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Conversas Bergamo Pequod Rivista

#Nofilter: Conversas Bergamo, la magia di un incontro autentico

Una serie di incontri: più o meno. Incontri informali, delle chiacchierate: ecco, già meglio. Incontri in cui chi vuole può proporsi per parlare e chi ascolta può intervenire: all’incirca. Non è facile spiegare cosa fai a martedì alterni, tra l’autunno e la primavera, nel salottino al piano superiore del centralissimo Tassino Caffè in piazza Pontida, nonostante chi scrive abbia partecipato spesso alle serate di Conversas Bergamo.

Proviamo a fare ordine partendo dalle origini. Conversas nasce nel 2012 in Portogallo dall’idea di due amiche di vecchia data, Constança Saraiva e Mafalda Fernandes, e da una “difficoltà”, l’Erasmus a Rotterdam di una delle due. Come non perdersi di vista? Calendario alla mano, fissano delle date in cui rivedersi per parlare, ma stabilendo dei turni di conversazione: una si racconta e l’altra ascolta, e viceversa. Da questo nuovo scambio emergono riflessioni che un’amicizia vissuta quotidianamente non sembra concedere così spesso. Perché non ampliare questa magia ad altre persone? È così che Conversas si diffonde in tutta Europa, da Rotterdam a Fatima-Leira, da Berlino a Rennes e finalmente in Italia, a Milano nel 2015 e a Bergamo nel 2016. Qui si sposta dall’Ink Club al Tassino, grazie alla disponibilità di uno dei dirigenti, Gianluca Paris, e alla voglia immutata di portare avanti le serate delle ragazze organizzatrici (Martina Giavazzi, Sara Pezzotta, Roberta Longo, Alessandra Pirotta, Chiara Albani, Valentina Bonaldi).

Il logo di Conversas Bergamo, ispirato alla consuetudine stabilita nei primi incontri: portare con sé la propria tazza preferita, per bere insieme agli ascoltatori e ai conversatori una tazza di tè, un caffè, una tisana.

Ma questo basta per descrivere Conversas? Ci proviamo con Martina Giavazzi, una delle principali organizzatrici e moderatrici delle serate bergamasche: «Noi cerchiamo di definirla così: una serie di incontri informali in cui i conversatori, le persone che chiamiamo o che si presentano spontaneamente, condividono con il pubblico progetti, storie di vita, viaggi, interessi… Non so se può sembrare chiaro, io dico sempre che per capire Conversas bisogna partecipare».

Il rischio di banalizzare è dietro l’angolo. Oggi non serve uscire di casa per condividere un pensiero, un progetto: con un post raggiungi centinaia di persone e i follower su Instagram raddoppiano in pochi minuti. Eppure sembra che non ci sia tempo per parlare apertamente, con la confortante certezza di essere ascoltati; a volte ci sembra troppo difficile mettersi in discussione faccia a faccia con l’altro.

«Penso che le Conversas migliori siano quelle in cui il conversatore per primo è aperto e pronto a qualsiasi osservazione», spiega Martina. «Se vieni a parlare, devi ricordarti che le persone non ti conoscono, o perlomeno non tutte, quindi possono nascere domande scomode, soprattutto quando ti esponi con temi molto forti, che riguardano l’intimo». Nei tre anni di vita di Conversas Bergamo sono passate persone con vissuti diversi sotto ogni punto di vista: dal ragazzo che racconta di una grave problematica adolescenziale ai genitori che hanno vissuto l’iter difficile per l’affido del figlio; la lettrice di tarocchi e l’ex ingegnere che scopre la filosofia steineriana; il fondatore di una compagnia teatrale amatoriale e le fondatrici di un collettivo a difesa dei diritti delle donne.

«Ci ritroviamo in una stanza di 30 mq, di martedì sera, anche d’inverno: capisci che stiamo parlando di persone che vogliono aprirsi, e questo crea una sorta di magia, empatia allo stato puro», continua Martina. «Ci sono persone che so che non si perderebbero un incontro, perché sarebbe un dispiacere perdere una persona in più da conoscere… è bellissimo, no?».

Un’apertura che hanno anche gli ascoltatori, non semplici spettatori: «Conversatore è un termine azzeccato anche per il pubblico: sono tutti conversatori in questa chiacchierata. Parlo di “pubblico” solo perché nessuno sa di cosa si parlerà nel dettaglio, perché la prassi condivisa da tutte le Conversas europee è creare un evento su Facebook con poche informazioni, titolo e breve descrizione». Ci sono i frequentatori di una sera, ma anche persone che tornano ad ogni appuntamento. «Delle vere e proprie figure topiche: c’è mio padre, ad esempio, che alza sempre la mano per chiedere il perché di certe scelte; c’è quello che coglie il momento di incertezza del conversatore per metterlo in difficoltà; c’è la persona più sensibile che si commuove per ogni riflessione…».

Un campionario di umanità varia, a cui si aggiunge il ruolo del moderatore – nel caso bergamasco Martina Giavazzi – che cerca di accompagnare il conversatore, di placare gli animi quando la discussione perde il filo conduttore, di riportare al silenzio e all’ascolto. Nella piena libertà di conversazione («Conversas non ha pregiudizi, confini, limiti d’età; è aperta, libera e gratuita; ma è solo per chi lo vuole e chi lo sente», aggiunge Martina) emerge uno schema di interazione chiaro e con una sua logica, un modo di fare aggregazione davvero non frequente nell’epoca della visibilità e dell’opinione personale a tutti i costi. «Conversas non è aliena dai social», come testimoniano gli eventi e le fotografie delle serate postate su Facebook, «ma non è smaniosa di farsi conoscere ad ogni costo. Ci hanno proposto di creare delle sponsorizzazioni sui social, di costituire un’associazione, ma penso che si perderebbe lo spirito più profondo. Anzi: è quando siamo in pochi che l’atmosfera è più intima e adatta».

I prossimi appuntamenti di Conversas Bergamo.

L’obiettivo è ricreare l’effetto di un salotto o del bancone del bar. Tutto nel qui e ora: «Ti trovi ad avere accanto una persona con cui chiacchieri per due ore e prima di quel giorno non sapevi nemmeno chi fosse. Tutto potrebbe iniziare e morire lì, ma è comunque arricchente», secondo Martina. «Abbiamo bisogno di momenti così relazionali al di fuori della sessualità, del lavoro e dell’opportunismo… giusto per parlare, essere se stessi e raccontarsi, cosa che non facciamo più».

La domanda sorge spontanea: perché lei, Martina, lavoratrice full-time nel settore commerciale, si è presa l’impegno di organizzare questi eventi, dal cercare la location a moderare in presenza? «Come tutte le cose che si fanno, principalmente le si fa per se stessi. E io lo faccio davvero per me stessa: Conversas mi dà tutto quello che il lavoro non mi dà e lo trovo un modo bellissimo per dichiarare al mondo chi sono. Quella di organizzare le serate qui è stata un’idea che ho colto al volo in un momento difficile della mia vita. Nell’aiutare me stessa ho scoperto che stavo, che stavamo facendo del bene anche ad altre persone. Adesso sono passati tre anni e la mia situazione personale è cambiata, ma Conversas rimane lo stimolo principale della mia vita. Il mio bisogno, ho capito, è il bisogno di tanti. Ecco perché non mi pesa: l’impegno è talmente bello che non c’è fatica». E aggiunge: «Ma quanto è bello conoscere nuove persone? Non c’è limite a questa scoperta, conosci di più la tua città, conosci di più l’umanità… La parola chiave dell’amore e la parola chiave di Conversas è curiosità: entrambi si fondano su questo desiderio».

Lonely Planet: dalla prima guida underground al successo in tutto il mondo

Chi non ha mai programmato un viaggio con una guida Lonely Planet, o l’ha mai avuta tra le mani sognando posti lontani e sconosciuti? Sicuramente poca gente, visto il numero di lettori nel mondo. E pensare che la Lonely Planet è nata davvero “underground, in sordina…

Pequod ha chiesto a Tiziana Mascarello della Edt, casa editrice italiana di Lonely Planet, di raccontarci tutta la storia, dalla prima guida al successo mondiale.

«Come è nata la Lonely Planet e perché?»

«Lonely Planet nasce negli anni ’70, e la sua storia inizia quando i futuri fondatori, Tony e Maureen Wheeler, partono per un viaggio che da Londra li porta fino a Melbourne, percorrendo tutta l’Asia. In quegli anni si viaggiava ancora poco e in modo abbastanza indipendente: il viaggio era del tipo “fai da te”. Tony e Maureen scrivono la guida dopo aver terminato tutto il viaggio, proprio per incoraggiare le persone che volevano compiere quel tipo di percorso. La loro opinione era “chi fa il viaggio in aereo non sa cosa si perde”, perché avrebbe tralasciato tutta la parte riguardante la conoscenza e il contatto con altre culture. Inoltre, grazie ai loro consigli si sarebbe potuto viaggiare per più mesi con la stessa spesa del viaggio in aereo.

«Tony e Maureen scrivono quindi un libriccino sulla loro esperienza durata un anno, viaggiando con ogni tipo di mezzo: auto acquistate e poi rivendute, traghetti sul Bosforo, autostop. Proprio per fornire dei rudimenti di viaggio e mostrare come ce la si può cavare, rispondendo alle richieste di tante persone che chiedono informazioni, pubblicano Across Asia On The Cheap. Il libro diventa un riferimento e il percorso, in quegli anni dell’epoca hippie, era molto popolare: il Nepal, ad esempio, era la via della droga e della perdizione. Nel libro però passa anche il messaggio che viaggiare “con i piedi per terra” è molto importante per vedere molte cose e fare determinate esperienze. Tony e Maureen capiscono che c’è molta curiosità e bisogno di informazioni pratiche riguardo i viaggi fai da te, e la soddisfano con la loro voglia di viaggiare e trasmettere esperienze.

«È così che la coppia inizia a fare viaggi più approfonditi e dettagliati, soprattutto nel sud-est asiatico, scrivendo ogni volta una guida. Tony e Maureen restano a vivere a Melbourne, dove nasce la casa editrice ora conosciuta in tutto il mondo. Il modo di viaggiare dei fondatori resta sempre lo stesso: è importante informarsi prima, in modo che la scoperta diventi ancora più interessante, ed è fondamentale entrare in contatto con le persone, essere curiosi riguardo alla cultura e alle abitudini locali. Lo stile di viaggio è sempre quello “fai da te” di viaggiatori indipendenti, che in quel periodo utilizzavano qualsiasi mezzo».

Tony e Maureen Wheeler con il loro Across ASIAon the cheap

«Com’è cambiato il pubblico di Lonely Planet dalle prime guide a oggi?»

«Il pubblico si è allargato tantissimo sia perché le persone che viaggiano sono aumentate, sia perché in generale si viaggia di più. Molti di coloro che utilizzano una guida Lonely Planet riconoscono che il viaggio è terapeutico ma anche la guida stessa lo è. Averla infatti costituisce di per sé un’idea di viaggio, e dà conforto perché è una sorta di evasione dal quotidiano, oltre a dare la possibilità di iniziare a conoscere i luoghi che si andranno poi a visitare. È insomma il simbolo del viaggio che ognuno poi si costruisce.

«Oggi l’offerta è molto differenziata: oltre alla guida classica che ha tutte le informazioni necessarie, ci sono guide più specifiche, destinate ai viaggi più brevi, come le guide pocket. Non solo i viaggiatori “fai da te”, ma anche chi si sposta per studio o chi fa viaggi organizzati usa la guida. Le pubblicazioni hanno sempre seguito l’esigenza del viaggiatore che cambia, ma lo spirito rimane principalmente quello del viaggiatore consapevole e informato, che dedica molta attenzione ai posti che visita. Lonely Planet si rende conto di avere delle responsabilità nei confronti della salvaguardia del pianeta, e cerca di indirizzare i suoi lettori verso un turismo consapevole».

«Qual è stata la svolta per il successo di Lonely Planet

«La crescita di Lonely Planet è stata costante i primi anni, per poi diventare esponenziale negli anni ‘90. Nata nel 1973, si è fatta conoscere inizialmente con il passaparola, senza grandi investimenti pubblicitari. Si può dire che le persone che utilizzavano una guida erano soddisfatte e la consigliavano ai propri amici. Le strategie di marketing sono arrivate dopo, quando la casa editrice ha iniziato ad aumentare le proprie sedi e ora la diffusione è molto più facile grazie ai canali social. Si può dire però che il successo è stato determinato dalla necessità di un prodotto che dava informazioni molto pratiche su dove dirigersi, a chi rivolgersi per avere informazioni, dove reperire il mezzo adeguato, e altre piccole certezze che davano sicurezza a chi organizzava viaggi da solo in quel periodo».

«Quante persone leggono le guide di Lonely Planet

«Anche Lonely Planet viaggia, non solo i suoi lettori! I numeri parlano chiaro: la quota di mercato in Italia è del 50%, e ciò significa che una persona su due la utilizza.

«Le destinazioni pubblicate invece cambiano a seconda dei periodi storici, dei cambiamenti socioeconomici, dei pericoli: i flussi di viaggio cambiano, i lettori restano. In realtà resta anche una guida evergreen, quella di New York. In questo periodo anche il Giappone attrae molto!».

 «Qual è la chiave di Lonely Planet per continuare ad avere successo?»

«Non perdere il contatto con i viaggiatori, che è costante. Prima avveniva con lettere, appunti che i viaggiatori scrivevano per migliorare lo strumento di viaggio, approfondire o proporre alternative. Ora tutto ciò avviene tramite i social network, ma il contatto permane continuo e costante, ed è fondamentale per rispondere alle esigenze del pubblico.

«Possiamo dire che negli anni in cui iniziano a nascere le agenzie di viaggio e i viaggi organizzati, la Lonely Planet era un’alternativa. Adesso le offerte sono molto differenziate e personalizzate, offrono un ventaglio molto più ampio di scelta. La nostra proposta resta però sempre la stessa: fornire una guida da cui il viaggiatore può estrapolare il proprio itinerario».

