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Mese: Settembre 2015

#FestivalCom – Mani pulite, Colombo e Davigo, la trasformazione dell’opinione pubblica

Calorosa accoglienza per Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, tra scroscianti applausi.

Davigo, attualmente consigliere per la II sezione della Corte di Cassazione, ha iniziato attaccando una parte della stampa, che nel 1992 fece passare un messaggio sbagliato, ovvero che «Rubare per i partiti fosse meno grave che rubare per sé».

Anche Colombo ha continuato il discorso, dicendo di come il lavoro dei giornali coinvolse moltissimo all’epoca la cittadinanza: «è cambiato il livello dell’opinione pubblica» ha proseguito Colombo, raccontando di come all’inizio tutti i cittadini si sentissero più coinvolti, mentre altri divennero via via contrari a causa di certi giornalisti.

Piercamillo Davigo ritiene che l’opinione pubblica è cambiata quando i magistrati hanno stracciato «Il velo dell’ipocrisia», perché così facendo In Italia è «Andata a rotoli la divisione tra onesti e disonesti», facendo scattare il «Meccanismo di difendere le persone vicine a sé», perciò la discussione intorno a Mani Pulite è diventata una bega tra tifosi.

Successivamente Colombo ha sostenuto che gli italiani non sopportano il controllo: «finché noi investigavamo le persone che stavano in alto, ed era impossibile identificarsi per il pubblico con l’indagato» l’opinione pubblica era favorevole, ma quando si scoprì che «Il profitto dell’illecito era diffuso ampiamente», intaccando anche l’uomo medio, iniziarono le contestazioni contro il lavoro dei magistrati.

Davigo  ha però contestato Colombo su due punti perché secondo lui è sbagliato «Equiparare tutti i comportamenti gravi, perché da adito a un razzismo ingiustificato, e dire che gli italiani tendono a non rispettare la legge», perché dove ci sono sanzioni, le persone rispettano le norme.

Per il magistrato della Corte dei Conti il problema è che in Italia siamo un «Paese di sudditi e non di liberi cittadini», perché siamo abituati a non rispettare delle norme ferree per il quieto vivere, e preferiamo invece infrangere leggi per usi e consuetudini, «Aspettandoci il conto qualora fossimo colti sul fatto».

Per contrastare corruzione e illeciti, secondo Davigo, il governo ha fatto più propaganda, che fatti.
Colombo invece ha sostenuto l’importanza dell’educazione, «Perché bisognerebbe insegnare ai giovani ad essere leali»

#FestivalCom – L’Italia di domani, già oggi

Con l’incontro dal titolo “Executive, cultura e classi dirigenti per l’Italia di domani”, si è conclusa la seconda giornata del Festival della Comunicazione, a cui hanno partecipato: Federico Ghizzoni, a.d. di Unicredit; Monica Maggioni, presidente della Rai; Mauro Moretti, a.d. di Finmeccanica; Ferruccio De Bortoli, presidente della casa editrice Longanesi.

Monica Maggioni ha iniziato affermando che «A un certo punto si è interrotto un meccanismo per formare la classe dirigente in Italia. Adesso le cose vanno meglio, ma prima l’atteggiamento dei giovani verso il futuro era sfiduciato».

La presidente della Rai ha anche affermato che per una vita nelle aziende pubbliche il criterio dell’anzianità veniva prima del criterio della competenza, ed ha causato «Un livellamento verso il basso».

Moretti ha continuato asserendo che «L’Italia si sta svegliando da un lungo sonno», stravolta da un grande cambiamento perché «Da sistema chiuso siamo diventati un sistema aperto in un contesto globale: o sei competitivo o non vivi». Moretti sostiene, giustamente, che in un impresa regolata dal buonsenso è normale che il migliore vada avanti, e così dovrebbe essere pure nel pubblico.

Ferruccio De Bortoli dice anche che le grandi imprese devono essere modelli per i giovani, e puntualizza che a volte «Si parla della storia del capo azienda, ma non dei valori dell’azienda», ma dice anche che c’è bisogno di cittadini in un paese dove la cittadinanza è un valore debole.

Secondo Ghizzoni «La nostra classe dirigente non è adeguata alle grandi rivoluzioni attuali. Bisogna formare una classe dirigente in grado di adattarsi a una velocità mai vista».

La sua ricetta per formare i giovani è la seguente: favorire l’apertura dei giovani al mondo e all’innovazione; responsabilizzarli; abituarli alla diversità.

Monica Maggioni ha continuato, dicendo di «Pensare a un servizio pubblico che costruisca un sistema culturale all’interno del paese, che racconti che la meritocrazia è un valore».

Ghizzoni ha poi voluto sottolineare che comunque non tutti i giovani sono spaventati dall’Italia, anche quelli che come lui sono stati per molto tempo all’estero, perché come lui non hanno «Dimenticato L’Italia».

Ferruccio De Bortoli infine ha chiuso augurando che si possa formare una classe dirigente all’altezza delle sfide, responsabile, etica, che sviluppi l’idea del rischio e capisca che «Il sacrifico è necessario e che ci si può risollevare dai fallimenti».

