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Mese: Novembre 2014

Introduzione alla LIS e alle sue criticità

La lingua dei segni italiana  (LIS) è il sistema visivo gestuale delle persone sorde caratterizzata da una specifica struttura fono-morfologica, lessicale e sintattica (es. Segue ordine SOV come il latino, il basco, il giapponese..) . É un codice complesso costituito da espressioni facciali, segni delle mani e movimenti del corpo; il segno diventa parola e il significato è recepito con la vista.

Le lingue dei segni esistono sin dall’antichità ma iniziarono ad essere studiate con approccio educativo in Francia solo alla fine del ‘700. Dalla fine dell’800 gli studi si diffondono in tutto il mondo e vengono a istituzionalizzarsi varie lingue dei segni:  «Il database internazionale delle lingue Ethnologue, consultabile on-line, enumera 121 diverse lingue dei segni» (Enciclopedia Treccani).  Negli ultimi decenni a scopi pratici si è sviluppata una lingua segnata ad uso allargato, per esempio all’ultimo convegno mondiale dei sordi (Sudafrica 2011) era presente un interprete internazionale.

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Quest’accenno al panorama internazionale delle lingue dei segni è utile per capire come si sviluppano alcune delle criticità a cui si farà riferimento nelle successive righe.

Il 13 dicembre 2006 l’Assemblea delle Nazioni Unite ha approvato la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità nei cui articoli si stabilisce il dovere di tutelare l’identità culturale e linguistica delle persone sorde. L’Italia nel 2009 ha ratificato questa convenzione pertanto la LIS  ad oggi dovrebbe avere un riconoscimento giuridico -almeno come lingua minoritaria- che garantirebbe una serie di fondamentali servizi alla comunità sorda, così com’è avvenuto in altri paesi. Ad oggi, ancora nulla si è concretizzato se non una vasta polemica.

La stessa comunità sorda ha avuto delle scissioni interne: tra sostenitori della lingua dei segni come lingua naturale per i sordi e coloro che mirano a progressi medici e all’apprendimento della lingua parlata grazie ad ausili tecnologici.

A promuovere la battaglia per i riconoscimenti è in primo luogo l’ Ente nazionale preposto alla protezione e l’assistenza dei Sordi in Italia: Ente Nazionale Sordi (ENS) che ha l’espresso scopo, tra gli altri, di avviare i sordi alla vita sociale, aiutandoli a partecipare all’attività  produttiva ed intellettuale, di agevolare, nel periodo post-scolastico, lo sviluppo della loro attività e capacità alle varie attività professionali, di agevolare il loro collocamento al lavoro, di collaborare con le competenti Amministrazioni dello Stato, nonché con gli Enti e gli Istituti che hanno per oggetto l’assistenza, l’educazione e l’attività dei sordi, nonché di rappresentare e difendere gli interessi morali, civili, culturali ed economici dei minorati dell’udito e della favella presso le pubbliche Amministrazioni (Dalla pagina “Chi siamo” del sito ENS).

I colpi più recenti di questa battaglia sono stati agli inizi di febbraio 2014 presso l’aula dei gruppi parlamentari, in occasione di un convegno “Obiettivo Lis” voluto dall’ENS. In questa giornata è stata distribuita a tutti i parlamentari una proposta di legge formulata dall’ente

Il segretario nazionale Ens, Costanzo Del Vecchio, ha chiarito il valore della proposta: “Noi riteniamo che la lingua italiana dei segni, una volta riconosciuta, possa essere un progetto di vita per i sordi. Sono cittadini che purtroppo non sono pienamente integrati perché hanno un’oggettiva problematica di non poter interloquire con chi non conosce la lingua dei segni. Ecco che la LIS consente piena integrazione e interazione” (Lingua dei segni, un progetto di legge per il suo riconoscimento, Repubblica).

Per concludere meritano un accenno anche altre problematiche, di natura puramente linguistica:

la lingua italiana dei segni è un campo di ricerca molto appetibile per i linguisti perché permette l’osservazione dei processi di nascita ed evoluzione di una lingua naturale. In quanto tale però risulta soggetta a moltissime variazioni diatopiche soprattutto poiché manca una forma scritta che affermi che una specifica varietà sia quella corretta. Inoltre la standardizzazione della LIS risulta ostacolata dall’assenza dell’insegnamento nelle scuole.

Le criticità evidenziate hanno ripercussioni etico-civili poiché la LIS è lo strumento comunicativo della comunità sorda che in questo modo ha la possibilità di trasmettere una propria cultura e, in quanto tale, le istituzioni dovrebbero tutelarla e dare la possibilità ai non udenti di scegliere il metodo di comunicazione a loro più consono.

un bell’esperimento artistico:

SperimentaLIS è un progetto che vuole far convivere l’arte visiva e la lingua dei segni. Attraverso la LIS vuole sia raggiungere i sordi sia avvicinare gli udenti alla loro cultura. L’utilizzo delle luci e delle immagini sincopate è per esso il mezzo migliore per dare il senso del ritmo unendo la lingua dei segni e il montaggio visivo. È una bella sfida: creare un linguaggio universale che riesca a raggiungere chiunque lo osservi e lo ascolti … lo “guardi” con le orecchie o lo “ascolti” con gli occhi.

Come si dice ‘Ndrangheta in milanese?

Questa rubrica nasce con l’intento di approfondire maggiormente il fenomeno della ‘Ndrangheta, le sue connessioni fra nord e sud Italia, le assonanze di storie poco – molto poco – differenti, in una prospettiva che nega il discernimento tra due realtà apparentemente diverse, ma ordinate dalle stesse regole.

San Michele Arcangelo a Piazza Affari

Le cronache narrano che, quando a ferragosto del 2007 a Duisburg (Germania) furono rinvenuti i corpi senza vita di alcuni ‘ndranghetisti vittime della faida tra le famiglie Nirta-Strangio e Pelle-Vottari (entrambe originarie di San Luca, nella locride), gli inquirenti trovarono nel taschino di un ragazzo appena maggiorenne un’immagginetta bruciacchiata raffigurante San Michele Arcangelo.

Gli inquirenti italiani, che già da tempo collaboravano con la polizia tedesca sul fronte antimafia, capirono subito che all’interno del  ristorante di fronte al quale giacevano i corpi si era appena svolto un rito di affiliazione.

Nella società ‘ndranghetista l’immagine bruciata e le gocce di sangue dell’affiliando che cadono su quell’effigie sanciscono il patto d’onore; momenti scanditi dalle parole con cui si dichiara solennemente che, da quell’ istante, la propria vita apparterrà solo ai “mammasantissima”.
I riti della tradizione arcaica sono imprescindibili dallo spirito imprenditoriale delle cosche. Meccanismi diversi, ma complementari: riti ancestrali che fanno il paio ad operazioni finanziarie di proporzioni enormi.

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Attivisti antimafia con il testimone di giustizia Pino Masciari.

La‘Ndrangheta al nord. In che termini?

La parola ‘Ndrangheta deriva dal greco andranghathos ovvero “uomo valoroso”.
In Calabria e nel resto del mondo il termine non ha traduzione. E non cambiano neppure i metodi criminali con cui i clan si fanno largo, a Platì come in Piazza Duomo.

Affermare che gli ‘ndranghetisti del nord agiscono in modo diverso rispetto alla terra d’origine, cercando e trovando spazio solo in certi piani di certi palazzi è sbagliato e pericoloso. Indagini vecchie e nuove hanno portato alla luce uno scenario inedito per questi luoghi. Persone armate che entrano nei retrobottega delle attività commerciali, a volte minacciano, altre sparano.Automezzi delle cosche che si muovono indisturbati nell’area dell’ortomercato, dove si trova anche qualche immigrato pescato sulle spiagge calabresi o in qualche istituto per essere sfruttato.

Sono i padroni dell’ Hinterland e di interi quartieri della città di Milano. Sono coloro i quali gestiscono l’ordine e la sicurezza nella maggior parte delle discoteche della città. L’influenza dei clan non riguarda solo il settore economico e finanziario. Il problema sta diventando sociale. Le guerre intestine si sono spostate dai paesini della Calabria con più alta densità mafiosa, alle strade dell’hinterland e tra le vie delle periferie milanesi. A questo punto, anche al nord, come in passato in altre regioni, è giunta l’ora della scelta; voltare lo sguardo altrove rimane sempre l’opzione più facile e deleteria.

Russia terraferma. Notizie dal sistema carcerario russo

Dai tetti ai campi, dall’anonimato alle luci della ribalta in poco più di due anni: la storia del gruppo punk-rock russo Pussy Riot è oggi seguita dalle redazioni internazionali, per aggiornarci sulle vicende giudiziarie di tre giovanissime componenti più che sulle loro rocambolesche artistico-politiche. Di Maria Alyokhina, Yekaterina Samutsevich e Nadežda Tolokonnikova – accusate di teppismo e offesa al sentimento religioso dei credenti (ortodossi) e condannate a due anni di reclusione in campi di lavoro per aver intonato una sorta di preghiera punk alla Beata Vergine Maria contro la campagna di Putin, il 21 febbraio 2012, nella Cattedrale di Cristo Salvatore (Mosca) – s’è tanto detto e scritto, dalle reazioni ufficiali di Putin e del patriarca Cirillo I alla solidarietà del popolo russo e di star come Paul McCartney e Madonna; dalle rivelazioni dello Spiegel sulla presenza di infiltrati per manipolare il processo ai ritorni pubblicitari (con tanto di offerta di un servizio fotografico su Playboy a Nadežda).

Alla luce di questa esposizione mediatica e della conseguente aspettativa per cui ci si debba schierare da un lato o dall’altro della barricata, a sostegno di cause non sempre appropriate alla situazione (una tra tutte, quella femminista, come testimoniato anche dalle recenti manifestazioni italiane in occasione del 25 novembre), si apre una prospettiva diversa, a tratti sorprendente, con la lettura del carteggio tra il filosofo Slavoj Žižek e Nadežda Tolokonnikova sulle ultime pagine del nuovo numero di MicroMega (8/2013). L’ostacolo della censura ha rallentato la corrispondenza ma ha portato Tolokonnikova a evitare espliciti riferimenti alla propria quotidianità carceraria e a presentare le azioni del collettivo russo come atti di una strategia culturale precisa, espressioni di una «solida convinzione etico-politica».

I due si confrontano sulla deriva del capitalismo contemporaneo, che per il filosofo sloveno si è appropriato della dinamica rivoluzionaria e «trasforma la vita “normale” in un continuo carnevale», ma Tolokonnikova smonta questa avvincente montatura pubblicitaria per parlarci di un mondo nascosto (d)allo sguardo dell’Occidente consumista. L’incrollabile “normalità” della legge della produzione centralizzata e gerarchica domina su milioni di lavoratori, ai quali non è certo concessa alcuna stravaganza. L’obiettivo dei militanti (e l’invito agli intellettuali), allora, sarà smascherare questo inganno globale dall’interno, per tentare di alterarne la natura e volgerla verso le proprie convinzioni; per liberare le «zone economiche speciali» dei paesi in via di sviluppo dalle logiche dello sfruttamento. Affinché i «territori liberati» di cui parla Žižek possano dirsi davvero tali.

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Nadežda Tolokonnikova.

Lo sguardo della Tolokonnikova è in questo senso privilegiato, se così si può dire, come quello di altri “carcerati eccellenti” – tra gli ultimi, l’avvocato Aleksej Naval’ nyj, simbolo della protesta antigovernativa grazie al suo seguitissimo blog, dal quale ha denunciato scandali finanziari legati a grandi aziende a partecipazione statale e la disparità economica nella società caucasica. Naval’ nyj è stato condannato per appropriazione indebita, ma non verrà beneficiato dall’amnistia che Putin intende varare per il 20° anniversario della Costituzione russa, soprattutto dopo l’annuncio della sua candidatura come leader d’opposizione alle elezioni comunali di Mosca, nel 2014, e alle presidenziali del 2018.

Come gli Artic 30 di Greenpeace, anche le ormai due componenti delle Pussy Riot verranno coperte da questa amnistia (la Samutsevich è stata scarcerata perché non coinvolta direttamente nei fatti), ma dell’esperienza di reclusione rimangono i numerosi scritti della Tolokonnikova, tra cui la lettera aperta del 23 settembre scritta dalla colonia penale n° 14 del paese di Parts, in Mordovia, prima di essere trasferita in Siberia proprio per la denuncia pubblica delle condizioni cui era sottoposta.