«C’è ancora qualcosa di underground nella Lonely Planet di oggi rispetto ad altre guide?»

«Lo spirito che sopravvive è quello di dare indicazioni molto puntuali oltre alla continua ricerca di curiosità, di luoghi autentici spesso meno conosciuti perché fuori dai percorsi più battuti. Vengono segnalati ovviamente anche i luoghi assolutamente da non perdere e i punti di riferimento essenziali, ma anche tantissimi altri che danno un’idea più precisa del Paese o della città, ricercandone le parti meno turistiche e più “quotidiane”».

Art Brut, arte di tutti e creata da tutti

Negli anni Sessanta prende piede il termine Underground per definire un movimento culturale e artistico, nato nel secondo dopoguerra in risposta alla società di consumi che si andava delineando, movimento che con forza, talvolta esagerata, si oppone al mainstream, alla cultura tradizionale e ufficiale, alle mode predominanti, e decide di utilizzare strumenti di comunicazione ed espressione alternativi, insoliti e anticonvenzionali, facendo propria l’idea della controcultura, ossia di una filosofia di vita contraria all’establishment dominato dal denaro e dal successo.

È così che esplodono l’arte, l’editoria, la musica, la letteratura e il cinema underground, mossi da un senso di ribellione, di protesta, dal bisogno di volersi esprimere liberamente senza regole, al limite del buon costume e della buona educazione con una nota di trasgressività mista a chiara e fredda provocazione.

Questa cultura sotterranea risponde a un bisogno umano e sociale: è la risposta di una generazione (e di generazioni) alla ricerca di un’area di appartenenza e di un’identità allargata e condivisa in cui potersi riconoscere per sentirsi partecipi della storia.

 

 

Il Graffitismo e l’Aerosol Art di Jean-Michel Basquiat e di Keith Haring, la cultura hip-hop, il fumettismo, la Street Art di Banksy, Blue, Ericailcane, JR sono alcuni dei tasselli che compongono le infinite sfaccettature dell’arte underground; un’arte che si fonda sul principio per cui chiunque è e può essere un artista in quanto l’arte è di tutti e creata da tutti.

Questo stesso principio era stato espresso nel 1945 da Jean Dubuffet con l’Art Brut, un’arte che opera fuori dagli schemi e al di fuori di ogni tipo di istituzione culturale ed economica e che trova la sua espressione autentica nella necessità di raccontare se stessi e il mondo nella più totale libertà, ignorando i linguaggi ufficiali dell’arte e della critica. Dubuffet era attratto dall’arte dei bambini, degli alienati e di tutti coloro il cui istinto creativo non era imbrogliato dalle norme della ragione. Guardava infatti tanto alla pittura infantile e primitiva di Paul Klee, quanto al pensiero antirazionalista di Jean Jacques Rousseau e al mondo dell’inconscio portato a galla dai surrealisti.

«Non soltanto ci rifiutiamo di portare rispetto unicamente all’arte culturale e a considerare inferiori le opere che sono presentate in questa mostra, perché anzi noi riteniamo che queste ultime, frutto della solitudine e di un puro e autentico impulso creativo (ove non interferiscano aneliti di competizione, di applauso e di promozione sociale), sono più preziose di ciò che producono gli artisti professionisti» scrisse Dubuffet in merito alla mostra che nel 1967 organizzò a Parigi al Musée des Arts Décoratifs.

Vennero esposte numerose opere di circa 135 “artisti” di Art Brut, “artisti” che erano malati di mente, vecchi, proletari, eremiti, pittori autodidatti che usavano metodi anticonvenzionali e lontani dal mondo accademico per creare quadri, sculture e composizioni.

 

Jean Dubuffet, Theatre De Memoire, 1977

 

 

L’Art Brut e Jean Dubuffet diedero in tal modo inizio non solo a un nuovo modo di fare e concepire l’arte, ma contribuirono ad aprire la strada all’arte terapia, un interessante e delicato strumento non verbale grazie a cui si può esprimere il proprio mondo interiore.

Questa tecnica ha due distinti pubblici a cui riferirsi: uno più generico in cui chiunque, dal pittore autodidatta all’appassionato d’arte, dalla casalinga al manager può rientrare; questo target durante il laboratorio viene chiamato a esprimersi in totale libertà, a elaborare creativamente le proprie emozioni con l’ulteriore scopo di eliminare ansia, stress e conflitti.

L’altro pubblico, invece, ben più complesso e fragile, è quello dei servizi psichiatrici e per le disabilità, delle strutture per l’adolescenza, dei centri di riabilitazione, degli istituti penitenziari e dei centri diurni di ricovero per anziani. Un esempio a tal proposito è l’Atelier di pittura dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere, nato nel 1990 sotto la guida artistica di Silvana Crescini. I pazienti, ognuno col proprio tempo e spazio, dipingono tele, scrivono poche righe sull’opera, provando e successivamente imparando a esprimersi secondo il linguaggio non verbale dell’arte e a far emergere il proprio mondo interiore, i propri sentimenti e i propri pensieri.

Il laboratorio in tal modo si accresce di un valore terapeutico, riabilitativo, sociale e comunicativo grazie anche al continuo appoggio e sostegno di un’equipe di medici e psicologi con cui si collabora e si creano i programmi ad hoc. Di certo non è un lavoro semplice e rapido, bensì richiede tempo e fiducia non solo in se stessi, ma anche in colui o colei che guida l’atelier pittorico.

 

Le Fabuloserie a Dicy, Francia

 

Un collezionista che mostrò un certo interesse verso l’Art brut, tanto da dedicargli un museo, è l’architetto Alain Bourbannais, che realizzò “La Fabuloserie” a Dicy in Francia. Il museo nato nel 1983, contiene diverse opere d’arte realizzate da pastori, contadini, guardiani, persone comuni che, senza nessuna conoscenza accademica dell’arte e delle sue tecniche, crearono burattini, disegni, giostre, quadri, sculture ed “installazioni”.

Grazie anche a collezionisti come Bourbannais, l’Art Brut è riuscita a trovare un posto nella storia dell’arte, accrescendone il valore proprio del fare artistico e delle sue variegate possibilità di espressione. L’arte non è più un mondo per pochi e per addetti ai lavori, ma si fregia di una grande libertà, diventando così linguaggio di tutti, un medium creativo, istintivo e non verbale che chiunque può impiegare per esprimersi, parlare di sé e della propria relazione con il mondo.

Stravolgere gli schemi per mettersi InAscolto

Chiacchieriamo di musica underground con Andrea Greco, uno dei fondatori del  collettivo bergamasco InAscolto: attivo da circa due anni e mezzo a questa parte,  è composto da Andrea Greco, Luca Brembilla, Andrea Manzoni e Michele Gambarini. «Ai tempi in cui io e Luca eravamo coinquilini, ci si ritrovava spesso a parlare del mondo musicale di Bergamo, delle sue caratteristiche e peculiarità, senza criticarlo o accusandone i diversi aspetti. Ci siamo sorpresi con il desiderio di poter riuscire a trovare delle proposte che, all’interno di contesti preesistenti, purtroppo non esistevano, sia per questioni di mercato che regolano l’ambiente musicale dei concerti dal vivo o dalla presenza di determinate realtà che non se lo possono permettere», spiega Andrea durante la nostra intervista a quatr’occhi. Partendo da questi presupposti, decisero di riunirsi come collettivo e muoversi per realizzare le loro idee, organizzare eventi su scala ridotta con un dialogo aperto non solo alla musica, ma anche alle altre arti come la poesia, il cinema, il teatro.

Delle realtà preesistenti che hanno ispirato il progetto di InAscolto, possiamo sicuramente citare Sofar Sounds e Invisible Show.«Rispetto al contesto bergamasco il nostro riferimento più vicino è Invisible Show, con cui si stanno creando delle buone connessioni a livello di collaborazione artistica e logistica. Per quanto riguarda Sofar Sounds, inteso come Sofar Sounds Italia, ha uno stile e dei presupposti che non condividiamo particolarmente, se non per la modalità dei “concerti casalinghi”».

Inizialmente venivano sfruttate case di privati messe a disposizione per i concerti, successivamente e in maniera abbastanza naturale, il collettivo ha iniziato collaborazioni con altre associazioni trovando intriganti proposte di setting. Abbandonato marginalmente l’house concert, cercano di trovare ogni volta nuovi contesti in cui inserire la proposta musicale. «All’interno degli spazi, ultimamente stiamo iniziando a lavorare anche sulla disposizione dei performers e del pubblico, cercando di rompere gli schemi e le classiche barriere d’ascolto. Un esempio può essere il concerto che organizzammo in una sorta di piccolo hangar: su tutti i lati di questa stanza cubica venivano proiettate delle visual di grande suggestione, che facevano da scenografia al Coro Polifonico Adiemus. Il fatto di avere davanti a sé un coro ma non essere in una chiesa, con un bicchiere di vino in mano o seduto ai loro piedi scombinava tutte le pratiche di fruizione musicale a cui siamo abituati. Quello è stato uno dei momenti in cui mi sono sentito molto vicino all’obbiettivo che ci eravamo originariamente prefissati».

Il collettivo punta molto all’ambito della musica underground e sperimentale, con generi e artisti di nicchia, anche se non è assolutamente un elemento discriminante per il collettivo: gli organizzatori si sono prefissati non solo di proporre esclusivamente delle performance di musica sperimentale, c’è comunque un fare divulgativo che prende in considerazione la realtà contestuale: «Siamo partiti con delle proposte molto orecchiabili e fruibili per arrivare anche alle orecchie del pubblico meno esperto, meno avvezzo all’ascolto musicale sperimentale. Questo per riuscire a creare delle proposte che semplicemente non esistevano nel contesto come bergamasco».

InAscolto dà spazio al pubblico e ai musicisti: spesso accade che un musicista affermato, avvezzo a festival internazionali, abbia poche occasioni in cui riuscire a suonare in contesti ridotti e intimi, costruiti apposta per l’ascolto, con proposte musicalmente originali ma non necessariamente “complicate”. «Succede che a volte gli artisti vengano a suonare ai nostri eventi prendendo solo la metà del loro cachet, solo perché consci del fatto che avrebbero trovato un ambiente e un pubblico capace di ascoltare fino all’estremo delle sperimentazioni. Il pubblico, però, è forse una delle nostre soddisfazioni più grandi, non per i numeri sicuramente, quanto per l’alta sensibilità artistica di chi viene ad ascoltare: più si va avanti con gli eventi, maggiore è la consapevolezza del contesto e del mood generale degli appuntamenti di InAscolto. È per questo che penso che la città di Bergamo abbia reagito in maniera positiva alle nostre proposte».

Un grande passo del collettivo è stato quello di costituirsi in associazione, quindi partecipare a bandi e affrontare un nuovo tipo di percorso «che poi, altro non è che la conseguenza naturale del voler portare gli eventi in spazi più suggestivi, interessanti o altrimenti inaccessibili, nonché riuscire ad avere la presenza di artisti con un più alto chachet o che semplicemente arrivano da più lontano». Il livello comunicativo rimane sempre underground: molto drastici sull’utilizzo dei social network, i ragazzi utilizzano come passaparola eventi privati sulla pagina Facebook, e-mail, SMS, WhatsApp. Questo per preservare l’anima intima e raccolta del progetto: l’intenzione di seguire gli appuntamenti di InAscolto arriva con la partecipazione ai concerti o il passaparola. Rimanete InAscolto!

Se vorrete mettervi InAscolto, ecco dove potrete lasciare il vostro contatto al fine di seguirne gli eventi futuri: < inascolto@inascoltoconcerti.it>

Per curiosare tra quelli che vi siete persi: < http:/inascolto-concert.trumblr.com/ >

Alla ricerca della fama dall’underground ai social network

È luogo comune dell’immaginario che ruota attorno alla cultura underground   l’idea che gli artisti che si sono inseriti all’interno di questo movimento siano stati sempre disinteressati all’entrare nelle schiere della cultura popolare, ufficiale e di successo: obiettivo delle loro opere era infatti proprio quello di schierarsi contro le regole che fino alla prima metà del Novecento avevano imbrigliato le diverse forme di produzione artistica, creando una rete semiclandestina di attività che opponessero resistenza alla massificazione della cultura che avanzava nelle società capitaliste.

I movimenti di questa controcultura, che dall’America degli anni ’50 si diffuse presto nel resto del mondo, sembrano impensabili da riprodurre oggi. Non solo molte delle rivendicazioni portate avanti dalla cultura underground e spesso scontratesi con processi per indecenza, oscenità e malcostume, sono oggi comunemente accette a buona parte delle società occidentali; ancora più complessa sembra l’idea di una clandestinità e una segretezza del lavoro degli artisti attuali, facilmente esposti tramite la rete dei social network.

Ma quanta distanza di fatto si trova tra le personalità di spicco della controcultura e la vanità sovraesposta nell’era dei selfie? Quanto dell’attuale attitudine a innalzare a icone certe figure passate e moderne è possibile ritrovare nei modi della cultura underground?

 

Locandina promozionale di Gioventù Bruciata, diretto da Nicholas Ray nel 1955.[/

Sebbene la spontaneità fu alla base tanto dell’esistenza quanto delle produzioni degli artisti underground, è lampante che anche il loro stile di vita, improntato a ogni tipo di eccesso, divenne presto un must generazionale, coronato dal successo della pellicola Gioventù bruciata, che nel 1955 promuoveva l’immagine dei “belli e dannati”.

Un’immagine che conserverà il suo fascino negli animi adolescenti delle generazioni successive e che sarà alla base del successo di una consistente fetta di industria cinematografica, non da ultimo quella che, favorita dall’avvento della moda hipster ( che non a caso prende nome dal gergo dei giovani beat, che così chiamavano negli anni ‘50 gli appassionati di jazz e bebop) ha in tempi recenti ripreso questo filone in veste biografica, contribuendo alla recente mitizzazione di alcuni dei protagonisti della controcultura: da Urlo di Epstein e Friedman, che nel 2010 racconta la vita del poeta ebreo e omosessuale Allen Ginsberg; a Boom for Real: L’adolescenza di Jean-Michel Basquiat di Sara Driver, uscito lo scorso anno incassando 22,5 mila dollari.

