Skip to main content

Mese: Novembre 2014

La carne rossa è cancerogena? Un’indagine tra nuovi studi e conoscenze assodate

Amanti del fast-food e del barbecue, fatevene una ragione: se il medico vi ha già messo in guardia dal rischio di mettere qualche chilo di troppo, studi recenti ribadiscono che un eccessivo consumo di carne rossa aumenta il rischio di ammalarsi di alcuni tumori, soprattutto di tumori dell’apparato gastro-intestinale e di cancro al seno.

A confermarlo sono ricerche autorevoli come EPIC  (European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition), la più vasta indagine mai intrapresa sui rapporti tra dieta e stili di vita con l’insorgenza di malattie croniche, condotta tra più di 500.000 persone provenienti da 10 Paesi europei. Tra le proteine animali, infatti, quelle provenienti dalla carne rossa contengono il ferro del gruppo eme, che stimola la produzione di composti cancerogenei (nitrosamine) e l’infiammazione delle pareti intestinali. Se a questo aggiungiamo l’incidenza dei grassi saturi, che aumentano i livelli di colesterolo e insulina, e delle lavorazioni della carne, che rendono salumi e insaccati particolarmente dannosi, si comprende come un consumo massiccio di carne rossa sia legato allo sviluppo del cancro al colon-retto, il terzo tumore più frequente secondo l’AIRC.

Per lo stesso motivo può aumentare il rischio di carcinoma mammario: alti livelli di ormoni sessuali nel sangue, di insulina e del fattore di crescita Igf-1 favoriscono la moltiplicazione delle cellule tumorali. Lo sapeva bene il professor Franco Berrino, oncologo dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, quando negli anni ‘90 avviò il primo Progetto DIANA  e osservò i benefici di una dieta mediterranea povera di zuccheri e proteine animali su donne ad alto rischio di recidiva per tumore al seno.

Cascina Rosa, dove il professor Berrino ha avviato il progetto DIANA e un programma di cucina e alimentazione per la prevenzione del cancro e delle malattie croniche

La prevenzione inizia a tavola quindi, attraverso una dieta ricca di cereali integrali, legumi e soprattutto vegetali, poverissimi di grassi e ricchi di antiossidanti e fibre, preziose perché riducono il tempo di transito di eventuali agenti cancerogeni presenti negli alimenti e la loro proliferazione nell’organismo. Ad esempio, consumarne almeno 5 porzioni al giorno eviterebbe addirittura nel 66-75% dei casi un tumore del colon e del retto e nel 33-50% un cancro al seno.

Per gli italiani variare frutta e verdura non è difficile, data la loro abbondanza nei nostri mercati, tant’è che l’Italia è al primo posto per numero di vegetariani in Europa, distinti tra coloro che non mangiano carne, pesce, crostacei e molluschi (latto-ovo vegetariani); né uova (latto-vegetariani); né latte o formaggi, permettendo solo il consumo di vegetali (vegani) e in alcuni casi esclusivamente vegetali crudi o frutti (crudisti e fruttisti).

In generale, la dieta vegetariana apporta dei vantaggi per la prevenzione del cancro, ma non rappresenta una scelta obbligata: è stato più volte osservato che i vegetariani sono “più sani” non in quanto tali, ma per il loro stile di vita, tendenzialmente più salubre per quanto riguarda fumo, alcol ed esercizio fisico. A dire il vero, poi, anche questi regimi alimentari possono rivelarsi sbilanciati, per un consumo eccessivo di latticini o per carenze di vitamina B12 e ferro, situazioni a cui i ricercatori della Medical University di Graz (Austria) riconducono un’esposizione maggiore a malattie croniche, allergie e depressione e addirittura agli attacchi di cuore e al cancro.

I conti non tornano: non era la carne rossa l’alimento ad alto rischio per il cancro? Ma allora tutto ciò che mangiamo fa male? Se riunissimo tutti gli studi condotti sugli ingredienti della cucina italiana, probabilmente scopriremmo quello che i ricercatori Schoenfeld e Ioannidis [link dello studio] hanno concluso per gli USA: per l’80% degli ingredienti esiste almeno uno studio che esamina il rischio di cancro o un effetto protettivo associato al suo consumo, ma le prove risultano scarse e deboli. I dubbi semmai riguardano l’attendibilità della ricerca e della divulgazione scientifica. In campo medico gli studi privi di evidenze sperimentali e propagandati da media a caccia di scandali non fanno che alimentare la noncuranza o l’allarmismo nei lettori, prestandosi a fraintendimenti.

Un esempio italiano. Il 7 maggio scorso il programma tv Le Iene ha raccontato la storia di un signore guarito dal tumore al cervello dopo aver scelto una dieta vegana, dimostrando che è possibile curare del cancro con l’adozione di una dieta priva di proteine animali. Salvo poi, nella puntata successiva, ridimensionare le dichiarazioni e sottolineare che l’uomo è guarito soprattutto grazie alla radioterapia. Le polemiche sono ancora sul web (a differenza della puntata incriminata), ma risaliamo alla fonte della quella tesi, il libro The China Study, pubblicizzato come “lo studio più completo sull’alimentazione mai condotto” ma non condiviso dal mondo scientifico ufficiale [vai alla pubblicazione]. T. Colin Campbell ha condotto il sondaggio epidemiologico nella Cina rurale degli anni ’70-’80, una realtà superata quanto le sue argomentazioni – ad esempio la nocività della caseina, oggi nota come fattore protettivo.

In sintesi, la diminuzione dei rischi di malattie cardiovascolari e cancro tra i vegetariani è più in generale legato al colesterolo basso e all’assunzione di più antiossidanti. Probabilmente è il maggior consumo di frutta e verdura e non l’esclusione della carne a rendere i vegetariani più sani e protetti. Per questo motivo il World Cancer Research Fund, nell’autorevole rapporto Food, nutrition, physical activity and the prevention of cancer: a global perspective [vai al link] (2007), non esclude ma raccomanda un consumo di carne rossa cotta non superiore ai 500 gr alla settimana, alternato a pesce, pollame e all’accoppiamento cereali–legumi. Per cambiare la lista della spesa dobbiamo abituarci a gusti più semplici. Certo non sarà facile come avere il professor Berrino a fianco al supermercato, ma ogni tentativo è un guadagno per la nostra salute.

C’era una volta la lega (e c’è ancora): la guerra dei simboli ad Alzano Lombardo.

Il giorno del solstizio d’estate, 21 giugno, il più lungo dell’anno, si sa, è una data significativa nel calendario celtico: la notte delle streghe, i falò accesi per propiziare i raccolti, i rami di vischio raccolti dai Druidi. Insomma, a questa ricorrenza si lega una serie di riti magici e simbologie radicati nelle millenarie tradizioni dei popoli celtici. Anche nel 2014 gli eredi di questa tradizione, ramo padano, non hanno mancato di celebrare questo momento topico. E ben ci voleva un’azione eclatante per far tornare a risplendere i raggi del Sole delle Alpi che, dopo l’evento straordinario di qualche settimana prima, sembravano essersi leggermente offuscati!

Il terremoto elettorale avvenuto il 25 maggio ad Alzano Lombardo, provincia di Bergamo, ha inferto un duro colpo alla compagine leghista, presentatasi a supporto della lista civica Movimento civico X Alzano. Nella roccaforte seriana la Lega infatti era ininterrottamente al potere da un ventennio, durante il quale ha disseminato tracce e segni più o meno velati del suo passaggio.

Innanzitutto facciamo un po’ di chiarezza riguardo al repertorio dei simboli diventati oggetto di contesa.

Tra questi si annovera anzitutto il Sole delle Alpi, figura stilizzata a sei raggi diffusa anticamente tra le popolazioni celtiche, specie dell’arco alpino, che è stata assurta a marchio di fabbrica della Padania, ma che campeggia anche in stemmi istituzionali come quello della Provincia di Lecco. Tra i vari significati attribuiti, questa raggiera  assume, in particolare, quello di sol invictus, sole trionfante, sole che vince le tenebre e giunge al culmine della sua potenza in un momento preciso, non a caso quello del solstizio d’estate.

Disegnato da cespugli e fiori in una rotonda del paese, si trattava di un indizio subliminale, di cui la maggioranza della popolazione alzanese non era a conoscenza in quanto poco visibile a livello della strada. Venne svelato dal satellite di Google maps e portato agli onori della cronaca da La Repubblica – Milano online che, nel 2011 ha fatto circolare sui social network le immagini satellitari di questo simbolo che aveva creato scalpore l’anno prima per la vicenda della scuola di Adro (BS).

foto 1
L’aiulo con la forma del “Sole delle Alpi”

 

Il Sole delle Alpi, dunque, ma non solo. La giunta leghista, durante il suo quadruplice mandato aveva orgogliosamente issato, tra il gonfalone del comune di Alzano, la rosa camuna della Regione Lombardia, il tricolore italiano, e la stellata bandiera europea, anche il vessillo storico della Lombardia. Si tratta della croce di S. Giorgio: una croce rossa su un fondo bianco, come quella della bandiera inglese. Fu la bandiera sotto la quale si riunirono le città lombarde riunite nella Lega Lombarda nel XII secolo nella lotta per la libertà contro l’oppressione dell’autorità imperiale di Federico Barbarossa, la croce era il simbolo dell’appartenenza alla parte guelfa di tali città.

La croce di S. Giorgio divenne anche simbolo del Ducato di Milano, presente ancora oggi nello stemma del Comune e della provincia di Milano, nonché nei gagliardetti delle due squadre cittadine, Milan e Inter (quest’ultima ne ha fatto addirittura la seconda maglia qualche stagione fa).

Questa antica bandiera era evidentemente ritenuta significativa per le radici della comunità cittadina alzanese, in quanto la sua esposizione era sancita perentoriamente dallo statuto comunale.  Sorge, però, spontanea un’osservazione storica: il comune di Alzano, come Bergamo, ha subito dal 1428 al 1797 la dominazione della Repubblica Veneta, che estendeva i suoi confini fino al fiume Adda, al di là del quale iniziava la giurisdizione del ducato milanese. A voler ben guardare, sarebbe stato più opportuno che a sventolare sul municipio fosse stato, piuttosto che la croce di S. Giorgio del Ducato di Milano, il Leone di S. Marco della Serenissima Repubblica di Venezia.

foto 3
Adesivi con la croce di San Giorgio

 

Ma veniamo ai fatti. Mentre non si erano ancora spenti i festeggiamenti elettorali, la parte vittoriosa non ha esitato a smantellare il retaggio della giunta precedente: l’aiuola nel giro di pochi giorni ha visto trasformare il Sole delle Alpi in tre cerchi concentrici di colore bianco rosso e verde e alcuni simpatizzanti hanno ammainato la bandiera storica lombarda. Le reazioni della Lega paesana non si sono fatte attendere. Per l’aiuola, solo qualche scaramuccia su facebook; per la bandiera le cose si sono fatte più complicate. Dopo averne intimato il ripristino, è stata inviata una lettera al prefetto per il mancato rispetto di una regola dello statuto. Ma ciò non ha sortito alcun effetto.  Si è pensato quindi ad un gesto eclatante, una protesta per rivendicare  orgogliosamente le radici culturali della comunità.

E così arriviamo alla notte del solstizio. La mattina del 21 giugno, sabato, la popolazione alzanese si è svegliata col dubbio che nella notte fosse passata per le vie cittadine una banda di Hooligans: bandiere bianche con la croce rossa tappezzavano tutto il paese, gli edifici pubblici e privati e persino i cartelli stradali. No, gli alzanesi si sbagliavano. Non si trattava degli Hooligans ma degli eredi dei Celti. Una folla numerosa infatti si è diretta in mattinata presso il municipio e ha issato nuovamente la bandiera al posto che le spettava da statuto. All’ art. 1 comma 7 lo statuto afferma: Resteranno esposte all’esterno della delegazione comunale la bandiera della Comunità Europea, la bandiera nazionale e la bandiera storica lombarda raffigurante la croce di S. Giorgio. Il nuovo sindaco non ha  dunque potuto nulla.

foto 5

foto 4

 

Il resto è cronaca dei giorni scorsi: la questione della bandiera era ormai diventata un punto d’onore per la maggioranza, che, durante l’estate, ha deciso di risolvere la questione alla radice e di modificare lo statuto, rifacendosi all’art. 32 del protocollo di Stato che afferma: Sugli edifici pubblici possono essere esposte esclusivamente la bandiera nazionale e quella europea, nonché quelle dei rispettivi Enti territoriali o locali.

Gli animi tuttavia non si sono placati e la seduta del consiglio comunale è stata infuocata a causa, inoltre, della cancellazione dell’utilizzo del dialetto nei cartelli stradali,nonostante le rassicurazioni della maggioranza che quelli presenti rimarranno.

La battaglia di simboli, bandiere e altri emblemi non sembra conclusa: la minoranza leghista li continuerà a difendere a spada tratta. Tanto romanticismo, dunque, sui miti fondatori, le radici storiche locali, le tradizioni dialettali popolari. Forse i cittadini chiedono altro. In ogni caso aspettiamoci un nuovo assalto, perché no, magari nel giorno del solstizio d’inverno.

Restes: Marseille

 Marsiglia
è un temporale che non arriva
è una spugna di cemento
odore di piscio e di sapone
è anarchia
gente che viene da viaè un porto di spilli puntati al cielo
un nonno tatuato
che abbottona la camicia alla nipotina

è un bel cappello troppo caro
e un mare azzurro là in fondo

è soldi nel reggiseno
e una ragazza con le scarpe appese allo zaino.

Frammenti (restes) di frasi e qualche scatto per descrivere una città che non si riesce ad abbracciare tutta insieme perché è una città enorme (divisa in sedici arrondissements) che è sempre stata una città indipendente, come le nostre Repubbliche Marinare.

Notre Dame de la Garde svetta sulla città con la sua grande Madonna dorata, protettrice dei marinai; sotto di Lei una moltitudine di stradine in salita/discesa, affollate e rumorose, sporche e talvolta pericolose.

Arrivando dal centro verso il porto ci si può fermare a giocare con il grande specchio dell’architetto  Norman Foster. Rimanendo qui nel porto, tra i litigi dei pescivendoli, si intravede dal lato della città vecchia il seicentesco Fort Saint Nicolas e dal lato opposto l’incredibile connubio di bellezza antica e contemporanea che è il nuovissimo Musée des civilisations de l’Europe et de la Méditerranée (MuCEM).

Se poi ritornando verso la Stazione vedete due giraffe, è tutto normale: è solo un’originale postazione per il bookcrossing. Il toro volante? Quello non ve lo so spiegare, è una delle tante cose che ancora devo capire di Marsiglia. Perché non c’è la gente? Quella si deve vedere e conoscere con i propri occhi.. Qui c’è solo qualche tessera di quel grande mosaico che è Marseille.