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La colonia penale in Mordavia, esterno recintato con alti muri e filo spinato.

 

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La colonia penale in Mordavia, interno di una camerata.

Il Codice Penale della Federazione Russa prevede solo «villaggi-colonie» e, per i reati più gravi, «colonie correzionali a regime comune» (sezione 3, art. 58), in cui il regime di reclusione sembra più blando di quello in vigore nei campi maschili, ma le circa 46 colonie penali femminili riportano all’immagine dell’arcipelago gulag staliniano. Turni di lavoro massacranti e paghe misere per cucire le uniformi della polizia e dell’esercito russi; camerate sovraffollate e locali scarsamente puliti; difficoltà delle madri a stare con i figli più piccoli (due ore al giorno, sempre che la donna sia reclusa in uno dei 13 campi con orfanotrofio). Ma soprattutto l’umiliazione, l’isolamento e le pressioni psicologiche spesso esercitate indirettamente, aizzando l’odio tra le detenute, cosicché siano loro stesse a punire una donna per il suo comportamento, picchiandola o ostacolandone il lavoro. Questo tipo di convivenza impedisce di essere premiati per buona condotta, così come il collaborazionismo, che permette ad alcuni di godere di un trattamento nettamente migliore o addirittura una scarcerazione anticipata pagando la polizia penitenziaria.

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Detenute nel campo di lavoro in Mordovia, nell’estrema parte orientale della Russia, dove la Tlokonnikova ha scontato il suo primo periodo di detenzione.

Negli anni Novanta sono state approvate le prime riforme del sistema penitenziario dai tempi del regime sovietico, con due specifici obiettivi: la riduzione del numero di detenuti, per il quale la Russia ha mantenuto per anni un triste primato, e l’adesione ai regolamenti internazionali. La depenalizzazione di reati come i piccoli furti, molto frequenti all’epoca di Gorbačëv e della prima, traumatica liberalizzazione del mercato, ha diminuito considerevolmente le condanne, ma già nel 2012 la Russia si riconfermava lo Stato europeo con il tasso di popolazione carceraria più alto. Gli organi internazionali per la tutela dei diritti dell’uomo e le ONG russe lamentano l’assenza di politiche per affrontare gli squilibri sociali e continuano a sollevare preoccupazioni su abusi, tentate rivolte e morti inspiegabili all’interno delle strutture, in cui le condizioni dei carcerati sono descritte in termini di “tortura”.

Quella dell’odierna Russia è una realtà sociopolitica difficile e problematica, anche perché legittimata dal tacito assenso dei paesi occidentali, che non hanno ancora dato una prova della volontà di cambiare la situazione politica ed economica attuale. Potrebbe esserlo, suggerisce la Tolokonnikova, il boicottaggio delle Olimpiadi 2014, che si svolgeranno a Soči. «A mio modesto parere – scrive – i paesi “sviluppati” danno prova di un conformismo eccessivo e di una lealtà esagerata nei confronti di governi che opprimono i propri cittadini e ne ledono i diritti».

E mentre la Russia di Putin cerca di proteggere la sua immagine internazionale, l’Unione Europea non si è ancora posta l’obiettivo di definire con chiarezza i suoi rapporti con il vicinato, uno dei paesi più grandi del mondo, leader nei settori di punta di gas e petrolio. Una terraferma, scossa da proteste sempre più condivise nelle piazze di tutto il mondo.

Essere transgender. Esserlo a Milano

Donne e uomini che vivono il proprio corpo come una gabbia, qualcosa che ostacola la piena espressione di se stessi. Persone che avvertono un disagio così violento da decidere di iniziare un percorso verso l’adeguamento di genere. Gli individui che mutano dal genere maschile a quello femminile vengono definiti MtF (maschio transizionante femmina); FtM (femmina transizionante maschio) quelli che intraprendono il percorso opposto. Nell’immaginario collettivo, chi cerca di far corrispondere identità di genere e sessualità fisica; si immette in un cammino fatto di terapia ormonale sostitutiva, supporto psicologico, andrologi. Il transgenderismo è molto più di tutto questo. Cambiare vita significa ricominciare da capo: a una nuova identità deve corrispondere una nuova carta di identità e questa è una bazzecola se rapportata alla lunga serie di problemi che si incontrano lungo un percorso che è delicato tanto sotto l’aspetto fisico, quanto sotto quello psicologico e socio/culturale.

Innanzitutto adeguare il genere costa. Dieci, quindicimila euro tra medicinali, dottori e quant’altro. Le asl supportano la transizione solo dopo aver ottenuto il benestare dello psichiatra, ovvero nel momento in cui il paziente non riscontra altri disturbi mentali oltre alla condizione di transgender, la quale rientra nell’elenco nel DSM V, manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Chi non si trova in questa categoria deve arrangiarsi. Si sarà notato che il numero di persone transgender che lavorano al panificio, che prendono le ordinazioni al bar, che consigliano il modello di scarpe più adatto ai clienti di un negozio è bassissimo. La discriminazione nel mondo del lavoro ai danni di chi vive una disforia di genere è assai elevata. Di conseguenza diverse persone transgender ricorrono alla prostituzione come unica possibilità per pagare il percorso di transizione o semplicemente per tirare a campare. Questo non deve indurre al luogo comune, largamente diffuso, che associa la transessualità all’esercizio del mestiere più antico del mondo: un simile finto binomio porta alla pericolosa idea che una trans non meriti o, peggio ancora, non desideri altro che mettersi al servizio di uomini che fruiscono il sesso con loro come qualcosa di trasgressivo, esotico. Lavorare su un marciapiede è spesso una scelta imposta da un sistema a due variabili fisse che non accetta l’esistenza di altre realtà di genere se non per relegarle all’interno di fantasie erotiche. Se per un studente universitario una grossa preoccupazione è quella di non trovare un lavoro, una persona transgender laureata convive con la paura di finire a prostituirsi per mancanza di alternative .

Monica Romano Palermo pride 2013
Monica Romano, Palermo Pride, 2013.

Il muro più difficile da abbattere, dentro e fuori dall’ambiente lavorativo, rimane quello sociale. Una femmina si sente un uomo e viene derisa per modi ed atteggiamenti che non rispondono ad un ideale convenzionale. Quella stessa persona, una volta acquisita l’identità maschile, continuerà ad essere giudicata, stavolta per l’effeminatezza o per via delle tracce che rimangono della sua precedente vita. Per evitare derisioni un uomo biologico deve nascondere il suo lato femminile prima e reprimere quello maschile poi. Al giorno d’oggi le persone transessuali sono oggetto di scherno e discriminazione tanto prima quanto dopo la transizione. In altre parole: se rispondi a determinati criteri sei uomo o donna, sennò, qualsiasi cosa tu faccia, sei guardato come un deviato e la tua diversità costituisce un pericolo. Di recente la compagnia teatrale Atopos, che attraverso le arti sceniche affronta argomenti di genere, ha portato sul palcoscenico alcune testimonianze di persone transgender. Tra queste quella della donna che viene aggredita e va a denunciare l’accaduto alla polizia. Un agente guarda la sua carta d’identità e commenta: “Ah beh, ma allora…”.

La legge 164/82 rappresenta una importante vittoria per la rivendicazione di identità di genere. La strada verso la parità, tuttavia, è ancora lunga. Fino a cinque anni fa non esistevano a Milano realtà né punti di riferimento per persone transgender. Se le cose sono cambiate, e se ora esistono luoghi di ascolto, orientamento ed accompagnamento, è grazie all’impegno di Monica Romano e Antonia Monopoli. Antonia è, dal 2009, responsabile dello Sportello TransALA Milano Onlus, mentre Monica oggi collabora con l’associazione di cultura lgbt Harvey Milk, che si occupa, oltre che di questioni di genere, anche di sessualità. Le due cose non vanno confuse: il transgenderismo è altro rispetto all’omosessualitàun uomo transgender gay non deve meravigliare. Adeguare il genere significa volersi relazionare al prossimo con un corpo adeguato e non invece conformare il proprio corpo ad un modello di eterosessualità. Prendere coscienza del fatto che i generi non sono due e le identità sessuali sono infinite, oltre ad essere un enorme passo non ancora compiuto, deve essere un esercizio da parte di tutti.

Congo: l’arruolamento spontaneo dei bambini e dei giovani

A inizio mese, il 7 novembre, apparve sulle homepage dei maggiori siti di informazione internazionale la notizia della resa del Movimento 23 marzo, conosciuto ai più con la sigla M23, gruppo di ribelli composto da ex militari dell’esercito congolese che ammutinarono nell’aprile 2012; la scelta del nome cadde sulla data 23 marzo 2009, momento in cui avvenne un accordo di pace fra milizie e forze armate che quest’ultime violarono.

Subito dopo questa resa, il pensiero dominante fu prevalentemente ottimistico, ma la realtà è che tale risoluzione è l’ultimissimo tassello di una rete di conflitti internazionali e di guerre civili che, sin degli anni Settanta dell’Ottocento, momento in cui avvennero i primissimi tentativi di colonizzazione da parte di Henry Morton Stanley, ha distrutto completamente la società civile del Paese. Difatti, il fallimento delle idee di sviluppo e modernità da un parte, portate avanti da coloni e missionari prima e dalle Ong dopo, e il collasso della cultura e dell’organizzazione sociale tradizionale dall’altra hanno creato un vuoto istituzionale che negli anni è stato colmato da modelli inediti di organizzazione economica e politica: i Signori della Guerra.

La maggior conseguenza di questa situazione è stata ed è tuttora la «democratizzazione della violenza» (Generazione Kalashnikov, Luca Jourdan) portata avanti su due livelli della società: in primo luogo fra le diverse comunità locali, dove i differenti gruppi etnici competono per le risorse, e in secondo luogo fra giovani e bambini, che si arruolano volontariamente nelle milizie per essere accettati nella società civile. Seguendo questa prospettiva, la dicotomia vittima/carnefice relativa al mondo dell’infanzia ingannato e sfruttato dal mondo degli adulti, comincia a perdere consistenza, a sfuocarsi, in favore di un’analisi più approfondita del fenomeno.

Secondo l’antropologo Jourdan, difatti, l’arruolamento spontaneo è da imputare alla volontà da parte dell’adolescente di uscire da una condizione di marginalità. In Congo le scuole vengono chiuse o distrutte e il mondo del lavoro è quasi del tutto assente poiché la competizione per la coltivazione della terra è un problema che dura sin dagli anni ’80 – causando numerosi conflitti civili – e l’industria è completamente assente. Di conseguenza, i giovani si mettono a fare i mestieri più disparati, dai cercatori d’oro ai trafficanti di diamanti, per poi trovare come unica soluzione l’entrata nelle milizie: «sono entrata […] a tredici anni perché gli ugandesi invadevano e saccheggiavano il mio villaggio. […] Sono entrata perché volevo magiare senza lavorare, volevo andare in macchina e fumare la chanvre (canapa indiana)» (Generazione Kalashnikov, Luca Jourdan, p. 93).

La testimonianza riportata, oltre a sottolineare come anche le bambine aderiscano alla ribellione, è significativa in quanto mostra come il periodo da combattente non sia stato vissuto come un periodo negativo, ma anzi, esaltante, di indipendenza e riconoscimento sociale, tramite il quale il combattente, da disoccupato, diventa consumatore di quegli oggetti materiali caratteristici della modernità.

3- infanzia negata dei bambini soldato, immagine sito UNICEF

In Congo, difatti, la violenza è diventata un’opportunità: il pillage, il saccheggio, ne è uno degli esempi più significativi. Siccome i combattenti non ricevono stipendio dai loro Signori della Guerra, quest’ultimi lasciano che i loro miliziani saccheggino le abitazioni delle popolazioni civili, come una concessione paternale, altro atto di violenza funzionale al loro potere di capi. Una volta concluso il pillage, spesso i combattenti vendono subito il bottino ai mercati, ma in altri casi tengono i beni acquisiti per farne sfoggio: così il saccheggio possiede anche il valore simbolico di accesso alla modernità e ai suoi simboli. Solo in questi termini si potrebbero dunque spiegare i cellulari appesi alle cintole in luoghi in cui non c’è un’effettiva copertura di rete.

In questo contesto l’immagine del bambino soldato vittima degli adulti perde parte del suo significato poiché  i kadogo, i bambini soldato, diventano attori sociali attivi. Ma non solo. In Congo è avvenuta una sovversione di ruoli sociali, nella quale il mondo dell’infanzia riesce a prevalere su quello degli adulti: «Ho visto un piccolo Mayi-Mayi (una delle milizie più potenti nel Kivu, regione orientale del Congo, n.d.r.), era alto così [con la mano indica un’altezza di circa un metro e venti], ha fatto inginocchiare un papà, gli ha legato le mani dietro la schiena e lo ha portato via» (Generazione Kalashnikov, Luca Jourdan, p. 97).