 

Locandine di Howl (in italiano Urlo) diretto da Rob Epstein e Jeffrey Friedman nel 2010 e Boom for Real. L’adolescenza di Jean-Michel Basquiat diretto da Sara Driver nel 2017.

 

Un’attenzione che più che focalizzarsi sulle opere, sembra rispecchiare quel desiderio un po’ morboso, tipico della condivisione social, di entrare nella quotidianità delle persone, in questo caso artisti dediti a vite fuori dagli schemi, spesso caratterizzate dal massiccio consumo di alcol e droghe.

Un’attenzione che in alcuni casi arriva alla falsificazione, come è successo a Vivian Maier, protagonista nel 2013 dell’opera di Siskel e Maloof: Alla ricerca di Vivian Maier. Dopo aver ritrovato stampe e negativi in un magazzino acquistato all’asta, Maloof si dedicò infatti alla creazione di un’immagine della Maier come di una bambinaia misantropa, segretamente dotata di un’innata capacità di anticipare la street photography. Per ottenere questo effetto avanguardistico, lo scopritore si dedicò alla selezione e alla stampa di quei negativi che potevano rispettare l’ideale estetico che si voleva proporre, ma che forse l’autrice non avrebbe apprezzato: si sa, ad esempio, che la Maier riquadrava tutte le fotografie che stampava per rispettare il formato rettangolare della carta, mentre a noi sono per lo più offerte stampe a pieno negativo. L’artista stessa, del resto, pare aver avuto presentimento del destino della sua opera, quando spiegò a un datore di lavoro che «se non avesse tenuto nascoste le sue fotografie, qualcuno le avrebbe rubate o usate male».

Se possiamo ipotizzare che la fotografa della Chicago degli anni ’50 e ’60 non avrebbe probabilmente apprezzato i metodi e l’estetica dell’era dei social, non possiamo sostenere con la stessa certezza che gli artisti underground a lei contemporanei avrebbero avuto la stessa opinione. Né è così facile convincersi che sia stata la rete informatica a distruggere i canoni della cultura alternativa: se infatti l’obiettivo era liberarsi da schemi preimpostati, ottenere libertà espressiva e trovare lo spunto narrativo nella vita quotidiana e in quella dei bassifondi, allora i social network possono essere considerati un mezzo e non un ostacolo alla controcultura, a patto certo di dedicarsi non alla mitizzazione del passato, ma a una nuova spontaneità artistica.

 

Copertina del DVD di Alla ricerca di Vivian Maier di John Maloof e Charlie Siskel del 1013 e un’opera della fotografa.

 

Del resto, al giorno d’oggi moltissimi artisti underground utilizzano i social network come principale canale di comunicazione; esempio eclatante sono gli street writers, che spesso tutelati dalla garanzia di anonimato offerta dalla rete informatica, riescono a dare risalto e rivendicare come proprie le opere con cui colorano le vie cittadine. Le piattaforme informatiche diventano così vetrine e musei, raddoppiando lo spazio urbano e offrendo un nuovo palcoscenico a quell’arte che rifiuta la propria canonizzazione e mercificazione. Proprio il fattore economico diventa così elemento critico nel rapporto, in origine di aperta opposizione, tra gli artisti che si riconoscono come underground e la realtà del mainstream: il diritto a fruire l’arte diventa pubblico e gratuito; di contro un campanello d’allarme suona a ricordare che quello di artista è pur sempre un lavoro e va pagato.

È probabilmente proprio per evidenziare queste innumerevoli contraddizioni interne al mondo dell’arte che la scorsa settimana all’Asta di Sotheby’s si è assistito alla performance autodistruttiva di Banksy, che tramite un tagliacarte inserito nella cornice, ha ridotto in strisce la stampa Girl with Balloon, appena venduta per un milione di sterline. Nonostante le precauzioni dell’artista siano state tutte indirizzate a vanificare la vendita all’asta della sua opera, gli ingranaggi del sistema dell’economia di mercato non sembrano essersi bloccati: delle 600 copie originali dell’opera, 598 mantengono il loro valore originale (attorno le 40 mila sterline), mentre quella tagliuzzata, dal cui pagamento l’acquirente non è retrocesso, pare aver ora raddoppiato il valore di mercato raggiunto in sede d’asta. Unica copia a perdere valore economico (sceso a 1 sterlina) è quella di un anonimo che, convinto di poter accrescere il valore della stampa in suo possesso, ha operato gli stessi tagli visti nel video di Sotheby’s, guadagnandosi un’accusa di vandalismo mossa dalla casa d’aste stessa.

In contemporanea, anche grazie alla pubblicazione di Banksy stesso del video che spiega i meccanismi inseriti nella cornice della stampa sul suo profilo instagram, canale preferenziale dell’autore, il successo dell’artista continua la sua ascesa e sempre più libri e mostre si concentrano su questo autore; sarà forse un caso, ma proprio Girl with Balloon è l’opera rappresentata sulla locandina di The Art of BANKSY. A VISUAL PROTEST, personale non autorizzata dall’artista, che dal 21 Novembre sarà in mostra al MUDEC di Milano.

 

Banksy, Girl with Balloon, sul muro di Londa, South Bank, dove apparve nel 2002, accanto alla scritta “THERE IS ALWAYS HOPE” (C’è sempre speranza).

 

In copertina: Basquiat, Notary, 1983. Acrilico, pittura a olio e collage di carta su tela montata su supporti in legno. Collezione Famiglia Schorr; in prestito a lungo termine al Princeton University Art Museum.

Ritorno in fattoria: storia di un Festival di “altri tempi”

Amanti della musica folk, tenetevi pronti. Sabato 14 luglio 2018 partirà “Back to the farm”, un festival interamente dedicato alla particolare sonorità americana dell’Old-Time Music presso il locale Alberodonte di Rodengo Saiano, in provincia di Brescia.

BACK TO THE FARM FESTIVAL 2018

Non vedevamo l'ora di poter condividere con voi il nostro video promozionale di cui andiamo veramente fieri! ???Grazie di cuore al nostro Daniele Chiari per le splendide riprese e grazie ai mitici Jim and Jennie & the Pinetops per averci permesso di usare il loro bellissimo brano "Cider Press"! <3ps: ascoltare al massimo volume!!!ORA CONDIVIDIAMO COME NON CI FOSSE UN DOMANI!! ?

Posted by Back to the Farm Festival on Tuesday, June 12, 2018

Alisocia, liutaio e musicista di banjos, violino Fiddle e dulcimer, e Andrea Zampatti, fotografato naturalista e suonatore di banjos per passione, sono gli organizzatori del primo festival di musica Old-Time in Italia. Appena rispondono alla telefonata per questa intervista e iniziano a raccontarmi cosa significa per loro Old-Time Music, ho iniziato subito a immaginarmeli seduti in riva al fiume, durante una soleggiata pigra domenica d’estate, in un quadretto perfettamente calzante alle sonorità musicali del loro Festival.

Ma “Back To the Farm” non è solamente una scaletta di gruppi musicali… ce lo raccontano oggi, su Pequod, i due organizzatori.

Cosa è “Back to the Farm” e come si svolgerà la giornata?

“Back to the Farm” è un festival musicale di una sola giornata estiva. Inizierà alle 14:00 del 14 luglio all’Alberodonte e finirà… quando ci sbatteranno fuori dal locale! Il programma proposto andrà a toccare non solo le sonorità dell’Old-Time Music, ma tutti i retaggi culturali che la circondano e proprio per questo abbiamo deciso di organizzare alcuni workshop sugli strumenti tradizionali di questa particolare musica e sulla Square Dance, un tradizionale ballo di gruppo. Ma non solo! Durante l’arco della giornata, numerosi artigiani lavoreranno il legno per mostrare le loro maestrie di intagliatori e insegnare come si costruisce un cucchiaio di legno.

Tutto molto bello. Ma che cosa è l’Old-Time Music, nello specifico?

L’Old-Time Music nasce come stile musicale negli Stati Uniti d’America verso la fine della guerra di Secessione. In italiano, potremmo tradurla come “Musica dei vecchi tempi” e difatti, viene suonata su suolo americano fino agli anni ’20.

È una musica che nasce dall’incontro forzato di diverse culture: da una parte, gli abitanti delle isole britanniche, come colonizzatori, e dall’altra gli schiavi neri che dalle coste africane venivano venduti come schiavi sulle coste degli Stati Uniti d’America. Musicalmente parlando, i neri hanno portato con sè l’antenato del banjo, mentre i bianchi la melodia. L’Old-Time Music è insomma l’espressione di questo incontro, nei secoli adattatosi alle esigenze dei suoi suonatori, e che mai ha smesso di arricchirsi attraverso la cultura di chi la suona.

E come è arrivata in Italia?

In Italia, l’Old-Time Music è arrivata dopo la seconda guerra mondiale, mentre ha avuto il suo boom durante gli anni ’70, all’epoca dell’amore per il folk. Basta pensare a Bob Dylan o il successo di Francesco Guccini di quegli anni. Esistevano inoltre alcune riviste dedicate proprio a questa tematica. Poi è arrivato Internet e le soronità di sono ulteriormente espanse.

La band “Rough Barking”, con i fondatori del Festival. Da sinistra a destra: Valerio Pennati, Andrea Zampatti e Alioscia.

Ritornando in fattoria, vi chiedo: quali esigenze vi hanno portato a creare questo Festival?

Prima di tutto, la passione per l’Old-Time Music, un genere musicale ancora poco conosciuto in Europa e in Italia. Abbiamo notato come a molte persone piaccia oggigiorno la musica folk americana, ma pochi riescono a riconoscere la specificità musicale dell’Old-Time Music. Noi vogliamo dunque divulgare il più possibile questo genere musicale, aiutando nuovi orecchi a riconoscerlo e, al contempo, creando un luogo di ritrovo per i fan più affezionati. In Italia, difatti, tra noi appassionati è quasi impossibile incontrarsi perché non esistono ancora concerti… ma tranquilli, da quest’anno in poi ci pensiamo noi!

È stato difficile organizzare “Back to the farm”?

Come dicevamo, Internet ha ricoperto un ruolo fondamentale per la diffusione della musica. Nell’organizzazione del Festival, ci ha inoltre permesso di metterci in contatto con gruppi internazionali. È stato difficile trovare i puristi dell’Old-Time Music, in alcuni casi abbiamo dovuto chiedere ai gruppi di limitare il proprio repertorio alla proposta musicale del nostro Festival.

Anche il passaparola, però, è stato fondamentale! Gli amici Michele Dal Lago e Alberto Rota, ad esempio, verranno a fare un intervento musicale per ripassare la storia dell’Old-Time Music. Non solo Italia, però: usciamo dai confini, dando una sfumatura internazionale al festival assieme al gruppo “Three Cent String Band”, che ci ha contattato dopo aver sentito parlare di noi e del progetto musicale. Rivelatosi totalmente all’altezza del festival e delle nostre aspettative, li abbiamo invitati a esibirsi da noi.

A questo punto, una curiostà scaturisce spontanea. Come vi è saltato in mente di proporre un festival di Old-Time Music a Brescia?

I fratelli Montini che gestiscono il suggestivo Alberodonte non solo sono nostri amici di vecchia data, ma gestiscono una location perfetta per il nostro festival. La cascina del locale richiama l’atmosfera descritta nelle canzoni dell’Old-Time Music, sonorità che richiamano alla mente le montagne e la vita rurale che oggigiorno sembra essere dimenticata. Non potevamo proprio chiedere di meglio!

I fratelli Arianna, Simone, Vita e Bruno (ovvero i fratelli Montini, n.d.r.) sono soliti vederci finire le serate al loro locale con violino, banjo e birra in mano… a forza di sentirci, ci hanno dato fiducia e per questo noi li vogliamo oggi ringraziare. Forse gli abbiamo anche rotto un po’ le p***e.

La band “Three Cent String Band”.

Si sente come siete appassionati di questo genere! Ma, in poche parole, cosa significa “Old-Time Music” per voi?

Divertimento fatto a ritmo. La bellezza di questa musica è che non cerca raffinati virtuosismi, l’anima dell’Old-Time Music si trova nella melodia, nella riproduzione di suoni arcaici che fanno riaffiorare ricordi lontani.

È una musica semplice, sia nell’ascolto che nella suonata. Una musica d’istinto, di pancia, che ti permette di lasciarti andare con la gente che incontri per strada, lungo un cammino.

Dopo il 14 luglio, cosa dobbiamo aspettarci? Sentiremo ancora parlare di “Back to the farm”?

“Back to the farm” è nato come festival e come ogni festival che si rispetti ci aspettiamo di organizzarlo ogni anno a seguire! Questa è la prima edizione e speriamo di vedere tanta gente arrivare bella carica. Speriamo anche di rafforzare il passaparola e che possa andare oltre le Alpi, diventando internazionale. Se così fosse, possiamo anche sperare di aumentare i giorni, per poter proporre le numerose ricchezze di questa sonorità folk.

E per finire, con “Back to the farm” vorremmo anche sfatare il mito degli italiani poco curiosi e col culo pesante: venite all’Alberodonte per conoscere un nuovo stile musicale!

Voi che vivete sicuri, fuori dai campi di Rosarno

[…] Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane.

Primo Levi

A scuola i ragazzi di tutte le classi conoscono molto bene quello che successe nei campi di concentramento nazisti durante la seconda guerra mondiale. Negli ultimi anni si sono fatti molti passi in avanti lungo la via della sensibilizzazione. Merito di scelte politiche e didattiche, anche a livello internazionale. Le ghettizzazioni, i rastrellamenti, le deportazioni, le torture, i lavori forzati e le camere a gas. Il dramma di gente che moriva con l’unica colpa di appartenere a quella che veniva considerata una razza impura.
Onori e omaggi alla memoria. Sempre lo stesso spirito e quel mantra: “quello che è successo non deve ripetersi mai più”.