Notre Dame de la Garde
Notre Dame de la Garde

Fort Saint Nicolas
MuCEM

Gare Saint Charles

Fuori la morte dal cimitero. Viaggio per immagini

Articolo di Martina Balgera e Matteo Oufti

Il Cimitero Monumentale è un angolo di silenzio di 250.000 mq in mezzo alla città. E’ una parentesi di finto isolamento, un’illusione di trovarsi fuori dalla realtà tradita da passanti, da cantieri, da quello che dell’esterno penetra nello sguardo di chi passeggia. E’ un’occasione per un viaggio, più evocativo che didascalico, attraverso la storia della scultura in Italia, e in particolare a Milano, negli ultimi centocinquant’anni (tra i nomi più famosi: Medardo Rosso, Lucio Fontana, Adolf Wildt). Al fianco di tombe decorate in stile Art Déco è possibile ravvisare bassorilievi degli Anni Trenta.

Ma, forse, più di tutte queste cose, il Cimitero Monumentale è un calderone di storie mute e di vite che gridano al tempo stesso. Lo scorso 10 dicembre è uscita una guida storico-artistica curata da CARLA E LALLA. Per l’anno prossimo si prevede anche la stampa di un secondo volume, curato sempre DALLA CARLA. Il titolo sarà: Guida al Cimitero Monumentale per curiosi e ficcanaso e racconta le vicende di alcuni dei defunti lì presenti. Dare voce a tutti non è né auspicabile né possibile, tuttavia, al di là del libro, è affascinante scoprire, talvolta anche attraverso casuali trasmissioni orali, di Juanita Caracciolo, cantante lirica morta dando alla luce un bambino, dei Volonté – Vezzoli e del loro bacio senza tempo e di tutta quella mole di storie destinate a rimanere senza narratore, di cui qualcosa si può dedurre dall’unione delle lapidi, delle sculture, a volte sensuali, a volte imponenti, e degli occhi del riguardante carichi di vita, di curiosità, di sentimento e, perché no, di ironia.

Piazza Cordusio, L’Egitto e il suo regime

In dieci minuti di flash-mob hanno raccontato l’Egitto di Al-Sisi a un anno dal golpe.

«Si dice che il silenzio sia la forma più potente nell’arte della parola. Ed è proprio in silenzio che ieri (3 luglio, ndr), come “Comitato democrazia e libertà per l’Egitto”, che unisce uomini e donne italo-egiziani, abbiamo deciso di dare voce all’oppresso popolo egiziano». Le parole sono quelle della studentessa Esraa Abou El Naga: «Piazza Cordusio per dieci minuti è diventata l’Egitto. In venti tra ragazzi e ragazze abbiamo deciso, a un anno dal golpe che ha portato alla deposizione del primo presidente eletto democraticamente nella storia del paese, di rappresentare i momenti più rilevanti di quest’anno di governo militare».

La scena era accompagnata da un sottofondo in cui si mischiavano la voce di Al-Sisi, quelle dei manifestanti, il rumore degli spari e delle urla. Una manciata di diapositive umane per «raccontare in silenzio l’atrocità con la quale è stato sgomberato il sit-in anti-golpe il 14 agosto scorso; la vita dentro le carceri, nelle quali dimorano giovani, attivisti, giornalisti e bambini; lo scandalo del primo processo nella storia moderna che in sole due sedute ha condannato a morte 529 civili; la violenza esercitata dalle forze dell’ordine sulle donne, senza distinzione di genere e senza alcuna pietà».

Ecco: piazza Cordusio, dalle 17.30 alle 17.40 è diventata l’Egitto, la faccia peggiore del regime. Allargando lo sguardo, la Milano di ogni giorno col suo solito tran-tran. Chi tira dritto, chi si ferma a curiosare, chi domanda e chi fotografa. «Ciò che accade al di là del Mediterraneo non è poi così lontano – conclude Esraa -: in un modo o nell’altro tocca anche noi».

Di sguardi, espressioni e umanità marocchine

I panorami mozzafiato dell’aprile marocchino sono la scenografia davanti a cui si muovono le quotidianità di uomini, donne, bambini. Vite comuni, per nulla straordinarie, che intrecciano i propri percorsi nei suk straripanti di mercanzia o nelle periferie urbane, nelle campagne assolate che sfumano dal verde rigoglioso al brullo ocra, sulle coste avvolte dalla foschia e nei commoventi palmeti che punteggiano alture pietrose e distese di dune.

Hanno incrociato anche il cammino e la macchina fotografica di chi scrive, durante un lungo viaggio che l’ha portato da Tangeri a Laayoune attraverso mille scenari urbani e rurali.

Figli delle frenesia cittadina o dei ritmi arcaici del mondo contadino, i soggetti fotografati sono i ritratti di un paese che non perde l’attaccamento alle proprie radici anche dove la modernizzazione si impone decisa.

Mercatino delle pulci in salsa cinese

Questo articolo è dedicato agli amanti dell’antiquariato, delle cianfrusaglie, della oggettistica più stramba che utile, di quei piccoli oggetti che sanno raccontare una storia ormai perduta, a quelle persone che impazziscono al solo pensiero di spulciare tra una miriade di oggetti esposti in vendita in maniera disordinata e scomposta, in poche parole, ai vagabondi dei mercatini delle pulci.

Dopo aver visitato i luoghi “clou” pechinesi, come la Grande Muraglia, la Città Proibita, il Palazzo d’Estate, e via dicendo, val la pena ritagliarsi una giornata per visitare il Panjiayuan Flea Market, situato nel distretto di Chaoyang, comodamente raggiungibile a piedi dalla fermata metro di Panjiayuan, sulla linea 10.

Dimenticate l’immagine quasi idilliaca e rilassante dei piccoli e appartati mercatini delle pulci alle quali siamo abituati: oggetti d’altri tempi ricoperti da quella caratteristica patina austera e che suscita riverenza nell’animo dello spettatore, placidi venditori quasi restii a separarsi dalle proprie cianfrusaglie, e quella curiosa impressione che il tempo si sia fermato per qualche ora. Preparatevi invece a un caotico e vivace mercato distribuito su una superficie totale di quasi 50.000 m2, che rendono il Panjiayuan Flea Market il più grande e fornito mercatino delle pulci su tutto il territorio cinese. Qui si può trovare veramente di tutto: opere di calligrafia, minerali, gioielli, giade di tutti i tipi e colori, lacche, pennelli, banconote antiche, articoli di propaganda risalenti alla Rivoluzione Culturale, tessuti e stampe, oggetti di artigianato delle minoranze etniche cinesi, porcellane, oro, argento, mobili, metalli preziosi e non di epoca imperiale, statue di tutte le grandezze, oggetti di legno intagliato, servizi da tè, oggettistica in avorio e osso intagliato, mobili in canapa intrecciata, e tanti altri piccoli tesori. Il confine tra mero mercatino delle pulci e una autentica area museale è labile: col giusto occhio (e la giusta dose di pazienza) non sarà difficile mettere insieme un piccolo “tesoretto” dal valore storico inestimabile.

Va da sé che la parola d’ordine è contrattare: il venditore di turno cercherà di guadagnare il più possibile dalla transazione, gonfiando eccezionalmente il prezzo di vendita. Siate fermi nelle vostre posizioni e utilizzate tutti i vostri assi nella manica da contrattatori selvaggi (compresa la tecnica del “lascio tutto e vado via”) e riuscirete ad abbassare il prezzo richiesto fino al 50% e oltre. Il fil rouge che lega la visita al Panjiayuan è il colore. La diversità della merce esposta crea qui una gamma cromatica così completa che difficilmente può essere riscontrata altrove: si va dai colori brillanti della giada e dei minerali a quelli opachi dei metalli e dell’oggettistica in ferro di epoca dinastica, dal bianco puro della carta di riso delle opere calligrafiche alla tavolozza multicolore delle stampe e dei tessuti artigianali.

Ed è questa gamma di colori che, in maniera del tutto amatoriale, ho tentato di catturare e raccogliere per i lettori di Pequod.

La seconda vita dei beni confiscati

Progettualità che fioriscono negli spazi confiscati, nati a seconda vita grazie alla legge sul loro riutilizzo a fini sociali, promossa da Libera nel 1996. Negli ex-fortini del riciclaggio e della malavita trovano posto i laboratori della Milano che verrà.

In via Jean Jaurès, incastrata tra viale Monza e Martesana, la web-radio Frequenze a Impulsi fa da polo d’attrazione giovanile. Prima c’era un night club, ora uno studio di registrazione gestito dalla fondazione Arché. Dietro ai microfoni, ragazzi che parlano a ragazzi. Nord-ovest di Milano, nel dedalo di Baggio l’associazione Il Balzo promuove iniziative e progetti per giovani con disabilità. «Vedo, sento, parlo»: un sabato pomeriggio di danza creativa davanti al volto di Lea Garofalo, sulla bandiera di Libera appesa al muro. Allo Spazio Momigliano della Cooperativa Zero5, nel bel mezzo del difficile Stadera, un bar in mano alla mafia si è trasformato in luogo di compiti e attività per preadolescenti dei dintorni.

Cascina Chiaravalle (in copertina) accoglierà famiglie senza casa. Due passi dai palazzi Eni di San Donato, i grattacieli della Milano amministrativa sullo sfondo, poco distanti in linea d’aria. Ospiterà 18 appartamenti. 2mila metri quadrati di superficie immobiliare e 15 ettari di terreno agricolo: il bene più grande confiscato all’ombra della madonnina, oltre che l’ultimo in ordine cronologico.  Il viaggio inizia e finisce qui.

E poi box, appartamenti, terreni. Depositi di materiale e sedi d’iniziative. Destinate a donne, anziani, migranti, carcerati. Un dantesco contrappasso, col bene pubblico a riprendere il suo posto dove per anni ha dominato il losco interesse privato.

Frequenze a Impulsi (coop Arché), via Jean Jaurès 7/9
Frequenze a Impulsi (coop Arché), via Jean Jaurès 7/9
Frequenze a Impulsi (coop Arché), via Jean Jaurès 7/9
Frequenze a Impulsi (coop Arché), via Jean Jaurès 7/9
Frequenze a Impulsi (coop Arché), via Jean Jaurès 7/9
Il Balzo, associazione di solidarietà familiare; via Antonio Ceriani 14
Il Balzo, associazione di solidarietà familiare; via Antonio Ceriani 14
Il Balzo, associazione di solidarietà familiare; via Antonio Ceriani 14
Cooperativa sociale Zero5, laboratorio di utopie metropolitane; spazio Momigliano, in via Momigliano 3
Cooperativa sociale Zero5, laboratorio di utopie metropolitane; spazio Momigliano, in via Momigliano 3
Cooperativa sociale Zero5, laboratorio di utopie metropolitane; spazio Momigliano, in via Momigliano 3
Cooperativa sociale Zero5, laboratorio di utopie metropolitane; spazio Momigliano, in via Momigliano 3
Cascina Chiaravalle, via Sant’Arialdo 69. Assegnata il 25 gennaio 2014 alla cordata di realtà no profit vincitrice del bando comunale. Ospiterà famiglie in difficoltà abitative
Cascina Chiaravalle, via Sant’Arialdo 69. Assegnata il 25 gennaio 2014 alla cordata di realtà no profit vincitrice del bando comunale. Ospiterà famiglie in difficoltà abitative

La città in bilico

Istanbul è una città di confine? Questa è la domanda più difficile.

Agli occhi dell’ovvio, la risposta è sì: Istanbul è l’ultima città europa che si possa ancora considerare di confine, ovvero un limes tra due mentalità diverse e per certi versi inadeguate l’una all’altra. Istanbul con un piede in Europa, Istanbul ortodossa e bizantina; Istanbul con un piede in Asia, Istanbul dei minareti e del caffé turco.
Ma a ben vedere, il confine implica separazione, discrimine. Qua inizia la civiltà, mentre hic sunt leones. Questa separazione, a Istanbul, io non l’ho vista. È la sua stessa storia di città di scambio, pedaggi e mercanti a impedire che le parti, come in un composto chimico, si separino per decantazione.
Come scrive Orhan Pamuk, nel libro che gli è valso il premio Nobel, Istanbul è una città in bilico. Ciò significa che il confine, se c’è, è mobile e decidiamo noi dove collocarlo.
Andai nel luglio 2010, avevo in mente le immagini di Ara Güler, il fotografo che meglio di ogni altro è riuscito a catturare lo spirito della città negli anni ’50 e ’60, prima dell’ondata occidentale e della definitiva modernizzazione. Il suo meraviglioso bianco e nero si frapponeva tra i miei occhi e i colori sgargianti della realtà, deformava la mia visione, permeata da quel sentimento di gioiosa tristezza che in turco si chiama “hüzün.
Provai, senza grande successo, a scattare alcune foto della città seguendo l’esempio di Güler, con una Nikon del ’70 a rullino in bianco e nero. Questo spiega la bassa definizione delle immagini, che sono state scannerizzate per essere disponibili in digitale.
La galleria non ha alcuna pretesa di ordine o completezza. Si tratta di foto scattate da un amatore, non da un professionista dell’immagine.

Cay Bahcesi
Cihangir
Cihangir

Galata
Moschea
Minareto

Cimitero

Mar Nero
In copertina: il quartiere Eminönü

Studiare cinese in Cina: consigli per l’uso

Studiare cinese in Italia è diventata, negli ultimi anni, una pratica piuttosto diffusa anche grazie ai successi raggiunti in ambito politico ed economico da parte della Repubblica Popolare Cinese.

La capacità di interagire con questa superpotenza mondiale ha assunto una notevole importanza per tutte quelle aziende o enti che intendono ritagliarsi il proprio spazio nella moderna società globalizzata. Nel curriculum di qualunque figura lavorativa di alto livello dunque, la conoscenza della lingua cinese è diventato un requisito molto importante.
C’è da aggiungere che la vastità del mercato asiatico comporta una notevole domanda di personale e studiare la lingua cinese, al giorno d’oggi, permette di accedere a un terreno ricco di possibilità e di occasioni lavorative davvero interessanti.
Proseguire o arricchire i propri studi in Cina, in questo caso, rappresenta una tappa obbligata per chiunque abbia intrapreso la lunga (ebbene sì) strada verso la padronanza del cinese mandarino.

Nonostante la varietà di corsi di cinese offerti dalle università italiane, un periodo di studi in Cina presenta il vantaggio unico di migliorare notevolmente il livello di conoscenza della lingua cinese, sia grazie ai corsi proposti dalle università sia grazie alla possibilità di vivere in un ambiente linguistico favorevole, una vera e propria esperienza full immersion.

FOTO 1

Ma come cogliere al volo questa occasione?
Certo, organizzare una esperienza del genere non è certamente cosa facile a tal punto che esistono diverse agenzie in Europa e in Italia che, dietro compenso, si accollano l’onere di provvedere a tutte le questioni burocratiche e non del caso, dai rapporti con l’università ospitante alla sistemazione in loco. Questo però non vuol dire che sia impossibile fare tutto da soli. Anzi, con una buona dose di buona volontà e pazienza e magari con alcuni consigli da parte di qualcuno che ci è già passato (come il sottoscritto), si giungerà facilmente alla meta.

1. Dove studiare?
In quale delle migliaia di università sparse per tutto il territorio nazionale cinese effettuare i propri studi? Le università che offrono corsi di lingua per studenti stranieri sono localizzate, oltre che nella capitale Pechino o Beijing, nei grandi centri come Shanghai, Xi’an, Nanjing, Harbin, e tanti altri. La località più favorevole allo studio della lingua cinese, soprattutto se questa è la prima volta che si effettua una esperienza del genere, rimane però la capitale Beijing.