Un’ultima importante riflessione dell’antropologo Jourdan riguarda la storia della concezione occidentale dell’infanzia. Nel Medioevo, il bambino veniva considerato un adulto in formato ridotto, mentre dal Rinascimento si cominciò a porre le prime attenzioni sull’educazione dei giovani. In questo modo cambiarono anche i rapporti affettivi fra genitori e figli, dove i primi si predisponevano a diventare modelli spirituali e morali per i secondi. Durante l’Ottocento, invece, avvenne la rimozione del bambino dal mercato del lavoro, mentre nel Novecento il mondo dell’infanzia si accosta all’ambito del diritto (ad esempio, nel 1989 la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia). Da questo breve excursus Jourdan afferma come la storia dell’infanzia occidentale sia caratterizzata da una «progressiva perdita di autonomia», dove il bambino viene considerato un soggetto da tutelare e dove, in caso contrario, si parla di infanzia negata.

Ma tale prospettiva è una categoria morale e occidentale, formatasi dalla nostra storia sociale e non adatta ad essere attribuita alla realtà africana, non adatta ad essere una categoria universale. Difatti, in Africa lo status di bambino viene attribuito alle persone che non si sono sposate e non hanno avuto figli (di conseguenza anche un anziano può appartenere al mondo dell’infanzia); mentre l’adulto è colui che è «dotato di potere generativo», e quindi in grado di trasmettere l’essenza vitale tramandatagli dagli antenati.

 

In copertina, fotografia di Ed Ou pubblicata su SETTE CORSERA, vincitrice del premio giornalistico internazionale ”Mario Luchetta ”.

Alla scoperta di: Marco Bartoletti

Carta d’identità

Nome: Marco

Cognome: Bartoletti

Età: 51 anni

Provenienza: Calenzano (FI)

Professione: Imprenditore

Ogni giorno siamo investiti di notizie, dati e statistiche che evidenziano sempre più quanto gli ultimi 6 anni di dura recessione stiano logorando questo Paese. E sempre più spesso ci viene l’istinto di fuggire da queste notizie che non fanno altro che aumentare la nostra depressione e il nostro scoraggiamento. La delocalizzazione, la mancanza di posti di lavoro e la difficoltà economica non sembrano lasciare spazio alle piccole aziende che da sempre tengono in piedi l’economia italiana.

In mezzo a questa desolazione però ci sono piccole stelle luminose che permettono alla nostra speranza di restare a galla. Una di queste è sicuramente l’azienda di Marco Bartoletti, 51 anni, imprenditore di Calenzano in provincia di Firenze.

Andiamo con ordine: Bartoletti ha iniziato a lavorare nel 2000, quando la sua “azienda” consisteva in: due operai (oltre a lui), torni recuperati dalla discarica e tanto lavoro. Producevano oggettistica di lusso per automobili costose. Poi, ad un certo punto, la svolta: una casa di moda molto prestigiosa ha incaricato la sua azienda di produrre piccoli oggetti hi-tech di lusso con quella cura e quella qualità che solo il vero made in Italy artigianale sa creare. Da lì la produzione ha iniziato ad aumentare e l’azienda a crescere, fino a che i dipendenti sono diventati 250 e il fatturato si è moltiplicato.

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Sede dell’azienda BBS.P.A.

Fino a qui, un bell’esempio di successo imprenditoriale raro di questi tempi, ma non così unico. Ciò che rende questa storia veramente speciale è che questo successo imprenditoriale ne nasconde uno umano ancor più straordinario e importante: nella sua azienda il signor Bartoletti assume, tra gli altri, anziani, stranieri (circa un terzo dei dipendenti), donne (il 50% dell’organico), ma soprattutto malati oncologici.

La sua filosofia è talmente semplice che risulta disarmante: “ Se nella società esistono i malati di cancro, come si può pensare che non ci siano in un’azienda?”. E così ad una ragazza che, presentandosi in lacrime al colloquio di lavoro, perché le era stato diagnosticato un tumore il giorno prima, si scusava per non poter accettare il lavoro, Bartoletti ha risposto che essere malati è un buon motivo per lavorare e l’ha assunta.

Non si tratta di buonismo, infatti, come qualsiasi altro imprenditore, Bartoletti tratta i malati come gli altri dipendenti: li assume, se crede che abbiano un curriculum adatto, e li promuove quando e se se lo meritano; eppure dà loro la cosa più importante: la dignità e un motivo in più per continuare la loro lotta contro la malattia. Ed è proprio questa attenzione all’aspetto umano e alla persona che fa la differenza; per esempio l’imprenditore fiorentino ha introdotto nel suo team una psicologa per dare sostegno a chiunque in azienda ne abbia bisogno.

A chi pensa che il successo dell’azienda ne risenta, Bartoletti risponde che “non è una soluzione antieconomica, non provoca danni all’attività. Anzi, una volta trovata la modalità d’impiego adeguata al singolo caso, ho dei vantaggi perché queste persone s’impegnano di più, fanno ogni giorno del loro meglio. E finiscono per essere dei lavoratori migliori rispetto a chi è sano ma svogliato”. E c’è da credergli visto che la sua azienda mantiene un fatturato di 40 milioni di euro e 250 dipendenti!

Il suo sogno ora è quello di creare un’azienda con solo persone malate come soci, gestori e operai, e a noi non rimane che augurarglielo e augurarcelo, sperando che qualcuno segua il suo esempio.

 

In copertina: Veduta di Calenzano [ph. Marco Niccoli CC BY-SA 3.0/Wikimedia Commons]

“Ovunque ci sia una cucina lì è la mia casa. E quando sforno un piatto sento il profumo della felicità”. Zarina, 19 anni, Russia.

 

Da quella tragica notte del tre ottobre scorso sono negli occhi di noi tutti: donne, bambini e uomini avvolti nelle coperte termiche dorate, protesi verso i paramedici nella speranza di uscire da un inferno galleggiante che li ha resi prigionieri per giorni, impauriti dalla morte scampata e costata la vita ai 339 compagni di viaggio. Per non parlare, poi, di ciò che li aspetta una volta approdati: chi li ospiterà? Dove potranno rifarsi una vita? Come riscatteranno un passato di guerre e maltrattamenti? Domande, queste, cui dal 22 maggio 2006 cerca di dare risposte il Centro di Accoglienza Sammartini del Comune di Milano, gestito, dal 2007, dalla società cooperativa sociale Farsi Prossimo Onlus promossa da Caritas Ambrosiana: una struttura che offre ospitalità temporanea a donne straniere, con o senza figli, che abbiano chiesto la Protezione Internazionale (ossia lo status di rifugiato) e versino in condizione di bisogno. Le ospitate sono infatti donne che spesso hanno subito maltrattamenti e violenze, che possono essere fuggite da contesti di guerra o da situazioni in cui hanno patito persecuzioni per motivi politici o religiosi e che necessitano di un inserimento lavorativo: una sfida non facile, che prevede il delicato compito di perseguire lo sviluppo integrale di soggetti non solo deboli ma anche emarginati in un contesto urbano alienante, quale spesso si ritrova a essere la città di Milano.

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foto di Roberto Morelli

Ma assistenti sociali, educatori, infermieri, custodi e volontari non si sono arresi: nel 2011 hanno infatti dato vita a un Laboratorio di Cucina per l’integrazione delle donne del centro, un’attività educativa e ricreativa che, negli anni, ha riscontrato notevole successo sia a livello personale e motivazionale delle donne rifugiate, sia a livello qualitativo dei piatti proposti; come succede nelle piccole realtà, la voce circola e il menu multietnico viene apprezzato da chi col tempo ne ha fruito, dapprima solo i vicini ma ben presto anche enti e aziende che hanno cominciato a chiedere il supporto del Centro per i propri eventi. Un successo, insomma, che da un anno a questa parte ha spronato la cooperativa sociale a giocarsi il tutto per tutto: creare una vera e propria attività imprenditoriale di rifornimento di cibi etnici completamente al femminile e chiamata, non a caso, M’AMA Food – Catering dal mondo. Sono 100 le donne che, con i rispettivi figli, partecipano annualmente a questo progetto, proponendo le ricette del proprio paese e reinterpretandole in chiave mediterranea: nascono così gustosissimi menu a base di crocchette di amaranto, sambousa, fataya, falaffel con crema allo yogurt, tempura di tofu, yalaci dolma, pinzimonio di verdure fresche con crema tzatzichi, riso rosso alla thailandese e curry di uova solo per gli antipasti, per passare ai primi di riso basmati con agnello dal Senegal, zighini con crema di lenticchie e verdure, mafè, ndolè, cuscus varii, yassa, dejè e koshari, senza dimenticare le bevande che, tra le altre, annoverano succo di baobab, spremute di frutta tropicale, ginger caldo o freddo, bissap e selezioni di thè, caffè e vini. Le pietanze così realizzate vanno a riempire i tavoli di battesimi, comunioni, cresime, matrimoni, cene, feste ed eventi aziendali che non solo propongono un giro del mondo in (ben più di) 80 piatti, ma che vanno anche a sostenere economicamente un progetto sociale di fondamentale importanza.

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foto di Roberto Morelli

M’AMA Food non è tuttavia l’unica proposta sociale che usa il cibo come mezzo di integrazione: nel Comune di Taino, in povincia di Varese, è infatti operativa dal 2005 la comunità alloggio La Casa di Taino che, come succede a Milano, ospita donne singole o madri con figli (questa volta anche italiane) che hanno subito situazioni di maltrattamento o abuso, vittime della tratta e provenienti da situazioni socio – economico – abitative di precarietà e deprivazione. A loro si rivolge il laboratorio Eurosia, attivato ancora una volta dalla società cooperativa sociale Farsi Prossimo Onlus con l’intento di osservare, aiutare e sostenere le donne nelle loro capacità genitoriali e lavorative: sono 30 le cuoche che, tramite il laboratorio, sfornano ogni giorno marmellate, vellutate, mousse, composte per dolci, salse e gelatine, cristalli di sale, biscotti e addirittura crostate. Come nel caso di M’AMA Food, anche Eurosia si è data l’obiettivo di creare una vera e propria attività imprenditoriale al fine di formare professionalmente le donne, arredare e attrezzare definitivamente il laboratorio, acquistare macchinari sempre più sofisticati e avviare un’attività remunerativa a tutti gli effetti. A noi non resta che augurare loro “Inshallah”!

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foto di Roberto Morelli

Costruire se stessi. Riflessioni sulle reti sociali a partire da Foucault

Facciamoci tentare da un’analogia. Lasciamo che siano i due termini accostati a chiarirsi l’uno con l’altro: da un lato la riflessione filosofica di Foucault, dall’altro le reti sociali e le comunità digitali. Cerchiamo di capire come il primo termine spieghi il secondo e, viceversa, come il secondo verifichi il primo. La posta in gioco filosofica è la costituzione del soggetto.

Foucault ha dedicato tutta la sua vita allo studio della genealogia del soggetto. Ha smascherato il falso protagonismo della nozione di “soggetto” rivelandoci come esso sia sempre un risultato, un divenuto e mai un punto di partenza, con buona pace degli esistenzialisti e degli umanisti. In principio non è il soggetto, ma il potere che lo plasma, che lo forma; sotto una maschera che portiamo per essere accettati dalla società e che, d’altro canto, la società ci impone di portare, non vi è nulla se non un “in fieri”.Il compito dello storico della soggettività è quindi quello di studiare archeologicamente i modi di costituzione del soggetto, siano essi imposti dall’esterno o auto-diretti. La riflessione di Foucault si snoda proprio attorno a questi temi.

Già ne La storia della follia nell’età classica (1961) si cerca di capire come il soggetto moderno abbia marcato il discrimine tra sé e il diverso, tra saggezza e follia, e di come questo gesto di reclusione abbia in fondo contribuito alla costituzione della normalità stessa. La ragione si è costituita a partire da una s-ragione, dalla déraison, attraverso una violenza fatta ai danni di chi, per convenzione storica, si è giudicato diverso. Il soggetto razionale illuminato si è potuto costituire, per Foucault, solo pagando un duro prezzo: il silenzio forzato della follia all’interno della zona d’ombra degli istituti per alienati mentali.