 

In Copertina: Ferruccio De Bortoli [ph. Niccolò Caranti CC BY-SA 3.0/Wikimedia Commons]

#FestivalCom – ISIS e migrazione: la parola alla difesa

Non è di facile inizio la partecipata conferenza a Palazzo dei Dogi tenuta dal Ministro della Difesa Roberta Pinotti nell’ambito del Festival della Comunicazione di Camogli. La prima domanda dell’intervistatore Carlo Rognone converte subito sulla minaccia ISIS: «Noi italiani cosa facciamo? Lo Stato Islamico non ha forse affermato di voler arrivare a Roma? La loro propaganda prospetta a una possibile terza guerra mondiale. Alcuni giornali dicono che tirarsi sempre fuori ci metterà in posizioni scomode in futuro. Siamo in grado di difenderci?»

Il Ministro: «Sì, siamo in grado. A volte non ne abbiamo la consapevolezza ma basta guardarci intorno per trovare riconoscenza verso di noi. La nostra posizione è importante, ci siamo impegnati con responsabilità, costanza ed esperienza. Siamo uno dei paesi occidentali che più si impegnano nella lotta. Sul campo abbiamo 250 generali dell’aeronautica e altri impegnati nella formazione dei curdi.»

Si arriva poi al tema caldissimo dell’immigrazione: «Siamo davanti a una situazione eccezionale. L’Italia ha avuto una posizione coerente sin dall’inizio e non dobbiamo cambiare. Sappiamo anche mostrare la faccia della forza quando è necessario. Noi stiamo facendo del contrasto agli scafisti con un’operazione separata da quella europea. Serve il contrasto nei porti di partenza: per farlo dobbiamo avere l’appoggio dell’ONU e l’appoggio del paese in cui andremo ad operare. Stiamo muovendo in questi giorni dei passi importanti proprio in questa direzione. Quando una persona scappa dalla guerra ed è rifugiato ci sono delle leggi internazionali che agiscono a livello europeo, ma non possiamo tenere i migranti economici, poiché non ne hanno diritto. La  gestione da parte di un singolo stato è una follia, dev’essere da parte di tutta l’Europa.»

«Quanto ci costa la difesa? E gli f35 sono un acquisto ben riuscito?», incalza Rognone.

«Io difendo la difesa- chiosa Pinotti – non i singoli contratti. 19 miliardi è la cifra che impegna la difesa. Il 70% viene utilizzato per i salari. Negli ultimi 10 anni abbiamo tagliato il 26%. Tutti i giorni l’aeronautica sorvola il territorio secondo un accordo con la NATO, che si occupa di numerose cose come il trasporto sanitario. Non mi piace ma è necessario. Dovremo fare altri sacrifici, ma sapendo che comunque la difesa ha un costo, l’Italia spende meno della media degli altri paesi della NATO.»

 

In copertina, Roberta Pinotti [ph. Roberta Pinotti CC BY-SA 2.0/Wikimedia Commons]

#FestivalCom – I 140 caratteri di Twitter? Fin troppi per Seneca!

Al giorno d’oggi con 140 caratteri si possono esprimere opinioni, distruggere carriere o elogiare l’impossibile. Secondo Ivano Dionigi, rettore dell’Università di Bologna, nel suo intervento durante il Festival della Comunicazione, questo potere di parola dei media, in tutta la sua brevità, risale a molto tempo fa.

«La retorica è infatti sostanzialmente l’antenata della nostra comunicazione, l’arte del dire» spiega Dionigi «Il modo in cui noi oggi strutturiamo il nostro discorso è ancora quello fissato dall’arte tecnica della retorica».

Dionigi prende come esempio due grandi esponenti dell’arte oratoria del mondo antico, uno di Atene e uno di Roma. Gorgia da Lentini, il principe dei sofisti, con la magica proprietà di persuasione della parola, rendeva migliore il discorso peggiore: esempio celebre l’elogio di Elena, in cui dice che la parola è un “minuto sovrano”.

Per Roma cita Catone il Censore, secondo cui l’oratore era il vir bonus dicendi peritus per eccellenza: oltre all’abilità nell’arte della parola è fondamentale essere anche un vir bonus, una brava persona, che sa come parlare. «Per i grandi oratori romani i contenuti devono venire prima della magia delle parole, bisogna collegare la sapientia con l’eloquentia».

Il latino è comparso nei media, specie grazie all’uso che ne hanno fatto e ne fanno i papi, da Benedetto XVI a papa Francesco. La lingua di Cicerone e Seneca si è dunque fatta catturare dallo stringatissimo Twitter.

Come è possibile che una cosa così antica venga imbrigliata nel social più moderno che esista?

Il latino, lingua di comunicazione per eccellenza, caratterizzato dalla bretivas, si rivela in realtà adatto al moderno linguaggio della comunicazione, ridotta al giorno d’oggi alla battuta e allo slogan. «Il latino è lingua sintetica e non analitica, che grazie al sistema delle declinazioni consente di omettere il verbo, esprimendo il massimo del significato con il minimo del significante».