La lingua cinese, nella sua forma orale, non è affatto una realtà monolitica e compatta, ma presenta al suo interno un’enorme varietà di varietà dialettali e locali che possono differire enormemente tra loro. Col termine cinese mandarino o putonghua(“lingua comune”), ci si riferisce alla varietà del dialetto di Beijing assurta, per motivi di prestigio, a modello linguistico nazionale nei primi anni della Repubblica Popolare Cinese.

Dunque si può dire che il cinese parlato effettivamente nella capitale è quello che più si avvicina alla lingua nazionale ufficiale. Per questo motivo, Beijing rappresenta la prima scelta per perfezionare il cinese parlato, o kouyu 口语 per dirlo alla cinese.

Questo non vuol dire però che le altre città vadano escluse a priori. A livello accademico, il cinese insegnato in un corso di lingua per stranieri a Shanghai è lo stesso di quello insegnato a Beijing, quello che cambia è il cinese parlato nelle strade, nei locali, dalla gente del posto.
Questa particolarità sicuramente non influenzerà la pronuncia di uno studente esperto e navigato, ma, per chi è alle prime armi, un ambiente così “contaminato” linguisticamente potrebbe determinare una pronuncia non pienamente affine a quella della lingua standard.

2. Quale università e quali corsi scegliere?

Il distretto di Haidian, sede delle principali università di Bejing.
Il distretto di Haidian, sede delle principali università di Bejing.

Le maggiori università di Beijing si concentrano all’interno del distretto di Haidian, le più popolari tra gli studenti stranieri sono la Beijing Foreign Studies University 北京外国语大学 ( Beijing waiguoyu daxue o Beiwai) la Beijing Language and Culture University北京语言大学 ( Beijing yuyan daxue o Beiyu) , la Tsinghua University 清华大学 (Qinghua daxue) , la Peking University 北京大学 (Beijing daxue), la più antica tra queste.

Ciascuna di esse propone una serie di corsi di cinese ad hoc per studenti stranieri, di varia durata: mensili, trimestrali, semestrali, annuali o estivi. La propensione per questa o quell’altra università è di tipo personale: di solito l’università italiana di provenienza propone dei programmi di studio in una università convenzionata, ad esempio La Sapienza di Roma invia i suoi studenti alla Beiwai, quindi tendenzialmente gli studenti romani sono portati a tornarci in seguito autonomamente.

Sebbene ognuna di queste università abbia una sua peculiare mission (ad esempio la Tsinghua è famosa per le sue facoltà scientifiche), i corsi indirizzati all’apprendimento del cinese per gli studenti stranieri grossomodo si equivalgono, visto che sono stati concepiti in riferimento all’Hanyu Shuiping Kaoshi 汉语水平考试o HSK, la certificazione internazionale di livello della lingua cinese (l’equivalente cinese del DELF francese o del DELE spagnolo, per intenderci).

Vi sono perlopiù differenze di prezzo e di qualità delle strutture di accoglienza all’interno del campus, cosa non di poco conto in caso di permanenze prolungate all’interno dei dormitori universitari nell’ambito di corsi semestrali o annuali. Ogni università presenta una propria politica riguardo al pagamento del costo del corso, o tuition fee, e riguardo alla procedura da seguire qualora si scegliesse di risiedere nel campus universitario, quindi va tenuto conto anche di questo nell’ambito della propria scelta.

 3. Iscriviamoci!

Dopo aver scelto l’università e il corso che più conviene ai propri gusti e necessità, ci si può dedicare all’iscrizione vera e propria. Tutte le università cinesi richiedono una pre-iscrizione online, dietro pagamento di una tassa di ammissione (dell’ordine di qualche decina di euro), attraverso la compilazione di un modulo e l’invio di alcuni documenti come copia del passaporto, copia dell’ultimo diploma o certificato di laurea conseguito, documento di identità.

Per ogni corso di studio vengono indicati i periodi di pre-iscrizione, che sono ben precisi e anticipano l’inizio effettivo dei corsi di 2-3 mesi, quindi bisogna assolutamente tener conto di questo aspetto.
Completata la pre-iscrizione, l’università di riferimento comunicherà l’avvenuta iscrizione e procederà all’invio, presso il domicilio che avrete indicato, dell’Admission Notice, un importante documento che servirà necessariamente per completare la procedura di richiesta del visto.

3(.1). Prenotare il volo

Air China, la compagnia di bandiera cinese.
Air China, la compagnia di bandiera cinese.

Di solito le università chiedono di attendere l’arrivo dell’Admission Notice a casa propria prima di prenotare effettivamente il biglietto aereo per la Cina. Il problema è che questo fondamentale documento può impiegare dalle tre settimane a più di un mese per arrivare a destinazione, un lasso di tempo in cui il costo del biglietto aereo verso la Cina può aumentare anche considerevolmente.
La maniera più economica di raggiungere Beijing o le maggiori città della Cina con un volo diretto è attraverso la AirChina, che offre voli diretti da Milano Malpensa e da Roma Fiumicino, che se prenotati online danno la possibilità di imbarcare gratuitamente due bagagli dal peso di 23 kg ciascuno. Per quanto riguarda il costo, come già detto, il fattore tempo è determinante: per un volo A/R Roma-Pechino si può pagare dai 600-700 euro per una prenotazione effettuata con un largo anticipo (dell’ordine dei 3-4 mesi prima della data di partenza), fino agli oltre 900 euro di un volo prenotato in extremis.

E’ possibile ulteriormente risparmiare attraverso voli con scalo offerti da diverse compagnie, tra cui la BritishAirways, allungando però il viaggio di diverse ore, con lo svantaggio di dover effettuare due volte tutta la trafila del check-in, in due aeroporti, il tutto per un risparmio dell’ordine di un centinaio di euro. Insomma, una scelta da soppesare adeguatamente.

4. Richiedere il visto

FOTO 4

Una volta prenotato il volo e ricevuta la Admission Notice dalla università cinese ospitante, abbiamo tutto quello che ci serve per richiedere il visto.

La procedura di richiesta del visto per la Cina può sembrare ostica agli occhi di viaggiatori abituati a viaggiare all’interno dei confini europei, ma sicuramente richiedere un visto per la Cina non è così difficile se si sa a chi rivolgersi.

L’ente di riferimento in questo caso è il ChineseVisa Application Center, un organo di livello internazionale che in Italia ha sede a Roma e Milano. Anche qui abbiamo la possibilità di precompilare il modulo online, ma la richiesta del visto vera e propria e la consegna dei documenti necessari vanno effettuate di persona o delegando una persona di fiducia.

Il modulo va compilato con estrema attenzione e consegnato presso la sede del Chinese Visa Application Center assieme a un passaporto valido, copia della prenotazione del biglietto aereo, Admission Notice dell’università ospitante in originale e una o due fototessere.
La procedura di richiesta standard richiede 4 giorni lavorativi, al termine dei quali il passaporto completo di visto può essere ritirato di persona o ricevuto a casa attraverso corriere espresso.

Per quanto riguarda il tipo di visto da richiedere, esso varia in base al periodo di permanenza in Cina e quindi in base al programma di studi che si è scelto di frequentare. Di solito l’università ospitante offre tutte le informazioni utili del caso.

Col passaporto dotato di visto, l’Admission Notice e la prenotazione del biglietto aereo effettuata non rimane altro che attendere la data di partenza e prepararsi ad affrontare questa nuova e stimolante esperienza che ci si prospetta davanti.
Buon viaggio!

Parigi in DUE GIORNI: breve visita sensoriale

In soli due giorni di visita Parigi si può conoscere solo di striscio, come se si fosse seduti su una trottola, che girando girando ti permette di vedere solo le potenzialità di questa città.

Perciò va vissuta con i cinque sensi bene all’erta.

 

Da VEDERE

Il centro di Parigi è dominato delle tonalità che vanno dal grigio/azzurro dei tetti con abbaini, al grigio/verde della Senna, al grigio/beige dei marmi dei monumenti gotici.

Questa città è spesso descritta come pittoresca: ebbene, un pittore può dipingerla avendo sulla tavolozza non più di tre o quattro colori.

Quartiere latino.
Quartiere latino.

Quest’idea però si smentisce quando si entra nelle cattedrali.

L’esempio più calzante è la Sainte-Chapelle con i suoi 680 metri quadrati di superficie ricoperta da vetrate in cui le storie bibliche dalla genesi all’apocalisse sono raccontate a vivide tonalità di blu, giallo, rosso e verde – entrandoci sembra di stare dentro un caleidoscopio. Venne costruita nel 1246 come Cappella  palatina pei il volere di Luigi IX.

Sainte Chapelle_FOTO2 wiki
Sainte Chapelle.

Da SENTIRE

Sentire Parigi può essere fastidioso. Significa prestare attenzione ai rumori del traffico che è notevole anche nelle strade del centro, stranirsi per il suono delle sirene delle ambulanze e della polizia che è diverso da quello a cui siamo abituati.

Sentire Parigi può essere  scioccante. Se vi capita di affrontare il freddo parigino il 31 gennaio recatevi nel quartiere di Belleville:oltre che essere il quartiere del protagonista “pennacchiano” Benjamin Malaussène, è una delle due Chinatown di Parigi. In quel giorno vi capiterà di sentire i festeggiamenti del capodanno cinese: tamburi che battono il tempo senza sosta e accompagnano le mirabolati acrobazie di atleti travestiti da dragoni e sentirete esplosioni a catena di petardi che annunciano l’inizio del nuovo anno.

Belleville.
Belleville.

Sentire Parigi è bello. Per esempio nella Métropolitain  (che si distingue dalle altre metropolitane europee per le sue insegne in stile liberty e perché con le sue 14 linee è praticamente una città sotterranea) dove si possono incontrare musicisti  egregi. Può capitare di incappare in vere e proprie feste sotterranee con centinaia di passanti che si fermano per ballare ed ascoltare le performance.

metro_foto4

Da ANNUSARE

In questo senso (gran freddura!) non ho molto da condividere, poichè essendo cresciuta nella natura, tutte le grandi città puzzano. Hanno davvero un cattivo odore un miscuglio di inquinamento, escrementi, sudore.

Ma Parigi ha almeno la Senna che, nonostante non profumi e non appaia per niente limpida, rende però l’aria umida e densa, fresca nei polmoni, regalando profumo d’inverno.

Da GUSTARE

É proprio il caso di rimanere nei cliché quando si decide di gustare qualche specialità.

Pochi giorni e pochi soldi forse non consentono di gustare esempi di nouvelle cuisine, ma tutti possono e devono assaggiare almeno un croissant e una baguette.

Persino i cornetti serviti come colazione all’ostello erano fragranti e sì, non c’è nulla da fare, la lotta per il primato di bontà nella cucina mondiale è giustamente conteso con i nostri cugini francesi.

Ci sono migliaia di posti che preparano baguette di tutti i tipi, ma tra il V e il Vi arrondissement dove si estende il quartiere latino di Parigi, in una viuzza perpendicolare alla Sorbonne si trova questa una minuscola trattoria che merita una visita.  É un locale a tema marinaresco: ha quadri con barche e velieri, orologi a forma di faro e persino una gondola di plastica argentata sul bancone.Immaginate un ambiente casalingo gestito solo da un indiano dai capelli canuti e il sorriso sempre in volto che prepara con la proverbiale seraficità buddista panini indimenticabili.

Da TOCCARE

Nel film Le Fabuleux destin d’Amélie Poulain tra i piccoli piaceri della vita di cui godeva la protagonista c’è l’immergere la mano in una cesta di legumi. Per gli amanti/feticisti di questo film è possibile replicare la scena recandosi al 56 di Rue des Trois Frères dove si trova proprio  il  fruttivendolo Marché de la Butte.

Amelie.
Amelie.

Un’esperienza tattile che si può fare sempre nell’affascinante quartiere di Montmartre è recarsi in uno dei mercati di vestiti che si trovano per strada. Qui potrete infilare mani e braccia in montagne di vestiti caldi, acrilici pelosi e ..chi più ne ha più ne metta. I prezzi vanno dai 0,99 euro al pezzo per calze fino ai 14,99 euro per reperti di abiti alla moda anni ’90. Un’esperienza imperdibile.

"Au revoir, Pequod!"
“Au revoir, Pequod!”

QUE VIVA EL PERU’, CARAJO!

Viva il Perù, cazzo!

Basta solo questa scritta, che a caratteri cubitali campeggia sul versante della montagna, per farmi capire che questa non è una domenica come le altre. E’ il 29 luglio 2012 e il Perù ha appena compiuto 191 anni. Tutta la nazione blanco – roja è in fermento per i festeggiamenti patrii che si protrarranno per  oltre una settimana. Un tripudio di bandiere biancorosse assediano ogni angolo di strade:  tutto il popolo peruviano è chiamato a raccolta per dar vita ai festeggiamenti per la tan querida patria, la tanto amata patria.  Scuole chiuse, sfilate, parate militari e civili e spettacoli di ogni genere animano l’intero paese, dalla capitale Lima agli angoli più remoti e sperduti delle province andine e della selva.

E nella provincia di Huarochirì, a est di Lima, dove incominciano a innalzarsi le poderose Ande, lo spettacolo principale non può che essere la Corsa dei cavalli. Macchine, corriere, mototaxi assediano già dalla mattina i pendii delle montagne. E’ una corsa per accaparrarsi i posti migliori, per cui presto lo scenario del villaggio montano di Cashahuacra diventa una fiumana di gente assiepata su tetti, strade e rocce. Tutti lì per godersi un giorno intero di corse per i ripidi pendii delle montagne dove i fantini diventano le vere star dei vari villaggi di provincia. Ancora più celebri delle star del calcio o della tv, questi giovani o anziani intrepidi si avventurano per malconce mulattiere a bordo di ancor più malconci ronzini.

La corsa prevede varie batterie di tre fantini ciascuna che si sfideranno in un percorso di circa 4-5 chilometri giù per le montagne.

Vige un’unica regola: arrivare vivi e in sella al proprio cavallo.

Potrebbe sembrare cinico umorismo ma non lo è. Ad ogni corsa si prevedono almeno 3 feriti portati via in ambulanza se va bene, qualche deceduto se va male. Ma anche questo mi dicono, fa parte dello spirito della competizione.

Dopo essermi assicurato una postazione di tutto rispetto, attendo col fiato sospeso che arrivino i primi fantini. Come un fiume che travolge gli argini, le grida della folla si fanno sempre più forti quasi volessero accompagnare sino al traguardo i loro beniamini che arrivano chi gioendo per la vittoria, chi quasi spiccando il volo, chi dando di frusta e chi invece dandoci dentro tra spintoni, frustate tra fantini, strattonamenti e tentativi di disarcionamento.

Lasciato il mezzo ai box nelle esperte mani degli uomini, o meglio donne della scuderia, la gara termina e i corridori usciti miracolosamente illesi potranno dedicarsi all’attività preferita del post – gara, la fase borrachera, dove casse e casse di cerveza crystal scompariranno negli intrepidi e mai domi fegati peruviani.

A gara finita la gente rimane assiepata sui monti. Il motivo è sempre lo stesso. Finché la cerveza rimane a far compagnia la gente non si schioda.