La forza assoggettante, ovvero la forza che impone, che istituisce e che costituisce in ultima analisi il soggetto socialmente accettabile, ha molteplici forme: dalla forza bruta che materialmente rinchiude, al sapere dello psichiatra che epistemologicamente in-forma la malattia mentale. In quest’ultimo caso, il dispositivo assoggettante non sarà la clinica, la prigione, ma il sapere che giustifica la clinica, il sapere che dà il potere di imprigionare.

Ne Le parole e le cose (1966), lo studio di Foucault si concentra attorno ai dispositivi discorsivi, alle teorie e alle scienze che hanno storicamente determinato il corso della costituzione del soggetto. Ogni epoca storica è caratterizzata dalla sua episteme, ovvero un retroterra pre-discorsivo, pre-scientifico che condiziona non solo la possibilità ma anche la struttura della scienza stessa.

Semplificando la tesi di Foucault, si è passati da una episteme del Medesimo, che ha segnato il corso del Rinascimento fino a circa la metà del secolo 17, a una episteme del Diverso, che ha condizionato l’avvento dell’epoca che definiamo moderna, segnata da nuove scienze quali la biologia, l’economia e la grammatica generale. Solo grazie e all’interno di questi nuovi dispositivi discorsivi è comparso il soggetto inteso come lo intendiamo oggi: “Prima della fine del 1700 (…) non esisteva la coscienza epistemologica dell’uomo in quanto tale”. Foucault chiosa il suo controverso saggio scrivendo:

L’uomo è un’invenzione di cui l’archeologia del nostro pensiero mostra agevolmente la data recente. E forse la fine prossima.

 

È a partire dagli anni ’80, forse risentendo del riflusso internazionale, politico e sociale, che la riflessione filosofica di Foucault cambia temi e linguaggio. Si passa dalla archeologia dei poteri assoggettanti alla storia delle tecniche di soggettivazione. L’obiettivo e l’attenzione critica risalgono dagli autori della modernità europea all’antichità classica: Foucault riscopre un soggetto tanto eterodiretto quanto, in un certo limite, capace di auto-formarsi.

Studiando gli esercizi mentali e spirituali delle scuole filosofiche ellenistiche (stoici, epicurei e cinici in primo luogo), si scopre un nuovo modo di intendere il soggetto: ancora una volta, non un punto di partenza ma un punto d’arrivo, un’obiettivo da conseguire a prezzo di faticose meditazioni, di lunghi studi filosofici guidati da un maestro di vita. Un soggetto non immediato, ma che si costituisce attraverso una ferrea disciplina dedicata alla cura di sé (epimeleia heautou, secondo la dizione antica).

L’obiettivo di queste scuole era appunto quello di riappropriarsi di sé stessi, meditando su se stessi per diventare autentici e autosufficienti: in sintesi, di formare un soggetto autentico, ovvero filosofico, capace di controllare le proprie passioni, e di privarsi del superfluo, a partire da un soggetto inautentico, ovvero quotidiano, perso nelle piccinerie della vita comune ed eterodiretto.

L’emergenza del soggetto avviene dunque per l’ultimo Foucault all’incrocio di due diversi poteri: un primo potere, quello della società, dei dispositivi esterni che determinano la formazione di un soggetto accettabile; un secondo potere che è quello del discorso filosofico, della pratica spirituale regolata e autonoma, volta alla produzione di un soggetto autentico, capace di agire “bene”, autosufficiente. Un potere esterno, il dispositivo, e un potere interno, diretto su noi stessi da noi stessi – l’enkrateia, come la chiamavano gli stoici.

Questo intreccio di poteri è quantomai attivo e presente anche nella formazione di un soggetto che ancora non esisteva al tempo di Foucault, ma che sta diventando importante quanto il soggetto “tradizionale” e materiale: il “soggetto digitale”. In verità si parla più spesso di “identità digitale”, formula che si può preferire a “soggetto digitale”, ma che non cambia la sostanza dell’argomentazione: come per il soggetto, anche l’identità è una nozione convenzionale, un artificio costituito tanto da poteri esterni quanto auto-prodotto; mai totalmente libero, né totalmente assoggettato.

Non siamo infatti liberi come soggetti digitali, checché se ne possa pensare. La rete non ci rende affatto liberi, né pensanti, come qualche apologo del web sembrerebbe indicarci. Tanto è vero che non siamo nemmeno liberi di non partecipare: ciò, più che un rifiuto sterile, significherebbe abdicare alla propria soggettività digitale, lasciarla alla mercé delle rete, non tanto sopprimerla.

La rete sociale non dà quindi libertà infinita: pone regole più o meno codificate proprio come la società materiale: dirette per quanto riguarda il comportamento del singolo “nodo”; e indirette, formando comportamenti e incoraggiando abitudini. In ogni rete sociale abbiamo norme e codici di comportamento che, se trasgrediti, portano al “blocco” del soggetto digitale, ovvero all’esclusione forzosa dalla società stessa.

Ciò che materialmente viene definito “manicomio” o “istituto penitenziario”, assume digitalmente la forma del blocco della propria soggettività digitale – o, in altre parole del sequestro coatto della propria identità. Prendiamo come esempio il caso di Facebook (non dissimile dalle norme di comportamento di Google+).

Addirittura le modalità e le cause dell’arresto ricordano quelle materiali: si va dalla violenza pura e semplice contro altri soggetti, all’autolesionismo (automutilazione, disturbo alimentare, uso di droghe pesanti); da atti di intimidazione e disturbo a scopo commerciale alla segnalazione (e al limite col blocco) per pubblicazione di materiali offensivi, che vanno dall’incitamento, all’odio razziale, fino alla pornografia. Interessante anche notare come non siano permessi, almeno in linea di principio, “falsi” soggetti: sono accettate solamente identità reali, in una rigida quanto utopica corrispondenza tra realtà e virtualità.

Così come il folle era denunciato all’autorità pubblica, che provvedeva a rinchiuderlo lontano dagli sguardi disturbati e dai cuori dolenti della comunità, la rete ripropone la stessa logica delatoria tipica delle società moderne, così ben delineata da Foucault: chiunque può “segnalare” altri soggetti digitali all’autorità competente, con potere assoluto di decisione circa il blocco del soggetto incriminato, sia stata trasgredita o meno una norma di comportamento del tutto convenzionale, sempre in nome della sicurezza della comunità.

Le reti sociali verificano, in ambito digitale, i meccanismi assoggettanti che Foucault ha descritto a livello materiale, e li ripetono su due livelli: internamente, ovvero tra i membri della stessa comunità digitale, in quanto i soggetti vengono dis-posti e “disciplinati” da parte di un potere più alto; ed esternamente, nella vita materiale, poiché possedere una soggettività digitale è diventato ormai requisito necessario per non restare esclusi da alcuni diritti (informazione e partecipazione sociale in primis).

Ma non è tutto qui: occorre anche analizzare l’aspetto autonomo della formazione del soggetto digitale. Le reti digitali sono una formidabile palestra di “cura di sé”, certamente non filosoficamente intesa; una “palestra di comunicazione”, si potrebbe chiamare. Il soggetto digitale, sebbene nei limiti di una normatività convenzionale, è libero di formarsi come meglio crede; può decidere cosa far vedere di sé e cosa no; può reinventarsi, seppur virtualmente.

Vediamo come il fenomeno delle reti sociali ripeta in chiave moderna la cura sui tipica delle culture ellenistiche, con un’unica, grande, differenza. Se per il soggetto ellenistico si trattava di costituirsi in un Sé autentico, di arrivare all’autarchia, all’atarassia – in breve, si trattava di formare un soggetto che trovava in sé il proprio centro – oggi si tratta piuttosto di costruire un soggetto digitale appetibile e “comunicativamente competitivo”, che trova negli altri il proprio centro, la propria ragione costitutiva.

L’enkrateia, il potere del soggetto diretto su se stesso, è nella maggior parte dei casi indirizzata al fine di costruire un’identità digitale che corrisponda al desiderio della comunità. Attraverso le reti sociali non costruiamo noi stessi, quelli che davvero siamo; non si tratta di un esercizio di autenticità – a pensarci bene, un nodo, seppur autentico, continua ad aver senso solo all’interno di una rete.

Si tratta piuttosto della costituzione di un soggetto che risponda al meglio ai requisiti della rete stessa: comunicativo, veloce, recettivo, collegato, adatto alla vita “in comune” tipica del mondo digitale; antitetico al modello ellenistico di “ritorno a se stessi”, immerso com’è nel paradigma dell’apertura totale, della trasparenza.

Si è cercato di far parlare l’analogia, notando come nelle reti sociali si ripetano i meccanismi di soggettivazione e assoggettamento descritti da Foucault: in primo luogo, per far parte di una rete sociale, occorre rispettare dei modelli comportamentali, accettando un potere che contribuisce alla formazione del soggetto digitale; in secondo luogo, quella parte di potere “privato” che possiamo esercitare su noi stessi viene per lo più impiegato nella formazione di un soggetto digitale che risponda alle richieste della comunità.

E soprattutto, l’esempio digitale conferma, quasi fosse una lente d’ingrandimento, quanto sostenuto da Foucault per il mondo materiale: non esiste nessun soggetto a priori, ma sempre e solo una costruzione in fieri, che possiamo solo parzialmente condurre da noi stessi. L’uomo (digitale) è un’invenzione recente.

Come tutti i francesi, a Foucault piaceva scandalizzare. Le sue posizioni divennero celebri in tutta Europa; divenne un maître à penser per i movimenti studenteschi, un alleato prezioso della contestazione, dedito alla denuncia dei poteri assoggettanti, delle violenze di un potere che non è pericoloso solo perché capace di annichilire il soggetto, quanto piuttosto di formarlo. Ma questa è storia nota.

Alla scoperta di: Muhammad Yunus

Lo chiamano «il banchiere dei poveri», ma è semplicemente un uomo che ha messo la sua professione a servizio degli altri, che in realtà è ciò che ognuno di noi dovrebbe fare con il suo lavoro e le sue competenze.

Muhammad Yunus è un economista e un professore universitario bengalese di economia.

A seguito di una forte inondazione, una grave carestia colpì nel 1974 il Bangladesh e Yunus, analizzando l’economia dei villaggi rurali colpiti, scoprì che la povertà di quelle persone non derivava dalla loro scarsa alfabetizzazione o dalla loro inattività, ma dal carente sostegno delle strutture finanziarie del paese. La difficoltà di accedere al prestito bancario a causa dell’inadeguatezza o della mancanza di garanzie reali o delle piccole dimensioni imprenditoriali, non consentiva a migliaia di famiglie di avviare e sviluppare le loro piccole imprese agricole, vitali per la loro sussistenza, senza finire nella rete dell’usura.

Yunus decise così di “sfruttare” l’economia per aiutare la popolazione bengalese: cominciò a prestare piccole somme di denaro (la prima fu di 27 dollari a un gruppo di donne che producevano mobili in bambù) alle famiglie e alle comunità rurali perché servissero ad attuare iniziative imprenditoriali. Era nato il microcredito moderno.

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La sua opera prese sempre più piede, fino a che nel 1976 Muhammad fondò la Grameen Bank, la prima banca mondiale in assoluto che concedeva prestiti alle persone bisognose sulla fiducia e non sulla solvibilità!

Il successo della Grameen Bank si estese presto in molti altri paesi, anche con economie solide e avanzate e il modello del microcredito viene applicato in più di 20 paesi in via di sviluppo, con attenzione soprattutto alle imprese femminili, che più frequentemente sono destinate al sostentamento di tutta la famiglia.

Lo scorso 5 Giugno Yunus è stato premiato anche dalla prestigiosa rivista Forbes, ecco il video della premiazione e del discorso: youtube.

Il riconoscimento internazionale più prestigioso è però arrivato nel 2006, quando Muhammad Yunus ha vinto il Premio Nobel per la Pace e ha avuto così l’opportunità di far conoscere a tutto il mondo la realtà bengalese e di tutti i paesi in via di sviluppo.

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Per ulteriori approfondimenti:

  • Yunus Muhammad, “Il banchiere dei poveri”, Feltrinelli, 2003.
  • Yunus Muhammad, “Un mondo senza povertà”, Feltrinelli, 2010.
  • Yunus Muhammad, “Si può fare! Come un business sociale può creare un capitalismo più umano”, Feltrinelli, 2012.

Perché “Un Uomo” della Fallaci è ancora attuale

«Ascoltami, cacasentenze! Chi non ha coglioni si rifugia sempre sotto l’ombrello dei motivi ideologici! Chi non ha fede si nasconde sempre dietro il paravento del raziocinio!»