In teoria, ciò dovrebbe prevedere la presa di coscienza e la risposta ferma di ognuno di noi, qualora succedesse di nuovo. In pratica, esattamente un mese fa è avvenuto l’omicidio di Soumalia Sacko, il bracciante maliano ucciso a San Calogero, in provincia di Vibo Valentia. Soumalia si trovava in un edificio abbandonato, insieme ad altri suoi “coinquilini” della tendopoli di San Ferdinando. È stato freddato da un colpo alla testa mentre stava raccogliendo delle lamiere utili per costruire una baracca sicura che non prendesse fuoco, simile a tutte quelle che affollano l’ex area industriale del paesino a due passi da Gioia Tauro, dove si concentra la maggior parte dei lavoratori che ogni anno, nel periodo della raccolta degli agrumi, affollano le campagne della piana.
Stiamo parlando di gente che si sposta da una parte all’altra dell’Italia in base al tipo di coltivazione che si produce in un determinato luogo e periodo. Immigrati che continuano a migrare.
Molti di loro, giunti in inverno a San Ferdinando per raccogliere arance e mandarini, d’estate si spostano nel Foggiano per la raccolta di pomodori e altri ortaggi.

L’edificio abbandonato dell’ESAC, ex Opera Sila, ARSSA, che nel 2009 era diventato la più grande baraccopoli per i lavoratori stagionali delle campagne tra Rosarno e Gioia Tauro. (foto di Andrea Scarfo/CC BY-SA 3.0)

Come rileva il report dell’associazione “Medici per i diritti umani” (MEDU) I dannati della terra, per la sola San Ferdinando si parla di circa 3000 persone che trovano alloggio nell’ex area industriale tra cumuli di immondizia, bagni maleodoranti e fatiscenti, bombole a gas per riscaldare cibo e acqua, pochi generatori a benzina, materassi a terra o posizionati su vecchie reti e l’odore nauseabondo di plastica e rifiuti bruciati.
Le preoccupanti condizioni igienico-sanitarie, aggravate dalla mancanza di acqua potabile, e i frequenti roghi che hanno in più occasioni ridotto in cenere le baracche e i pochi averi e documenti degli abitanti, rendono la vita in questi luoghi quanto mai precaria e a rischio. L’ultimo rogo, il 27 gennaio scorso, ha registrato anche una vittima, Becky Moses, e ha lasciato senza casa circa 600 persone nella vecchia tendopoli.

Consideriamo allora se quelli che vivono nella piana di Gioia Tauro siano uomini. Non hanno tiepide case, bensì baracche e accampamenti di fortuna dove d’inverno si muore dal freddo, ma si rischia la morte anche (e soprattutto) quando si sta al caldo, a causa degli incendi scaturiti dai rudimentali impianti di riscaldamento.

Oltre a tutto questo, occorre poi considerare le condizioni di lavoro. Rosarno è infatti un territorio ad altissima densità mafiosa, dove la ‘Ndrangheta ha il controllo, pressoché totale, su tutte le attività. In un clima del genere, i braccianti immigrati sono deboli creature in pasto alle belve. Senza diritti e con paghe bassissime (circa 20 € al giorno, per almeno 10 ore lavorative), sono le vittime principali dei caporali che “organizzano” le squadre di lavoro. Facile intuire cosa comporti per queste persone denunciare.

Il logo dell’associazione Medici per i Diritti Umani (MEDU).

Quelli che non si voltano

In una situazione di precarietà sociale, economica e sanitaria, a garantire sostegno ai lavoratori provenienti dal Mali, Gambia, Somalia e altre zone sub-sahariane, ci sono associazioni locali e internazionali.
Abbiamo già citato MEDU, un’associazione di medici, ostetriche e volontari che fornisce assistenza sanitaria e legale ai braccianti, che per la maggior parte (circa il 90%) sono immigrati regolari. Sul sito dell’associazione viene precisato in maniera puntuale e dettagliata che “il progetto ha come obiettivo generale la tutela delle condizioni di salute e di lavoro dei migranti impiegati nel settore agricolo italiano in condizioni di sfruttamento e incidere sulle politiche locali e nazionali in tema di contrasto al caporalato e di sfruttamento lavorativo in agricoltura“.

Medu propone azioni essenziali. Porre attenzione alle condizioni sanitarie di donne e bambini, affinché questi abbiano un accesso alle cure molto spesso limitato dalle condizioni economiche e giuridiche. A tal proposito è necessario regolarizzare la loro condizione e rendere attivi e incrementare la rete di centri per l’impiego, con particolare attenzione per il settore agricolo. Naturalmente, sono necessari i controlli e un sistema che sia in grado mettere alle strette il caporalato.

Tuttavia, oltre a questo è necessario anche promuovere informazione. Ecco un altro punto su cui si batte l’associazione. Proprio per questo, la stessa ha realizzato una mappa interattiva delle rotte che percorrono i migranti. Uno strumento che si arricchisce di video e immagini per documentare in maniera dettagliata il dramma di un viaggio che si compone di violenze e atrocità. ESODI, questo il nome del progetto che ha dato vita alla mappa, cerca di spiegare, soprattutto attraverso la visione “in presa diretta’ del dramma, che cosa vuol dire mettersi in cammino dall’Africa sub-sahariana alle coste libiche.

L’idea è di rendere il tutto tangibile. Portare ai nostri occhi e alle nostre orecchie le storie di coloro che vivono in mezzo a noi, e che spesso, se va bene, neppure consideriamo, se va male li disprezziamo. Provare a considerare se anche questi siano uomini e intervenire per smantellare i lager e reprimere la Shoah del terzo millennio, cercare di apparire più umani agli occhi dei posteri.

 

In copertina: la baraccopoli di San Ferdinando, Rosarno, RC (foto di Antonello Mangano/CC BY-NC-SA 2.0).

Immigrazione: la sfida politica del nuovo millennio

La grande agitazione sulle politiche di immigrazione vissuta in Italia negli ultimi anni e gli accesi scontri fra le varie parti politiche rivelano le difficoltà di una Nazione nel gestire uno degli effetti più dirompenti della fenomeno globalizzazione. L’Italia si è trovata a gestire il passaggio da Paese di emigrati a Paese di immigrazione in pochi decenni, fino a giungere ad essere uno degli Stati maggiormente interessati dai flussi migratori con un numero di immigrati, contando i soli soggetti regolari, che oggi supera i 5 milioni di individui. Il rischio di una transizione così veloce ma mal gestita porta ad una chiusura del Paese verso questo fenomeno e, di conseguenza, ad una drastica restrizione dei diritti dei migranti, e le leggi prodotte negli ultimi 20 anni ne sono la prova.

La legge n. 40/1998, la cosiddetta legge Turco-Napolitano, fu la prima legge sull’immigrazione italiana di carattere generale non approvata in circostanze emergenziali. La connotazione principale fu la definizione della programmazione dei flussi migratori integrata alla politica estera nazionale tramite un sistema di quote privilegiate a favore dei Paesi che collaboravano al rimpatrio di immigrati espulsi dall’Italia. Un suo grandissimo merito fu certamente l’introduzione nel sistema normativo italiano del Testo Unico sull’immigrazione, più volte modificato, il quale concentrava al suo interno tutte le norme nazionali riguardanti questo settore, contribuendo a semplificare e rendere più snella ed ordinata la normativa italiana in materia. La legge Turco-Napolitano operò sia in ottica di un’integrazione degli immigrati (tramite la previsione dell’ingresso per ricerca di lavoro, la carta di soggiorno per stabilizzare i residenti di lungo periodo e l’estensione delle cure sanitarie di base anche agli immigrati clandestini), sia potenziando le politiche di controllo ed espulsione, necessarie per i bisogni nazionali. Vennero così aumentati i casi nei quali l’irregolare espulso poteva essere passibile di accompagnamento alla frontiera e vennero previsti i Centri di Permanenza Temporanea ed assistenza (CPT) per trattenere ed identificare gli immigrati ed eventualmente espellerli.

La manifestazione contro i CPT e la legge Bossi-Fini in occasione dello sciopero dei migranti a Bologna nel 2010 (© Gabriele Pasceri / CC BY-NC-SA 2.0).

Negli anni successivi l’immigrazione crebbe ulteriormente anche per effetto dell’ingresso di nuovi Stati nell’Unione Europea e di conseguenza aumentò anche il numero degli aventi diritto al transito ed al soggiorno in Italia, che resero ancora più infuocato il dibattito politico su queste tematiche. Questa stagione venne inaugurata dalla legge n. 189/2002, la cosiddetta legge Bossi-Fini, la quale modificava in modo rilevante la Turco – Napolitano in senso restrittivo per i cittadini extracomunitari interessati ad immigrare in Italia. La nuova legge da un lato inasprì i controlli su chi già risiedeva in Italia, accorciando da 3 a 2 anni la durata dei permessi di soggiorno, introducendo la rilevazione delle impronte per tutti gli stranieri ed il reato di permanenza clandestina; dall’altro intervenne anche sulle nuove entrate, creando una procedura unica, basata sul contratto di soggiorno, la quale rendeva molto più difficile per il cittadino extracomunitario venire a lavorare legalmente in Italia. Questa legge fu però accompagnata da una gigantesca sanatoria, la più massiccia della storia europea, che coinvolse oltre 650.000 individui.

L’avvento di un nuovo governo di centrodestra, nel 2008, portò a un ulteriore irrigidimento della normativa tramite il cosiddetto “pacchetto sicurezza”, varato dall’allora ministro Maroni, il quale introduceva nuove fattispecie di reato per gli immigrati e l’espulsione per cittadini UE o extracomunitari condannati alla reclusione superiore ai 2 anni. La legge poi prevedeva per la prima volta il reato di ingresso e soggiorno illegale, nonché un ulteriore allungamento dei tempi massimi di trattenimento (fino a 6 mesi) nei CPT, ora ribattezzati CIE, Centri di identificazione ed espulsione.
Tale impostazione, la più restrittiva mai vista in Italia, venne parzialmente mitigata dalla successiva attuazione delle direttive europee, tra tutte, la cosiddetta “
direttiva rimpatri” del 2008, che disciplinava le norme e le procedure di rimpatrio di cittadini irregolari di Paesi terzi col fine di creare una politica di rimpatrio comune degli Stati membri, umana e rispettosa dei diritti fondamentali, coordinando le legislazioni dei vari Paesi UE.
In seguito, la legge n. 46/2017 , accelerò i procedimenti in materia di protezione internazionale, istituendo 26 Corti specializzate in materia di immigrazione e prevedendo procedure più snelle per il riconoscimento della protezione internazionale e dell’espulsione degli irregolari, basate sui colloqui con le Commissioni Territoriali.

Rifugiati siriani e iracheni provenienti dalla Turchia vengono aiutati a sbarcare sull’isola greca di Lesbo dai membri della ONG spagnola “Proactiva Open Arms” nell’ottobre 2015 (© Ggia / Wikipedia / CC BY-SA 4.0).

Da ultimo, l’avvio del nuovo Governo Conte si è caratterizzato, nelle prime settimane, da azioni energiche ad opera del neo ministro degli Interni Salvini, come quella di chiudere i porti alle navi delle O.N.G. che svolgevano attività di soccorso in mare dei migranti naufraghi. Le dichiarazioni che hanno accompagnato tali provvedimenti hanno poi incentivato notevolmente il sentimento di xenofobia e odio etnico già percepibile nel paese. Andando oltre queste azioni eclatanti da campagna elettorale, è il caso di soffermarsi piuttosto sui dieci punti portati dal premier al vertice di Bruxelles lo scorso 24 giugno:

  1. Intensificare accordi e rapporti tra Unione europea e Paesi terzi da cui partono o transitano i migranti.
  2. Istituire Centri di protezione internazionale nei Paesi di transito per valutare richieste di asilo e offrire assistenza giuridica ai migranti, anche al fine di rimpatri volontari.
  3. Rafforzare le frontiere esterne.
  4. Superare il Regolamento di Dublino, secondo cui una domanda di asilo dovrebbe essere lavorata da un solo Stato membro
  5. Superare il criterio del Paese di primo arrivo: chi sbarca in Italia, sbarca in Europa.
  6. Affermare la responsabilità comune tra gli Stati membri dei naufraghi in mare.
  7. Contrastare a livello europeo la “tratta di esseri umani” e combattere le organizzazioni criminali che alimentano i traffici e le false illusioni dei migranti.
  8. Istituire Centri di accoglienza in più Paesi europei per salvaguardare i diritti di chi arriva ed evitare problemi di ordine pubblico e sovraffollamento.
  9. Contrastare i “movimenti secondari”, ossia gli spostamenti dei richiedenti asilo tra i vari Stati dell’UE, attuando i punti precedenti (soprattutto la riforma degli accordi di Dublino), rendendo così di fatto gli spostamenti intra-europei di rifugiati meramente marginali.

     

  10. Stabilire delle quote di ingresso dei migranti economici in ogni Stato.

Tuttavia, solo una governance che non sia impostata sulla responsabilità della singola Nazione ma sia condivisa a livello europeo può gestire queste responsabilità ed un problema che oggi può sembrare affare di pochi Paesi di confine, un domani potrebbe essere avvertito come proprio dell’intero continente. Meglio allora sarebbe incominciare a lavorare tutti per una vera Unione solidale tra Stati.

In copertina: dei migranti siriani provenienti dalla Turchia vengono tratti in salvo sull’isola greca di Lesbo nell’ottobre 2015 (© Ggia / Wikipedia / CC BY-SA 4.0).

Centri d’accoglienza: le difficoltà dell’incontro culturale

Il primo senso a essere colpito avvicinandosi a un centro d’accoglienza è l’udito: ogni campo si configura come una moderna versione della Babele biblica, in cui idiomi arrivati dalle più disparate parti di mondo si mescolano e si confondono in un miscuglio di suoni.