Con questa immagine si chiude la giornata, immersa nel folclore dei festeggiamenti per l’anniversario patrio peruviano, spericolate corse coi cavalli lungo pendii per cuori forti e gente che si ferma a bere e mangiare ignorando il sole che se ne va e il freddo e il buio che iniziano ad avvolgerli.

Ma qui è così e si dice che del resto senza la birra Crystal, che festa sarebbe??

E del resto va bene così, si stappa e ci si unisce ai cori «QUE VIVA PERU’ CARAJO!»

7:30 l’ora dell’abbandono: ex-cotonificio Cantoni di Saronno

Fotoreportage di Stefano Banfi, Lorenzo Caimi e Riccardo Schiavo

Correva l’anno 2002. Dopo 91 anni di onorata attività il cotonificio Cantoni ufficializzava la sua fine.

Gli immensi spazi della ditta vennero gradualmente abbandonati lasciando sporadiche tracce del passaggio della recente vita industriale. Registri di vendite, scrivanie, materiale tessile, manichini rimangono ancorati all’ormai ex-cotonificio quasi a ricordare a cosa furono adibiti quegli spazi.

E poi gli sterminati paesaggi lunari offerti dai vari capannoni, dove fanno capolino le colonne portanti e i fatiscenti neon che pendono dai soffitti. L’atmosfera è quella di un film horror di Romero, ti aspetti di essere assalito da inquietanti presenze ad ogni minimo rumore ma in realtà le uniche presenze son quelle dei piccioni che, numerosi, assediano i lucernari sfondati da cui filtra quel poco di luce presente. L’umidità la fa da padrona. Pozze che potrebbero esser facilmente scambiate per stagni costellano la pavimentazione dell’edificio. Qua e là spuntano, testarde ed insistenti, piante e felci verdi che cercano di dare un poco di colore alla monocromia grigio – muffa che caratterizza gli spazi.

Con i suoi cupi e tetri torrioni che svettano oltre il muro di cinta, la “ex – Cantoni” rappresenta quasi uno sberleffo, una provocazione, una sfida a chi trasforma e plasma il territorio sotto la dura regola di cemento e betoniera.

Complice l’immobilismo delle amministrazioni comunali che si sono avvicendate, i progetti per trasformare l’area dismessa in centri commerciali o palazzoni popolari sono stati, fortunatamente, sempre sventati. I caseggiati della vecchia fabbrica così resistono e persistono da 11 anni. Al loro interno sembra che il tempo si sia fermato. I calendari segnano ancora il 2002. I registri di vendita ammonticchiati sopra le scrivanie parlano di affari del medesimo anno. Tutti gli orologi ancora appesi segnano la medesima ora, le 7:30.

Le uniche cose in grado di mutare in questo piccolo mondo fermo a inizio anni 2000 sono l’umidità e la vegetazione che agendo in simbiosi conquistano ogni giorno piccoli pezzi dell’ex industria.

Dopo 11 anni di abbandono forse la testarda resistenza di questi caseggiati è destinata a finire. Secondo il nuovo Piano di Governo del Territorio difatti al loro posto sorgeranno case, giardini e parchi.

E così l’ex area industriale scomparirà senza lasciar traccia dietro di sé.

E il tempo, fermo alle 7:30 di un giorno di inizio millennio, forse anche lui, tornerà a correre.

 

La loro Africa

Fotografie di Flavia Serafini;

Flavia e Davide, italiani d’Italia, si sono conosciuti tre anni fa in Africa, durante un progetto di scambio tra specialisti in veterinaria tra Italia e Namibia. A farli incontrare non solo la passione per il continente africano, ma soprattutto l’incontenibile amore per gli animali. Ed è stato proprio tale sentimento a volerli di nuovo in Namibia quest’estate.

 

Il deserto, la riserva dell’Etosha Park in Namibia, le cascate Vittoria nello Zimbabwe e i parchi in Botswana, tra tutti quello del Moremi sul delta dell’Okavango, meta prediletta per i documentaristi, e il Nxai Pan, con i suoi baobab secolari. In mezzo alla natura primordiale, gli animali: «Il safari è stancante perché puoi girare per 12 ore e non vedere niente; ma se verso la fine della giornata riesci ad avvistare un predatore, la sua maestosità ti ripaga di tutta la fatica».

 

Ma non solo le gite in macchina. Il safari si vive anche durante il campeggio serale: per il pernottamento ci si può affidare alle piazzole, distanti le une dalle altre numerosi chilometri, e talvolta visitate da iene incuriosite che si aggirano attorno alla macchina per poi allontanarsi con passo disinvolto una volta illuminate con la torcia. Nelle ore notturne la presenza degli animali è per lo più percepita attraverso l’udito. State pensando al ruggito dei leoni? Non solo, anche gli ippopotami dicono la loro. E per finire, gli elefanti e i loro branchi, composti da 30/40 esemplari… meglio non tagliargli la strada e spegnere subito il motore, a meno che non si voglia giocare con loro a rincorrersi nella savana.

 

[metaslider id=1221]

La vita di Liegi: le sue stazioni e lo Shamrock

«Gli aeroporti sono freddi ed impersonali, le stazioni invece possiedono il carattere e raccontano le storie della città in cui si trovano», diceva Terzani.

Chi vedrà Liegi per la prima volta dal treno avvertirà un senso di straniamento: ai panorami di piccole case di mattoni degne dell’immaginario più mainstream si sostituisce poco a poco la cassa toracica di un mostro bianco e freddo: è la Gare Guillemins, stazione centrale di recentissima fattura (ha solo quattro anni), ennesimo capolavoro di Calatrava e, come non di rado accade con le opere dello spagnolo, l’ennesimo esempio di edificio male inserito in un contesto. Ai turisti convince, alle loro macchine fotografiche colpisce, ai liegesi fa vomitare ma pare che ai valloni non dispiaccia dato che ne è in costruzione un’altra nella più piccola città di Mons. Chi è stato a Valencia, a Lione, Toronto, Reggio Emilia, o è pratico del periodo organico dell’ingegnere, è come se l’avesse già vista. Per fortuna o purtroppo sono mancati i fondi per realizzare l’intero progetto, che voleva far partire dalla stazione un fiumiciattolo che poi sarebbe sfociato nella Moisa.

Fino allo scorso anno i tossici si riempivano le tasche di erba e rientravano dalla vicinissima Maastricht al binario uno con il regionale. Ora sono aumentati i controlli della polizia ferroviaria e la regione olandese del Limburgo ha decretato che solo i residenti possono accedere ai coffee shop. Così i fattoni hanno abbandonato la stazione in favore delle biciclette. Fa freddo ma nelle giornate giuste se ne vedono molti che si avventurano lungo la pista ciclabile.

Stazione di Liegi

 Nonostante la città ardente si trovi nel cuore dell’Europa che produce, la sua situazione economica non è delle migliori. Il declino dell’industria, cominciato negli anni Sessanta, non ha più conosciuto arresto; le fabbriche son presto diventate vecchie e non ci sono mai stati i soldi per svecchiarle. La crisi ha aggravato la situazione e quindi il bianco della Guillemins contrasta ironicamente con il nero della cattedrale gotica e delle chiese da troppo tempo lasciate all’incuria. Qualcuno sostiene che manchino persino i soldi per innaffiare le aiuole e una passeggiata per i giardini del Parc de la Boverie aiuta a consolidare questa convinzione. Una persona su quattro è disoccupata e gli abitanti della capitale della Vallonia ci scherzano sopra: bevono le loro birre speciali allo Shamrock e sfoggiano il loro temperamento, più mediterraneo che nordico, che li rende felicemente poco inclini al lavoro. La signora che pulisce i bagni fa entrare un barbone senza pretendere i cinquanta centesimi necessari ad accedere alla toilette.

Parc de la Boverie

Funziona così: le poco stipendiate donne delle pulizie hanno il diritto di far pagare l’accesso ai cessi da loro ramazzati. Anche da Burger King, anche nei centri commerciali. Nelle stazioni, figuriamoci. Nei bei tempi andati certe politiche così aggressive erano inimmaginabili. Nella vecchia Guilemins non si pagava per pisciare. Però c’era l’amianto, oltre ad altre seccature (poca praticità per raggiungere i binari e spazi mal gestiti in generale). La vecchia gare, in vetro e cemento secondo l’estetica avveniristica della fine degli anni Cinquanta, dialoga con il Palais des Congrès (ancora in piedi) e denota la volontà da parte di Liegi di dare di se stessa un’immagine accattivante ed in continuo aggiornamento. Per i bagni a libero accesso di quasi un secolo fa passavano nefandezze di ogni genere. Questo deve aver favorito la creazione della fama della città, che vanta di essere tra le più pericolose d’Europa (anche se mai quanto la vicina Charleroi, bisogna proprio stare all’occhio con ‘sti valloni). I liegesi, tuttavia, se ne fottono, Amelie stacca dal lavoro allo Shamrock alle tre, a volte alle quattro di notte e non ha paura di girare per le strade. Prostitute, alcolisti e spacciatori, presenti in buona dose nel territorio, non sono poi così temibili. Basta schivarli quando si cammina, o assecondarli se rivolgono la parola.

The Shamrock, il locale irlandese dove i liegesi si ritrovano e rinfrescano il loro senso di appartenenza alla Vallonia

Posto piccino ma accogliente, adatto a chi ama buona birra e musica live, voilà lo Shamrock, tra i posti più bazzicati nell’ambito della movida di Liegi. E’ nato con un po’ di anticipo rispetto alla stazione. Prima, al numero uno della rue Louvrex, c’erano stati, in ordine sparso, un negozio di cappelli, un altro bar, un falegname e chi più ricorda cos’altro. Sarebbe interessante scoprire cosa ci fosse prima del 1958, quando la stazione appariva come un tenero baluardo ottocentesco.

Se quell’edificio avesse potuto parlare avrebbe raccontato dell’expo del 1905, delle noie della prima metà del Novecento, della presa di coscienza sempre più forte e politicizzata dell'”essere valloni”, dell’humor noir e dell’ironia che caratterizzano gli abitanti di quella che chiamano la città ardente. Se avesse potuto parlare probabilmente avrebbe anche accennato a tutta l’acqua che ha bagnato la città negli anni, e a tutti i cittadini che usano il proverbio vallone: «fai come a Liegi: lascia piovere».

Gare des Guillemis ai primi del Novecento

Due anni fa, la galleria d’arte contemporanea Jean Michel Uhoda ha chiesto a diversi artisti locali di creare delle opere partendo da un salvadanaio a forma di teschio. Durante l’esposizione, la gente (che non pagava l’entrata) inseriva monete nelle finte teste di morto e le spiegazioni annunciavano che il ricavato sarebbe andato ad un’associazione che raccoglie fondi per salvare Gaelle, una quindicenne invalida all’80% che deve prendere una serie di medicinali pagati solo in parte dalla mutua. Forse questa è una immagine emblematica: si decide di affrontare una difficoltà con uno spirito positivo che sfiora il cinismo.

Si potrebbe obiettare che molti luoghi si sono creati nomee stereotipate, ma forse il caso liegese è davvero diverso. Lo si capisce alla festa della musica (a giugno) o nelle altre occasioni comunitarie, in cui senzatetto e signore impellicciate ballano assieme, quando la lesbica squattrinata che gira tutti i vernissages per mangiare gratis saluta i conoscenti con la sua dentatura autunnale (e col cavolo che lascia i centesimi nei teschi), alla paninoteca della stazione centrale che espone un annuncio in cui si legge che si sta cercando una ragazza da assumere che sia puntuale, flessibile e… coraggiosa. Forse la brutta Gare des Guillemins è davvero simbolo di una città piena di agrodolci contraddizioni. Anne Lise è stata lasciata di nuovo e piangendo allo Shamrock offrirà birra a chiunque finga di ascoltarla anche stavolta. Che poi tanto lo sanno tutti che si scopa il proprietario.

Le due aquile d’Albania

DONG!!!

Non si può che iniziare da qui. Se fosse un video o una registrazione questo dong lo si individuerebbe subito e facilmente come un suono di campana. Uno solo, forte e profondo che invade tutti gli spazi della piazza semideserta.

Campana della pace e piramide, ex mausoleo per Enver Hoxha

Tirana, 23 luglio, ore 00:37. Dopo aver approfittato abbondantemente del cambio euro-leke (mezzo litro di birra costa tra gli 80 centesimi e 1euro) nei vari baretti del quartiere Blokku (quello della movida insomma) ci dirigiamo verso il monumento dedicato a Enver Hoxha, il vecchio dittatore comunista che era riuscito a trasformare questo piccolo paese mediterraneo in un vero e proprio inferno socialista.

Il monumento è un enorme mausoleo, nei pressi del centro di Tirana, dove inizialmente fu seppellita la salma del “padre – padrone” della patria. Oggi i suoi resti riposano dimenticati in un’altra parte della città e l’immenso mausoleo è ormai un edificio abbandonato con vetri rotti e odore di piscio sulle pareti. La piramida, come qui viene chiamata è scalabile con facilità e sicurezza e dall’alto dei suoi circa 20 metri si può godere un’ottima vista sulla Tirana by-night scarsamente illuminata.

Come numerose altre cose la piramida è un po’ il simbolo di quest’Albania dove poco più di 20 anni fa cadeva uno dei regimi più terribili della storia e che cerca ora di correre verso la modernità, tentando di recuperare il tempo perduto. «Sì, l’Albania corre veloce ma il problema di fondo è che non sa bene dove vuole andare». Quante volte ci è stata detta questa frase, durante la nostra permanenza; e chissà che sia un po’ così: un paese dove quasi nessuno parla della recente dittatura terminata e dove il mausoleo al suo dittatore è ancora in piedi, sebbene in disuso. In realtà, dicono, qui sorgerà il nuovo parlamento. O meglio, lo ripetono da 2-3 anni. I tempi sono già lunghi di per sé, senza contare corruzione, clientelismo e soprattutto un cambio di governo che ha portato al potere i socialisti a fine giugno. Per inciso, socialisti che sono i pieni ereditari della tradizione comunista, e che ovviamente si oppongono all’abbattimento della piramida. Vederla ancora in piedi provoca così un certo effetto, ed anche contribuire a riversare parte del contenuto della birra ingerita sotto forma di piscio sulle sue pareti contribuisce a farti sentir parte, seppur in misura minuscola, della storia albanese.

Poco distante dalla piramida c’è una passerella che porta sotto una massiccia campana appesa ad almeno 2 metri d’altezza. È la campana della pace, ricavata dai bossoli dei colpi di fucili mitragliatori e benedetta da Giovanni Paolo II. Dopo alcuni tentativi andati male, all’ultimo salto riesco ad afferrare il batacchio con la mano e atterrando con un colpo di reni gli imprimo la forza giusta per muoversi. Il risultato ci galvanizza e rimaniamo lì a goderci il DONG. Un unico colpo che si spande nella piazza indifferente dei tre giovini italiani che se la sghignazzano allegramente dopo aver sconsacrato il mausoleo di uno degli uomini più terribili della storia e dopo aver fatto risuonare la campana della pace.