(O. Fallaci, Un uomo)

Parole che appartengono ad Alexandros Panagulis, protagonista del romanzo di Oriana Fallaci, urlate di rimando all’ennesimo rifiuto, all’ennesimo diniego di fronte alla richiesta che caratterizzò la sua intera esistenza: l’azione. Capacità critica e azione. Azione, soprattutto, portata avanti in prima persona, iniziata con il mancato attentato a Georgios Papadopulos, il 13 agosto 1968, e terminata il Primo maggio 1976, quando la Primavera, soprannome della sua verde automobile, andò a schiantarsi contro il garage Texaco a causa di più tamponamenti provocati da altre due auto – incidente tutt’oggi dichiarato misterioso solamente dalle perizie greche.

Due attentati, dunque, a segnare quella che per molti, se non tutti, viene considerata una vita da eroe, rivoluzionario, anarchico sottomesso dagli eventi e dall’indifferenza, ma mai vinto o piegato alla rassegnazione. La prima parte del libro si snoda tra il filo troppo corto delle due bombe destinate al tiranno, alla cattura e all’interrogatorio portato avanti dall’Esa, la Sezione Investigativa Speciale della polizia militare, durante il quale Alekos fu sottoposto a infinite torture, fisiche e psicologiche, al fine di farlo confessare – ma dovettero cedere loro, non parlò mai – sino alla sua carcerazione, durata cinque anni, di cui gli ultimi tre in una cripta, una cella sotterranea con tanto di cipresso all’uscio, costruita conseguentemente ai suoi numerosi tentativi di evasione.

In questa prima parte la scrittura magistrale ed estremamente minuziosa della Fallaci assorbe il lettore, identifica gli ideali del pubblico con la lotta di Panagulis, con il costante bisogno di difendere la Libertà e di ricostituire la Democrazia nella Grecia degli ultimi anni Sessanta. Una lotta, in realtà, universale, trascendente i secoli e le nazionalità, che inizia con la prima famosa testimonianza di Socrate – sicuramente però non la più antica – una necessità radicata nell’uomo, quella libertà tanto cercata nelle poesie.

 

 

Dalla seconda parte del romanzo, la narrazione della straordinarietà del protagonista viene affiancata dalla sua umanità e quotidianità: è il momento dell’incontro tra Alexandros e Oriana, tra le loro passioni, tra due solitudini che, incontrandosi, si riconoscono. La Fallaci, inviata ad Atene per intervistarlo, entra nella vita di Panagulis nel 1973 e sino alla sua morte gli resterà a fianco:

«Io non voglio una donna con cui essere felice. Il mondo è pieno di donne con cui si può essere felici […] voglio una compagna. Una compagna che mi sia compagno, amico, complice, fratello. Sono un uomo in lotta. Lo sarò sempre».

L’ordinarietà dell’uomo, compagno di vita di Oriana, si fa largo tra le righe delle pagine, e ora di Alekos vengono narrate le avventure istrioniche, le sue violenze e i suoi eccessi, i sogni premonitori – sempre disseminati da pesci, simbolo di malaugurio –  e le sue passioni soprattutto, tra cui quella irrefrenabile per la tecnologia, allora rappresentata principalmente dal telefono, mezzo con il quale si teneva in contatto con il mondo. Dolcissima è la descrizione di lui che, insistentemente, le chiede quando andrà a fare l’inviata in Giappone, solo per poterla chiamare: là, purtroppo, non conosce ancora nessuno.

Le bizze da poeta, dunque, vengono descritte. Poeta e non eroe, così la Fallaci lo ricorderà sempre nelle numerose interviste che le fecero dopo la morte di lui, dichiarando che il suo eroismo era solo una diretta conseguenza del suo essere poeta.

Panagulis non era un agitatore di folle. Possedeva sì una tenace determinazione, ma di fronte alle distese di persone che incontrò durante i suoi comizi per la campagna elettorale, che lo vide poi entrare a pelo in Parlamento, fu introverso e poco incisivo. La sua natura era quella di un poeta ribelle,

 un individuo senza seguaci: non trascina le masse in piazza, però le prepara. Anche se non combina nulla di immediato e di pratico, egli muove le acque dello stagno che tace. […] Perfino una frase interrotta, un’impresa fallita, diventa un seme destinato a fiorire.

L’obiettivo di Un uomo è il proseguimento di questo scopo: lo smuovere delle acque, azione resa immortale dalla letteratura, resa indelebile come solo un’opera letteraria può fare. Per questo le critiche portate avanti dalla madre di Panagulis sul romanzo non furono e non sono accettabili; alla Fallaci non interessò mai creare una biografia, si limitò a riportare tramite inchiostro l’incisività di un uomo che dedicò la sua vita alla democrazia. Alekos si mosse per noi, Oriana scrisse per noi. Nel tentativo di poter smuovere negli anni a venire le coscienze dei più, in modo tale che, se la natura non ci concede le forze per poterci ribellare, almeno ci servano le sue parole a emergere dall’indifferenza.

Una visita a The Visitors

All’Hangar Bicocca giovedì 5 dicembre torna la mostra The Visitors di R.Kjartansson. Una grande installazione video: nove schermi proiettano in un unico piano sequenza le immagini di sette musicisti che suonano individualmente una canzone eseguendola per 64 minuti.

Avendo modo di visitarla mi sono ritrovata a pensare: la poesia esiste ancora? Sì. Ma forse nella nostra società multi-tutto la poesia non può essere costituita solo di versi, parole accuratamente selezionate in un universo. Ha bisogno di qualcosa di più. Ha bisogno dell’immagine e del suono. Non perché non sarebbe abbastanza ma perché ci siamo abituati bene, vogliamo il meglio, richiediamo quasi sempre opere totali.

In The Visitor accade proprio questo: la totalità di perfezione data dall’equilibrio tra parola musica e immagine. Ragnar Kjartansson parte da una poesia “Feminine Way” scritta dalla sua ex moglie:

A pink rose
In the glittery frost
A diamond heart
And the orange red fire

Once again I fall into
My feminine ways

You protect the world from me
As if I’m the only one who’s cruel
You’ve taken me
To the bitter end

Once again I fall into
 My feminine ways

There are stars exploding
And there is nothing you can do

Ásdís Sif Gunnarsdóttir

e la  visualizza, ambientandola in una residenza ottocentesca di Rokeby, nella quale riunisce una serie di amici. È molto fortunato perché tra di loro ci sono artisti nordeuropei di bravura indiscutibile come ad esempio Kjartan Sveinsson (ex Sigur Rós) e quindi dà al testo una colonna sonora straordinariamente emozionante.

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Lo spettatore all’inizio rimarrà disorientato, ma dopo pochi minuti verrà accolto in questa casa e, come girovagando da una stanza all’altra, dalla biblioteca al bagno (dove Kjartansson immerso nella vasca suona e canta) potrà godere delle singole interpretazioni del brano, per poi ricollocarsi al centro dello spazio buio per sentire e vedere l’opera nel suo complesso.

Scomposizione e ricomposizione sono alcuni dei temi che l’artista propone come spunti di riflessione, assieme al concetto di ripetizione: le parole e il motivo musicale della canzone sono ripetuti così tante volte che quando si esce dalla mostra si ha per le mani -o meglio nella testa- un dono di ringraziamento per essere passati a far visita: “oonce again.. fall intoooo, my feminine way”.

Non rimane che desiderare di entrare a scoprire cosa accade in questa sala dell’Hangar Bicocca, concedetevi un’ora per godere di pura poesia contemporanea, l’autore e la galleria ve ne offrono nuovamente la possibilità a partire dal 5 dicembre (repetita iuvant).

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Anatomia di un istante

Nella scena letteraria spagnola degli ultimi anni è in corso un grande ritorno di fiamma del romanzo storico. Nonostante la durissima crisi economica, o forse proprio in virtù di questa, gli scrittori spagnoli hanno cominciato a volgere lo sguardo verso il passato, a indagare le tappe della loro storia novecentesca, quasi a voler ripercorrere la strada che ha portato alla drammatica situazione attuale.
Pur con approcci diversi, scrittori come Almudena Grandes, Ildefonso Falcones, Javier Marìas, Carlos Ruiz Zafòn, Javier Cercas hanno ambientato i loro recenti romanzi durante la guerra civile spagnola, sotto il franchismo e nel momento del passaggio dalla dittatura alla democrazia, cercando di indagare l’animo della generazione dei loro padri, la generazione nata e cresciuta sotto il franchismo.
Punta di diamante di questa new wave del romanzo storico è proprio Javier Cercas, docente di letteratura spagnola presso l’Università di Gerona, saggista, romanziere e collaboratore di El Paìs. Raggiunto il successo mondiale nel 2001 con Soldati di Salamina, romanzo ambientato durante la guerra civile spagnola, Cercas è tornato a far parlare di se nel 2010, con la pubblicazione del romanzo/saggio Anatomia di un istante (Guanda, 2010).
Lo scrittore spagnolo questa volta ha messo la lente d’ingrandimento sul tentato golpe avvenuto in Spagna nel 1981. Il 23 febbraio di quell’anno infatti, in piena transizione dalla dittatura franchista alla democrazia parlamentare (Franco era morto nel 1975 e nei 6 anni successivi si erano succeduti una serie di governi centristi presieduti dal cattolico Suaréz, che faticosamente stavano riformando lo stato franchista), un drappello di soldati guidati dal colonnello Tejero entrava nel parlamento e, sparando in aria, dava il via ad un golpe preparato di comune accordo con le massime cariche militari. Il piano non andò in porto, a causa della disorganizzazione dell’esercito e soprattutto grazie all’opposizione del giovane Re Juan Carlos, e una grossa fetta dei militari fu arrestata nei giorni seguenti.
Partendo dalle immagini della sparatoria in parlamento che fecero il giro del mondo, Cercas ha costruito un’opera anomala, a metà tra il saggio storico, il romanzo e l’inchiesta giornalistica, che, come suggerisce il titolo, punta a operare un anatomia totale di quell’evento, esaminando il punto di vista di tutti i protagonisti della vicenda, sviscerando i diversi piani golpisti all’interno dell’esercito, le ambiguità dei parlamentari, la faziosità dei media, la passività delle masse e il ruolo preponderante del Caso.
Così facendo lo scrittore spagnolo fa emergere tutto il non-senso della Storia con la S maiuscola, descritta come una anarchica successione di eventi, di intenzioni di singoli individui e di coincidenze che procede senza alcuna direzione e senza nessuno schema e, alla cui ombra, anche i concetti di Bene e Male sfumano. Un libro dal rigore metodologico unico e dalla innegabile potenza persuasiva, al cui cospetto, molti saggi di storia contemporanei impallidiscono.
Anatomia di un istante è dunque uno dei lavori storici più interessanti e originali apparsi negli ultimi vent’anni, un libro che, inoltre, dimostra, ancora una volta, la vivacissima scena culturale e letteraria spagnola, capace di riflettere su se stessa e contemporaneamente di essere apprezzata all’estero senza risultare provinciale. Una vivacità culturale che, osservato dal deserto italiano contemporaneo, risulta molto invidiabile.

