: «Ecco, questo è il mio preferito, l’ho scovato in un mercatino vintage a Londra»

Loro non conoscono il cyberbullismo, ma ci raccontano di come all’epoca, con la loro “banda”, si sentivano i più forti. «Si prendevano di mira i bersagli facili, i più “sfigati”; in generale le persone più sensibili e deboli, quelle che si consideravano diverse dalle altre perché portavano vestiti fuori moda, per il loro aspetto fisico…». E ci confessano, non senza imbarazzo e senso di colpa, che finivano nel mirino anche i compagni «con la pelle di colore diverso, i ragazzini che ci sembrano più effeminati, addirittura quelli con disabilità fisiche».

Come Stefano e Michele, anche la “leader” della classe di Greta non è un’adolescente “problematica”, con una situazione familiare complicata: «È una ragazza come tante, non è particolarmente bella né ha un’intelligenza superiore alla media; semplicemente ha molto più tempo libero ed è spesso connessa a WhatsApp. Parlava alle mie spalle e mi scriveva messaggi offensivi in chat, ma quando ci incontravamo faceva finta di niente. Piuttosto preferiva istigare gli altri a prendermi in giro: spesso erano i maschi a fare battute su di me in classe».

Un odio sottile, che senza creare troppo scalpore lasciava un segno profondo, in Greta e in tutti gli adolescenti di ieri e di oggi che nel meccanismo spietato del bullismo si ritrovano dalla parte delle vittime. Un gioco crudele che troppo spesso passa inosservato: «A parte qualche strigliata nessuno ha mai dato troppo peso  quello che facevamo. Anzi, i rimproveri ci facevano sentire  ancora più esaltati, invincibili – ricorda Michele – Addirittura quando facevamo a botte in classe i professori non dicevano nulla».

«I miei genitori però si sono accorti che qualcosa non andava, mentre per me diventava sempre più difficile tornare a scuola ogni mattina – racconta Greta – Hanno controllato il mio telefono e messo in allerta gli insegnanti, finché un giorno la coordinatrice ha sentito un compagno chiedere chi volesse escludermi dall’ennesima attività ed è intervenuta. Uno psicologo è venuto in classe per parlare di quello che stava succedendo, mentre tutta la scuola ha letto un libro sul bullismo e trattato dell’argomento. I miei compagni mi hanno chiesto formalmente scusa e io ora ho molto meno disagio in classe».

I bulli non cambiano, è vero, ma forse intorno a loro qualcosa inizia a muoversi. Una sensibilità diversa che da qualche tempo anima le coscienze degli insegnanti, sempre più attenti al benessere emotivo degli alunni, a volte anche privilegiando la loro felicità al mero profitto.

Questa attenzione si è rivelata fondamentale per Giada: «È stato utile per me, per risolvere la mia personale situazione. Però non credo che abbia avuto efficacia nel prevenire comportamenti di bullismo perché non ho visto cambiare l’atteggiamento delle mie compagne: hanno smesso di prendere me di mira, ma di fatto continuano a cercare vittime su cui rivalersi».

Anche Stefano riconosce che oggi c’è maggiore consapevolezza del problema, che non riguarda solo chi lo subisce, ma anche e soprattutto chi con prepotenza si accanisce contro i più deboli. Per Michele addirittura «non si riuscirà mai ad estirpare del tutto il bullismo, è un processo naturale della crescita. Ci sarà sempre il più forte così come ci sarà sempre il più debole». Le sue sono riflessioni disilluse, arrivate tanti anni dopo quei giorni in cui quella prepotenza era la normalità, in cui a pensarci non c’era nulla di sbagliato nel prendersela con qualcuno senza motivo.

La musica è finita, il giradischi s’è fermato. E nel silenzio dei suoi ricordi, Michele conclude: «Pensandoci adesso odio questa cosa».

L’Educazione civica non si fa (soltanto) sui libri

Riposto il tricolore dopo i festeggiamenti del 25 aprile, anche quest’anno gli italiani hanno svolto il loro ruolo da cittadini consapevoli, chi esprimendo gratitudine per la conquistata libertà, dandola meno per scontata del solito, chi polemizzando sul fatto che il Giorno della Liberazione debba esistere 365 giorni l’anno, o chi ancora insinuando dubbi più o meno leciti sull’effettiva libertà dei cittadini dello Stivale.

Un tale entusiasmo nell’esprimere la propria opinione e nel sentirsi cittadini d’Italia fa quasi sorridere, o innervosire, se si pensa all’affluenza da record (negativo) al recente referendum sulle trivelle, alla posizione del Capo del Governo in merito alla questione e alle innumerevoli parole che sono state dette e scritte sull’argomento. Come nasce dunque questo duplice animo dei cittadini italiani, talvolta motivati e intrisi di senso civico, altre volte apatici e totalmente indifferenti allo Stato, con tutti i suoi annessi e connessi?