Basta pensare a poche frasi latine e alla loro rispettiva traduzione per afferrare quanto la brevità del latino sia calzante col moderno cinguettìo: Vindica te tibi, riprendi possesso di te stesso, 13 lettere in latino contro le 26 in italiano; Morituri resurrecturis, coloro che sono destinati a morire hanno dedicato questa lapide a coloro che devono risorgere, 2 parole contro un’intera frase. «I 140 caratteri di Twitter sono esagerati per il latino! Twitter risulta non tanto non inadatto, ma fin troppo capiente, fin troppo prolisso».

#FestivalCom – Grasso e Freccero, il Servizio Pubblico tra le contaminazioni

Il sole tramonta su Camogli e da il benvenuto alla conferenza di Carlo Freccero e Aldo Grasso, la terrazza della comunicazione al completo, si parla di servizio pubblico.

Partiamo da lontano, siamo nel 1923 quando la radio in Inghilterra diventa public utility, qualcosa di pubblica utilità alla stregua del gas e dell’acqua corrente.

Il concetto altamente ideale che stava alla base del servizio pubblico  era semplicemente che attraverso la radio prima e la televisione poi dovrà essere propagata tutta la cultura che la Gran Bretagna ha partorito, la BBC (rete di pubblica utilità) deve far si che la sua lingua diventi quella nazionale ed unificare tutti i settori della nazione. L’Italia decide di imitare questo meccanismo, ma portando tutti i dirigenti dell’EIAR all’interno della RAI, peccato d’origine (secondo Grasso) di tutti i problemi del servizio pubblico italiano.

La parola a Freccero, il servizio pubblico deve essere un proseguo della scuola pubblica.  Tatalmente differente da quello americano, una programmazione fatta di cultura ed insegnamento  con una ricreazione (il varietà del sabato sera) per alleggerire i toni.

Grasso interviene, e da qui inizia un dibattito, per specificare che l’Italia non è stata unita dai programmi educativi ma da Lascia o Raddoppia o il Musichiere.

Lo spettatore, nel tempo, investito dalla globalizzazione della televisione e con l’aumento delle reti televisive (unito al mercato pubblicitario) non è più schiavo del primo canale ma può prendere da solo le sue scelte. Da questo momento tutto lo scenario cambierà rapidamente tanto dal direzionale tutta la programmazione alla scelta dello spettatore on demand.

Questo pubblico ormai sovrano ha preso confidenza col mezzo, il bianco e nero sparisce, tutto si colora e la gente inizia a scatenarsi, a scegliere le molteplici parti da prendere che finalmente si svelano. La televisione inizia a creare eventi di interesse pubblico seguendo l’audience (Mani Pulite, La lotta alla Mafia su tutte).

Citando Aldo Grasso, il pubblico comincia a parlare attraverso Portobello di Tortora, dopo avere iniziato a parlare non starà più in silenzio.

La televisione ormai è contaminata, da polita e pubblicità, tanto da portare giornalisti del, tanto discusso, Servizio Pubblico ad invitare esponenti del clan Casamonica (per fare un esempio oltremodo attuale) in seconda serata sulla principale rete di stato.

Concludiamo il discorso asserendo per l’ennesima volta che il servizio pubblico italiano non riesce a staccarsi dal suo peccato originale, la contaminazione politica e commerciale.

“L’obbedienza è la malattia mortale della TV!” Carlo Freccero

 

In copertina, Carlo Freccero via Wikimedia Commons [CC BY-SA 2.0]

#FestivalCom – Edmondo Bruti Liberati: maneggiare con cautela

“Pubblici siano i giudizi e pubbliche le prove del reato il segreto è il più forte scudo della tirannia.”

L’intervento “Comunicazione sulla giustizia e comunicazione della giustizia” tenuto da Edmondo Bruti Liberati inizia con una citazione chiave di Beccaria.

L’attenzione si sposta repentina sulla ripresa pubblica, anima ed essenza della giustizia, e ne fa un quadro dettagliato in relazione all’opinione comune: c’è una grande funzione di controllo sulla figura del giudice e l’obiettivo principale è di ottenere una giustizia bene amministrata che ne rafforzi l’opinione. L’opinione pubblica assume funzione di crescente rilievo nella vita pubblica, un vero e proprio fenomeno a livello globale. La sua presenza fisica, in aula, dapprima lasciata ai cantastorie viene oggi sostituita da social media, radio e tv, giornali e fotografie. 

La libera stampa sulla giustizia vede metaforicamente il giornalista come vedetta sul ponte della nave dello Stato che scruta l’orizzonte in mezzo alla tempesta.

La rivoluzione della televisione ci porta ad affrontare nuovi limiti: anzitutto la presenza del pubblico in relazione alla tutela della privacy, e secondariamente evidenziando la pubblica sicurezza – esempio chiave è l’11 settembre (con ricorrenza odierna). Tramite la tv siamo in aula, si parla per la prima volta di processo parallelo.

Il contatto diretto introduce il tema delle garanzie, un controllo su giudici e avvocati fa emergere un tecnicismo esasperato e inutile che pone le basi di nuove regole: “Cercate di non usare il linguaggio giuridico se non strettamente necessario.”