Cattedrale Ortodossa della Resurrezione di Cristo [ph. Daniel CC BY-SA 2.0/Wikimedia Commons]

Indifferenza e velocità. Il paese delle due aquile sembra percorrere senza indugi questa strada verso l’integrazione all’interno dell’Unione Europea. Veloce, perché nel giro di vent’anni si è scrollato di dosso una terribile dittatura cinquantennale, nonché la guerra civile di fine anni ’90 dopo il crollo dello stato. Crollo che fece seguito a quello demografico iniziato a fine regime con i celebri barconi della speranza. Indifferente, perché per gli albanesi la bandiera blu con dodici stelle non significa nulla, o quasi. I problemi della vita quotidiana e l’accesa lotta politica tra il Pse (Partito Socialista d’Albania, centrosinistra) e il Pd (Partito Democratico d’Albania, centrodestra) catalizzano tutte le attenzioni dell’albanese medio. È un continuo noi contro di voi, ex-comunisti contro anticomunisti, socialisti contro democratici, tradizionalisti contro modernisti.

In mezzo a tutto questo vi è una rinascita religiosa, seppur limitata, che cerca di mediare tra le parti e di andare semplicemente oltre. Sì perché in un paese dove la conflittualità politica e sociale è alle stelle convivono, per ora senza scontri, ortodossi, cattolici, musulmani tradizionalisti e bektashi (una setta minoritaria di orientamento moderato presente quasi unicamente in Albania). Ma anche qui l’indifferenza la fa da padrona, anche perché dopo 23 anni di ateismo di stato (La Repubblica Popolare d’Albania si dichiarò il primo stato ateo nel 1967) e i 20 precedenti di repressione, la religione è considerata dagli albanesi un elemento decisamente secondario.

Così, le due aquile, a testa bassa, veloci e nell’indifferenza generale, sfrecciano verso quella bandiera blu stellata che significa integrazione europea, approdo individuato, in ipotetica data, nel 2015. E mentre le due aquile si dirigono verso l’Europa, quelli che andarono a cercare “l’America” nella vicina Italia negli anni ’90 fanno il percorso inverso, in fuga da un Europa povera e impaurita dal futuro. Con l’economia che cresce la situazione sociale e politica, anche se a fatica e con alcuni strappi, si stabilizza lentamente. Non è difficile capire le parole di Nik, emigrato in Italia dove ha fatto fortuna ma pronto a tornare al suo paese d’origine: «No, in Italia ormai c’è poco o niente da fare. Il futuro è qui. Io all’Italia devo tanto, ma il mio, il nostro futuro sarà qui», ci dice ridendo.

Sì, lui ride, sa dov’è casa sua e sa bene che a casa sua il futuro lo stanno costruendo adesso, con fatica ma anche con grande speranza e ottimismo. Ma noi, sorvolando l’Adriatico, non ridiamo, anzi. Guardiamo sconsolati casa nostra. Un’Italia che sembra aver perso la bussola, dove la parola ottimismo è sepolta sotto metri di terra, dove chissà quale sarà il nostro di futuro.

Italia-Albania. Un lembo di mare che ci divide come un universo. Così vicine, eppure così lontane. Paesi a due velocità: uno che spicca il volo e l’altro che accoglie e fa da traino, tanto negli anni ‘90, quanto nei prossimi decenni. E chissà che in futuro le parti non si invertiranno.

Cimitero dei martiri

In copertina, Piazza Skanderberg

Nuove mobilità: il ride sharing in Germania e in Italia

Articolo di Matteo Oufti e Francesca Gabbiadini

Un viaggio come un altro, ma con il ride sharing
a cura di Matteo Oufti

Stoccarda, novembre 2007. Decidere di cambiare vita trasferendosi a Berlino. Programmare un trasloco cercando di evitare di spendere centotrenta euro di biglietti del treno. Tre valige sono fardelli troppo gravosi per pensare di imbarcarli in un aereo. Come fare? La soluzione arriva da un amico di un coinquilino ed è conosciuta con il nome di mitfahrgelegenheit.de: chi intraprende un viaggio da solo decide di mettere a disposizione i sedili della propria auto in cambio di un contributo alle spese del viaggio. Basta inserire un annuncio online (lo può fare, previa iscrizione gratuita, sia chi offre un passaggio sia chi lo cerca) e lasciare il numero di telefono. Il proprietario dell’auto di solito specifica se e quanto spazio ha nel bagagliaio e se durante il viaggio è possibile fumare. Organizzare l’incontro insomma non è difficile: si salpa alla volta della capitale tedesca al costo di 35 euro. Appuntamento alla stazione dei treni alle ventitre.

Non è troppo difficile riconoscere un furgoncino, soprattutto in orari in cui c’è poco traffico. Altrettanto facile è riconoscere un ragazzetto tutto pieno di bagagli. Ci sono solo due posti nel veicolo e tanto spazio per le valige. Alla guida, un cinquantenne delle parti di Francoforte che lavora portando la posta da una grande città ad un’altra. Si sale in auto, l’autista si assicura che la musica che passa alla radio piaccia ad entrambi. Si parte.

Durante le ore successive, come sarà facile indovinare, non è successo niente di esilarante. L’auto scivolava lungo l’autostrada, i fanali fendevano la notte e a momenti di rilassato silenzio si alternavano conversazioni riguardo alla composizione delle reciproche famiglie, al costo della vita prima che arrivasse l’euro, all’inverno alle porte e a tutta una serie di discorsi da persone senza niente da dirsi, ma che sono contente di trascorrere il proprio tempo con una compagnia tanto cortese. L’autista raccontava di viaggiare raramente da solo grazie a mitfahrgelegenheit e faceva anche notare che molte donne usufruivano del servizio in piena sicurezza.

Arrivare poco prima dell’alba in un posto nuovo e sconosciuto assieme alla posta. Il compagno di viaggio chiede in che parte della città deve scaricarmi, ma come si può rispondere a una domanda del genere quando non si conosce niente di Berlino? Pare non ci sia un centro propriamente detto e la stazione dei treni si potrà visitare con calma. Un libro parlava di uno zoo, non sarebbe male visitarlo. E Bahmhof Zoo sia. Così, con tre valige su un marciapiede che nelle aspettative doveva appartenere ad un sobborgo degradato e che in realtà è nel pieno di un quartiere residenziale, si apre una nuova fase della vita.

BlaBlaCar.it: il ride sharing in Italia
a cura di Francesca Gabbiadini

Nel 2007 Olivier Bremer si trovava proprio in Germania quando scoprì il mezzo di trasporto preferito degli studenti universitari: esasperati dai costi troppo alti del treno, il passaggio in auto condiviso divenne un’attività notevolmente diffusa e realizzata tramite l’affissione di annunci svolazzanti sulle bacheche accademiche. Una volta rientrato in Italia, Bremer decise di importare la nuova modalità di viaggio attraverso la fondazione, nel febbraio 2010, di postoinauto.it, una community di ride sharing che permettesse anche agli italiani il risparmio sulle spese di viaggio e la scelta di uno spostamento ecosostenibile.

Appena un anno dopo i numeri dei posti in auto condivisi si aggiravano attorno ai 30 mila, per raggiungere i 100 mila nei dodici mesi successivi. Così, nel marzo 2012, postoinauto.it decide di entrar a far parte del network internazionale BlaBlaCar, e di cambiare il nome in BlaBlaCar.it, adattandosi ai siti gemelli internazionali. La rete europea BlaBlaCar (Comuto SA), fondata in Francia con sede a Parigi, nel 2006, ha cominciato ad operare quasi da subito, attraverso siti web, in Italia, Spagna, Germania, Regno Unito, Portogallo, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo e Polonia. Dunque, non è stato Olivier a rivoluzionare il sistema di domanda-offerta riproponendo la bacheca accademica in rete, come si suggerisce tra le righe di alcuni articoli. Di certo, però, non possiamo che ringraziarlo per aver contribuito, con il suo progetto, a svecchiare il senile pensiero italiano, a scalfire – coscienziosamente, tramite un sito organizzato – le raccomandazioni della mamma di non accettare passaggi dagli sconosciuti.

Che cosa si intende, invece, per ride sharing?

Il ride sharing avviene quando un automobilista decide di mettere a disposizione i posti liberi della sua auto, in una tratta di viaggio medio-lunga, per motivazioni economiche, di sostenibilità o per passare in compagnia un viaggio altrimenti solitario (il sito di BlaBlaCar, come lo stesso nome suggerisce, permette agli utenti di definire il loro grado di loquacità, scegliendo fra “Bla”, “BlaBla” e “BlaBlaBla”). Il ride sharing si differenza dal car sharing, che permette ai clienti un autonoleggio a ore, e dal car pooling, tramite il quale i colleghi di una stessa azienda si dirigono a lavoro con una sola auto, alternando l’utilizzo delle loro auto, per tratte di viaggio brevi e regolari. Il sito è di facile consultazione e l’iscrizione, gratuita, ancora più semplice: la sezione “Come funziona” è difatti molto esplicativa, con tanto di video per i più pigri.

Di maggior interesse, invece, sono i dati relativi ai suoi fruitori: qual è l’identikit del viaggiatore tipo?

La community BlaBlaCar ha più di 3 milioni di iscritti e decine di migliaia di destinazioni in tutta Europa. L’Italia contribuisce con il 10% sul numero di utenti globali, ma tale percentuale è in continuo aumento. Secondo i dati elaborati da BlaBlaCar.it, nell’estate 2013 le offerte di passaggio sono triplicate rispetto alla stagione precedente, indicando in tal modo come il ride sharing sia una valida alternativa al treno e all’aereo. La fascia d’età è under 35, ma nel sito si riscontra la presenza di utenti attivi over 65. Le donne italiane rappresentano un terzo degli iscritti, anche se usufruiscono maggiormente del sito, soprattutto per viaggi di lunga percorrenza (Corriere della Sera, Autostopdigitale: record di donne iscritte, 21 dicembre 2012). Inoltre per le donne che non si sentono del tutto sicure a viaggiare con sconosciuti, la community europea ha introdotto “Ladies Only, in italiano “Viaggio Rosa”, opzione in cui conducente e passeggero appartengono esclusivamente al gentil sesso. I dati evidenziano come, solitamente, dopo un periodo di prova di viaggi in rosa, la viaggiatrice è più propensa a condividere l’esperienza con conducenti e passeggeri maschili.

A meno che non si abbiano problemi relazionali per cui non si riesce a fare amicizia se non in spazi angusti che obbligano l’interazione, il portafoglio è uno dei motivo principali per cui una persona opta per il ride sharing. La tabella sottostante, relativa ad alcuni esempi di costi di viaggio inserite dagli utenti nel portale italiano, mostra difatti un palese risparmio:


2014-11-12_183113

*fonte: viamichelin.it, ** calcolato rispetto ai prezzi base di Trenitalia

Durante l’organizzazione del viaggio è il sito stesso a suggerire al conducente il prezzo da richiedere ai suoi passeggeri: se state cercando uno strappo, è importante accertarsi che l’autista non tragga guadagno dalla tratta che vi offre poiché, in caso contrario, la sua Assicurazione potrebbe rifiutarsi di coprire eventuali imprevisti. Di conseguenza, sarebbe il conducente a doversi far carico delle spese di risarcimento per un eventuale incidente. Il servizio di BlaBlaCar si basa innanzitutto sulla fiducia dei propri utenti e il ride sharing è sicuramente una modalità di spostamento che, per sua natura, non attrae cervelli chiusi a doppia serratura, ma la consapevolezza previene le seccature.

Il progetto non propone solo un modo diverso di percorrere gli stessi itinerari: tra le varie richieste di viaggio, le nuove conoscenze e il continuo aumento d’utenza, BlaBlaCar vuole promuovere il consumo collaborativo e sostenibile. In Italia il numero di auto circolanti supera i 37 milioni, con una media di 1,2 persone per veicolo. Se il ride-sharing iniziasse a diffondersi a tutte le fasce di popolazione, si risparmierebbero 55 miliardi di euro e 40 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno (ANSA.it: EarthDay, con car-sharing -40mild ton CO2 all’anno, 22 aprile 2013).

L’idea del viaggio condiviso sta, a poco a poco, insinuandosi nelle piccole realtà, mettendo in discussione i vecchi disegni di mobilità urbana e suggerendo spostamenti sempre più indirizzati all’ecosostenibilità. Milano non è da meno, con la prima edizione di Citytech, alla Fabbrica del Vapore il 28 e 29 ottobre 2013, durante la quale si discuterà di Mobilità Nuova sondando le opportunità offerte dal Bikenomics l’Economia della bicicletta, Smart Mobility, Car sharing e Smart Parking.

I giornali del carcere: L’Oblò e Oltre gli Occhi del San Vittore di Milano

«Fermare la fantasia»: questo l’imperativo con cui Goliarda Sapienza, scrittrice riscoperta solo dopo la sua morte, si ammonisce all’ingresso del carcere di Rebibbia. «Da oggi per me la fantasia è nemica», perché troppo frustrante sarebbe stato, poi, affrontare il silenzio innaturale e gli spazi claustrofobici della cella.

Era il 1980 quando la Sapienza trascorse un breve periodo di reclusione per furto di gioielli. Solo cinque anni prima in Italia si approvavano le “Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà” (legge 354/75) nella convinzione che la tutela della democrazia e della dignità umana passasse anche per la riforma delle carceri, ora luoghi per attuare «un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale». «Il proprio paese si conosce conoscendo il carcere, l’ospedale e il manicomio», disse la Sapienza a un perplesso Enzo Biagi.

A guardar bene, oggi il carcere diventa “notiziabile” solo se si parla di sovraffollamento suicidi.

L’attenzione discontinua dei media, che alterna senza mezze misure l’allarmismo a lunghi silenzi, porta alla radicalizzazione di stereotipi negativi sulla vita carceraria, rafforzandone la distanza dalla società civile.

Per rompere questo circolo vizioso era necessaria un’inversione di rotta: se i quotidiani non si avvicinano ai detenuti, saranno i detenuti a riappropriarsi della scrittura per comunicare al di là delle mura. Così sono nate le prime riviste a circolazione interna e così oggi possiamo leggere i periodici distribuiti in città e i rispettivi blog.

La sintesi non inganni: è la partecipazione della comunità esterna all’azione rieducativa a garantire un rapporto più equo tra informazione sul carcere e comunicazione dal carcere.

 

Sul territorio nazionale, Milano spicca per numero e novità di iniziative. Pensiamo alla “Carta di Milano”: presentata nel 2011, è dal 2013 un protocollo deontologico obbligatorio per i giornalisti italiani, affinché i detenuti non siano identificati con il reato commesso, ma con il percorso che affrontano.

Al contempo, i penitenziari milanesi producono diverse riviste di informazione che aprono la realtà carceraria al mondo esterno. Non è un caso che la prima sala stampa per la redazione di giornali venne aperta nel carcere di San Vittore (1989); sempre al San Vittore nasce il primo net magazine delle carceri italiane, Ildue.it, che vanta una gran varietà di rubriche e approfondimenti.

