Viaggi Vintage: il Perù degli anni ’80
Sono passati diversi anni da quando Antonella è stata in America Latina, all’epoca era una giovane sposa che amava la montagna e che col marito aveva deciso di scoprire le vette delle Ande peruviane; oggi è una signora in carne che ha ancora le montagne vicine, ma ha smesso di scalarle. Ogni qualvolta sente parlare di Perù, il suo sguardo si fa attento e tiene ben in vista in salotto il quadro di lana che ha portato dal suo viaggio; la realtà peruviana ha fatto breccia nel suo cuore ed è felice di condividere le sue esperienze, che più che di montagne, parlano di persone.
Antonella Ferrari è partita per il Perù a metà anni 80 come membro di una spedizione CAI; all’epoca il solo aeroporto dello stato era situato a Lima, che come altre capitali dell’America Latina, dall’Ottocento aveva accolto molti migranti italiani.
«Quando noi siamo arrivati, gli italiani erano molti e vivevano da benestanti; avevano case basse e bianche, dagli ingressi rialzati e con giardini rigogliosi. Anche noi dormivano in un bellissimo albergo che nella hall ospitava fiori e colibrì e una delle prime sere fummo invitati in un ristorante di lusso su palafitte.»
Qui la prima immagine di realtà locale: «Lungo il pontile d’ingresso c’era un indigeno che suonava un carillon a manovella, mentre una scimmia ballava. Il nostro ospite commentò: “Povera scimmietta!” Io gli risposi: ”Povero lui!” Ed ebbi un blocco allo stomaco per il resto della cena.»
Tra gli italiani che incontrarono, Padre Taddeo accolse a braccia aperte le medicine destinate alla baraccopoli di Gnagna di cui era direttore, un addensamento di casupole in terra e sterco raccolte attorno a chiesa e scuola, e regalò loro un ricordo unico: «Accompagnammo il Padre ad un funerale; entrammo in una stanza di terra che ospitava una bara di ferro e dopo che fummo presentati, i famigliari ci strinsero la mano: erano onorati che degli stranieri fossero giunti da lontano per salutare il loro caro defunto.»
«A Lima passammo pochi altri giorni e li vivemmo da turisti; la città era piacevole, con il mercato stabile in cui gli indigeni vendevano i loro prodotti dentro casupole stipate d’ogni tipo di merce: dai mestoli ai vestiti in lana di alpaca, dai tappeti ai gioielli in bronzo imitanti gli splendidi monili del vicino Museo dell’Oro. Avrei voluto portare tutti quei colori a casa con me! Ricordo che mi colpì un piccolo presepio, chiuso in un guscio di noce.»
Il resto del mese trascorso in viaggio fu speso scalando le montagne; il gruppo di Antonella si allenò sulla Cordigliera Nera, raggiunta sfidando i precipizi con un piccolo pulmino stipato d’umanità e animali, e sfidò i 6768 metri del Huascarán; attraversarono Machu Picchu, ne sorvolarono i dintorni; raggiunsero Cuzco.
Qui l’episodio che più s’impresse nei ricordi di Antonella:
«Un padre semivestito, magro fino a mostrar le costole, portava per mano la sua bambina, coperta solo con una maglia larga, scalza. Attraversavano il mercato e uno dei miei compagni si avvicinò a me chiedendomi di portar loro il denaro che mi porgeva; io ero piccolina e magrolina, con discrezione mi avvicinai all’uomo. Questi quando gli porsi il denaro s’inginocchiò davanti a me e ringraziò Dio. »
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