Dopo un excursus esplicativo dei processi internazionali che hanno avuto più rilievo giuridicamente parlando, oggetto di discussione è il condizionamento dei giudici popolari data la presenza delle riprese televisive; la spettacolarizzazione mette in crisi la logica stessa del processo, i media pretendono di offrire una rappresentazione più fedele, il sogno di un accesso diretto e immediato alla verità, ma la dimensione condizionale diventa insostenibile.

La verità storica non sempre coincide con quella processuale e men che meno con quella mediatica”.
Professionalità, responsabilità, deontologia.

 

In copertina, Edmondo Bruti Liberati [ph. Luca Bruno/AP Photo]

#FestivalCom – Non è vero ma ci credo. Maurizio Bettini e le parole di Cicerone sugli indovini

“Rassegnatevi che parleremo di latino e Cicerone”. Maurizio Bettini inizia il suo intervento al Festival della comunicazione a Camogli con un excursus sulle opere di Cicerone, sulla vastissima quantità di testi scritti dall’autore latino, ‘quasi più di Umberto Eco’, scherza Bettini; si sofferma in particolare sul trattato De divinatione.

“Cicerone si pone una domanda: si può conoscere il futuro? Hanno dunque ragione tutti quelli che conclamano di poter conoscere il futuro, hanno una qualche prova scientifica?” L’autore risponde chiaramente: no. Ma il discorso non finisce qui.

Come tutte le opere di tipo illuminista, il De divinatione è anche molto divertente da leggere: in un passo fa intervenire il fratello Quinto (che nel libro fa suo malgrado la figura del credulone e del sostenitore degli aruspici – la sua colpa era quella di essere un sostenitore di Cesare) che afferma che prima della battaglia di Leuttra i galli avevano cantato. Ma che prodigio è?, si chiede Cicerone, Se avessero cantato i pesci sarebbe un altro discorso. “Nel testo ci sono una gran varietà di esempi di cosiddetti prodigi o miracoli, per i quali Cicerone cerca sempre una spiegazione scientifica. Al di fuori dell’ambito romano, d’altronde, dal Medioevo in poi, quante madonnine hanno pianto..ma, strano, mai sudato!”.

Il diritto romano prevedeva però la divinatio publica, che aveva potere sul governo, tanto da poter interrompere assemblee. “Cicerone riconosce dunque questa sorta di autorità: riconosce che sono pratiche false, ma riconosce che rientrano nella res publica, nello stato”.

Quando nel mondo antico succedeva una grave catastrofe si consultavano gli oracoli, che per definizione erano enigmatici. “Nemmeno Bartezzaghi riuscirebbe a risolverli al primo colpo” scherza Bettini. “Una volta consultato l’oracolo, è il senato che decide cosa fare, il collegamento tra il potere e il divino è sempre attivo; anche per quanto riguarda la guerra, si è sempre interrogato gli auspici, che nella maggior parte dei casi riguardavo gli animali: si osservava il volo degli uccelli, le loro viscere, o più semplicemente se le galline avessero già beccato o no. Se l’esito era positivo si riceveva l’augurium, che non casualmente ha la stessa radice della parola auctoritas”. Il segno divinatorio antico è dunque un modo per veicolare dei contrasti e cercare di risolverli, a prescindere dalla loro veridicità o meno, dice Cicerone e conclude Bettini.

 

#FestivalCom – Dalle pitture nelle caverne a Topolino! Come cambia l’immagine del racconto

“Come è arrivato il fumetto ad avere una dignità pari a quella del romanzo?” questa è la domanda che apre l’incontro con Daniele Barbieri al Festival della Comunicazione a Camogli.

Dopo aver citato Zerocalcare come il caso  più recente dell’ascesa del fumetto nel mondo dell’editoria  si arriva alla considerazione che qualcosa è cambiato. Il mutamento non è individuabile nella cresciuta qualità, ma nel metodo di fruizione.

Per capire le origini del fenomeno bisogna risalire al tempo dei dipinti nelle caverne di Altamira, nei Pirenei. Queste grotte infatti non fungevano da abitazioni, ma da luoghi di riunione in cui la popolazione si trovava per ascoltare delle storie, in cui le immagini dipinte erano gli attori. la rappresentazione visiva nasce come supporto della parola. Ne è un esempio la scrittura geroglifica egiziana.

La tradizione dell’immagine usata per raccontare raggiunge la fine del 200 ed è evidentissima negli affreschi della cappella degli Scrovegni a Padova. Giotto li ha pensati perché ci fosse qualcuno che narrasse le storie che le pitture rappresentavano. Non è infatti un caso che vengano lette da sinistra verso destra, la direzione logica della scrittura.

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Solo nel Rinascimento l’immagine inizia ad acquistare una sua autonomia emancipandosi progressivamente dalla narrazione. La pittura di genere del 500 ebbe infatti come massima espressione la rappresentazione creata per essere guardata senza un racconto di accompagnamento.

Il fumetto vero e proprio nasce alla fine dell’800, ma nei primi decenni del 900 i disegni non vengono ancora accompagnate dai baloon, bensì da rimette esplicative a fine vignetta, poiché l’immagine non è ancora considerata degna di raccontare una storia in totale autonomia. Verso gli anni ’40 invece si afferma l’uso dei baloon e il fumetto acquista una dimensione adulta.