 

Tra gli ultimi progetti editoriali della Casa Circondariale, conquistano visibilità le pagine de L’Oblò e la neonata rivista Oltre gli occhi, testimonianze del desiderio non solo di scrivere, ma di comunicare. Che si tratti dei propri trascorsi o di opinioni sul mondo del e dal carcere, in queste redazioni la scrittura è sempre diretta a un ideale lettore, detenuto o cittadino libero che sia. Mettere al centro l’altro aiuta a migliorare se stessi e a sfuggire al vittimismo.

Questa è la dichiarazione d’intenti del blog de L’Oblò, il mensile della “Nave”, reparto a custodia attenuata per il trattamento di ex tossicodipendenti e alcolisti. Inevitabile pensare che, tra poesie e pensieri sulle attività del reparto, ospiti soprattutto riflessioni sull’assunzione di stupefacenti, filtrate dalle esperienze passate e dal nuovo senso di responsabilità maturato alla Nave.

Ma si parla anche di legalizzazione e della legge Fini-Giovanardi, temi di interesse pubblico sui quali anche gli esterni si fanno un’opinione.

Guardando da un oblò, infatti, i detenuti lasciano aperta una finestra sul proprio mondo, quello più intimo e quello lontano e segreto della reclusione, coscienti di essere osservati da chi legge i loro racconti. Il giornale del carcere è quindi strumento per riaffermare la propria umanità, offesa dagli eventi della vita e da una parte della comunità esterna, e la partecipazione alla vita sociale, sancita nel 2005, con la pubblicazione della rivista per l’editore Apogeo e la distribuzione presso sei punti vendita Feltrinelli a Milano. «Un passo decisamente importante nella storia del giornale» – dichiara Renato Pezzini, giornalista de Il Messaggero e direttore de L’Oblò, che segue dagli esordi con Paolo Foschini (Corriere della Sera), perché l’incontro con la città motiva, responsabilizza e gratifica i detenuti.

 

Le nuove edizioni si aprono con “finte elezioni”-sondaggio che hanno coinvolto 45 su 1500 detenuti: «Elezioni in fac-simile a San Vittore: l’Italia dietro le sbarre è radical shock». L’idea è nata dopo la diffusione dei dati sull’alto astensionismo delle ultime amministrative e riportavano alla memoria «un passato più o meno recente in cui – spiega Alberto Oldrini, uno dei detenuti-redattori – in cui ognuno poteva partecipare liberamente al più classico dei reality-show, che periodicamente vanno in onda sul grande schermo democratico a suffragio universale».

È la provocazione di uomini che con ironia allontanano ogni tentazione vittimistica per avvicinarsi a un altrove reale, spesso cercato nei sogni. Come nell’incontro onirico con papa Giovanni Paolo II, in cui Luca Negri si sente dirgli: «Caro Papa, non ti preoccupare di me, le tue parole non sono state ascoltate, non solo in parlamento, ma in tutto il mondo e a tutti i livelli […] Tieni duro Carol e ricordati che il Papa è un po’ in ogni uomo […] Il tuo pianto è uguale al mio».

Come nel sogno di Sabrina, che riassapora l’Egitto in un buon tè verde e in un piatto di tajin: «Com’è bella la vita nella sua semplicità».

Sabrina e Cinzia, Mirna, Dana, Patricia, Violeta e altre ancora sono le detenute del reparto femminile del San Vittore che nel 2011 iniziano a frequentare il laboratorio di giornalismo tenuto da Simona Salta, editor di La7, e a progettare un giornale che possa rappresentarle. La loro è una storia ancora poco conosciuta, ma dal 2013 il bimestrale Oltre gli occhi sembra aver trovato le risorse per confrontarsi con il pubblico.

Grazie alla piattaforma web Quartieri Tranquilli arrivano la visibilità, l’incontro con Marco Predari e  Chiara Bramani e quindi i fondi necessari per l’impaginazione, la stampa e la distribuzione presso la libreria Feltrinelli di piazza Duomo.

Una sfida, ammette Renata Discacciati, responsabile editoriale di Oltre gli occhi, perché non si tratta di un giornale di attualità, ma di «una raccolta di racconti», versi o riflessioni su temi diversi, dal cibo ai ricordi d’infanzia alla vita in cella, difficile in queste “carceri a misura d’uomo”.

Oltre gli occhi, allora, permette un doppio riscatto: dalla monotonia del carcere, spesso raccontato con amarezza, e da un sistema che tende ad appiattire la percezione di sé, per attenersi «solo ai gesti e ai pensieri che mi possono aiutare a superare tutto con il minimo di sofferenza».

Così scrisse la Sapienza, un tempo detenuta come loro, che nel carcere scoprì un’Università di vita, un grande bisogno di emozioni, ma soprattutto «persone come noi».

In copertina: immagine dal sito oblodelanave.blogspot.com

LaDogana del Comune di Milano: una fucina di idee per il giornalismo universitario

C’erano molti degli atenei milanesi, dalla Statale alla Bocconi, dal Politecnico alla Cattolica, all’incontro “Giornalismo universitario on line: prospettive e problematiche” che giovedì 29 maggio ha riunito molte delle testate giornalistiche universitarie di Milano in occasione della festa di apertura de LaDogana, il nuovo spazio in via Dogana da poco sede dell’Informagiovani del Comune.

La tavola rotonda ha infatti visto uniti titoli vecchi e nuovi che hanno conosciuto gli altri nel comune intento di condividere un progetto che fugga il tranello dell’autoreferenzialità: erano presenti “Tra i leoni”, storico cartaceo della Bocconi con una nuova piattaforma blog, “Universi”, giornale on line fondato un anno fa da alcuni studenti di orientamento cattolico della Statale,“Inside”, mensile cartaceo della Cattolica dotato di un sito web e di una web radio, “Revolart”, periodico on line di approfondimento culturale fondato una anno fa dagli studenti della Bocconi, “Lo Sbuffo”, quotidiano on line, “Il vizio”, giornale letterario nato un anno e mezzo fa in Statale, “Lanterna”, giornalino cartaceo del Politecnico, “Vulcano”, storico cartaceo della Statale e “L’Urlo”, nato in Cattolica 42 anni fa per sparire un anno e mezza fa ed essere rifondato da due mesi grazie all’appoggio de “Lo Sbuffo”. Non poteva infine mancare il nostro “Pequod” che, rappresentato dalla direttrice Francesca Gabbiadini e dalla vicedirettrice Clara Amodeo, ha partecipato attivamente alle proposte lanciate dalle altre realtà cittadine, dimostrandosi una rivista attenta alla condivisione dei contenuti per una qualità dell’informazione sempre più alta.

Tante le criticità emerse durante la serata: dalla necessità burocratica, in Statale, di essere rappresentati da un giornalista iscritto all’ordine per ottenere dei rimborsi dall’università alle carenze di chi si getta, senza esperienza pregressa, in progetti tanto ambiziosi, dal rischio di emorragie inaspettate di collaboratori alle inevitabili nottatacce dei capi alla caccia di redattori inadempienti. Annoso problema è infine quello del reperimento di fondi: gli atenei non ne forniscono, le testate non ne hanno, i redattori non sono pagati, e in alcuni casi l’unico modo per “fare cassa” è quello di accostarsi agli sponsor, come alcuni giornali presenti all’incontro hanno raccontato di avere fatto in passato.

E proprio per porre rimedio a queste problematiche comuni, due sono state le proposte avanzate su cui ogni testata si è impegnata a collaborare: la fondazione di un’associazione riconosciuta legalmente che riunisca tutti i titoli coinvolti e il loro inserimento in una piattaforma di mutuo soccorso gestita on line per colmare eventuali buchi nel timone. Lo scopo è proprio quello di aiutarsi a vicenda laddove sorga qualunque problema di sorte, un po’ come hanno fatto, nel mondo del giornalismo professionale, i gruppi Rcs, L’Espresso e 24 Ore. E anche noi di Pequod, come i “big”, crediamo che l’unione faccia davvero la forza.

TAV e sfratti: un’esperienza umana

Pequod vi propone un’intervista che tenta di approfondire l’esperienza dello sfratto, dell’“espropriazione per pubblica utilità” che nel concreto significa abbandonare forzosamente la propria casa, in virtù della realizzazione di un progetto più grande. Anche quando non si condivide tale progetto.

Ne abbiamo parlato con Alessandra Zanini, dietista di 25 anni che ha sempre vissuto in un’abitazione di via Toscana, a Brescia, fino a quando le hanno comunicato di dover lasciare la sua casa per la realizzazione di una tratta ferroviaria ad alta velocità.

Ciò che spesso sfugge tra le pagine dei quotidiani è la dimensione umana di tali esperienze, che tocca tutti al di là delle personali posizioni ideologiche e dei tecnicismi.

 

Alessandra, partiamo dall’inizio: la tua famiglia come ha saputo dell’esproprio? Sul Giornale di Brescia (26 luglio 2012) leggo le parole di Maurizio Zanini, tuo padre: siete stati informati solo dai giornali?

«Tutto è iniziato nel luglio 2012, quando da un articolo del Giornale di Brescia si parlava di lavori in città che nei prossimi anni avrebbero recato disagi al traffico e alla cittadinanza; tra questi c’erano quelli previsti per il TAV a Brescia, con l’abbattimento di alcune palazzine. C’era la foto di casa nostra. Solo in via Toscana si tratta di 23 abitazioni; si aggiungono le 4 di Villaggio Violino e i giardini privati di via Roncadelle, per un totale di circa cento persone coinvolte direttamente. Abbiamo chiesto informazioni alle amministrazioni, ma nessuno sembrava saper nulla. Ad agosto arrivano le prime comunicazioni di Italferr [ditta incaricata dei lavori per la tratta bresciana del TAV, n.d.A], che chiede di formulare una proposta di indennizzo per l’esproprio della propria casa, ma cercando sul sito di Italferr apprendiamo che l’ammontare degli espropri era già stato fissato. Intanto nessun politico o ente competente ci ha dato informazioni, lasciando che si generasse il panico totale. Considera che la maggior parte dei coinvolti sono anziani che vivono in casa loro “da tutta una vita” e lì hanno cresciuto tutta la famiglia.»

FOTO 1
Le case di via Toscana che dovrebbero essere abbattute per la costruzione del TAV.

Quali sono state le risposte del comune di Brescia?

«Dopo una pressante richiesta mediatica, il 2 ottobre 2012 riusciamo ad avere un incontro con il sindaco di Brescia (ai tempi Adriano Paroli) e Italferr, che ribadisce di non voler modificare il progetto per evitare di abbattere le case coinvolte.

A fine anno si ha solo la certezza che le case dovranno essere lasciate entro fine 2013, ma a febbraio Italferr comunica che chiede la disponibilità delle case entro gennaio 2014. Essendo vicino alle elezioni amministrative, Paroli, sindaco PDL in carica, fa promesse di ogni tipo agli abitanti di via Toscana: parla di salvare una palazzina, di ricostruire una “piccola via Toscana” in una zona vicina… ma la realtà è diversa. La gente era spaventata, le mie vicine di casa più anziane si auguravano di morire prima di dover lasciare casa. Intanto Italferr fa un vero e proprio ricatto: o accettate i soldi dell’indennizzo o subentra l’esproprio coatto e venite sbattuti fuori senza prendere niente.

Gli abitanti di via Toscana, uniti in un comitato per tutelarsi, riescono a ottenere un incontro con i principali candidati sindaci e proiettano il video Tav – Storie di espropri a Brescia, per far capire a tutti che la casa non è solo mattoni, soldi e nulla più. La casa è ricordi, emozioni, sentimenti. In questo penoso incontro i candidati si dimostrano completamente disinformati sulla questione TAV a Brescia, fatto seriamente vergognoso visto il costo e l’impatto ambientale che ha sulla città. Con l’aiuto di un tecnico il comitato obbliga Italferr a riconsiderare il valore effettivo di ogni abitazione e così l’indennizzo diventa più congruo al valore della casa, ma non permette di ricomprarsene una di uguali caratteristiche e soprattutto non considera il danno morale alle persone, costrette ad abbandonare abitudini e ritmi di vita consolidati. Da settembre 2013 iniziano le prime cessioni obbligatorie delle abitazioni, che tra pochi giorni saranno completamente vuote.»

Come pensavate sarebbe cambiata la vostra vita e come è realmente cambiata, nel quotidiano?

«Abbiamo passato un anno e mezzo devastante, pieno di sofferenza, rabbia e frustrazione per non essere riuscite a far nulla per le nostre case e a far capire che il passaggio del TAV creerebbe danni a tutti: inquinamento, devastazione ambientale e disagi dovuti ai lavori. Molte persone ancora non sanno, o forse fingono di non sapere. Come i negozianti e i cittadini che fingono di non sapere che si troveranno i cantieri davanti alle attività, sotto le finestre di casa. Per ora non c’è, quindi non è un problema. La storia della Val Susa e di altre città già segnate dal TAV purtroppo alla popolazione “media” non è arrivata nel modo giusto. Credo che in questo caso i mass media abbiano creato lo stereotipo del No Tav = Black Block che spaventa chi non conosce i motivi e le modalità di questa lotta.»

 

È da quel momento che hai deciso di partecipare attivamente nel gruppo NoTAV di Brescia oppure eri già coinvolta nelle iniziative?

«Da agosto 2012, conoscendo gli attivisti della Rete Antinocività Bresciana, decidiamo di creare un gruppo, inizialmente composto da 3-4 persone tra cui io e mia sorella Valentina, per fare informazione sul TAV nella nostra città. Il gruppo cresce e creiamo varie iniziative: spettacoli di teatro, presidi, volantinaggi, presentazioni di libri, proiezioni di video, dibatti ecc. Partecipiamo anche a livello nazionale a una lotta che negli ultimi tempi è emersa non solo come lotta contro un treno, ma contro un modello di sviluppo che non funziona.

Essendo parte di Rete Antinocività per noi la questione ambientale di Brescia è un punto fondamentale per far emergere come i soldi pubblici vengano spesi per grandi opere i cui i profitti vanno a pochi, mentre l’ambiente e la salute dei cittadini sono all’ultimo posto nell’agenda della amministrazioni.»

FOTO 2
Una delle prime iniziative organizzate da Alessandra Zanini all’intero del gruppo No TAV.

Se l’ “espropriazione per pubblica utilità” è un provvedimento giuridico che sacrifica il bene privato per il bene della collettività, quali considerazioni puoi fare, considerando le specifiche problematiche di Brescia?

«“Bene della collettività”? Sia l’attuale sindaco Del Bono che la dirigente Italferr della tratta bresciana, a questa domanda hanno saputo rispondere solo: «Un guadagno di più di 10 minuti di tempo tra Milano e Brescia». A che costo però? 2 miliardi di euro e capannoni, case, campi espropriati e distrutti… e un biglietto che sarà inaccessibile a tutti. Pensa che a Brescia questa bretella non doveva nemmeno passare… l’ha voluta, per il prestigio della città, l’ex sindaco PD Corsini, amico di partito della Lorenzetti, arrestata per il traffico illecito di rifiuti legato al TAV. In generale, Brescia è in uno stato di emergenza ambientale. L’acqua è contaminata da cromo esavalente, sostanza cancerogena, tanto che in alcune zone l’acqua del rubinetto è non potabile. Anche l’aria è molto inquinata; nelle scorse settimane oltre a PM10 è stata rilevata una concentrazione di PCB inspiegabile. E poi la contaminazione del suolo con materiale radioattivo, amianto… Viviamo in una città letale e le cose non cambieranno finché la gente non cambierà mentalità.»