Una bella Rivoluzione

Storghè
Spaccare l’insonnia
a furia di carezze
[Pels]
Otto sono i modi di dire amore in greco antico. Otto sono i foglietti che compaiono in questo caldo pomeriggio di fine agosto su ogni panchina del parco di Porta Venezia. E otto sono i punti in cui Milano è stata colpita da questi piccoli A5 appiccicati con lo scotch. Otto foglietti per otto brevi componimenti poetici per le otto parole d’“amore” elleniche.
La coincidenza numerica con il numero otto però finisce qui.Il giorno è il 28 di agosto, i gradi sono 32, come i denti del sorriso aperto dell’autrice di questa isolata ma efficace performance poetica quando ci presentiamo. Lei è Francesca Pelosi, in arte Francesca Pels, poetessa che definire in erba sarebbe quantomeno azzardato.
All’attivo ha già un numero imprecisato di scritti brevi, un progetto che prevede una raccolta di novantadue componimenti, uno per ogni anno del novecento che non ha vissuto e la realizzazione di varie iniziative che promuovono la poesia di strada.
Appena terminato il primo anno di Lettere alla Statale di Milano Francesca, nel presentare i suoi progetti, è vigorosa e disordinata come un fiume in piena che sta per sfondare gli argini. E ancor più dei bellissimi scritti che pendono dalle panchine, colpisce questo suo continuo eruttare idee e progetti, lava e lapilli che rapiscono la fantasia e l’immaginazione dei suoi ascoltatori.
L’elenco delle prestazioni già compiute o in progetto è lungo.
Si parte da Trasporti poetici e subito, Pels finisce su Repubblica.it, sito da cui campeggiano le foto dei vari scritti appesi sulla linea gialla della metropolitana: «Finire su La Repubblica così, subito dopo la prima diffusione poetica, è stata una bella sorpresa» conferma la stessa autrice, che chiarisce subito uno dei punti fondanti del suo essere poetessa. «È stata per me come un’approvazione, il consenso a quanto avevo fatto e soprattutto la conferma dell’idea alla base del mio operare: non può esistere poesia senza uomo né uomo senza poesia».
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Si passa poi a parlare delle multe poetiche, che Francesca vorrebbe diffondere «per riflettere sul doppio senso –appunto– della parola “senso”: olfatto, udito, vista, i sensi toccati, contaminati dal traffico e il senso, come significato, riflessione sul senso civico di chi vive la città nella totale noncuranza degli altri e, in fin dei conti, di se stesso».
Tutta questa sua dinamicità Pels la mette anche nell’immaginare il suo futuro, da costruire interamente come poetessa, o almeno come artista. L’idea di «mangiare di quel che si scrive» è già stata scartata dalla sue ipotesi. O quantomeno è ben consapevole del fatto che se vorrà farlo non potrà realizzare i suoi sogni nella maniera classica, nello scrivere e trovare un editore che le assicurerà pubblicazioni nel corso degli anni.
Non per questo però si scoraggia, anzi, paradossalmente questa situazione la stimola e la esalta a salpare verso nuove mete e verso nuovi progetti. Parla della ricerca di nuovi mezzi per pubblicare la sua futura raccolta, parlando dell’idea di libro come di un concetto romantico, ma di difficile realizzazione e comunque superato. Intravede grandi possibilità nella poesia di strada, nell’idea di portare il bello alla portata di tutti, di infrangere le pareti della torre d’avorio dove spesso la cultura si rifugia e di farla invece camminare per la strada in mezzo a ignari passanti che altrimenti, chissà, non la incontrerebbero mai.
Prima di salutarci ci lascia con una frase che riassume il suo punto di vista: «Siccome un’opera non esiste se viene scritta ma non letta, penso che la poesia debba cercare di ritornare al passo coi tempi; rinnovarsi nei contenuti e nei contenitori, affinché nessuno possa più vagheggiare che la poesia è morta. Morta? È viva, non può essere altrimenti!».  Citando un suo professore, Francesca ripete spesso che «l’arte deve conformarsi al mondo, e non viceversa».  Con “arte” si spazia dalla fotografia alla lettura espressiva, passando per la poesia e il video; insomma, qui si parla di una forza più grande, superiore, si parla del Bello. E si sa, il bello, quando viene messo in circolo è una forza difficile da arrestare.
E allora chissà che in un paese e in una città in cui sembra che le brutture e l’apatia non debbano finire mai, otto pezzetti di carta, all’apparenza insignificante, non possano contribuire a essere l’inizio di una Rivoluzione. Una Rivoluzione gentile, niente nemici, niente lotte, niente odio. Solamente una forza messa in circolo da musica, colori, fotografie, scritti, canti, sorrisi, strette di mano, risate e chiacchiere con degli sconosciuti su una metro.
Una cosa semplice da realizzare e replicare, il Bello.
Aguzzare la vista e le orecchie: guardate sui muri, ascoltate le strade, lasciatevi incantare dalla bellezza di certe immagini, sorridete e chiacchierate con gente conosciuta un minuto prima.
La Rivoluzione del Bello è iniziata!

Lo spreco alimentare: altra colpevolezza dei Paesi Sviluppati

Nonostante sia il fallimento del mercato e delle politiche occidentali, oltre che una questione etica e sociale, lo spreco alimentare è un argomento sottostimato, se non addirittura ignorato. Per sensibilizzare l’opinione pubblica, il 2010 è stato nominato Anno europeo contro lo spreco alimentare, mentre il 2013 anno dello Spreco Zero.

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L’iniziativa, appoggiata e sostenuta dal Parlamento europeo, è stata promossa da Last Minute Market, spin off dell’Università di Bologna – fondato da Andrea Segrè, direttore del dipartimento di scienze e tecnologie agro-alimentari dell’ateneo bolognese  – che si prefigge come obiettivo il recupero sostenibile e solidale degli sprechi alimentari, ridistribuendo a onlus ed enti caritatevoli merci invendute sul limite della scadenza e pasti non consumati in mense pubbliche e private.

Nel corso del Vertice mondiale sull’alimentazione del 2009 indetto dalla FAO si stabilì di aumentare la produzione agricola del 70% entro il 2050 in modo da poter sfamare i 2,3 miliardi in più di persone. Sarebbe però sconsiderato puntare sull’agricoltura per risolvere il problema della fame senza trovare alcuna alternativa all’inefficienza della filiera agroalimentare. I dati FAO sulla disponibilità degli alimenti sottolineano, difatti, come la produzione agricola mondiale potrebbe nutrire abbondantemente 12 miliardi di esseri umani[1], il doppio della popolazione attuale.

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Gli sprechi sorgono numerosi in tutta la filiera, ma produzione e consumo sono gli anelli in cui lo spreco è maggiore.

Per quanto riguarda lo spreco dei campi, nel 2009 circa il 3% della produzione agricola è rimasta nei terreni, ovvero pressappoco 17.700.568 tonnellate di prodotto agricolo[2]
Le motivazioni dello scarto sono di tre diverse tipologie: estetiche, per le quali bisogna eliminare i prodotti brutti, per esempio rovinati dalla grandine; commerciali, che implicano il rifiuto di quei prodotti fuori pezzatura; e, infine, di mercato: se al contadino è liquidato un costo inferiore a quello della raccolta, a lui conviene lasciare marcire i frutti nei campi.

Ma che fine fanno questi scarti? La stragrande maggioranza è destinata alla distillazione per la produzione di alcol etilico, al compostaggio e biodegradazione, e all’alimentazione animale. Abbiamo dunque uno spreco nutrizionale degli alimenti in quanto il prodotto alimentare è destinato a un uso differente dall’alimentazione umana.

La situazione peggiora quando arriviamo all’ultimo anello della filiera: noi consumatori. Secondo i dati diffusi da ADOC, le famiglie italiane sprecano solitamente il 17% del prodotto ortofrutticolo acquistato e il 35% di latte, uova, carne e formaggi. Impressionante è, infine, sapere come il cibo che più frequentemente raggiunge intatto le spazzature italiane sia il pane: mentre una volta questo prodotto aveva una valenza sociale significativa, tempi in cui i nostri nonni lo riciclavano in zuppe e insalate, oggi pare non esista più il tabù del pane buttato.

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Complessivamente, in Italia, ogni anno si spreca cibo per un valore di 39 miliardi di euro, quasi il doppio del valore complessivo dell’Imu pagato nel 2012.[3] Come mai in un periodo di così forte crisi finanziaria ci si possono permettere tali negligenze? Alla base di questi sprechi ci sono numerose disattenzioni che portano il consumatore ad acquistare una quantità di prodotti superiore al necessario. In realtà queste noncuranze sono frutto di studiate strategie di commercio: quando il mercato è saturo, trova come unica soluzione di sopravvivenza quella di farci consumare il più possibile. Dunque lo spreco non è episodico, ma sistematico e si basa sulla diffusione dell’idea che il benessere si esprima a livello di quantità di consumo (invece che considerare la produzioni di rifiuti un indice di arretratezza). Il suo vero perno è il prezzo, in quanto deve essere sufficientemente basso perché il consumatore sia invogliato ad abusare del cibo e a sprecarlo senza rimorsi.

Trovare soluzioni per ridurre gli sprechi alimentari è dunque un dovere dei cittadini occidentali e, soprattutto, una problematica che non può più essere ignorata: entro il 2025 si prevede che il 50% della popolazione mondiale andrà ad abitare in aree urbane e ciò significherà una maggior distanza fisica e psicologica tra il produttore e il consumatore. L’attitudine allo sperpero deve essere combattuta con una maggior divulgazione di consapevolezza alimentare e biologica, con particolare riguardo a ciò che il consumatore può fare nel suo piccolo. L’«intelligenza biologica» – come ama definirla Segrè – deve aiutare il consumatore a scardinarsi dall’attuale sistema economico per riavvicinarlo a un’economia domestica e modernizzata, permettendo al consumatore di riappropriarsi del ruolo di individuo attivo della società.

Cosa iniziare a fare di concreto? Gas – Gruppi di Acquisto Solidale, che si basano sul principio della spesa etica.

[1] Il libro nero dello spreco in Italia: il cibo, a c. di A. Segrè e L. Falasconi, Milano, Edizioni Ambiente, 2011, p. 47.

[2] Ancora Il libro nero dello spreco in Italia, p. 59.

[3] Il cibo buttato vale due IMU, A.Gavazzi, «GENTE»,05/03/13.

Il teatro a scuola: la parola agli studenti del liceo “Amaldi” Intervista agli studenti del liceo “Amaldi” sul teatro a scuola

Anche quest’anno Pequod torna a parlare del laboratorio teatrale proposto agli studenti del liceo “Edoardo Amaldi” di Alzano Lombardo (BG). Nostalgia canaglia? No, anzi: «Bisogna puntare sempre più in alto, –   ci ricorda Enrica Manni, docente responsabile dell’attività – altrimenti muoiono i progetti e l’entusiasmo di portarli avanti».

E così negli ultimi giorni di scuola, nell’attesa delle vacanze e delle pagelle, un pullman carico di ragazzi parte per le Marche, destinazione Potenza Picena (MC), per allestire uno spettacolo nella splendida Villa Buonaccorsi, residenza nobiliare del XVIII secolo incorniciata da un giardino all’italiana che incanta con i giochi d’acqua e le siepi geometriche.

In TeatralIstanze i ragazzi, affiancati dal Teatro a Canone e dal Teatro Tascabile di Bergamo, hanno animato gli spazi della villa rivisitando i testi studiati in classe (dalle Operette morali a La trilogia della villeggiatura, passando per i classici latini) per parlare dell’abito come habitus/abitudine/identità e del Settecento, secolo di vezzi mondani ma anche di rivoluzioni culturali nate nei salotti letterari, tra una cioccolata e due chiacchiere.

 

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Questo non è che l’esito di un percorso che parte dal liceo bergamasco: ripercorriamolo con Elisabetta Fassi, Francesca Zanchi, Luca Bertoncini e Nadia Amrani, quattro ragazzi che hanno partecipato al laboratorio e allo spettacolo.

Cosa ne pensi di questo lavoro “su due fronti”, in parte svolto in aula e in parte con gli strumenti del teatro?

Elisabetta: «Le lezioni in aula e gli incontri di teatro hanno richiesto la capacità di mettersi in gioco e di collaborare».

Francesca: «L’ho trovato innovativo e personalmente mi è stato molto utile anche per interiorizzare e capire più a fondo argomenti che, se affrontati solo in classe, possono risultare noiosi».

 

Dall’aula scolastica alla scena, però, il passo è grande. Il teatro richiede una grande disponibilità: disponibilità all’ascolto di sé e degli altri, disponibilità a mettere in gioco le proprie emozioni e i propri pensieri, le possibilità del corpo.

Quali aspettative e perché no, paure, avevi al primo incontro del laboratorio? Nel tempo com’è cambiato il tuo approccio?

Elisabetta: «Ero molto agitata perché per me era tutto nuovo, ma capiti i ritmi di lavoro mi sono trovata a mio agio anche con gli attori del Teatro a Canone, con cui ho instaurato un bel rapporto».

Francesca: «Al primo incontro mi sentivo un po’ spaesata, ma poi la timidezza è svanita».

Luca: «Anche quest’anno i primi incontri sono stati “ingessati”, ma andando avanti ho acquisito più sicurezza e spontaneità».

Nadia: «Alla prima lezione mi sono sentita a disagio perché ognuno di noi era al centro dell’attenzione. Ho iniziato a rilassarmi il primo pomeriggio, quando il gruppo era ristretto ai soli interessati. Pian piano ho capito che gli attori che ci guidavano, in fondo, non sono rigidi come temevo».