In Italia Linus rappresenta un punto di svolta svolgendo un’opera di recupero e di innovazione. Aumenta anche la qualità della struttura di pagina, il cui massimo esempio è Moebius: “una storia non deve per forza avere una forma definita… può avere la forma di una nuvola a forma di cammello”.

Negli anni ’60 del 900 in Francia nacque il mensile Hara-kiri che rinacque in seguito come il giornale satirico Charlie Hebdo.

Giungendo agli anni 70 i fumetti vengono visti in Italia  come mezzo abbastanza vergine per poter rappresentare i fermenti politici di quel momento. Nel 76 negli States e Will Eisner torna a scrivere fumetti e crea il formato graphic novel, che esisteva già in Italia come albo.

 

#FestivalCom – Piero Angela, la creatività e l’emotività degli oggetti

L’abbiamo sempre visto in televisione, cicerone inesorabile di scienza, storia e conoscenza. Torinese doc, otto lauree honoris causa. Alla seconda edizione del Festival della Comunicazione ci parla del linguaggio degli oggetti. È Piero Angela, giornalista passato alla divulgazione scientifica, creatore dello storico Quark e del ventennale Superquark.

«Mi siederò, al contrario degli altri relatori, dato l’avanzato stato di decomposizione» scherza sulla sua età «Ma negli ultimi anni sto rivivendo una nuova giovinezza, grazie ad un nuovo lavoro».

Serafico, centra subito il punto del discorso: visitando un sito archeologico, dice, i non esperti non riusciranno ma a ‘sentire’ tutto ciò che il museo può trasmettere, le spiegazioni sono spesso complesse e noiose: non lasciano parlare gli oggetti. I musei sono nati come luoghi di conservazione degli oggetti, sia chiaro, serve che siano ben curati, restaurati, ma sono luoghi da esperti, c’è bisogno che ci sia qualcuno che li faccia parlare, una via di mezzo tra il curatore e l’architetto. La figura è quella del divulgatore, mestiere che in realtà si può fare in qualsiasi modo, in tv, coi libri, ma anche con gli oggetti.

«La cosa è cominciata con una telefonata fatta da un assessore di Roma: “Al palazzo Valentini, in pieno Foro” mi ha detto “durante gli scavi sono stati trovati dei resti di domus romane. E’ stato fatto un allestimento, con visite guidate, ma sono un po’ tecniche lei non potrebbe intervenire e fare qualcosa?».

Insieme a Paco Lanciano hanno deciso allora di integrare digitalmente, con delle proiezioni, le parti mancanti di muro e di mosaici, per un totale di un percorso didattico di un’ora e mezza. Nelle terme hanno ricreato l’acqua del Frigidarium, o il fuoco che riscaldava le vasche calde. “Ci si può muovere in questo ambiente vivendo a pieno la realtà di questa famiglia, sentendo i rumori, vedendo rinascere i mosaici, con la mia voce che li guida nelle stanze della casa”. Ecco che ritorna il cicerone.

«Da un posto noioso è diventato un luogo pieno di emozioni» continua «Persino nella classifica di TripAdvisor sui luoghi migliori da visitare a Roma siamo risultati al primo posto!» Spesso, però questi interventi sono in qualche modo ostacolati dalla burocrazia, nemica delle persone, ma anche dell’arte.

«Bisogna valorizzare i propri beni culturali» conclude Piero Angela «ma aggiungendovi un poco di buona volontà e di creatività. Non bisogna solo spiegare bene le cose, bisogna spiegarle in modo interessante, il linguaggio non deve escludere dalla conoscenza. In fondo, siamo tutti ignoranti…»

#Festivalcom – Maria Tilde Bettetini “Mento sapendo di mentire”

“All’esattore di Roma, comunico di non essere in grado di pagare le imposte
Giuseppe Garibaldi

Così inizia il discorso della professoressa Maria Tilde Bettetini che ci regala questa frase, ma ci impone subito di metterla da parte e inizia il suo excursus sul linguaggio della bugia che – dice – di per sé non esiste. In fondo, è semplicemente il linguaggio, poiché tutto ciò che serve a comunicare serve anche a mentire.
Si utilizza un codice della comunicazione coerente; un italiano gesticolante non farà alcun effetto ad un impassibile australiano.

Fondamentalmente le persone tendono a fidarsi, per poter sopravvivere, e tendono anche a dire la verità, perché la verità è quel costrutto semplice da esplicitare. Non richiede sovracomposizioni mentali che debbano elaborare una nuova, falsa, idea.
Ovviamente possono esistere persone che abbracciano totalmente la menzogna o la verità. Si abbraccia, così, da un lato l’arte nella finzione leopardiana (e quando l’arte viene a mancare si abbracciano invece le sindromi di Pinocchio e del pirata Giorgione), dall’altro lato si passa a dover trasformare la vita quotidiana in una vita tribunalizia.

Torniamo quindi a Garibaldi, come possiamo sapere se mentiva o meno? In fondo chi si azzarderà ad andare a riscuotere da Garibaldi? Chi lo fermerà? Non possiamo saperlo, semplicemente.
Nella storia dell’umanità si trovano idee senza sfumature, secondo Kant, non esiste che si menta (No! No! No!), neanche per salvare una vita, perpetrando l’idea medioevale del peccato.