A tentare il ruolo di Esperanto, di lingua franca che permetta un minimo di comprensione, s’impongono da un lato una lingua che quasi tutti gli ospiti cercano di gettare nell’oblio assieme a un bagaglio di ricordi infelici, l’arabo libico; dall’altro una lingua nuova, spesso pronunciata con fatica, scavando nella memoria a breve termine delle parole conosciute da poco, la lingua del Paese di accoglienza.

Su quest’ultima si concentrano gli sforzi di tutti coloro che si muovono all’interno dei campi, dagli ospiti agli operatori, perché la lingua di un Paese rappresenta il primo passo per potersi approcciare a un nuovo Stato, alle sue abitudini, alle sue tradizioni; un imperativo domina infatti sull’operato di tutti, stretto dai tempi di chi da troppi anni è in viaggio coltivando il sogno di realizzare una vita nuova nell’Europa dei diritti e adagiato sul continuo procrastinare dei tempi burocratici: assimilare la cultura di accoglienza.

La corsa all’integrazione prima che arrivi la fatidica chiamata presso la Commissione, che deciderà se assegnare o meno lo status di rifugiato e quindi se legittimare o meno la presenza sul territorio, canalizza tutti gli sforzi e l’apprendimento della lingua, soprattutto in paesi come l’Italia poco avvezzi all’utilizzo quotidiano di lingue internazionali come l’inglese, rappresenta il primo scoglio da superare; il primo ma non l’unico, perché integrarsi significa anche fare proprie le abitudini del popolo di accoglienza.

Primi passi con l’italiano.

 

Una premessa va anteposta a qualsiasi riflessione si voglia condurre sui centri di accoglienza: ognuno di essi rappresenta una realtà a sé. Da un lato ci sono gli aspetti legati al luogo in cui i campi sono collocati, che non si differenziano solo in base allo Stato, ma anche all’ambiente geografico in cui si trovano, alla vicinanza o distanza rispetto a un centro abitato, al tipo di accoglienza che la popolazione residente è disposta a offrire, alle possibilità d’integrazione che l’ambiente offre in termini di servizi.

Dall’altro ci sono l’organizzazione e la struttura del centro stesso, date dalle sue dimensioni (il numero degli ospiti, ma anche e soprattutto il numero di nazionalità accolte e in quale percentuale), e dalla tipologia di accoglienza (a seconda della sua strutturazione, ad esempio, in un campo-comunità o diffusa in appartamenti). Vano è il tentativo di elencare il numero di fattori che intervengono a modificare l’approccio che si cerca di portare avanti, tanto più che imprevisti d’ogni genere (dalle emergenze sanitarie agli abbandoni spontanei, dalle modifiche legislative alla mancanza di fondi) possono in qualsiasi tempo intervenire a bloccare progetti già avviati.

Particolarmente significativo è il numero degli ospiti che il centro accoglie e degli operatori che lavorano per loro: una maggiore disponibilità di tempo su un numero ridotto di persone, infatti, rende possibile tracciare percorsi d’integrazione vera, non univoca, ma di fusione e d’incontro tra culture. Purtroppo, la maggior parte dei campi in territorio italiano, soprattutto se di accoglienza prima o eccezionale, raramente rispettano il rapporto previsto tra numero di operatori e numero di ospiti (approssimando, circa 1 operatore ogni 20 ospiti); nello stesso tempo, essendo le Cooperative società di capitali, le loro scelte di investimenti sulla qualità della vita degli ospiti possono, nei limiti di alcune innegabili necessità di base, variare di molto e, nel momento in cui si rendono necessari tagli al budget, i primi aspetti a esser messi da parte sono quelli riguardanti il recupero della cultura d’origine.

Il banku, tipico piatto nigeriano e ghanese.

Un esempio concreto delle difficoltà che quotidianamente ci si trova ad affrontare è offerto dai pasti. Qualsiasi abitante del Bel Paese sarà pronto a dirvi che il cibo italiano è il più buono del mondo e, se forse un tedesco o un americano potrebbero anche essere disposti ad assecondare l’italica vanità, non così per un bengalese o un africano, abituati a pasti in cui imperano chicchi di riso dalla forma allungata che difficilmente scuociono. Tuttavia, i costi di preparazione di piatti etnici, che prevedono un gran numero di spezie e alimenti d’importazione, esulano dalle spese previste. Se può esser facile accontentare i gusti di alcuni ospiti, ad esempio preparando del banku nigeriano o le chapati pakistane, entrambe a base di farina e acqua, si rischia così di creare scontento tra gli africani occidentali o i bengalesi, che non apprezzano la difficile digeribilità di questi piatti.

Si finisce così per imporre una regola, spesso giustificata col pretesto dell’economia, a cui gli ospiti dovranno inevitabilmente adattarsi anche una volta fuori dal centro d’accoglienza: bisogna imparare a mangiare la pasta! E con questo tipo di approccio si affrontano un’infinità di tematiche e di regole, spesso imposte più che razionalmente giustificate: dagli orari del medico e i limiti di accessibilità degli ospedali, agli indumenti funzionali più che esteticamente piacevoli; dal modo di organizzare le pulizie degli spazi privati ai prodotti igienici da utilizzarsi; fino alle attività ricreative, incasellate in orari e ambienti specifici, in concomitanza con la disponibilità degli operatori di riferimento.

I pochi ambiti che sfuggono a questa forzata assimilazione, sono la religione e l’arte. La prima, riconosciuta ormai come diritto inviolabile dell’Uomo, riesce ancora a incontrare il rispetto dei precetti che di volta in volta la regolano e a trovare spazi per l’autorganizzazione dei momenti di preghiera. Anche se non sempre è facile osservare tutti i riti, la maggior parte delle festività, dalla festa di fine Ramadan al Natale, in molti campi riescono a diventare un sereno momento d’incontro e di scambio culturale.

L’espressione artistica, pur vincolata alla disponibilità di mezzi, diventa per molti occasione di un recupero della propria identità individuale, che porta con sé l’estetica della cultura d’origine: dai dipinti ai racconti nei dialetti materni, dall’intaglio del legno ai lavori di cucito. Laddove i campi offrono i materiali di produzione, si aprono finestre su culture lontane che potrebbero allargare anche gli orizzonti europei, se qualcuno sapesse coglierne gli spunti.

Anche nel più povero dei centri d’accoglienza, all’osservatore che sia pronto ad aprirsi a nuove realtà non possono sfuggire i suoni provenienti dalle innumerevoli cuffiette: note che sanno di ritmi di continenti lontani, di melodie che provengono da culture distanti, da luoghi che gli ospiti chiamano “casa” e che, pur stanchi di un viaggio che sembra interminabile, sognano un giorno di rivedere.

Momento di preghiera mussulmana presso un centro d’accoglienza.

In copertina: Dipinti e lavori artistici di un gruppo di ospiti di un centro d’accoglienza.

Le pubblicità più imbarazzanti degli anni ’80 e ’90

Quando ripensiamo al passato, a quando eravamo più giovani, di solito tendiamo a farlo con un misto di nostalgia e malinconia, che tinge di rosa anche aspetti che proprio così positivi non erano. E’ il caso, ad esempio, delle pubblicità degli anni ‘80-’90, rimaste nel cuore di molti. Sfido chiunque di quella generazione a non lasciarsi sfuggire neanche un sorriso alla frase “Ambrogio, la mia non è proprio fame, è più voglia di…qualcosa di buono” o “Mira el ditooo!”. Sono sufficienti un paio di esempi di pubblicità iconiche a far scattare un sospiro nostalgico al pensiero di “Ma come erano belle le pubblicità di una volta!”. E’ indubbio che con l’avvento delle televisioni private negli anni ‘80, gli spot pubblicitari si sono fatti più variegati, meno scontati e decisamente più audaci. Tuttavia, basta soffermarsi un attimo a riflettere sui contenuti per accorgersi che pullulano di messaggi razzisti e sessisti che fanno quasi rabbrividire.

 

Pubblicità Tabù – 1986

Il motivetto dell’iconica pubblicità anni ‘80 delle famose caramelle alla liquirizia è sicuramente tra i migliori jingle pubblicitari mai composti: orecchiabile, accattivante e pieno di energia. Peccato che il personaggio sia chiaramente tratto dai minstrel show americani, in cui i neri venivano rappresentati in maniera stereotipata e caricaturale come ignoranti, pigri, superstiziosi e, manco a dirlo, ossessionati dalla loro musica.

 

Morositas – 1988

Un’altra caramella, un altro jingle accattivante corredato da balletti a ritmo, ennesimo messaggio razzista e pure sessista. Nonostante la scena in cui l’uomo inciampa tra le curve della protagonista, che ovviamente lo accoglie con un sorriso smagliante, faccia alquanto rabbrividire, l’idea di pubblicizzare una caramella nei panni di una sensualissima e “morbida” donna nera dev’essere sembrata vincente. Lo spot ha avuto infatti tanto successo che negli anni successivi ne sono stati fatti altri sempre sullo stesso stampo:

 

Estathé – 1997

L’iconica pubblicità dell’Estathé degli anni ‘90 ha avuto talmente successo che l’espressione “Mira el dito” era diventata di uso comune all’epoca. Certo è che i due messicani, rappresentati come pigri, dediti solo alla siesta e incapaci di fare delle frasi più complesse di “Mucho calor”, sono lo stereotipo per eccellenza.

 

Pista di macchinine da corsa per bambini, lavatrici e aspirapolveri per le bambine

In questa doppia pubblicità degli anni ‘90, se per i bambini c’è una pista da corsa con garage elettronico per un “divertimento non stop”, le bambine sono entusiaste dei loro “regali per donnine di casa”, una lavatrice AEG e un aspirapolvere Folletto, entrambi rigorosamente regalati dal marito. Nessun riferimento al gioco o al divertimento per loro, ciò che conta è che “il bucato non è più un problema”.

 

La fabbrica dei mostri vs. la fabbrica delle bambole – anni ’90

Chiaramente il sessismo insito nella separazione dei giochi “per maschi” e quelli “per femmine” esiste tuttora, ma all’epoca era particolarmente eclatante. Frequenti erano infatti i giochi in due versioni: una per le bambine e una per i maschietti. E’ il caso, ad esempio, della “Fabbrica dei mostri” e e la sua versione al femminile “La fabbrica delle bambole”. Per sottolineare maggiormente che erano riservate a due target ben diversi, nello spot della Fabbrica delle bambole un bambino chiede entusiasta: “Ehi, è qui che fanno bambole?”, seguito dalla pronta risposta all’unisono di due bambine: “Sì, ma per noi!”. Non ci è dato sapere la reazione del povero bambino.

Sarebbe bello poter dire che questo tipo di messaggi è sparito dalla nostra televisione e appartiene ormai al passato, ma purtroppo non è così. Anzi, oggi prevale sempre più la donna rappresentata solamente in due modi: perfette casalinghe o bombe sexy utilizzate per catturare l’attenzione. Basta guardare questo spot delle sottilette Kraft del 2008/09 o questo della Bialetti del 2012 per rimanere inorriditi. E in questi casi non vi è nemmeno la consolazione di un jingle ben fatto.

 

In copertina: Graffiti in Shoreditch, London (foto di Graffiti Lif/Wikipedia/CC BY 2.0)

Roma, dove la pubblicità diventa street art

Roma è la città degli echi, la città delle illusioni, e la città del desiderio.
[Giotto]

 

Non c’è artista, poeta o scrittore, regista o attore, che non abbia colto passeggiando per le vie di Roma il fascino di questa città-museo, dove la storia più che mostrarsi, ci viene incontro a ogni angolo di strada, dove si passeggia tra muri di millenni lontani e il bello diventa luogo in cui abitare.

Diversa da qualsiasi altra capitale, proprio per questo suo fascino di dipinto su cui uno dopo l’altro si sovrappongono immagini di stili e forme che appartengono al susseguirsi dei secoli, più di una volta si è tentato di togliere a questa città il suo ruolo di centro politico ed economico, in sostanza statale, d’Italia. Certo, le difficoltà di poggiarsi tutta su fondamenta ricche di beni inestimabili e lo spazio urbano occupato da architetture di difficile restauro non agevolano l’ammodernamento di quest’atipica metropoli, le cui strade si aprono su pericolose voragini e la cui metropolitana, tanto per fare un esempio, conta solo tre linee a brevi tratti, mentre gli scavi per le nuove linee previste rimangono bloccate dal continuo emergere di nuovi siti archeologici.

Tuttavia, Roma non è poi così vecchia e i suoi abitanti sembrano già pronti a creare una sintesi tra l’estetica in cui sono soliti vivere e gli usi di capitali europee tanto distanti dalla nostra per cultura e approccio al territorio. Un vivace esempio di questa moderna idea di decoro cittadino, ce lo regala la Roma notturna, quando i negozi chiudono e le serrande si abbassano: è a quest’ora che le strade si colorano di dipinti a bomboletta spray, una forma d’arte del tutto contemporanea che perfettamente si concilia con le esigenze della moderna economia.

È dai primi anni del duemila, infatti, che a Roma si sta diffondendo un’abitudine già ampiamente diffusa nelle città nordiche, forse prima tra tutte Berlino, esempio principe di una città che non si abbandona alla propria storia, ma ricostruisce la propria immagine con uno stile del tutto nuovo, fondato sul sincretismo tra passato e presente; allo stesso modo, tra un monumento e l’altro della capitale italiana, s’impongono all’attenzione le saracinesche dei negozi, che ripropongono in tratti colorati le attività che si svolgono al loro interno.