E dall’aula magna alla villa marchigiana il cambiamento è stato radicale: le prove pre-spettacolo hanno trasformato la gita scolastica in occasione di formazione, grazie all’apporto significativo del Tascabile nella direzione delle scene, e di condivisione dei tempi di lavoro e di svago tra ragazzi e professionisti.

 

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La vostra è stata una gita insolita, ufficialmente uno ‘spettacolo in trasferta’: siete stati pure una ripresi da una troupe di professionisti! Cosa vi ha colpito di questo lavoro intensivo?

Elisabetta: «È stata una delle esperienze più belle che abbia mai vissuto! In quei giorni ci siamo sentiti parte di una compagnia teatrale, avevamo quasi la stessa agenda dei professionisti. I ritmi lavorativi che sostengono sono impegnativi, eppure hanno ritagliato del tempo per dialogare con noi e renderci più partecipi».

Francesca: «Semplicemente fantastico. Un’esperienza che rifarei e che consiglio a tutti. Credo che la trasferta abbia anche aiutato noi “piccoli attori” a essere più uniti. Le prove con “veri attori” delle volte sono state faticose, ma loro mi hanno fatta sentire a mio agio… sono rimasta affascinata da questi attori così pacati e pazienti nello spiegarci le cose; talvolta si scherzava».

Luca: «Certo la tensione non è stata poca… ma l’idea è stata quella di divertirsi affrontando seriamente l’impegno preso. Durante le prove ho notato che divisi in gruppi abbiamo lavorato in modo più efficiente. Mi ha colpito il modo di lavorare del TTB, in particolare la cura dei dettagli e di ogni piccolo movimento del corpo… comprese le dita delle mani».

Nadia: «Questa gita è stata una figata! Sembra banale, ma mi sono sentita una persona importante. E poi ho conosciuto gente nuova. Mentre attendevamo il segnale di inizio spettacolo, noi ragazzi eravamo agitatissimi. Ho iniziato a parlare anche con le persone che non conoscevo e insieme ci facevamo forza».

 

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Nei laboratori teatrali all’Amaldi sembra ripetersi un piccolo miracolo: il passaggio dall’istruzione alla comunicazione, che non significa autogestione dell’attività o rifiuto degli adulti-esperti, ma costruire insieme qualcosa che valorizzi l’esperienza scolastica, un progetto in cui alunni e insegnanti possano esprimere qualcosa in più del loro ruolo. Questo vale anche per chi sta dietro la cattedra: «Ho iniziato a vedere la professoressa con occhi diversi – dice Nadia – non era più la professoressa di italiano un po’ strana, ma anche un punto di riferimento al quale rivolgersi per qualsiasi problema».

 

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Dopo questa esperienza, cosa pensi possa offrire di più o di diverso fare teatro a scuola?

Elisabetta: «Grazie a questo laboratorio mi sono sentita apprezzata e non ho temuto il giudizio dei compagni. Il laboratorio teatrale credo possa aiutare gli studenti a scoprire potenzialità a volte inespresse e a superare la timidezza, a creare nuove amicizie, a rispettare una disciplina».

Francesca: «Credo che se uno studente, come me, sia di carattere timido, questa esperienza possa renderlo più estroverso e sicuro di sé. È anche un modo per scoprire un mondo spesso sconosciuto a noi giovani».

Luca: «Fare teatro a scuola credo offra nuove possibilità di aprirsi agli altri e in un certo senso di rilassarsi pur mantenendo alto il livello di concentrazione».

Nadia: «Con il laboratorio teatrale ho imparato che il liceo non è solo studio e libri, ma un’occasione di imparare cose nuove. Mi sono sentita più responsabile di quello che mi accade intorno e credo che questo sia molto più importante delle equazioni o deiPromessi Sposi».

Prima di lasciarli, stuzzichiamo Luca e Nadia, che avevano qualche remora sul laboratorio…

 

Allora, non siate timidi: diteci che apprezzate un po’ di più il teatro!

Luca: «Sicuramente rispetto a prima vedo il teatro in modo positivo, penso sia più interessante e intrigante».

Nadia: «Decisamente! Prima trovavo il teatro una “cosa per vecchi”, ma ora credo sia un’attività interessante anche per i giovani!»

Poesie di autostrade ed altro sull’autostop

Per uscire da Milano in direzione Bologna basta prendere la gialla fino a Rogoredo e poi con la navetta gratuita farsi portare all’Ikea di San Donato. Da lì bisogna camminare fino alla vicina entrata della tangenziale ed esporsi alla vista degli automobilisti. Si tenga presente che a un’automobile serve un po’ di spazio per fermarsi agevolmente.

Più difficile dirigersi verso Torino: metro rossa fino a QT8 e una decina di minuti di cammino costeggiando il parco Monte Stella. Da lì, solita storia: pollice alzato e cartello in bella mostra.

Per andare verso Genova conviene, da Famagosta, camminare verso nord paralleli al ponte da cui parte la A7 e piazzarsi o al semaforo o all’entrata del distributore di benzina.

Per abbandonare la città sforzesca e dirigersi verso il Veneto invece, occorre, dal capolinea della verde Cologno Nord, raggiungere il ponte che immette sulla Milano–Venezia e camminare per qualche minuto lungo l’erbetta che costeggia l’autostrada sino a raggiungere una piccola stazione di servizio. Una volta lì il gioco è fatto: «Scusi, vado verso Brescia, devo arrivare a Budapest in autostop e se riuscisse a lasciarmi qualche autogrill più in là, sarebbe più facile».

Viaggiare gratis quarant’anni dopo il tempo degli hippy è possibile e pare che i nostalgici, gli squattrinati e i cacciatori di avventure che alzano il dito siano ancora assai numerosi. Numerosi e organizzati, tanto da aver creato hitchwiki.org: una piattaforma virtuale ispirata a wikipedia (il nome stesso è una fusione dell’enciclopedia libera con il verbo inglese “to hitch-hike”, fare autostop. Il sito, di cui non esiste una versione in lingua italiana, oltre a suggerire i miglior posti dove mettersi a cercar passaggi, raccoglie consigli, testimonianze, norme di comportamento in caso di incontri ravvicinati con la polizia e in alcuni casi persino suggerimenti su dove trovare alloggio qualora la tappa in una data città dovesse rivelarsi più lunga del previsto. Si segnalano anche, quando non banali, gli accorgimenti rivolti a viaggiatrici solitarie, disabili in carrozzina e autostoppisti con cani o bambini.

Una delle più vive preoccupazioni legate a questa modalità di viaggio è quella della sicurezza. Presunte leggende metropolitane si sbizzarriscono nel dipingere ritratti di autostrade tempestate di pazzi omicidi e assetati di sesso. Esiste una letteratura in merito, così come casi più o meno celebri di tragici epiloghi (il più famoso è quello di Pippa Bacca, l’artista nipote di Piero Manzoni che nel 2008 è stata uccisa in Turchia durante la performance itinerante che la vedeva attraversare undici Paesi in abito da sposa).

Per quante se ne raccontino, non è possibile stabilire se surfare per stazioni di servizio sia più o meno pericoloso che prendere un aereo. Bisogna decidere a chi dare la propria fiducia e per quanto cinico e riduttivo possa sembrare questo concetto, non c’è molto altro da aggiungere: il bello e il brutto del viaggio in modalità beat generation è che si decide di affidarsi agli eventi e alle persone. Si sceglie di esporsi al mondo in una condizione di totale impotenza: trovarsi per puro caso al posto giusto nel momento giusto permette di apprezzare una chiacchierata con un trasportatore polacco a cavallo dei comodi sedili del suo camion, ma un simile fortuito incontro può avvenire dopo ore trascorse al freddo in una strada poco trafficata di una località sconosciuta. Un viaggio rilassato di qualche centinaia di km può concludersi in piena notte nell’ultima stazione di servizio prima dalla destinazione finale, il che significa che si devono perdere ore prima di trovare qualcuno che si fermi, accetti di dare un passaggio ed esca alla prima uscita facendo sì che si giunga davvero a destinazione.

C’è però nell’autostop un risvolto romantico che non può essere taciuto. Il bisogno di risparmiare due soldi non può essere il solo motivo che spinge centinaia di viaggiatori a cacciarsi in situazioni insolite e a farsi bollare come incoscienti: ci deve essere dell’altro. Forse quest’altro è la sensazione di vivere sentendo il tempo che passa senza poterlo in alcun modo gestire o dominare. Intraprendere un lungo viaggio a pollice alzato costringe a tuffarsi in un presente che diventa importantissimo. L’autostoppista può pensare all’arrivo ma non lo può vedere e di conseguenza si lega a quello che si trova davanti, l’unica certezza che può possedere: autostrade, stazioni di servizio, sudore, nuvole, inquinamento, monotonia.

Quando si arriva in posti come La Jonquera, prima città spagnola oltre la frontiera francese, località di pochi abitanti costruita soprattutto per gente di passaggio, con i suoi negozi di sigarette e di souvenir, con il campo da calcio e la signora che esce a far pisciare il cane in mezzo a paesaggi fatti di camion, si ha la sensazione di vivere con maggiore intensità la sete, il freddo, la gioia, la fame, il sonno.

Per parlare davvero di autostop bisognerebbe ascoltare l’abruzzese che vive a Roma e ha voglia di raccontare di sua sorella che suona l’arpa, o la gentile francese che da Montpellier va a Lione a trovare i genitori e lungo il tragitto ascolta musica trash a volume alto e fuma sigarette senza dire una parola; bisognerebbe scrivere di tutti i tasselli di viaggi di cui non rimangono che le testimonianze e dare voce a quelli che sono stati importantissimi attimi presenti e che ora aspettano solo di essere dimenticati come la polvere ai lati delle strade su cui già cammina un ennesimo anonimo in cerca di un passaggio.

Nella speranza che queste parole che puzzano di spiritualità new age non sembrino l’ultimo discorso di un radical chic che gioca a fare l’illuminato.

WHOSE THIS SONG? Un viaggio alla ricerca di una canzone

Chia e tazi pesen?/  Whose This Song? È un film (ma più di un film) della regista bulgara Adela Peeva uscito nel 2003, nel quale mi sono imbattuta esattamente un anno fa durante una lezione di Antropologia della musica. L’azione del film si svolge nei paesi della penisola balcanica: la continua “lotta” per l’appartenenza della canzone crea situazioni tragicomiche e drammatiche dovute a colpi di scena, metamorfosi della canzone e dalle emozioni dei partecipanti del film, guidati sempre da un sentimento identitario forte. Le trasformazioni che la canzone subisce in tutti i paesi lasciano quasi increduli: dalle piccole varianti testuali allo stravolgimento totale del significato e del contesto in cui viene utilizzata.

 

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La regista parte dalla Turchia, dove incontra la canzone in due ambiti completamente differenti: scopre essere una canzone-simbolo della Turchia che narra di un impiegato (clerk) molto amato dalle donne. Il titolo della canzone è Uskudara  e si riferisce alla città di Uskudar  (=corriere, usata dai corrieri asiatici come stazione di posta). In seguito, durante una commemorazione della presa di Costantinopoli, Peeva sente la “sua” canzone: è diventata una marcia militare intimidatoria, un inno dei giannizzeri ottomani per presa della città nel 1453.

Spostandosi in Grecia, nella città di Mitilene, sull’isola di Lesbo, incontra la star e icona nazionale Glikeria. Ascolta la canzone durante un suo concerto (nota che il testo è cambiato):  Apo kseno topo ki ap alaryino [Da una lontana terra straniera], è ricollegabile alla melodia di Uskudara. Un secondo testo popolare greco, cantato sulla stessa melodia, s’intitola Ehasa mantili [Ho perso il mio fazzoletto] e riassume in se diverse caratteristiche di entrambi i testi (quello turco e quello greco Apo kseno).

In Albania, a Korçe, la melodia era conosciuta come una canzone d’amore lirica: Ruse kose, curo, imaŝ [Che capelli biondi hai, ragazza]. Proprio in questa città Peeva incontra ed intervista Theresa Kreshova, una cantante di teatro, che da vent’anni canta questa canzone, nei teatri albanesi (tra cui l’opera di Tirana).

Anche in Bosnia la canzone esiste come elogio d’amore; canzone urbana con diversi testi a sfondo romantico, Guardami, ragazza dell’Anatolia, e come inno sacro delle comunità musulmane bosniache (viene intervistato il direttore del coro della comunità di Sarajevo).