Avviandosi verso la conclusione partendo dal più grande menzognero della classicità (Ulisse), passando per la necessità che Platone comunicava di lasciare il popolo nella sua ignoranza, si arriva anche al “peccato” di Clinton, sempre negato da lui, che ha portato il popolo americano, voglioso di verità, ad allontanarlo (anche se con Hilary la famiglia Clinton sta rientrando dalla finestra. Ingenui americani!).

A questo punto, per concludere il discorso, tira fuori l’ultima forma di menzogna, il mentire senza mentire, ovvero attraverso, allusioni, mezze parole e sguardi di complicità. “Mento sapendo di mentire”

Menzogna tipica dello shakespeariano Iago, che messo davanti alla tragedia che lo circonda risponde alla domanda:

“Iago ma cosa hai fatto?” 
“Io? niente.”

#FesticalCom – Gianfranco MARRONE “ La stupidità consiste nel dover concludere”

Camogli.
Si apre con l’intervento di Gianfranco Marrone la seconda giornata del Festival della Comunicazione di Camogli: “Linguaggio della stupidità, stupidità del linguaggio”. Un exploit incisivo e curioso che attira la completa attenzione dei presenti: «Farò in modo che il punto interrogativo alle mie spalle sia più importante dell’esclamativo. Eviterò conclusioni e risposte e accentuerò l’importanza delle domande».
Esiste un nesso molto stretto tra linguaggio e stupidità, nessuno degli elementi potrebbe sussistere senza l’altro. L’intervento ripreso nel libro Stupidità suscitò due reazioni a caldo: di chi lo interpretò come testo per demonizzare la figura dello stupido e di chi, leggendo il libro si è sentì preso in causa in prima persona.
“Ma quanto sono stupido” autocompiacimento o autocritica?
Lo stupido è valutato positivamente. Stupidità è cool!

Si passa ad una fotografia contemporanea e folkloristica: deleghiamo alle macchine le cose che ci annoiano per investire il tempo libero in attività più divertenti. La tecnologia oggi si sviluppa rosicchiando alla dimensione umana una serie di spazi e azioni, dando vita al grande mito dello SMART, programmata per funzionare perfettamente, educa, compone, istruisce. Ma il punto centrale della questione mette in luce 3 problemi principali:
La tipologia, le diverse dimensioni
Il cretino a metà strada tra l’alienato e il clown (dimensione fisica); l’imbecille – ripreso dal Pendolo di Foucault di Eco – colui che sbaglia le regole della conversazione (dimensione sociale); lo stupido, definito come colui che fa errori di ragionamento (dimensione irrazionale, intellettuale); infine il matto, uno che delira, che procede per cortocircuiti (dimensione artistica). Sono tipi ideali, che nella realtà si confondono.
La storia
E i suoi mutamenti antropologici: “lo scemo del villaggio si scontra col fatto che il villaggio è diventato globale.”
La comunicazione
Che mette a fuoco la differenza teorizzata da Musil nel ’37, tra lo stupido solare – come l’olio buono di Paese per Sciascia – una stupidità onesta, schietta, riconoscibile, e lo stupido intelligente, il fallimento dell’intelligenza che si nasconde tra noi.

Ci avviamo verso la fine parlando di traduzione, di mancanza di consapevolezza dello stupido e chiedendoci..

In un mondo di stupidi forse nessuno lo è più (?)

#Festivalcom Da Gregorio VII a papa Francesco: Alessandro Barbero e le parole dei papi nella storia

Papa Francesco nella sua lingua usa spesso, e in modo molto preciso, un’espressione curiosa tradotta banalmente come ‘fare casino‘. Nel 2013 in Brasile per la Giornata Mondiale della Gioventù parlando ai giovani disse: “Mi aspetto che voi facciate casino. Casino nelle diocesi, la chiesa deve uscire in strada. Combattiamo il clericalismo: le parrocchie sono fatte per uscire, per stare tra la gente. Mi perdonino i vescovi se qualcuno farà casino contro di loro, ma questo è il mio consiglio”.

Alessandro Barbero, durante il suo intervento alla seconda edizione del Festival della Comunicazione, sceglie di citare questa particolare espressione di papa Francesco per illustrare come è cambiato il linguaggio del papato nei secoli.

Le parole dei papi sono sempre state espressione di come si esprime la Chiesa nel mondo. Attraverso le loro parole si osserva l’evoluzione del rapporto della Chiesa con il mondo: nel medioevo essi erano sicuri che Dio avesse dato loro il potere, sia spirituale che politico.

Questa idea di autorità si sviluppa dopo l’anno Mille, con la forte esigenza di dimostrarlo: va da sé che il potere politico non ne era felice.

Gregorio VII, scomunicando Enrico IV, spiega che è ovvio che l’imperatore debba obbedire al papa poiché l’impero è stato inventato dai laici e dai pagani, dai romani, e quindi una cosa inventata da pagani deve essere subordinata a ciò che è stato donato al mondo da Dio, cioè la Chiesa.