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La risposta a questa problematica dicotomia va ricercata, come spesso accade, nelle nuove generazioni: si sa che i giovani sono come una tabula rasa, pronti per essere formati e modellati dalla società che li circonda. E quando si parla di senso civico, la scuola sembra venire prima della famiglia nel compito di infondere nelle nuove leve i valori del buon cittadino italiano. Ma che cos’è davvero l’Educazione civica nelle scuole italiane?

Lo abbiamo chiesto ad alcuni insegnanti della scuola secondaria di primo grado dell’Istituto Comprensivo di Cene e Gazzaniga, provincia di Bergamo, la cui Dirigente è la dottoressa Elena Margherita BerraGiuseppe Scarlata, docente di Lettere, la definisce così: «La formazione degli alunni, sia facendo conoscere loro i principi della Costituzione, sia cercando di stimolare il senso civico in ognuno di loro evitando la semplice teoria e mettendo in pratica le parole. Per quanto mi riguarda l’educazione civica viene affrontata quotidianamente, ogni volta che si presenta l’occasione, spiegando storia, leggendo un brano di antologia o scoprendo i problemi dell’ambiente». Sembra dunque che l’Educazione civica rappresenti un sostrato comune a più discipline, qualcosa che trova espressione in ambiti e materie diverse; dello stesso parere è anche Patrizia Ongaro, insegnante di Lettere: «L’educazione civica è diventata un sapere trasversale: io personalmente, ma come penso molti docenti, ho affrontato temi di cittadinanza in tutte e tre le materie che insegno. Temi come il lavoro, i diritti e i doveri, la famiglia, il comune, l’organizzazione dello stato, la parità, le tasse, democrazia e dittature, l’ambiente… Sono argomenti che ho sviluppato svolgendo il mio programma».

Insomma, ai docenti intervistati sembra essere ben chiaro il proprio compito di “educatori del senso civico”, verso il quale mostrano una particolare devozione. Tuttavia, che cosa prevede ufficialmente lo Stato in merito all’insegnamento dell’Educazione civica? Ce lo spiega Scarlata: «Alle scuole medie alcune ore di Storia vengono dedicate alla disciplina, mentre nella scuola superiore l’educazione civica sembra sparire, tranne in quelle scuole in cui si insegna Diritto». Può sembrare lecito domandarsi se questa apparente sottovalutazione della disciplina possa costituire un problema vero a livello educativo. Ci rassicura Elisabetta Corna, docente di Lettere, che concorda coi colleghi: «L’ora di Educazione civica “istituzionalizzata”, a volte invocata come fosse la soluzione di tutti i mali, non è necessaria nel momento di cui, lavorando per competenze il più possibile, si insegna ai ragazzi che la società la si costruisce insieme, cominciando dal costruire all’interno della classe delle buone relazioni. In fondo, in questo lavoro di costruzione di un “sé” in relazione libera con gli altri, sta la chiave della felicità nella vita di una persona».

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L’Educazione civica sembra dunque essere profondamente radicata nella scuola media, seppure non sia fissa nella programmazione dell’orario delle materie o sottoposta a prove di verifica. Del resto, aggiunge Scarlata, «i ragazzi vedrebbero questa disciplina noiosa se istituzionalizzata, è molto più efficace associarla ai vari momenti della quotidianità scolastica, ad aspetti pratici. Ad esempio con le classi terze organizzo uno spettacolo per il 25 aprile. Quest’anno il titolo è La libertà è l’ossigeno dell’anima».

Ed è proprio in queste attività “pratiche”, slegate dalle pure materie di studio, che sta l’essenza delle proposte alternative messe in atto con successo dall’Istituto Comprensivo di Cene e Gazzaniga. Il progetto SCAT (Scuola, Cultura, Arte e Territorio), di cui ci parla Rosaria Bosio, docente di Arte ed Immagine, è una di queste proposte innovative e si pone l’ambizioso obiettivo di avvicinare la cittadinanza alla conoscenza della nostra Costituzione. Come? Tramite la rappresentazione pittorica degli articoli della Costituzione in spazi pubblici della città, che in questo modo vengono abbelliti e restituiti alla cittadinanza. «Educazione civica quindi non è solo una materia di studio, ma è un dovere di tutti», ci dice Bosio.

