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Quando ho visto diecimila persone ballare al Pride

Il piazzale della Malpensata si staglia dritto davanti a me. Il battito cardiaco accelera all’improvviso. Manca poco all’orario di inizio del concentramento del primo Pride della città di Bergamo. Nel parcheggio solo auto e agenti in divisa. Un unico pensiero: lo abbiamo fatto davvero.

Sono Laura, ho 30 anni e sono un’attivista LGBTQI bergamasca dal 2009. Di omo-transfobia avevo letto solo sui libri, ma quando le notizie di aggressioni ai danni di persone gay, lesbiche e transgender iniziarono a fare il giro dei quotidiani nazionali e delle reti televisive, decisi che i libri non bastavano più.

Il 2009 fu un anno emblematico in questo senso. In numerose città italiane sorsero dei comitati che organizzavano manifestazioni di solidarietà e protesta: la comunità LGBTQI si stava mobilitando, alimentata da una nuova forza e da un nuovo senso di coesione. Nacque così Bergamo contro l’omofobia, dapprima comitato fondato da due sparute ragazzine, Laura ed Elisa, poi associazione di promozione sociale che contava quasi un centinaio di iscritti.

Il corteo del Bergamo Pride 2018 (foto di Camilla Giubileo, Tutti i Diritti Riservati).

Allora non capivo cosa ci spingesse a soli 20 e 18 anni a dedicare giornate intere alla costruzione di sit-in, eventi,  raccolte fondi per autofinanziare le nostre attività e incontri di sensibilizzazione nelle scuole. Ricordo solo che rinunciavo persino allo studio, osservando i miei esami universitari naufragare: Bergamo contro l’omofobia era sempre più importante di qualsiasi altra cosa dovessi o avessi in programma di fare.

Questa dedizione non comportò soltanto dei sacrifici, ma fu anche ripagata da grandi soddisfazioni. Riuscimmo infatti a presentare una nostra piccola mostra di baci al Parlamento Europeo di Strasburgo. E, cosa più importante, i giovani gay e le giovani lesbiche di Bergamo ci contattavano per chiederci consigli, per capire come accettarsi e farsi accettare dai loro cari, per entrare nelle loro scuole e confrontarci con i loro coetanei. Stavamo diventando un piccolo punto di riferimento.

Dopo otto lunghi e intensi anni come presidente di Bergamo contro l’omofobia prima e socia volontaria dopo, ho deciso che il mio percorso in quella associazione era terminato e ho scelto di dedicare tutte le mie energie alla costruzione del primo Pride della città di Bergamo. Era giunto il momento di sondare se il cambiamento su cui avevamo lavorato per anni era effettivamente arrivato. E la risposta a questa domanda sono state le diecimila persone scese in piazza lo scorso 19 maggio. Bergamo era finalmente pronta.

Tra quelle diecimila persone, però, c’era solo una piccola manciata di attivisti/e che hanno potuto vivere sulla propria pelle l’incredibile difficoltà dell’organizzare un evento di tale portata.

Quando fai attivismo, la frustrazione è uno degli effetti collaterali che devi sempre tenere in considerazione. A volte le difficoltà sembrano insormontabili e la scarsa risposta di pubblico è demotivante. Essere attivista implica mettersi in discussione costantemente, scontrarsi con l’ostilità esterna, mettere a rischio le proprie relazioni personali e sperimentare un forte senso di solitudine. Riunioni infinite, notti in bianco, concitazione e ansia, la paura di sbagliare e quella di non fare mai abbastanza contribuiscono a darti un senso di impotenza. Pensateci: non è facile incassare un no dalle istituzioni, essere ricoperti di insulti da un esercente omofobo o essere descritti/e come depravati da parlamentari, senatori della Repubblica, politici, interi partiti o movimenti che addirittura scelgono di manifestare apertamente contro la tua libertà o di organizzare veglie di preghiera contro il Pride. Ma forse tutto sommato è proprio l’ingiustizia il motore che spinge ad andare avanti. Se non ci fosse la necessità di contrapporsi a una ingiustizia, non ci sarebbe bisogno di attivismo.

Il corteo del Bergamo Pride 2018 (foto di Cristian Bonanomi, Tutti i Diritti Riservati).

Sono convinta che l’attivismo sia qualcosa che hai nel sangue, che si traduce in una motivazione talmente forte che ti spinge a superare la frustrazione di non essere invincibile, perché l’obiettivo è collettivo, non personale, e per questo è più grande persino delle tue paure. Essere a bordo del carro di Bergamo Pride l’anno scorso e spiare da dietro le quinte la folla di gente sotto di me che ballava, rideva, si divertiva e vestiva la propria identità con orgoglio e alla luce del sole è stata una emozione unica che mi ha ripagato di tutto il tempo speso a chiedermi che senso avesse quello che stavo tentando di fare.

Perché in fondo di questo si tratta: tentativi. Non custodisci la formula perfetta o la soluzione a tutti i mali, procedi per tentativi, alcuni dei quali vanno a vuoto. E questo è l’attivismo per me: un tentativo costante di mettere in atto pratiche di libertà che non si esauriscono in un evento, ma che al contrario trovano sempre più vie di intersezione, in quanto la sistematicità dell’oppressione si reitera e si estende a tutte le categorie discriminate, dalle persone LGBTQI ai migranti, passando per le donne e via dicendo. Come scrive l’attivista Angela Davis, l’importanza di fare attivismo sta nell’effetto, più che nei risultati. Le mobilitazioni hanno infatti insegnato agli individui a unirsi, a risolvere problemi attraverso la solidarietà e la condivisione delle lotte. Hanno insegnato il valore di essere movimento. E questo, a parer mio, deve fare un/una attivista oggi: risvegliare il senso di responsabilità collettiva che sta alla base di ogni comunità.

Insisterò quindi a tentare anche in vista di Bergamo Pride 2019 – Orgoglio oltre le mura, cercando di trasformare questi valori in impegno concreto, continuando a essere volontaria all’interno del comitato organizzatore e continuando a essere, semplicemente, attivista, per poter vedere altre diecimila e forse più persone ballare sotto il carro del Pride del prossimo 18 maggio.

In copertina: il corteo del Bergamo Pride 2018 (foto di Camilla Giubileo, tutti i diritti riservati).

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