Dal Medioevo in poi però, sarà sempre più difficile riuscire a imporre il pensiero che l’imperatore debba essere subordinato a Dio.

Dal 700 il linguaggio però cambia, perché nonostante la Chiesa rimanga convinta delle credenze passate, è il mondo intorno ad essa a cambiare, con movimenti come l’illuminismo, la libertà di stampa, la rivoluzione francese. Il tono da iroso diventa quasi lagnoso e prolisso.

In epoca moderna, il potere politico del papa è ridotto a livello sia militare che carismatico.

A questo punto il linguaggio del papa non è più adirato né implorante, ma deve spronare e far riflettere. Giovanni XXIII, con la sua enciclica “Pacem in terris”, parla di diritti, di esseri umani con diritti e doveri che scaturiscono dalla sua stessa natura: è la prima volta che un papa parla di ‘persona’, una persona che ha il diritto di crearsi un avvenire per sé e per la propria famiglia.

#FestivalCom – Tullio De MAURO: “mica si parla come un libro stampato”

Camogli.

Si apre con l’intervento di Tullio De Mauro la seconda edizione del Festival della Comunicazione di Camogli: “Il linguaggio degli italiani dall’Unità d’Italia ad oggi”  il cui breve prologo inizia dalla storia di Costanza Arconati, donna di spicco nella lotta politica italiana nell’800 europeo, preziosa testimonianza delle diverse realtà italiane del tempo. Grazie ad uno slancio patriottico del ’59 viene vietato l’uso del francese come lingua ufficiale del parlamento e si passa all’italiano, una decisione fondamentale per l’immagine di stato nazionale di fronte alle potenze europee.

Siamo al punto di partenza della storia, una presentazione superlativa del quadro linguistico italiano: Fuori dal territorio toscano la lingua era ancora sconosciuta ai più, abbiamo di fronte un Paese rimasto linguisticamente e non solo immobile, a condizioni medievali: ricchissimo di parlate locali, ma senza una lingua nazionale. Da fine ‘500 si insidia l’italiano, per Baretti è una linguaccia, per Manzoni è l’eterno sospiro mio.

De Mauro prosegue con un paragone Giappone – Italia: a pari livello di analfabetismo, la classe dirigente e la popolazione giapponese scommettono sull’istruzione come fattore di crescita e sviluppo economico, mentre lo Stato italiano punta sulle grandi infrastrutture e “un giorno ci si istruirà”. La prima scossa arriva ad inizio 900.

L’intervento si chiude con una rappresentazione quasi allegorica del presente: «L’aggettivo epocale viene usato a larghe maniche, quindi esito, ma mi corre obbligo affermare che la rivoluzione linguistica italiana è stata epocale, millenaria se preferite. Mai ci fu un grado così alto di convergenza di una lingua».
La spesa in istruzione è un investimento necessario per la crescita del Paese: «creare un sistema di biblioteche e mediateche che favoriscano l’accesso alla cultura, potrebbe essere un incentivo iniziale». Per il buon uso della lingua nazionale sarebbe meglio puntare sul cambiamento ad un livello sempre può alto.

Una lezione magistrale, non si poteva iniziare in modo migliore.

Il Premio Sinbad: la vetrina ideale per l’editoria indipendente di qualità

Spesso i lettori meno informati ritengono che i grandi libri, quelli che un giorno potrebbero diventare dei classici della letteratura, siano pubblicati unicamente dai colossi dell’editoria, impressione suggerita anche dal fatto che molti prestigiosi premi spesso sono vinti da libri pubblicati da grosse case editrici, basti pensare al caso del Premio Strega: è dal 1993 che non vince un’opera che non sia edita da Mondadori, Rizzoli, Einaudi o Garzanti.

Questo vuol dire che le piccole case editrici non hanno mandato in stampa nulla di interessante o di valore per tutto questo tempo? Al contrario, ci sono stati sicuramente molti libri degni di nota, ma non sempre hanno ottenuto la risonanza meritata, anche perché non tutti hanno le risorse della Mondadori per pubblicizzare i propri libri.

Come fare allora a valorizzare un patrimonio letterario che risulta sommerso? Come far notare ai lettori che c’è di più oltre la cima dell’iceberg, dove svettano Feltrinelli, Rizzoli, Giunti e Mondadori?

Il Premio internazionale degli editori indipendenti Sinbad – Città di Bari nasce proprio con lo scopo di portare alla luce il lavoro di qualità che svolge l’editoria indipendente, e quindi di dare visibilità alla ricchezza e alla varietà delle opere edite da queste case editrici, che spesso sono ignorate o escluse dai grandi premi nazionali.

L’iniziativa coinvolge un gran numero di editori di un certo spessore (Elliot, Minimum fax, Nottetempo, laNuovafrontiera, Il Saggiatore, Besa Editrice, Iperborea, 66thand2nd) ed è sostenuta dall’ODEI (Osservatorio degli Editori Indipendenti) , dall’APE (Associazione Pugliese Editori), dal Comune di Bari e infine dalla Regione Puglia.