 

Negozio chiuso nel quartiere di San Giovanni in Laterano – Roma
ACI Delegazione Re di Roma, via Pinerolo, nel quartiere di San Giovanni in Laterano – Roma
Agenzia di Scommesse SNAI in piazza San Giovanni in Laterano – Roma
Vineriagallia, via Gallia, nel quartiere di San Giovanni in Laterano – Roma

Come spesso accade, nel nostro Paese forse più che altrove, la spontanea iniziativa imprenditoriale è presto stata oggetto di accuse: gli esercenti, infatti, non sono tenuti a chiedere autorizzazione per promuoversi dipingendo direttamente sulle serrande, le quali non sono contemplate come mezzo per veicolare pubblicità dalla legge di riferimento (delibera 100 del 2006), e più di una voce si è sollevata a sostenere che l’obiettivo fosse proprio quello di evadere le tasse dovute allo Stato nel caso d’installazione di un’insegna esterna. Di fatto, gran parte delle attività che usano questa pratica la accompagnano con una regolare insegna, quindi la pittura sulle saracinesche non sarebbe da includersi come operazione a fini pubblicitari, ma come mera decorazione.

A ciò si aggiunge il fatto che, sebbene non in termini di tasse, tale operazione comunque contempla delle spese (mediamente sui 300 €) e offre un’opportunità di guadagno per molti giovani writers, tra i quali diversi hanno ora una firma attestata e altri si sono organizzati in gruppi che agiscono come aziende, comprensive di sito in line attraverso cui contattarli.

Al di là delle polemiche, la pratica continua a diffondersi per le vie della capitale e negli ultimi dieci anni ha preso piede anche in altre città italiane, da Milano a Torino, riflettendo a pieno la politica alla base della street art, che vuole trasformare le grigie metropoli moderne in un «posto migliore da vedere» [Bansky].

Gioielleria Sabatini, via Veio, quartiere San Giovanni in Laterano – Roma
OffLicense, negozio di birre in via Veio, quartiere San Giovanni in Laterano – Roma
Edilambiente e panetteria, via Veio, quartiere San Giovanni in Laterano – Roma
Happy Feet, calzature per bambini e ragazzi, via Gallia, quartiere San Giovanni in Laterano – Roma
Ink Factory Tattoo, via Gallia, quartiere San Giovanni in Laterano – Roma
ZIP Sartoria Rapida, via Gallia, quartiere San Giovanni in Laterano – Roma
Pizzeria Delicious, via Gallia, quartiere San Giovanni in Laterano – Roma
Robivecchi risto-pub, via Gallia, quartiere San Giovanni in Laterano – Roma
Panificio, via Cutilia, quartiere San Giovanni in Laterano – Roma
Pizzeria Marchese, via Etruria, quartiere San Giovanni in Laterano – Roma
PhotoSì, quartiere San Giovanni in Laterano – Roma
Pigneto – Roma
Pigneto – Roma
Bar del Cappuccino, via Arenula, Rione Regola – Roma
Risivi Gioielli, via dei Pettinari, Rione Regola – Roma
Calzaturificio Timberland, Rione Regola – Roma
Negozio Weedo e Adriano Carnovale Hair Dresser Salon, via Appia Nuova – Roma

Letture per identità libere da ogni maschera

Vi siete persi il Pride di Bergamo e cercate ora un’opportunità per incontrare un po’ della folla che ha colorato le vie della città? O forse eravate proprio in mezzo a quella folla, danzanti tra arcobaleni riprodotti su magliette, calzini, bandiere e collane hawaiane, ma non vi sentite sazi della miriade di storie, esperienze di vita che stavano dietro i sorrisi di quei volti?

Nulla da temere! Il Pride non si chiude con una giornata di sfilate: tra le molteplici iniziative prima e dopo la manifestazione del 19 maggio, alcune conferenze dedicate alla letteratura LGBT+ aprono a orizzonti di racconti da portare a casa con sé, leggere e rileggere per entrare in empatia con persone che in parte siamo, che forse avremmo potuto essere, o magari davvero diverse da noi e straordinarie proprio per quest’unicità che ci accomuna tutti.

 

 

 

Impossibile è restare indifferenti di fronte alla raccolta Le cose cambiano – Storie di coming out, conflitti, amori e amicizie che salvano la vita, presentato il 22 Maggio attraverso una serie di letture presso la Biblioteca Caversazzi. La dichiarazione d’intenti in apertura alla raccolta è chiara ed esplicita: «Questo libro è il nostro contributo affinché la società si trasformi e l’immaginario LGBT si evolva». Del resto la società è già in trasformazione, una trasformazione lenta ma decisa, che avanza anche grazie a iniziative come quella che questo libro rappresenta.

La raccolta è frutto di un progetto nato in America nel 2010: Dan Savage e suo marito Terry Miller, sconvolti da una serie di suicidi di ragazzi omosessuali vittime di bullismo, caricano su YouTube un videomessaggio per le vittime di discriminazione, rivolgendosi a loro come avrebbero voluto parlare agli adolescenti che loro stessi erano, cui avrebbero voluto dire «di resistere, perché presto andrà tutto meglio, troveranno degli amici fantastici, troveranno l’amore e un giorno avranno una vita molto più felice di quanto immaginate».

La loro azione diventa virale e una serie di testimonianze da tutto il mondo vanno a raccogliersi nel progetto It Gets Better, che in Italia sbarca l’anno successivo grazie all’associazione no profit Girls and Boys e nel 2013 si trasforma in un libro cartaceo. Il filo conduttore è proprio il cambiamento, visto sempre in una prospettiva positiva: l’intento non è muovere recriminazioni alla società attuale, bensì infondere speranza di un futuro più facile a quegli adolescenti che, impegnati nella scoperta della loro identità, si sentono smarriti in una comunità che non sembra volerli accettare.

Nell’edizione italiana, a cura di Linda Fava, alle testimonianze di noti americani (da Chaz Bono a Hillary Clinton, passando per Barack Obama) si aggiungono racconti di esperienze vissute nella penisola dagli anni ’80 a oggi, che ci regalano uno spaccato della storia d’Italia, di cosa abbia significato e significhi essere omosessuali nel Belpaese, a dimostrazione che le cose cambiano se lo vogliamo, come insegnano le parole dello psichiatra e psicanalista Vittorio Lingiardi:

Ma “le cose cambiano”.
Sì, ma è uno slogan.
No, è un esercizio che si può fare tutti i giorni.

 

 

Alle difficoltà dell’adolescenza è dedicato anche il libro presentato il 4 Maggio alla caffetteria Dolcevita: Siamo tutti arcobaleni di Francesca Bonelli Morescalchi, un romanzo che prima ancora di portarci a riflettere sull’omosessualità, ci costringe a constatare che c’è un’uguaglianza di fondo che ci accomuna tutti come esseri umani. Attraverso la voce di uno dei protagonisti, infatti, è raccontata la storia di tre sedicenni, tre amici alle prese con la difficoltà di diventare adulti, di capire e plasmare la propria identità, tra le fatiche spese sui libri di scuola e il rapporto con i genitori e con le loro ansie.

A smuovere le acque è ancora una volta il suicidio di un giovane omosessuale bullizzato dai compagni di scuola, che pone Berna di fronte all’impellente necessità di esprimere liberamente la propria identità sessuale, frustrata dalla relazione con Fabrizio, che non si sente pronto al proprio coming out. Assieme a Ghigo, voce narrante della trama ma anche delle turbe adolescenziali di chi teme di non trovare mai la propria strada per l’autorealizzazione, e Marco, impegnato a liberarsi da genitori troppo protettivi, decidono di compiere la loro grande trasgressione: saltare la gita scolastica per partecipare al Gay Pride di Milano.

Tema centrale del romanzo è quindi l’identità, intesa come unicità di ogni individuo, al di là dei livellamenti che la società vorrebbe imporci, ben espressi nelle domande retoriche scritte dall’autrice per la presentazione del libro: «Gli adolescenti sono tutti uguali? La società li schiaccia e li obbliga in modo subdolo ad appiattirsi e assomigliarsi, o sono forse loro stessi a volerlo? Oppure ognuno è speciale, unico e irripetibile, con colori tutti suoi, variopinti come l’arcobaleno?».

Se è vero che il nostro secolo ha sdoganato attitudini e stili di vita un tempo pensati come deviati e sempre più pride (ma più ingenerale eventi per quei soggetti etichettati come “alternativi”) si organizzano nel mondo, è impossibile nascondersi che l’omofobia resta un problema sociale forte, come dimostrano gli episodi di violenza che emergono dalla cronaca; l’adolescenza è sicuramente l’età in cui il bullismo omofobo meglio attecchisce, ma la storia editoriale di questo romanzo dovrebbe portare a riflettere su quanto anche il mondo adulto sia ancora impreparato ad affrontare l’originalità individuale: rifiutata da una serie di editori, che pure avevano apprezzato il testo, Francesca Bonelli Morescalchi si è risolta per la pubblicazione indipendente su Amazon e per la promozione diretta attraverso iniziative come quella del comitato Bergamo Pride.

 

 

Tra gli eventi da non perdere è l’appuntamento del 27 Maggio presso la Sala Civica Ex Enel di via Mazzini 6 (Bergamo), in cui verrà presentato il libro La Crociata anti-gender. Dal Vaticano alle manif pour tous, a cura di Sara Garbagnoli e Massimo Prearo. I due autori, chiamati nel 2013 a pronunciarsi sull’argomento in qualità di studiosi di teorie e politiche elaborate dai movimenti femministi e LGBTQI, ripercorrono nel testo i processi di nascita e sviluppo dei movimenti anti-gender partendo dalla formulazione stessa del termine “ideologia gender” da parte del Vaticano, al fine di creare i due schieramenti pro-gender e anti-gender.

Lo scontro che si è così venuto a creare, assume nell’analisi condotta l’aspetto di una crociata ideologica che combina tre movimenti: attacco sul fronte teorico (ossia «la deformazione e la demonizzazione, e quindi la delegittimazione, delle teorie femministe e queer […] accusati di essere ideologici, “non-scientifici”, in quanto “politicizzati”»), sul fronte giuridico (usando il gender come «sinonimo di “cospirazione ideologica” che genererebbe conseguenze “antropologicamente” devastanti», quali i matrimoni tra omosessuali e l’omogenitorialità), sul fronte scolastico (attraverso l’accusa ad alcune riforme scolastiche di devastare «il sistema di percezione identitario delle bambine/i»).

«Il termine “crociata” include e veicola le due dimensioni – belligerante e religiosa – di questo movimento che, tra l’altro, rivendica la prima e nega la seconda. Infatti, secondo tali attori la “guerra al gender” non avrebbe nulla di propriamente religioso, ma costituirebbe una “antropologica difesa dell’Umano”». È in questo modo che il gender viene presentato come una patologia sociale, contro cui si schierano i più svariati movimenti conservatori, tra cui gruppi politici di matrice populista e strutturalmente anti-democratici, che sempre più prendono piede nei paesi presi in analisi dal testo, Francia e Italia.

«Non c’è nulla di sorprendente nel constatare che [tale crociata] sia diventata un cavallo di battaglia di numerosi gruppi di estrema destra, identitari, neofascisti o neonazisti che, attraverso il prisma della “guerra contro il gender, hanno riformulato in termini cosiddetti “antropologici” la loro battaglia non solo sessista, omolesbobitransfobica, ma anche nazionalista, xenofoba e razzista».

Svezia, le persone trans sterilizzate saranno risarcite

Una decisione storica pone la Svezia all’avanguardia mondiale del rispetto dei diritti degli individui transessuali. Nel 1972 il paese scandinavo introdusse la possibilità di rettificare il proprio sesso anagrafico, adeguando i documenti personali (tessera sanitaria, carta d’identità e passaporto). Ma per farlo ogni persona che intendeva accedere a questo diritto era costretta a subire una sterilizzazione, senza possibilità di conservare campioni di sperma o ovuli, come avviene anche in diverse altre nazioni. Oggi però la Svezia ha deciso di riconoscere un indennizzo a tutte le persone che sono stati costrette a questa violenza di stato.

La sterilizzazione forzata

Riksförbundet för homosexuellas, bisexuellas, transpersoners och queeras rättigheter (Associazione nazionale per i diritti gay, bisessuali, transgender e queer; RFSL) ha raccolto una serie di testimonianze in un video in cui le persone che hanno dovuto subire questa pratica invasiva solo per vedere riconosciuta la propria identità di genere raccontano come hanno saputo di dover essere sterilizzate, quali sono state loro reazioni e quale percorso hanno affrontato dopo quell’esperienza.

La pratica della sterilizzazione è andata avanti fino al 2013, ben oltre l’approvazione di una legge del 1999 che prevedeva una serie di rimborsi di 175mila corone (circa 17mila euro) per le sterilizzazioni forzate avvenute tra il 1935 e il 1996 solo nell’ambito di un programma di eugenetica.

Risarcimenti per la sterilizzazione

Solo cinque anni fa la Corte d’appello di Stoccolma ha dichiarato incostituzionale la sterilizzazione per consentire la rettifica del sesso, rilevando che si trattava di una violazione della Convenzione europea dei diritti umani: a quel punto sono partite le cause (spesso proprio attraverso la RFSL, che è la più grande e ramificata associazione LGBTQIA del paese) per ottenere un risarcimento.

Attraverso questo intero processo, la RFSL ha chiesto allo stato, oltre al compenso monetario, di scusarsi con l’intera comunità trans. Ora speriamo che il governo svedese decida di organizzare una cerimonia in cui sia possibile fornire scuse adeguate così da poter mettere alle spalle questa parte veramente oscura della storia svedese” ha dichiarato Magnus Kolsjö, presidente in carica dell’organizzazione.

La nuova legge entrerà in vigore il 1° maggio e le domande potranno essere presentate nel corso dei due anni successivi. Alle 600-700 persone che si stima che abbiano diritto al risarcimento andranno 225mila corone ciascuna (circa 22mila euro).

Scritto da Michele Benini.

Fonte: Il Grande Colibrì.

Il diritto di provocare

Andrea Giuliano, artista e fotografo, si definisce attivista per i diritti umani e, in particolare, per i diritti di una minoranza LGBTQI oppressa, antifascista, femminista, estremamente critica nei confronti delle oppressioni politiche, culturali e religiose. La sua vita ha avuto una svolta in Ungheria, nel 2014: ora, rappresentato da TASZ (Unione Ungherese per le Libertà Civili), vuole mostrare al mondo un documentario su ciò che gli è accaduto. The right to Provoke è stato presentato a Bergamo il 13 maggio e Pequod ha voluto approfondire la storia di Andrea.