 

Emina Zecaj – cantante

 

A Skopje la regista si reca da Baba Erol, uno degli esponenti della comunità dei dervisci della città; ella gli fa ascoltare la versione islamica precedentemente registrata in Bosnia. Spiega che si tratta di una canzone della jihad, che loro hanno usato a favore dell’ islamizzazione, inserendo un nuovo testo alla canzone molto popolare già esistente.

 

Il motivo della canzone venne reso ancora più noto grazie alla colonna sonora di un film jugoslavo del 1953, Ciganka (Ragazza zingara) di Vojislav Nanovic. In Serbia, la presenza dello spirito zingaro è molto presente e sentita, ma per capirlo a fondo occorre assistere alle celebrazioni del giorno di san Giorgio. Nell’anno del viaggio di Adela Peeva, la festività coincideva con la Pasqua ortodossa. Colpisce molto l’intervista che la regista fa ad un prete ortodosso della zona: «Si tende a “gitanizzare” tutto, e a dire che tutto ha avuto origine con gitani. È il giorno di san Giorgio oggi, come lo chiamano gli zingari nella loro lingua? Non esiste, anche loro lo chiamano “il giorno di san Giorgio”. Gli zingari dell’Iran o dell’Iraq celebrano il giorno di san Giorgio? Come possono celebrarlo quando lì sono tutti musulmani? Questo è un terribile equivoco. Si ricorre sempre più spesso alla “gitanizzazione” totale.

Infine Adela Peeva torna nella sua patria, la Bulgaria dove scopre, grazie al suo amico Sliven, un armatore, che la canzone viene cantata nella zona di Petrova niva (nella regione della Strandja, vicina al confine turco), durante una festa nazionale per rendere omaggio agli “eroi che si imposero alle leggi dell’impero ottomano”. Prende il titolo di Una Luna chiara sta crescendo ed è l’inno, un’icona e una reliquia degli insurrezionalisti bulgari di questa regione montana.

 

 

Intervista’l’musicista: Il Ramones che suonava il corno francese

Dalla valle più rock della bergamasca, si racconta  Alessandro Piazzalunga (per gli amici Gito). Classe 1983,  sguazza tra punk-rock, balkan music, jazz e con il pezzo di musica classica giusto gli scende la lacrimuccia. Eccovi l’intervista.
Consiglio per la lettura: sedetevi comodi e concedetevi un bel calice di vino rosso mentre ascoltate i suoi consigli musicali.
Ciao Gito, innanzitutto quale/i strumento/i suoni?
Suono la batteria da quattordici anni e in generale adoro le percussioni, tant’è che mi sono costruito un cajon con il quale ho avuto modo di fare alcune esperienze anche in teatro.
Mi piacerebbe imparare il tapan, usato nella musica di area balcanica e le tablas. Il mio primo amore però è stato per il corno francese, avevo dieci anni. Da qualche tempo ho smesso di suonarlo ma un giorno riprenderò, sai cosa si dice del primo amore.

Quale è stato il tuo percorso musicale?  Parlami delle tue origini da musicista, delle musicassette che hai consumato, la prima band che hai avuto.
Come ti dicevo, ho iniziato da piccolo ad approcciarmi alla musica con il corno francese, grazie a mio padre che un bel giorno mi ha portato alla banda del paese e da lì ho fatto le mie prime esperienze musicali.
Arrivati i diciassette anni, con alcuni amici abbiamo messo su un gruppo musicale, i Cheers, e la mia scelta è finita sulla batteria. Ho studiato tre anni da autodidatta cercando di imitare tutta la musica che ascoltavo: dal punk-rock italiano e di oltreoceano fino all’heavy metal, dai Nirvana ai Led Zeppelin, Doors, Deep Purple, Ac-Dc, Guns n’ Roses e decine di altri gruppi.
Ho sempre avuto una grande passione per molti generi musicali, dalla classica al blues, dal reggae al jazz alla musica balcanica, più recentemente. Attualmente suono nei Cornoltis dal 2007 (punk-rock indipendente), nella Caravan Orkestar  dal 2005 (musica balcanica/klezmer) e da tre anni con un quartetto jazz, di cui sono molto fiero.
Caravan Orkestar
Ricordo che hai anche suonato nella banda degli alpini, parlami di quell’esperienza.
Si, è stato durante il servizio militare. Ho approfittato dell’obbligo di leva per suonare nella banda militare. Ero a Udine e devo dire che è stata una bella esperienza perché anche in quell’occasione ho girato parecchio per l’Italia e all’estero. Erano giornate di musica, vino rosso, regole da rispettare (a volte del cazzo), ma mi divertivo.
Da bandista, mi sapresti dire cosa è significato per te crescere musicalmente (e non) in una banda?
E’ un momento formativo di una certa importanza per chi suona, come in generale lo è suonare da subito con altre persone, non importa in quale formazione. Nel mio caso addirittura ci suonavano due miei zii, metà del paese e dei ragazzi che con me facevano le scuole elementari. A volte la banda diventa una seconda casa, perlomeno quando suoni e ti diverti.
Un aneddoto, ma più che altro una ricorrenza, erano le partite a briscola chiamata o “briscolone” (che sono la stessa cosa), il venerdì sera dopo le prove: giocare a carte con  persone più anziane di te è comunque sentirsi a casa.
Cornoltis
Sai bene quindi che nelle bande capita spesso di passare da essere allievo a insegnante in un arco di tempo abbastanza breve. Quale è stata la tua esperienza: quando si insegna a suonare uno strumento musicale quali sono le cose più importanti da trasmettere?
La bellezza della musica, del suo linguaggio e dello strumento specifico nel suo contesto, ma anche la pazienza  e la necessità di uno studio costante dello strumento. Ma non solo! È importante fare esperienze musicali di tutti i tipi: dall’ascoltare i concerti al cercare di capire cosa ti sta dicendo ciò che stai ascoltando. Il resto secondo me arriva, basta non avere fretta.
Uno strumento musicale che avresti voluto imparare a suonare, il tuo “rimpianto musicale”?
Il pianoforte: credo trasmetta una sorta di serenità d’animo.
Lasciami un pensiero musicale per salutare i nostri lettori.
Ognuno vive la musica alla sua maniera.  Io cerco di viverla con tutto me stesso quando suono ma non solo: anche nella vita di tutti i giorni. Perché sento che è una cosa che mi fa stare bene, ed è una fortuna che auguro a tutti.
Un consiglio d’ascolto per i nostri lettori?
Ve ne lascio due, come la mia doppia personalità:

Pequod On Air. La pista ciclabile non è una corsia di sorpasso: la parola ai ciclisti

Oggi a Milano, in pieno centro, si è svolta una pacifica manifestazione dal nome embletico: “La pista ciclabile non è una corsia di sorpasso”. Noi di Pequod abbiamo intervistato uno degli organizzatori, Luca Boniardi, per saperne di più.

 

Chi è Luca Boniardi?

Non sono altro che un ragazzo che va in bici, faccio attivismo e credo che la bici sia un mezzo che fa migliora la qualità della vita. Da quando giro per Milano condivido questa passione con molte persone, specialmente da tre o quattro anni.

Da cosa nasce la manifestazione di oggi?

Nasce sicuramente da un’esigenza: manifestare il proprio sdegno contro dei comportamenti pericolosi, che danneggiano i ciclisti, specialmente da parte di chi guida i ciclomotori nella pista ciclabile interna, che è stata progettata male, infatti corsia per le bici non è protetta ed è soggetta a continui passaggi di motorini, tassisti che si fermano, camion che scaricano. Siamo partiti alle 8.15 dalle Colonne di San Lorenzo, con l’intendo di permettere a chi lavora e studia di percorre la pista in sicurezza. Ci siamo messi in fila due o tre per volta con le nostre bici, cercando di occupare più pista ciclabile possibile per non farla usare dai motorini. È durata poco più mezzora ed eravamo una cinquanta a sfilare con calma, pacificamente, con anche dei palloncini a forma di cuore. Sono molto soddisfatto.

 

Cosa ne pensi delle piste ciclabili, servono oppure no?

Sono uno strumento molto utile, ma sarebbe più importante che l’automobilista abbia più coscienza della presenza dei ciclisti e dei loro diritti. Già all’estero ci sono numerosi esempi di città dove auto, ciclisti e pedoni convivono pacificamente: Amsterdam, Copenaghen, ma anche Parigi e Madrid, che stanno attuando politiche a favore di un’idea di mobilità alternativa.

La pista ciclabile interna credi sia utile o pericolosa?

Sembra sia stata fatta e metà dall’amministrazione dalla Moratti, fatta in fretta e furia prima delle elezioni, come contentino. Il risultato è che è rimasta lì: una pista ciclabile utile, ma pericolosa, in uno degli snodi della città che ha visto crescere il flusso dei motorini, che di fatto invadono spesso lo spazio per i ciclisti. I motorini sono più pericolosi e nocivi delle bici, e da quando c’è l’Area C il loro numero è aumentato, inoltre li si trova sui marciapiedi o sulla corsia della pista ciclabile. Vedo tante persone in bici che sono persone normali, come donne di tutte l’età, anziani e ragazzi, che si trovano il motorino davanti e devono zigzagare tra i ciclomotori e le macchine.

Hai già partecipato ad altre iniziative?

Certo! Spesso alla Critical Mass, alle ciclofficine milanesi e all’iniziativa “In bici a scuola”, che è un’iniziativa molto bella, nata dall’esigenza di genitori e bambini di usare in sicurezza le strade, cosa che la realtà di Milano tutt’ora non permette. Milano è una delle città dove ci sono più incidenti stradali in Italia.

Cosa ne pensi dell’operato dell’amministrazione in merito ai progetti di mobilità alternativa?

Dopo sessant’anni di cultura prevalente dell’automobilista, si è raggiunto un livello di arroganza molto alta da parte di molti, ma l’amministrazione di Giuliano Pisapia ha introdotto elementi positivi: piste ciclabili, bike sharing, verranno introdotte nel 2015 le zone trenta (quartieri nei quali verrà ridotta la carreggiata, saranno inserite le piste ciclabili, avvallamenti per ridurre la velocità, limite sarà di 30 km). Cose interessanti come inizio.

Cosa deve evitare di fare il ciclista?

Cerchiamo di evitare conflitti, dopo quella successo domenica. Il ciclista deve sempre mantenere la calma, perché siamo in una posizione non facile, in quanto facciamo parte di una categoria debole: riceviamo costantemente soprusi.

Per esempio?

Ultimamente sulla pista mi sono trovato spalla a spalla con un motorino che ha rischiato di farmi cadere, invece il mio amico che era davanti a me è stato meno fortunato ed è caduto per terra, dopo essere stato toccato. Chi invece è sulle macchine spesso apre le portiere senza guardare e mi è capitato di finirci contro.

 

C’è il Codice Della Strada, che dovrebbe tutelarvi.

Il codice della strada attuale è fatto su misura per una mobilità che prevede l’uso di macchine, ma non considera molto le esigenze di noi ciclisti. In parlamento in questi giorni si dibatte sul nuovo Codice Della Strada e si discute se permettere alle bici di andare contromano, ma l’orientamento del governo, espresso dal ministro Lupi, è quello di vietare in tutti modi alle bici di andare contromano, quindi di limitare un mezzo che fa della libertà del movimento la sua forza. Bisogna inoltre ricordare che non siamo l’unica categoria poco tutelata: ci sono anche i pedoni che sono ancora più deboli e dobbiamo stare attenti a rispettare anche loro, se no succede che tutti i mezzi di informazione, nel caso di un incidente, ci vengano contro e sensazionalizzino l’accaduto. Purtroppo l’idea dominante è quella di una mobilità con al centro l’esigenze degli automobilisti, idea portata avanti dalla stragrande maggioranza dei giornali.

A proposito di incidenti e di pedoni, qualche giorno fa una donna di 88 anni è morta investita da un ciclista. Il sindaco ha fatto un appello ai ciclisti, invitandoli a rispettare le regole, ed anche l’assessore alla mobilità si è espresso in tal senso.

Le parole di Pisapia e Maran, dopo la recente tragedia, potevano essere pensate meglio, perché ci si dimentica che anche i ciclisti sono tra le prime vittime della strada.

Previsoni sul futuro?

Si sta imponendo un cambiamento nelle infrastrutture e nelle norme della strada: si fanno piste ciclabili, aumenta la sicurezza… Speriamo che prima o poi arrivi anche un cambiamento culturale. Noi attivisti stiamo lavorando per aumentare la consapevolezza e il rispetto per le utenze più deboli, ma per andare avanti, ci sarà bisogno di questa amministrazione per altri 5 anni e sarà determinante il ruolo dei vigili urbani.