Ancora, la professoressa Corna ci racconta di come l’impegno dei docenti della scuola secondaria abbia portato alla formazione del Consiglio Comunale dei Ragazzi: «Straordinario strumento di partecipazione attiva alla vita civile, a partire dal proprio Comune, primo luogo di democrazia che ciascuno di noi conosce; esso coinvolge attivamente i ragazzi della secondaria di primo grado e, solo come elettori, quelli delle classi quinte della primaria».

Questi entusiasmanti esempi e le altre numerose iniziative promosse dalla scuola secondaria di primo grado faranno forse ricredere anche i più scettici sull’impegno della scuola dell’obbligo nell’educare le nuove generazioni ad essere cittadini coscienti e responsabili. Di fronte ad un tessuto sociale reso sempre più complesso dalla mancanza di valori, la scuola e gli insegnanti si pongono obiettivi ambiziosi ideando modalità sempre nuove e stimolanti di formazione e trasmissione della cultura e del senso civico.

 

Orizzonte insegnanti

Tempo fa, un sondaggio inglese esprimeva preoccupazione circa la figura dell’insegnante: oltre la metà degli intervistati meditava di lasciare l’impiego entro i due anni seguenti. Preoccupazione poi sfociata nel Workload Challenge (link), una disamina sulle principali cause dell’inutile carico di lavoro nelle scuole e le possibili soluzioni da adottare.

Tra le cause di quello che sembra un malessere generale, che interessa tanto i maestri elementari quanto i docenti universitari, si possono citare l’eccessivo carico di lavoro, il desiderio di migliorare il rapporto tra impegno scolastico e vita privata e una retribuzione che non ha  saputo tenere il passo con la crisi. E’ facile immaginare che le cose non siano molto differenti per l’ambiente di casa nostra.

La considerazione per la professione dell’insegnante è precipitata negli ultimi anni e con lei la mancanza di riconoscimenti del lavoro speso nelle aule. Considerata la durata della permanenza in essa, delle persone che ne fanno parte e la peculiarità delle relazioni che vi si instaurano, la scuola è un luogo di forti emozioni, sentimenti e affetti. Al cuore di tutto il processo si trova l’insegnante, o meglio. la relazione che egli instaura con l’allievo e la classe. Non a caso la professione docente è tra le più alte a rischio burnout, termine con il quale si designa una risposta cronicizzata a fronte di un processo stressogeno, che si presenta quando ci sono condizioni di lavoro caratterizzate da alti livelli di contatti interpersonali.

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Quello che sembra di vedere sono professori demotivati e sfiduciati. Una generale svalutazione sociale del proprio lavoro causato anche dalla poca autonomia decisionale, il confronto con un’utenza di famiglie e studenti sempre più intransigenti, stipendi bloccati dal 2010 e conseguente carenza di gratificazioni.

Servono acrobazie psicopedagogiche per rapportarsi con le generazioni dell’oggi? O bisogna cambiare l’architettura organizzativa del sistema scolastico?

Nel nostro Paese uno dei problemi più avvertiti è la mancanza di un ricambio generazionale. Dopo il rialzo dei limiti di anzianità pensionistica, confermiamo di essere la nazione con la classe docente più vecchia al mondo. La crisi combinata tra reclutamento di nuovi da un lato e propensione alla fuga dall’altro è un dato su cui riflettere. Pochissimi i giovani insegnanti. Nelle università, la difficoltà di superare concorsi complessi che attendono curricula avanzati e le scarsissime risorse economiche messe a disposizione degli atenei rendono quasi impossibile l’accesso a una cattedra, tanto che molti giovani preferiscono la carriera nella scuola privata.

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In un ricordo della sua esperienza ginnasiale Freud scriveva:

“[…]E’ difficile stabilire che cosa ci importasse di più, se avessimo più interesse per le scienze che ci venivano insegnate o per la persona dei nostri insegnanti. In ogni caso questi ultimi erano oggetto per tutti noi di interesse sotterraneo continuo, e per molti la via delle scienze passava necessariamente per le persone dei professori. Li corteggiavamo o voltavamo loro le spalle, immaginavamo che provassero simpatie e antipatie probabilmente inesistenti, studiavamo i loro caratteri e formavamo o deformavamo i nostri sul loro modello. […] In fondo li amavamo molto, se appena ce ne davano un motivo, non so se tutti i nostri insegnanti se ne sono accorti. Ma non si può negare che nei loro confronti avevamo un atteggiamento particolare , un atteggiamento che poteva avere i suoi inconvenienti per i soggetti interessati. Eravamo, in linea di principio, parimenti inclini ad amarli, a odiarli, a criticarli e a venerarli.”

Che la classe docente abbia bisogno solo di riacquistare quell’aura di rispetto di un tempo?

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