Andrea Giuliano vestito da prete al Budapest Pride nel 2014.

Cosa è accaduto in Ungheria?

Ero stanco di trovarmi di fronte a due forze che spesso in Ungheria vanno a braccetto: la destra estrema e la chiesa, sia cattolica che protestante, così come alcune frange della comunità ebraica. Nel 2007 gruppi di neo-nazisti hanno attaccato il Budapest Pride con atti di violenza e vandalismo, provocando paura e diversi feriti: da allora la situazione non si è più calmata e il Pride è stato delimitato da cordoni di polizia, con un ingresso e un’uscita, quasi come se fosse una gabbia. Era perciò necessario alzare la voce. Stanco della continua oppressione, di aver paura e di sentirmi a disagio, al Budapest Pride del 2014 mi sono vestito da prete e ho parodiato il logo di un’associazione neofascista: ho trasformato “Nemzeti Érzelmű Motorosok” (Motociclisti dal Sentimento Nazionale) in “Nemzeti Érzelmű Faszszopók” (Succhiacazzi dal Sentimento Nazionale). “Faszszopó” – “succhiacazzi”, è uno dei tipici epiteti che i fascisti usano per riferirsi alla nostra comunità. Nei giorni seguenti ho iniziato a ricevere minacce di morte da parte loro: mi pedinavano, erano a conoscenza di tutti i miei dati personali, del luogo dove vivevo e di quello dove lavoravo, e hanno addirittura messo una taglia sulla mia testa. Dovevo nascondermi e avevo paura.

Ho denunciato i fatti alla polizia ma le cose sono peggiorate: ho iniziato a ricevere visite e telefonate continue da parte di finti (o veri?) poliziotti. In questura hanno registrato il mio caso come non grave, insultandomi palesemente. Nell’inverno 2015 ho scoperto di essere sotto processo, perché il presidente di “Nemzeti Érzelmű Motorosok” mi aveva denunciato per danni all’associazione. Dopo un paio di settimane mi hanno licenziato dal lavoro con delle scuse infondate: mi sono trovato sotto processo e senza lavoro, ho traslocato cinque volte in un anno, ho subito un attacco e ne ho scampati molti altri. Quando la notizia della mia storia si è diffusa in Italia, ho iniziato a ricevere minacce anche da gruppi fascisti italiani.

Foto dal progetto fotografico Deconstructing the Male di Andrea Giuliano (© Andrea Giuliano).

A inizio 2016 mi sono visto rifiutare tutti i ricorsi fatti in Ungheria, perché, secondo la Procura, la polizia aveva indagato, anche se in realtà non è stato così, e non aveva trovato i colpevoli dei crimini nei miei confronti. Il processo contro di me invece è stato archiviato, perché in aula non è stato possibile quantificare il danno che mi avevano accusato di aver fatto.

Vista la connivenza delle forze dell’ordine e della politica ungherese con le persone che mi volevano morto, ho lasciato il Paese e denunciato lo Stato ungherese alla Corte Europea dei diritti umani nel 2016. Ad oggi, non ho ancora ricevuto nessuna risposta. Per questo ho deciso di creare un documentario sulla mia storia: non è possibile che la polizia rifiuti un caso evidente e conclamato di violenza, abuso, tentato pestaggio e omicidio, in un Paese dove esiste anche una legge antiomofobia.

Il fatto che esista una legge antiomofobia è un grande differenza con l’Italia. Secondo te una legge simile cambierebbe le cose qui?

In Ungheria esiste una legge anti-omofobia, bifobia e transfobia e non viene applicata, in Italia non esiste proprio. Se venisse emanata ci vorrebbe un sacco di tempo per metterla in atto, come è stato ad esempio per la legge sulle unioni civili, dalla quale in realtà poche persone possono trarre beneficio. La legge è stata osteggiata da diversi partiti e comuni, e lo è tuttora, ma sempre meno frequentemente: credo perciò che l’esistenza di una legge anti-omofobia, bifobia e transfobia aiuterebbe la questione. In ogni caso la lotta è appena cominciata, i diritti sono ancora pochissimi e per ottenerli è necessario un lavoro di accettazione del prossimo, rispetto e non violenza.

Foto dal progetto fotografico Deconstructing the Male di Andrea Giuliano (© Andrea Giuliano).

Il Pride di Bergamo: come lo sostieni?

Considerando che Bergamo è una città piuttosto conservatrice, è importantissimo lanciare il messaggio secondo il quale essere diversi non vuol dire essere cattivi, e soprattutto il concetto di richiedere i propri diritti civili non deve confondersi con quello di privilegio. Per questo la mia missione come attivista non è solo il raggiungimento di una legislazione esistente, monitorata e applicata, ma anche trasmettere l’insegnamento della distinzione tra gusto personale e crimine, tra opinione e legge.

Abbiamo letto che hai ricevuto delle critiche per le tue azioni. Quali e come rispondi?

È stato criticato il mio voler bullizzare il bullo, ma ho dimostrato cosa succede quando qualcuno fa qualcosa di non proibito in uno stato che è praticamente fascista: le autorità difendono la parte che è più vicina a loro, la legge non è uguale per tutti.

Per quanto riguarda le critiche legate al simbolo religioso, ho parodiato con rabbia perché la chiesa cattolica è uno dei principali catalizzatori di omobitransfobia. Volevo fare un dito medio a chi crede che siamo malati o che andremo a morire all’inferno, perché non credo che il loro sia un atteggiamento sano dal punto di vista politico, sociale e mentale e non è giusto restare in silenzio di fronte a questi oltraggi. Non volevo mettermi in mostra, ma lanciare un messaggio, purtroppo però non ho ricevuto il supporto mediatico necessario per fare pressione sulla Comunità Europea, sull’Ungheria e sull’Italia. Ho il diritto di ricevere un processo: non per vincerlo, anche se ho tutte le prove necessarie, ma per dimostrare che tutto questo sta accadendo nel ventunesimo secolo, all’interno dell’Unione Europea, nonostante l’esistenza di una legge anti-omofobia. Perché il diritto di parodia esiste, ma il crimine va punito.

Foto dal progetto fotografico Deconstructing the Male di Andrea Giuliano (© Andrea Giuliano).

Quali sono i tuoi progetti ora?

Sto lavorando a un progetto fotografico che si intitola Deconstructing the Male, e tratta della decostruzione di quello che è un ideale tossico e malato della mascolinità. Cerco di sfatare il luogo comune del maschio forte, dai tratti e dall’aspetto mascolini, associato ai concetti di forza, potenza e arroganza, enfatizzando tutto ciò che nella figura maschile rimanda a delicatezza, sentimento, tatto, eleganza, e ponendo anche l’idea sessuale sotto una luce diversa. Tutto ciò è fatto con ironia e a volte in maniera più introspettiva, cupa e cruda. È un’arte che vuole divertire, informare ed esorcizzare tutto ciò che riguarda l’oppressione e la paura per la diversità.

 

In copertina: foto del Budapest Pride 2017 (Christo / CC BY-SA 4.0).

Come si organizza il primo Bergamo Pride?

Il primo Bergamo Pride della storia si avvicina e noi siamo trepidanti: ma cosa c’è dietro al corteo del prossimo 19 maggio? Chi lo organizza e come? Pequod l’ha chiesto a Martina, che fa parte del comitato Giù la maschera.

Quando avete iniziato a sentire il bisogno di organizzare un Pride e perché?

Il bisogno c’è più o meno da quando è stato fatto lo “Svegliati Italiaper la legge Cirinnà sulle unioni civili. La manifestazione è stata bellissima, poi però l’entusiasmo è andato scemando, anche perché non ci sono stati casi eclatanti di omofobia. Circa un annetto fa invece, con il caso del Secco Suardo (sul cui giornalino scolastico è stato pubblicato un articolo di posizione omofoba, ndr) ci siamo resi conto che la città aveva bisogno di un evento come il Pride.

Quali sono state le varie fasi dell’organizzazione del Pride?

Le fasi sono state molte, complesse e impegnative. Dai mesi di agosto e settembre scorsi, si sono seduti ad un tavolo il comitato “Giù la maschera” (composto dall’associazione Bergamo contro l’omofobia, dall’ex Arcilesbica Bergamo – ora Lesbiche XX Bergamo, ndr – e da qualcuno di Rompiamo il silenzio) e il comitato “Educare le differenze per combattere l’odio” composto principalmente da Arcigay. Di entrambi i comitati fanno poi parte anche amici, liberi pensatori, altri cittadini in qualche modo legati alla causa.

In seguito, incomprensioni tra associazioni e modi diversi di intendere il Pride, secondo un pensiero più rivoluzionario o più pacato, hanno portato alla fuoriuscita di Arcigay dal tavolo organizzativo. Siamo andati avanti senza di loro, tra riunioni, preventivi, telefonate e ricerca di sponsor. A gennaio ci sono state difficoltà perché Arcigay aveva deciso una data per il Pride, anche se non faceva più parte dello stesso tavolo organizzativo: avere il patrocinio per due Pride sarebbe stato però impossibile, quindi tra alti e bassi alla fine siamo riusciti ad accordarci su una data unica. Non ci interessa metterci la firma, l’importante è che la città si renda conto dei bisogni che hanno i suoi cittadini.  

L’organizzazione richiede un sacco di tempo e forze, ma vedere l’affluenza di persone ai primi eventi o i passanti sorridere quando notano l’adesivo del Pride sulle vetrine dei negozi, ci ha fornito la carica necessaria.

Perché un Pride a Bergamo? Nessuno aveva mai provato a organizzarlo prima? Se sì, come mai non è stato portato a buon fine?

Tra gli anni Ottanta e Novanta c’era stata una sorta di piccolo Pride, che aveva avuto poco successo. In seguito è mancata l’idea in sé di Pride e ci si è focalizzati sugli interventi nelle scuole e sugli incontri, piuttosto che sul corteo. Abbiamo però sentito la necessità di scendere in strada e farci sentire, togliendoci la maschera. “Giù la maschera” nasce infatti per unire I seguenti punti: siamo colorati, siamo di Bergamo, vogliamo vivere liberamente. Arlecchino è di Bergamo, è colorato, porta una maschera nera. E allora giù la maschera, perchè io voglio essere libero di camminare mano nella mano con chi voglio, di baciare il mio partner in pubblico senza essere insultato, di parlare della mia compagna o del mio compagno senza cambiare la vocale alla fine della parola per non sentirmi a disagio. Abbiamo già molte maschere nella vita di ogni giorno, di questa ne possiamo fare e meno e ce la togliamo in piazza, facendo una piccola rivoluzione nella provinciale e bigotta Bergamo.

Ci sono state difficoltà prettamente “bergamasche”? Forse in qualche altra città sarebbe stato più facile organizzarlo?

Solo a livello logistico l’impossibilità di fare il Pride a giugno, quando la città sarà blindata per l’arrivo della salma del Papa. Nonostante le difficoltà di una piccola città abbiamo trovato supporto: ci aspettavamo più chiusura e diffidenza. Durante il nostro giro tra i negozi, i proprietari di alcuni di essi si sono rifiutati di attaccare il nostro adesivo, ma quasi sempre con gentilezza. Le difficoltà sono nate nei pochi casi in cui ci hanno risposto male, dandoci addirittura dei “maiali”, ma abbiamo anche ricevuto donazioni da gente da cui proprio non ce lo saremmo mai aspettati.

Come è andata la promozione e quali sono state le reazioni?

Abbiamo utilizzato moltissimo i social network, ma la promozione più riuscita è stata quella del passaparola. Siamo andati direttamente dalle persone a spiegare perché è importante per noi il Pride: finché non ci si mette la faccia non si fa davvero la differenza. Andare nei Comuni dei vari paesi a fare una chiacchierata per ottenere il patrocinio porta molte più risposte positive che inviare mail, anche se richiede più tempo.  

Da febbraio inoltre abbiamo iniziato a organizzare serate, ad esempio l’aperitivo con la stilista e attivista indiana Divya Dureja che ci ha raccontato come i partecipanti del Pride di Delhi si coprano con mascherine di carta perché, se vengono riconosciuti, dopo il corteo rischiano letteralmente delle sassate. Abbiamo organizzato conferenze, come quella con Massimiliano Frassi dell’associazione Prometeo per la lotta alla pedofilia, e anche una lotteria con premi offerti dai commercianti. Avremmo potuto fare di più sicuramente, ma nonostante la grande quantità di tempo impiegato è stato importante per noi parlare faccia a faccia con le persone, da cui abbiamo ricevuto grande sostegno.

Il percorso del Bergamo Pride del 19 maggio.

Qual è stato l’evento più riuscito durante la promozione?

Secondo me l’aperitivo al Dolcevita, dove è stato presentato un libro per ragazzi dell’autrice Francesca Bonelli Morescalchi, intitolato “Siamo tutti arcobaleni”. All’evento ha partecipato davvero tanta gente, anche famiglie con bambini, e si è creato un ambiente bellissimo.

Cosa è fondamentale per la buona riuscita di un Pride?

Il concetto di Pride come spazio sicuro: al corteo parteciperanno drag queen, persone con vestiti ordinari, persone più o meno svestite o con vestiti particolari e vistosi, perché è il momento in cui ognuno ha il diritto di mostrarsi come vuole, nel limite minimo della decenza. Questo diritto va rispettato, perciò, se si vuole fare una foto si chiede il permesso, se un tentativo di approccio viene rifiutato bisogna accettarlo, la città va mantenuta pulita. È importante mantenere l’allegria, ma la festa non deve essere scevra di contenuti. Noi dell’organizzazione invitiamo a segnalare qualsiasi situazione che potrebbe creare problemi. Insomma, al pride ci divertiremo, saremo favolosi, ma con responsabilità.

Bergamo Pride si fermerà dopo il 19 maggio o…?