FOTO 4
Denuncia del ritrovamento di amianto sul Giornale di Brescia del 4 aprile 2014. Nella foto, a destra, Valentina Zanini.

Tu e tua sorella state realizzando un video per raccontare la vostra esperienza e la difficoltà anzitutto umana di affrontare l’allontanamento forzoso dalla propria casa…

«È un’idea di mia sorella, che ha scritto delle frasi su emozioni e pensieri riferiti a ogni stanza della nostra casa. Questo per comunicare quello che abbiamo provato e stiamo provando: dolore, rabbia, rancore… Perdiamo non una casa, ma i ricordi di una vita, i ricordi di nostra madre, di noi piccole… e in tutto questo ci sentiamo solo giudicate, da una parte come “ribelli” e dall’altra come “vendute”. Questo non ci demotiva, anche se portare avanti questa lotta è stato difficile. Per noi la lotta No TAV non finiva terminata una riunione; per mesi si è parlato solo di quello in casa, ogni pranzo e ogni cena. Con le difficoltà che un nucleo famigliare può avere nell’affrontare la cosa. Noi vivevamo solo con nostro padre, che essendo in pensione e avendo due figlie disoccupate, ha deciso di proteggere la sua famiglia accettando l’esproprio. Noi invece avremmo lottato con le altre famiglie.»

Con quale stato d’animo ti sei avvicinata alla “consegna delle chiavi” di lunedì 7 aprile?

«Abbiamo cercato di non pensarci fino all’ultimo. Sarà difficilissimo, significherà arrendersi, mettere da parte i propri ideali… ma non ci fermerà. Questo è successo a noi, ma non dovrà più accadere! La gente ha il diritto di essere informata! Pensa che alcune persone di via Toscana avevano comprato casa da poco e nessuno li aveva avvisati di quello che sarebbe successo. Questo non è accettabile! Tutti devono capire che dietro a quest’opera si nascondono corruzione, devastazione dei territori, pericoli per la salute dei cittadini e le generazioni future. Consegnare le chiavi sarà perdere una parte di questa battaglia, perdere una parte della nostra vita

Universo Università

Dati inquietanti che si aggirano sul web sostengono che i laureati italiani sono quelli che hanno in percentuale minori probabilità di impiego tra tutti i colleghi europei. La notizia non è certo sconvolgente, basta guardarsi attorno per capire che è davvero così: molti laureati se ne stanno a casa senza riuscire a trovare non solo un lavoro adeguato al proprio titolo di studio, ma neppure un qualunque altro tipo di lavoro. Alla faccia del ministro che sosteneva che i giovani italiani sono “choosy”, capita molto spesso che un laureato, qualora si presenti, mettiamo il caso, per un posto di cassiere al supermercato, si senta dire che avrebbe avuto più possibilità di impiego se si fosse presentato con il diploma o addirittura la licenza media!

Secondo la fonte che ha pubblicato il sondaggio sull’impiego post lauream, il divario esistente tra la situazione dei laureati italiani rispetto agli altri europei sta nel fatto che l’università negli altri paesi d’Europa come ad esempio Francia, Germania e Inghilterra, includa obbligatoriamente dei percorsi di tirocinio o di alternanza studio-lavoro che consentono allo studente di immettersi nella realtà lavorativa del settore che ha scelto prima ancora di aver terminato gli studi e di poter così vantare nel proprio curriculum questa esperienza.

Purtroppo la realtà universitaria nostrana non incentiva questo tipo di percorsi: forse ciò deriva da un pregiudizio che considera a teoria superiore alla pratica, il sapere fine a se stesso preferibile rispetto a quello applicato. Se questo è un discorso che può essere corretto per le scuole superiori, che, infatti, sono tra le più quotate in Europa e nel mondo, nonostante la condizione di svilimento economico e sociale a cui è sottoposta la classe docente da politiche di tagli indiscriminati alla scuola, per la formazione universitaria risulta controproducente. «La pratica senza teoria e cieca, come è cieca la teoria senza la pratica» afferma un aforisma di Protagora. La cultura classica è certamente importante e basilare per la formazione del cittadino, ma, come dimostra questo aforisma, è altrettanto necessario trasporne in pratica gli insegnamenti.

La mia esperienza personale, presso una facoltà umanistica come quella di Lettere della Statale di Milano, mi ha mostrato un mondo asfittico, sterile. Ciò che maggiormente mi ha deluso è stato proprio l’abisso che si è voluto scavare tra la realtà universitaria, il mondo della letteratura, e la società odierna con le sue dinamiche e le inevitabili questioni che ci pone di fronte. Purtroppo molto spesso l’università diventa l’arena in cui i docenti si mettono in competizione fra loro, il palcoscenico in cui fanno mostra di se, non il luogo principe della formazione delle nuove generazioni. E ancor di più mancano adeguati spazi in cui gli studenti possano mettere in pratica le nozioni acquisite, mettendo alla prova se stessi in percorsi extrauniversitari lavorativi o di apprendistato. L’università, per di più, non solo non incoraggia tali esperienze, ma anzi, sembra addirittura ostacolare quegli studenti che, al di fuori dell’ambito universitario, decidono di lavorare, ponendo sul loro cammino continui ostacoli che vanno dalla difficoltà di ottenere colloqui con i docenti al di fuori dei consueti orari di ricevimento (sia inteso, ci sono anche docenti molto disponibili in questo senso che fanno di tutto per venire incontro alle esigenze, ma, purtroppo, non sono la maggioranza), alla penalizzazione che spesso emerge in sede d’esame degli studenti non frequentanti.

La congiuntura economica attuale e l’elevata disoccupazione giovanile mette in primo piano la necessità di una riforma strutturale del sistema universitario che deve maggiormente aprirsi al mondo del lavoro: rischia di produrre schiere di disoccupati senza futuro se dovesse restare ripiegato su se stesso, nel proprio piccolo universo, appunto l’universo università.

Pellegrinaggio fra le ipocrisie di Lourdes

E’ una serata di metà maggio. Io edalcuni amici stiamo organizzando, con della fresca birra, una grigliata per il weekend successivo quando, improvvisamente, Sara ammutolisce: «Io non posso ragazzi. Quattro anni fa avevo promesso a mia nonna che un giorno l’avrei accompagnata a Lourdes… parto venerdì prossimo».

Lourdes, città situata nella regione degli Alti-Pirenei, è divenuta famosa in tutto il mondo grazie all’apparizione mariana del 11 febbraio 1858 alla quattordicenne Bernadette Soubirous. Successivamente ci furono altre diciassette analoghe visioni e assieme ad esse arrivarono numerosi cambiamenti che, nel tempo, trasformarono il piccolo paesino ottocentesco di 4 mila abitanti nella terza città alberghiera di Francia. Oggi la popolazione ammonta a 15.400 residenti con un afflusso di circa 6 milioni di persone l’anno; la città, inoltre, ha un bilancio di 18 milioni di euro, di cui il 90% deriva da offerte, doni e lasciti .
Sara, ragazza di 24 anni non credente, ha un solo motivo per passare quattro giorni in uno dei luoghi di culto cristiani più conosciuti al mondo: trascorrere un po’ di tempo con la nonna, ma grazie all’ottimismo lo spirito del viaggio si traduce nell’intramontabile carpe diem.

«Sembrava di essere allo Sziget, ma invece dei palchi c’erano la Grotta e le Chiese; e invece dei concerti le messe e i rosari. Ah, poi c’era un cinema: ogni ora riproducevano la storia di Bernardetta in una lingua diversa».
Nel centro di Lourdes non ci sono case, ma innumerevoli alberghi, quasi 400, con nomi nella direzione di Hotel du Calvaire, Hotel Concorde oppure Christ-Roi, che perdono stelle man mano che si allontanano dal Santuario di Nostra Signora di Lourdes e, a quanto pare, anche clienti visto che molti rimangono abbandonati. Nonostante la poca presenza degli abitanti del luogo, di certo la città non è morta. Il Santuario è composto da tre chiese, una superiore, una centrale e infine una sotterranea; quest’ultima, in particolare, è grande «come un campo da calcio», tutta di cemento armato, con l’altare al centro e due maxi schermi per vedere la messa.

Accanto si ergono la Cappella dell’Adorazione Perpetua, dove i fedeli posso pregare 24 ore su 24, e un’altra cappella in cui alla domenica si svolge la Messa Internazionale. Tutte le sere, inoltre, Lourdes è illuminata dalla fiaccolata della processione serale e il Santuario permette l’adorazione sino alle 2 di notte.

Una curiosità: camminando per la città può capitare di vedere una striscia sottile blu ai lati della strada che collega il Santuario alla Casa di Bernadette, sempre a Lourdes.

La Santa ha trascorso un certo periodo della sua vita a Bartrès, per aiutare la zia ad accudire le pecore, e proprio qui Sara farà una gita in pullman. Il posto è magnifico, i Pirenei abbelliscono il verde dei prati. La tranquillità del posto potrebbe trasmettere ai suoi visitatori il primo e unico attimo di raccoglimento, se non di preghiera, almeno di silenzio meditativo, ma il prete, dal canto suo, sente il bisogno di fare un raccoglimento di gruppo. Perché tutto, a Lourdes, dal Santuario alle cappelle, dalle processioni alle messe e in accordo con l’ortodossia cristiana, tutto deve essere condiviso e vissuto assieme.

Di fronte a ciò, l’unico pensiero autentico è probabilmente quello della mia amica, la quale, di fronte allo spettacolo dei Pirenei e delle casette isolate, non può che paragonare il paese a ciò che Lourdes stessa era una volta e a come l’attività di culto l’abbia definitivamente cambiata.

Il weekend riserva a Sara un’altra sorpresa: è il Pellegrinaggio Internazionale dei Militari.
Mentre si camminava per strada, mi racconta Sara, improvvisamente capitava di essere travolti dalle loro parate e ritrovarsi circondati da cori e preghiere di tutte le lingue, piume colorate e mantelli di varie dimensioni, accostamenti di ritmi di marcia ai ritmi della processione.

Chiedendole di raccontarmi un evento significativo del pellegrinaggio militare, Sara mi descrive i distributori di ceri posizionati nel Santuario: sorgono accanto ai baldacchini con candele di varie misure – tre dimensioni diverse – spesso troppo pieni; così, per posizionare la propria candela, si deve lasciarla agli addetti che ogni tot liberano i posti.

Davanti a questi negozi, i militari sono soliti acquistare i ceri per addobbarli di bandiere e fotografie dei loro caduti, dimostrazione del fatto che non sono solo a Lourdes a seguito di un comando imposto, ma anche per loro libera iniziativa: «Pensare al legame Chiesa-Esercito, personalmente, mi mette i brividi».

Ora però i viaggi devozionali a Lourdes sono stati bloccati: «Non è solo un’alluvione, ma una catastrofe!», ha dichiarato Nicola Ventriglia, cappellano coordinatore dei fedeli di lingua italiana, a Radio Vaticana, di fronte al disastro naturale. A voi il video tratto dal sito del Santuario di Lourdes: eccovi.

Perù: numeri su numeri

Santa Eulalia (Perù)
30/03/2012
Ora: 9:32
Manana

Un po’ di numeri. 4.534. 210. 06:20. 1036. 3408. 3398 prima e 3398 dopo. 3374. 18:15. 3660. 1492, o più precisamente 1524.

4534. I metri, altezza violata, raggiunta, conquistata. Verdi prati sotto le cime innevate dei ghiacciai e branchi di lama che corrono lungo i pendii delle montagne. Mai stato così tanto vicino al cielo in vita mia, il record d’altezza del Blindenhorn dell’estate passata, con i suoi 3374 metri, è ampiamente superato e non so se sarò mai ancora così tanto alto in futuro. Ma andiamo per ordine, una descrizione così sommaria non rende giustizia ai paesaggi e alla gente incontrata lunedì.

06:20. L’ora. Il retro del pick-up è carico di bolsas rosse, contenenti un po’ di tutto: matite, spaghetti, pennarelli, tolle di fagioli, quaderni e pacchi di riso. Destinatari i bambini del progetto SOS NINOS, piccoli ramini che vivono nelle comunità campesine al di sopra dei 3000 metri. La carrettera è un’altra rispetto al viaggio di sabato, ma la sostanza non cambia, affidamento cieco e totale all’autista, Pascual, e tante curve e sobbalzi per stomaci forti (il mio incredibilmente reggerà all’urto per l’intera giornata).

210. I minuti, di viaggio, tra un sobbalzo e lo spostamento di pietre dalla carreggiata per far passare il pick-up. 3 ore e 10 minuti ed eccoci. Acobamba, venti case di pietra con il tetto in lamiera che si stagliano su prati verde smeraldo, rigogliosissimi e zuppi di acqua (come scopriranno loro malgrado i miei poveri piedi) per via dell’elevato tasso di umidità e delle continue piogge. Aria rarefatta e grossa fatica a respirare, faccio una corsa e a momenti mi viene un infarto; Silvia, una delle instancabili volontarie, mi avvicina e mi dice che è una locura, una pazzia.

Acobamba

A 4534 metri, le venti case per trenta abitanti di cui almeno dieci tra ragazzi e bambini. Le domande su come delle persone possano vivere a certe altitudini, qui si amplificano. E si amplifica anche il mio stupore alle risposte del tutto naturali dei volontari peruviani abituati a vedere queste cose. Lana di alpaca e lama, papas e queso; tutto ciò che basta per vivere,tsè!

Consegna dei pacchi, foto di rito con i bambini inquadrati che non mi sorridono neanche a pagarli e la comune credenza che io sia un fotografo vista l’attrezzatura, e tutti mi fanno complimenti ancor prima di aver visto le numerose foto bruciate che verranno fuori. I bambini qui sono lievemente diversi, al contrario delle città, dove aspetto, colore della pelle e taglio degli occhi varia notevolmente, qui hanno più o meno tutti la stessa fisionomia, con gli occhi leggermente allungati, di uno scuro intenso, e la pelle della stessa tonalità, rame molto scuro, con le guance fortemente arrossate che sembrano quasi rigate.

E’ il freddo e il sole mi dicono, chi vive qui ha una pelle molto dura che tende a scurirsi, che sopporta il gelo e il vento e il sole qui più forte che mai. Il sole già, bastano dieci minuti perché la mia faccia assuma quella tonalità di colore che varia dal rosso aragosta al viola uva ben maturata. Tonalità che tutt’ora porto sul viso creando l’ilarità di chi incontro. Ma i bambini son differenti non solo per l’aspetto fisico, son chiusi, non sorridono e son più timidi che mai, i miei classici tentativi di pagliacciate non sortiscono alcun effetto. E qui entrano in campo altri numeri.