Il concorso (il cui bando è scaduto il 25 luglio) ha già fatto registrate un piccolo successo: per la sua prima edizione saranno ben 88 le opere in lizza per vincere il premio.

La selezione avverrà in due fasi ad opera di due giurie diverse: la prima giuria annuncerà entro il 30 settembre 2015 una rosa di 10 titoli di narrativa italiana e 10 titoli di narrativa straniera tra quelli inviati; mentre la seconda giuria selezionerà la terna dei finalisti di ciascuna sezione il 21 ottobre 2015.

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I valori della trasparenza e della qualità sono alla base del Premio, per questo sappiamo già la composizione delle due giurie. La prima sarà composta da elementi decisivi nella diffusione della lettura:

  • Biblioteche (Biblioteca Gino Baratta di Mantova, Casa delle Letterature di Roma, Sistema Bibliotecario della provincia di Lecce);
  • Blog letterari (BookFool, Tazzina di Caffè, Tempoxme);
  • Circoli di lettura (Circolo dei lettori di Torino, Presidi del Libro della Puglia, @TwoReaders che è attivo su twitter);
  • Librerie (Dickens di Taranto, Marco Polo di Venezia, Il pensiero meridiano di Tropea).

La seconda giuria sarà invece composta da critici e scrittori, divisi nelle sezioni narrativa italiana e narrativa straniera:

  • Narrativa italiana: Franco Cordelli, Andrea Cortellessa, Marcello Fois, Michele Mari, Elisabetta Rasy.
  • Narrativa straniera: Simonetta Bitasi, Concita De Gregorio, Nicola Lagioia, Marco Missiroli, Michela Murgia.

Dalla composizione delle giurie si notano già nomi conosciuti di esperti del settore e non solo, indice di un’attenta selezione per chi avrà l’arduo compito di scegliere il futuro vincitore: la qualità è la priorità, non solo nella cura dei libri ma anche nella selezione.

L’editoria indipendente è un meraviglioso universo che vi invitiamo a scoprire anche grazie al Premio Sinbad, sulla cui pagina twitter (@Premio_Sinbad) ogni giorno sono pubblicati i nomi delle 88 opere selezionate, perciò continuate a seguirci su Pequod per scoprire altre novità interessanti sull’editoria indipendente e per avere aggiornamenti sul Premio Sinbad.

Buona lettura!

XXth Milano Film Festival: la città e le storie

Si è ufficialmente aperta con la conferenza stampa a Palazzo Reale la ventesima edizione del Milano Film Festival, il sempre più atteso appuntamento del capoluogo lombardo con il cinema internazionale. Un appuntamento che negli anni ha saputo offrire eventi unici che lo hanno ampiamente ripagato in termini di pubblico e sponsor e che oggi lo rendono uno dei festival culturali più interessanti in ambito cinematografico.

Lontano dallo stile red carpert, il Milano Film Festival è un festival di storie e sguardi da tutto il mondo che specie nell’anno di Expo ha saputo coinvolgere e intrecciare lingue e culture differenti in un cinema etico ed estetico allo stesso tempo. E nasce sempre da questo desiderio di apertura e connessione al mondo il progetto del Milano Film Network, la rete che unisce l’esperienza e le risorse dei sette festival cinematografici di Milano (Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina, Festival Mix Milano, Filmmaker, Invideo, Milano Film Festival, Sguardi Altrove Film Festival, Sport Movies & Tv Fest) per una città che non sente mai la mancanza del grande evento ma vive il cinema tutto l’anno.

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La ventesima edizione del MFF si snoda attraverso varie sezioni: Concorso lungometraggi, Concorso cortometraggi, le varie rassegne (Colpe di stato, The Outsiders, Breathe.Austria, Linea Gialla), e i focus (dedicati all’animazione, al documentarista Nikolaus Geyrhalter, al regista francese Jean-Gabriel Périot e allo svizzero Nicolas Steiner).

Il MFF è senza dubbio un’occasione per vivere il cinema e la città in un connubio perfetto che ha portato ad estendere sempre di più le location utilizzate e a coinvolgere il pubblico: tra le novità di quest’anno la “proiezione segreta”, il gioco che coinvolgerà il pubblico in una sorta di caccia al tesoro cinematografica, snocciolando nei prossimi giorni indizi circa luogo di proiezione e film in questione (che possiamo anticiparvi sarà un’anteprima assoluta).

Ma il MFF è anche e soprattutto un festival giovane. Giovane per i tanti eventi musicali in programma, ma giovane anche perché da sempre interessato ai registi alle prime armi. A tal proposito, assolutamente da non perdere gli incontri della sezione Schermi di classe, dedicata ai progetti in collaborazione con le università milanesi (in particolare: Accademia di Brera, Politecnico di Milano, IULM e Università degli Studi di Milano) e le scuole di cinema della città (Centro Sperimentale di Cinematografia e Civica Scuola di Cinema).

Infine da seguire anche le proiezioni al “Salon des refusés”, lo spazio allestito alla Scatola Magica per dare voce anche alle opere non ammesse al festival. Insomma tanti gli appuntamenti dal 10 al 20 settembre; il programma più dettagliato potete trovarlo al link seguente: MilanoFilmFestival.