1492 o più precisamente 1524. Il primo è l’anno della scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo, il secondo è l’anno in cui lo spagnolo Francisco Pizarro da al via alle spedizioni che miravano alla conquista dell’impero Inca. Entrambe le date si riveleranno foriere di sventura per i popoli indigeni della zona. La “civilizzazione” porterà a quello che tutti noi conosciamo come un genocidio di massa, civiltà floride e secolari destinate a scomparire. Ma che c’entra con un viaggio in pick-up ad alta quota nel 2012? C’entra, c’entra eccome. Alla mia domanda sul perché i bambini e gli abitanti si siano rivelati così freddi mi rispondono in due maniere, innanzitutto perché non sono abituati a vedere un gringo da quelle parti, e poi, soprattutto perché per loro, ancora oggi, a così tanti anni di distanza, il blanco è colui che è venuto e ha distrutto tutto. Portatore di sventura. Non ci può essere una buona visione di lui, la diffidenza impera.

3408 e 3660. Il viaggio continua, si passa a consegnare i sacchetti ai bambini delle comunità di Huanza (3408) e Laraos (3660). Nel viaggio di ritorno arriva la neblinda, la nebbia, le nuvole che ogni pomeriggio assediano queste quote. Più che banchi di nebbia si potrebbero definire banchi di acqua vaporizzata, in quanto se ci sei in mezzo ne esci fradicio senza che ti abbia piovuto addosso. Ora i miei piedi comprendono perché i prati sono così inzuppati d’acqua.

3398 prima e 3398 dopo. Il dislivello. Salire e scendere così tanto metri porta a giramenti di testa, nausea e senso di debolezza. Rimedio? Uno solo, coca. Che sia un tè agli estratti di foglia di coca, foglie di coca da masticare o sia coca-cola non importa, l’importante è assumerlo prima o dopo la salita. Padre Joachin, che si fa in media ogni settimana i suoi buoni 2000-3000 metri di dislivello, si spara mezzo litro di coca-cola all’andata e mezzo al ritorno. Dice che il rimedio glielo ha consigliato una monaca, non sa bene perché ma funziona.

18:15. Il ritorno. Pascual dopo aver guidato praticamente per 5-6 ore su strade decisamente improponibili impreca per il dolore alle gambe, Silvia, Jordie e German, la mia compagine sudamericana, arrivano stannchi ma pronti a ripartire; mercoledì li aspetta un nuovo viaggio in altre comunità al di sopra dei 3000 metri. Io son devastato dal viaggio e in più martedì sto in giro tutto il giorno, al che mercoledì rinuncio ad andare; mi sento un po’ una sega e in effetti credo di esserlo un po’, quando vedo tornare Pascual e Silvia la sera di mercoledì: facce stravolte e retro del pick-up vuoto, borse consegnate.

Acobamba, mi siedo per respirare meglio, sono in un vicolo e mi si presenta una gucciniana immagine al femminile e peruana., La vecchia e la bambina, si preser mano e insiem andavan incontro alla sera.

Due vite agli antipodi: una che vira verso l’inesorabile tramonto e una che sta sbocciando ora, incontro alle difficoltà che comporta vivere in questi posti. Perfetto. Grazie Acobamba.

Acobamba 4534
Acobamba 4534

Frammenti di una Berlino ante-spread

Berlino. Ci son stato nel novembre 2011, durante gli ultimi sussulti del governo Berlusconi IV, in piena atmosfera di ancien régime: non ci fregava niente di spread, della “culona” Merkel, della Banca Centrale Europea, e i tecnocrati ancora non sapevamo bene cosa fossero (dal cilindro di Napolitano, stava per uscire un bel coniglio).

Berlino non era ancora diventata la tana del Lupo tedesco, una grotta di austerità e inflessibilità europeista, efficientemente antipatica, ma continuava a essere la città-utopia dei giovani italiani delle belle speranze: grafici, artisti, musicisti, dottorandi emigrati lassù in cerca di uno stipendio dignitoso.

Ci andavo dunque curioso e spensierato, quasi incosciente, come una piccola Cappuccetto Rosso italiana alla ricerca del genius loci. Del Lupo, nessuna traccia visibile.

Berlino e il Novecento, Berlino e il muro, Berlino e la Wende.

Come non farsi aspettative, come partire a mente lucida? A differenza di tante altre città, a Berlino non arrivi mai neutro. Sei, anche involontariamente, carico di un bagaglio di storie. Cerchi i riflessi di queste storie negli edifici, nei visi delle persone, nei residui di un passato ingombrante. Inutilmente. Berlino non si lascia raccontare.…

Puoi affidarti a Benjamin, che ti parla della sua infanzia a Charlottenburg, lo storico quartiere ovest, rifugio dei borghesi. Ti riempie dei suoi ricordi, trasporta il lettore su una giostra proustiana – la Siegessäule coperta di neve come un dolcetto natalizio, i parchi, la vita lenta di un tempo, le buone maniere –, ma nulla rimane di quel mondo. Leggendo le pagine di Benjamin impari una prima lezione: la dimensione di Berlino è il tempo. Dopo l’azzeramento del dopoguerra e più di qualsiasi altra città al mondo, Berlino ha dovuto fare i conti, più che col suo passato, col suo futuro.

Tutte le guide, come per tacito accordo, parlano male dell’architettura di regime. Come non dar loro ragione? Criticano l’impersonalità degli enormi edifici della DDR (Alexanderplatz e la Fernsehturm), biasimano le scelte di regime: i restauri (la parte est di Unter den Linden ne è un esempio), le demolizioni (il vecchio Berliner Schloss), le ricostruzioni (l’immenso set cinematografico del Nikolaiviertel) – e nello stesso tempo si affrettano a cantare le lodi dei neubauten postmoderni, sorti come funghi dalle ceneri di una città depressa, firmati dai più grandi architetti mondiali.

Al centro della nuova luccicante Potsdamer Platz, ai piedi di grattacieli colorati, non mi senso meno spaesato di prima. E il viale di Ku’damm, questo immenso cugino teutonico degli Champs-Élyseés, non mi pare meglio della comunista Berlino est. Ma neppure l’intellettuale Museuminsel, così chic, così demodé, assicurata alle fotocamere dall’UNESCO, riesce ad evocarmi i neoclassici disegni originali del suo creatore, Schinkel, e rimane come sospesa in quella aura posticcia da sito turistico che noi italiani conosciamo bene.

Potsdamer Platz
Come verranno giudicati questi nuovi edifici tra 50 anni? Saranno ancora di moda, o scivoleranno inesorabilmente verso l’obsolescenza? Non potrebbero forse correre lo stesso rischio dei loro speculari comunisti? La ricostruzione di una città deve tenere conto del suo passato, o può permettersi di scavalcarlo per reinventarsi?
Cammino per lo Scheunenviertel, il vecchio quartiere ebraico, a nord del Mitte, appena dopo la Sprea. Sotto una sinfonia quasi parigina, si possono apprezzare squarci gotici, improvvisazioni popolari anni ’50, nonché esotiche rivisitazioni come la Neue Synagoge. Procedo ammirando i negozi, pensando all’incredibile capacità che hanno avuto queste persone di reinventarsi un futuro da grande paese.

Inciampo. Guardo a terra: un piccolo sanpietrino dorato, leggermente più grande degli altri attira la mia attenzione. Scoprirò solo più tardi che si tratta delle Stolpersteine, le “pietre d’inciampo” che ricordano gli ebrei sterminati dai nazisti. È raro che un’opera d’arte (come chiamarla altrimenti?) riesca nell’ingrato tentativo del ricordo senza cadere nel banale e senza essere troppo personale o univoca. Le piccole lapidi dorate rimangono come un monito, silenziose e discrete. La memoria come inciampo, come errore collettivo che interessa anche il turista distratto; presenza permanente e diffusa.

Un’altra presenza, bella quanto inquietante, è la Fernsehturm. Questo immenso totem priapico auto-elogiativo, simbolo di un regime al suo apogeo, orienta la città. Appare improvvisamente agli occhi del visitatore: minacciosa, come dietro al Berliner Dom, misteriosa, eterea nelle nebbie notturne. È come l’ago della bussola per chi si è perso. Una Tour Eiffel tedesca: pulita, essenziale, funzionale, lontana dall’eleganza frivola e dalla leggerezza della sorella francese.

 

Alle 9 di mattino non c’è nessuno al cimitero di Dorotheenstadt. Percorro un vialetto in terra battuta, gli alberi sono spogli, scheletrici. In fondo una statua di Martin Lutero. Non potrebbe esserci nulla di più gotico. Il silenzio è impressionante: sono al centro del quartiere alla moda di Berlino, a due passi dall’affollata Oranienburger Straße, e il cimitero è piccolo. Non si sente nulla. Percorro i sentieri interni, percorro la storia di Berlino: qui c’è Schinkel, l’architetto ufficiale della grande Prussia classica; qui, sotto una semplice pietra ruvida, trovo Brecht e consorte, testimoni del primo Novecento tedesco: dai fermenti degli anni ’20, per le follie del nazismo, fino alla divisione.

Ma la tomba di Hegel non riesco a trovarla. Giro e rigiro, torno sui miei passi: trovarlo è più difficile che leggerlo. Finalmente compare, in un vialetto secondario oscurato da abeti, una tozza forma squadrata, in marmo rossiccio – sembra quasi la torre degli scacchi. Una magnifica ghirlanda votiva della Humboltd Universität ai suoi piedi. La semplicità sconcertante della tomba del più grande (e più egocentrico) filosofo classico tedesco risalta sulla ridicola pomposità di quella di Fichte, al suo fianco. Un obelisco mangiato dal tempo, nome e viso, scolpiti sulla pietra bianca, ormai illeggibili. Per ironia della sorte, si capisce che è Fichte solamente leggendo la tomba della moglie, alla sua sinistra.

Tomba di Hegel, cimitero di Dorotheenstadt

Ne Il cielo sopra Berlino Marion, la trapezista dice che a Berlino non ci si può perdere, perché «alla fine si arriva sempre al muro». Oggi il Mauer non c’è più, ci si perde molto più facilmente ed è difficile capire dove finisca la vecchia Berlino Est e dove cominci la Ovest. Il Muro come esercizio di relativismo: da una parte lo chiamavano muro, Mauer; dall’altra antifaschisticher Schutzwall, barriera di protezione antifascista.

Infine il Muro come reliquia. Conservato, curato, neutralizzato, può svolgere la sua funzione istituzionalizzata di ricordo collettivo. «La più grande mostra all’aperto di arte di strada!», acclamano le guide. Ma se il Muro, per essere visto, deve essere mostrato, allora vuol dire che non esiste più, è solo un’invenzione.

La pace di Viktoriapark, assonnata collinetta nel cuore di Kreuzberg. Ancora una volta il disegno è di Schinkel: i sentieri all’inglese cedono il posto nella salita ad una simmetria più nordica, fino ad arrivare alla sommità, dove le linee s’incontrano, il progetto si palesa e si apre davanti agli occhi il grande sipario della città. Il sole si riflette sulle guglie lontane, indora il tempietto gotico pieno di eroi e di allegorie, esalta la silhouette marziana della Fernsehturm.

A Kreuzberg ovest, la parte più agiata del grande quartiere turco, entro in questo famoso negozio di dischi, Spacehall. Dovrebbe essere il maggiore centro di spaccio della nuova produzione elettronica tedesca. Mi aspetto di trovare anche un nutrito reparto dedicato al krautrock. Niente. Sotto l’etichetta un po’ slavata dal tempo rimangono solo, quasi fossero anch’essi residuati bellici, un classico dei Popol Vuh, una raccolta di b-sides dei Can, e lavori minori dei Cluster. Chiedo alla commessa, magari c’è qualcosa in più in magazzino. Mi guarda in modo strano, risponde che quello che c’è, è tutto in mostra.

Le chiedo allora di indicarmi la sezione della nuova elettronica tedesca: mi accompagna davanti a dieci scaffali ricolmi degli artisti più sconosciuti e improbabili, in eleganti edizioni cartonate, minimaliste, vinili e ristampe di lusso. Capisco che il tempo del krautrock, il tempo della kosmische musik è finito. Allora, in una nazione divisa e occupata, la necessità era forse quella di evadere: uscire dai propri limiti, assaggiare il cosmo attraverso musiche “progressive”, sperimentali, suites infinite e allucinate. Oggi il suono di Berlino (New Sound of Berlin, come è fieramente scritto sul divisorio) è quello delle discoteche, delle sperimentazioni in laboratorio, figlie del lavoro – artistico e scientifico – di Stockhausen, dei Kraftwerk e di Schulze.

Un suono pulito, rivolto al futuro, fatto di rumori e ritmi sghembi, ricalcato sulla nevrosi della grande città. Oggi lo Zeitgeist è sul cavallo di Alva Noto: nervoso, frenetico, eccitante. Una selva di fischi, di rumori, di richiami, come in un grande tiergarten meccanico.

A un anno dall’Expo: c’era una volta il software antimafia

Tempo fa leggendo Il Fatto Quotidiano mi sono imbattuto in un pezzo di Gianni Barbacetto dal titolo Expo e il software antimafia scomparso. Una storia strana. Storia di ordinaria (pubblica) amministrazione. Ma andiamo con ordine. Mancano trecentocinquantaquattro giorni all’inizio dell’esposizione. Tra maggio e ottobre del prossimo anno a Milano sono attese milioni di persone ogni giorno, un grande giro d’affari. Un’enorme opportunità per tutti i settori economici. Ma a meno di un anno dall’evento, ci tocca parlare di una nuova tangentopoli e delle, ahime! Solite, infiltrazioni mafiose nei cantieri edili.

expo 2

A proposito di cemento e ‘ndrangheta, circa un paio d’anni fa venne presentato il Sogiexpo, uno straordinario strumento tecnologico in grado di incrociare dati e analizzare ogni singola impresa, rilevando eventuali condizionamenti o ingerenze della criminalità.
Bellissimo, stupendo, meraviglioso! Il progetto suscitò grande entusiasmo nei palazzi delle istituzioni. E in effetti questo strumento avrebbe potuto rivelarsi preziosissimo al fine di tenere lontano dai cantieri personaggi e aziende poco raccomandabili.

Nel 2012, la creazione e successiva gestione del software viene affidata a trattativa privata (in cui l’azienda o le aziende vengono scelte direttamente dall’ente pubblico che appalta i lavori, senza un bando pubblico quindi) per complessivi 500.000€ a “Opera21” una società che fa riferimento alla Compagnia delle Opere (costola di Comunione e Liberazione). Peccato però, che la suddetta società in quel periodo abbia già grosse difficolta economiche e nel 2013 porta le carte in tribunale.
Fallita, viene rilevata dalla società romana TopNetwork che dunque dovrebbe prendersi carico di tutte le commesse, compresa quest’ultima, che è anche la più importante. Ma qualcosa va storto. Scrive Barbacetto nell’articolo del 29 marzo scorso: «I tecnici che stavano lavorando al software per Expo si sono licenziati e sono passati ad un’altra società la “Wiit” di Alessandro Cozzi. Fuori di sé quelli della TopNetwork, che hanno rilevato un’azienda senza ciò che la rendeva appetibile». A quel punto la TopNetwork pensa bene di chiudere la sede milanese e licenziare i lavoratori dell’ex Opera21.

expo 3

Nel frattempo, l’organizzazione di Expo decide di affidare l’appalto alla Wiit, in attesa di trovare un nuovo appaltatore. Mentre, ad oggi, non si hanno notizie di operazioni anticrimine portate a termine con l’uso di questo preziosissimo (e costosissimo) mezzo informatico.