A giugno abbiamo ancora qualche serata organizzata, e speriamo che l’eco del corteo le renda ancora più frequentate di quelle precedenti. Per l’estate ci prenderemo una pausa e a settembre i comitati si riuniranno per tirare le somme e farsi domande riguardo al prossimo anno. È un periodo di cambiamenti per le associazioni e vedremo a cosa porterà. Nel frattempo, cosa avremo fatto alla città? Sicuramente del bene.

Il lavoro è cambiato e sta cambiando, ma in meglio?

Quando si parla di lavoro in Italia, di solito le reazioni che si ottengono sono sempre le stesse: scrollate di spalle, sguardi rassegnati e una certa invidia/nostalgia verso un’epoca d’oro ormai perduta. Nonostante una crescita dell’occupazione del +0,8% rispetto all’anno scorso evidenziata dai dati ISTAT di marzo 2018, infatti, la crescita è dettata principalmente dai contratti a termine, mentre calano quelli a tempo indeterminato, riaffermando così la predominanza del precariato in Italia. Rispetto all’Eldorado del lavoro del passato, quindi, molte cose sono oggi decisamente cambiate, ma non solo in peggio. L’avvento di internet ha infatti cambiato radicalmente il mondo del lavoro, facendo sì sparire diverse mansioni, ma creando altresì una miriade di nuove professioni e aprendo nuove possibilità anche per i lavori più classici.

Abbiamo parlato di questi cambiamenti con alcuni lavoratori appartenenti a diverse categorie, alcune sempre esistite, altre sviluppatesi solo di recente, per capire come la loro professione è cambiata o si è sviluppata nel corso del tempo.

Manuela, 55 anni, impiegata amministrativa del settore pubblico in un’ASST (Azienda Socio Sanitaria Territoriale) lombarda, ci racconta come il suo lavoro rispetto al passato sia cambiato già a partire dalle modalità di accesso: «Un tempo per essere inseriti bastava entrare in una graduatoria interna, di modo che appena veniva a mancare un dipendente, si attingeva a tale graduatoria per la sua sostituzione; solo in casi di necessità eccezionali lo stato deliberava un concorso per essere assunti. Oggi i concorsi pubblici sono invece la regola e sono molto più complicati di un tempo, con domande poco pertinenti al lavoro stesso o esagerate per le competenze richieste». Anche Giovanni, 30 anni, borsista in un laboratorio ospedaliero di immunogenetica finalizzato ai trapianti di midollo osseo, ci spiega che per diventare di ruolo occorre aspettare i concorsi pubblici, che però sono molto rari. Nell’attesa, si svolgono tirocini e/o attività di volontariato all’interno del centro trasfusionale e così «si entra in contatto con il personale del laboratorio, che, se ha necessità di incrementare il numero degli occupati e trova nel candidato una figura idonea, propone un inserimento, di solito mediante borsa di studio». Un lavoro precario, quindi, che, continua Giovanni, «non dà la possibilità di fare progetti a lungo termine». Anche il settore pubblico non dà più quindi le stesse certezze del passato, a meno che non si entri in ruolo grazie ai (rari) concorsi. Tuttavia, dice Manuela, «una volta entrati è difficile che si perda il posto, se non in caso di gravi mancanze da parte del dipendente. Si hanno quindi sia un posto garantito sia lo stipendio garantito».

Questi sono obiettivi che a Sara, 28 anni, operatrice socio assistenziale nel ramo dell’accoglienza ai migranti presso una cooperativa, sembrano al momento irraggiungibili: «Difficilmente si trova un posto fisso nel mio settore: il lavoro dipende molto dalla presenza di ospiti, che non è mai costante. In questo momento ad esempio gli sbarchi [di migranti in Italia] sono fermi, quindi non sono affatto sicura della continuità del mio lavoro».

Se il precariato nelle ultime decadi è arrivato a interessare la maggior parte dei settori lavorativi, lo stesso si può però dire per le innovazioni legate alla diffusione di Internet. Alessandro, 58 anni, segretario comunale in pensione da aprile 2018, non ha dubbi in merito, il web ha decisamente facilitato lo svolgimento del suo lavoro: «Con Internet le delibere dei Comuni, così come le decisioni ministeriali, non sono più cartacee ma pubblicate attraverso l’albo online al quale si può accedere quando serve. Prima bisognava invece essere vicini alla sede regionale per accedere ai documenti cartacei e tutto ciò era una perdita di tempo!».

Oggi gli stessi migranti si affidano a Internet per ricevere informazioni sul funzionamento dei sistemi d’accoglienza, ma spesso le notizie sono false o presentate in maniera distorta (foto di Japanexperterna.se/CC BY-SA 2.0).

Sara, invece, ci dice come nel suo lavoro l’avvento di Internet non sia tutto rose e fiori. Se da un punto di vista amministrativo Internet ha senza dubbio rivoluzionato il suo lavoro in meglio (maggiore reperibilità e condivisione delle informazioni, archiviazione online, etc.), lo stesso non si può dire per quanto abbia influenzato il modo in cui la sua professione viene recepita dalla società: «La questione migratoria è oggi una delle più discusse su internet, che però spesso offre informazioni del tutto false o distorte in modo da fornire un’immagine pilotata. Questa continua messa alla ribalta non agevola lo svolgimento del nostro lavoro, soprattutto perché crea preconcetti con cui poi ci scontriamo quando dobbiamo interagire con persone che si trovano al di fuori dal sistema accoglienza e a volte con gli stessi migranti».

Alla domanda su cosa si aspettino riguardo il futuro della loro professione, le risposte sono altrettanto variegate. Giovanni non è molto ottimista: «La ricerca sull’immunogenetica continuerà sicuramente a evolversi, avvicinandosi sempre più alla bioinformatica. Questo comporterà una maggiore automatizzazione del lavoro, con l’invenzione di macchinari sempre più efficienti che svolgeranno da soli molte delle fasi che oggi sono compito di noi borsisti. Nel futuro, quindi, prevedo che in un laboratorio come il mio, che al momento conta sei dipendenti, basteranno due persone». Alessandro, al contrario, ha uno sguardo molto positivo verso il futuro del suo lavoro: «Un ente locale non può fare a meno di un segretario comunale. Finché esiste l’ente locale, conseguentemente non può venir meno tale figura professionale». 

 

Alcuni nomi sono stati cambiati su richiesta degli intervistati.

Interviste di Sara Ferrari e Francesca Gabbiadini, 

Farsa musicale: in scena i lavoratori e la questione popolare

Siamo all’inizio dell’Ottocento e come tutte le arti di questo periodo, anche la musica vede un proprio avvicinamento al reale, una propria via d’uscita dall’ estetica del “bello ideale” e dai codici di riferimento formale e compositivo, rigidi e stilizzati, derivati dallo stile e dal gusto musicale del Settecento.

Il “ben composto” (l’insieme dei caratteri tecnico/compositivi delle norme formali e convenzionali riconosciute dalla tradizione) non basta più: si vuole vedere il reale, soffrire ed emozionarsi e a questo scopo la composizione musicale assume dei tratti nuovi, narrativi, descrittivi e prosastici. In questa direzione ho condotto un lavoro di ricerca musicologica, selezionando quattro esempi tratti da quattro farse veneziane diverse, collocabili in un arco di tempo che va dal 1800 al 1811, tentando capire come, concretamente, questo fenomeno abbia influito sulla musica d’arte e in particolare nella farsa musicale.

Ho scartabellato tra libretti e partiture originali per portare alla luce esempi di lavori e caratteri popolari che per la prima volta facevano capolino sui famosi palchi veneziani della musica d’arte: ho cercato il popolo, il contesto quotidiano e i lavoratori più umili.

Il carretto del venditore d’aceto, farsa giocosa per musica.

Rappresentata nell’ estate del 1800 al teatro S. Angelo a Venezia, su libretto di Giuseppe Foppa e musica di Johann Simon Mayr. La canzone che ho preso in considerazione è quella di Prospero, il venditore d’aceto, che troviamo nell’ ultima scena di questa farsa in un atto, nella quale viene ricreata la situazione tipica del venditore ambulante: «Prospero allegrissimo dalla porta dond’è partito, esce conducendo un piccolo barile sopra un Carretto da Venditore d’aceto con una ruota, facendone più giri per la Scena. Gli altri vanno schermandosi da lui, e mostrano stupore e paura; infine Flaminio».

Chi vuole aceto forte,/ Col mio baril son qua./ È affè ‘l miglior piccante/ Per fare le salsette:/ Miglior corroborante/ Di questo non si dà. […]/ È buon per le signore/ Che vanno in convulsione:/ Ha un certo pizzicore,/ Che in su saltar le fa./ Chi vuole aceto forte/ Col mio baril son qua. […] Per ogni mal cattivo,/ Che fa camminar storti,/ Ha un certo correttivo/ Che in su drizzar li fa./ Chi vuole aceto forte,/ Col mio baril son qua.

In questo pezzo è molto interessante l’introduzione dei violini, proprio nelle primissime battute: eseguono un inciso che richiama in modo evidente gli squilli di quelle trombette che i venditori ambulanti suonavano per richiamare l’attenzione. Questo dei violini è un inciso ricorrente nel brano e funge da intermezzo, ma probabilmente la sua principale funzione è di richiamare musicalmente il motivo del venditore ambulante e della sua trombetta. Altro elemento interessante è questa sorta di ritornello sui versi: “Chi vuol aceto forte,/Col mio baril son quà”, che viene ripetuto in ogni strofa (anche musicalmente è identico ogni volta che viene ripreso). Inoltre, proprio sull’ inizio di questa domanda, Mayr inserisce una corona lasciando la voce da sola, sempre per una questione di richiamo a quello che era il contesto di realtà dei venditori ambulanti. 

L’Amor Conjugale, dramma di sentimento

Il testo è scritto da Gaetano Rossi e la musica di J.S. Mayr; rappresentato nell’autunno del 1808 al teatro Giustiniani in San Moisè.  La fonte letteraria è Léonore, ou L’amour conjugal di Jean-Nicolas Bouilly, scritto nel 1798 (fonte che starà successivamente alla base del Fidelio di Beethoven).

In questa farsa la canzone che ho voluto prendere in considerazione è quella di Cristina, che canta nella prima scena, proprio in apertura allo spettacolo:

«Cristina filando a un molinello, poi Frillo/ Gira, gira, molinello,/ (Cri. Filando canta/ Non ti stare a attorcigliar:/ Questo lino/ Fino fino/ Con piacere sto a filar./ Per Malvino,/ Pel mio bello/ Le camicie voglio far./ (mostra dell’inquietudine, guarderà alla porta di mezzo, come aspettando alcuno/ E il mio ben non vien ancora?/ (ripiglia il lavoro e canta/ Gira, gira, molinello,/ Non ti star attorcigliar:/ Gira lesto,/ Forse presto/ Io m’avriò a maritar./ Presto attorno/ Per quel giorno/ Voglio preparar./ Han picchiato … m’ho ingannato/ (va allo sportello e guarda: ritorna smaniosa./ E non torna.»

La melodia di questa canzone (mi riferisco alla parte del primo violino) riconduce a un movimento circolare e ripetitivo, dato proprio da una scala che sale e scende; non solo i primi violini conducono questa scala di sedicesimi, ma anche il fagotto e le viole: un probabile richiamo al movimento meccanico, costante e rotatorio dell’arcolaio. I secondi violini e il violoncello conducono invece un ostinato ritmico; anch’esso, a mio avviso, potrebbe ricondurre al movimento regolare del pedale che viene usato per azionare la ruota dell’arcolaio. Tutto quest’andamento piuttosto movimentato cambia dopo la corona, in coincidenza con il verso “Per Malvino/ Pel mio bello”: proprio in questo punto, quando il canto ricomincia dopo la corona, notiamo un cambio ritmico che rallenta l’andamento della canzone. Tutto ciò avviene per via di un’analisi più riflessiva nelle parole di Cristina, che culmina con un passaggio da 2/4 a 4/4: “E il mio ben non viene/ Non si vede? Che farà?”, il tempo e la melodia cambiano sulla preoccupazione del personaggio, con il suo cambiare d’umore; ciò coincide inoltre con una sorta di svuotamento per cui Cristina rimane sola nel canto, senza più alcuno strumento. A questo ponte, segue una ripresa melodica che ritorna alla parte iniziale; anche il testo riparte con i versi: “Gira, gira molinello/Non ti star a attorcigliar” e la musica con il ritmo più deciso e quel movimento riconducibile all’ arcolaio.

Elisa, dramma sentimentale in un atto per musica

Venne messo in scena al teatro “nobilissimo” Venier in S. Benedetto a Venezia, nella primavera del 1804. In questa farsa troviamo una canzone con uno dei temi che forse rimanda subito all’estetica del caratteristico e alla tradizione del canto popolare in generale: quello del vino e dei canti di osteria, nonché alle canzoni di montagna tipiche delle zone alpine. La canzone Fermiamoci, amici, beviamo uniti un po’ si trova proprio in apertura alla quarta scena dell’atto unico in cui «Savojardi, Savojarde, portano seco i loro fardelli, suonano delle Lire, e Triangoli: Jonas è con essi».

Savojardi intesi come abitanti della Savoia, regione delle Alpi Occidentali: nel periodo storico che teniamo in considerazione, precisamente nel settembre del 1972, dopo l’ingresso delle truppe d’oltralpe, la provincia venne inclusa nel territorio della Repubblica Francese con il nome di “Dipartimento del Monte Bianco”. La lingua della cultura in Savoia è sempre stata il francese, elevata a lingua ufficiale dopo il passaggio alla Francia, ma la popolazione montana parlava soprattutto in dialetto savoiardo – un dialetto francoprovenzale- e in piemontese. La religione ufficiale di questa contea era il cattolicesimo, ma da non trascurare erano le minoranze valdesi ed ebraiche: nella farsa qui presa in considerazione e in particolare nella canzone che verrà analizzata, è presente il personaggio di Jonas, probabilmente ebreo, che segue e canta con il gruppo di savoiardi.

La scena parte con una lunga introduzione strumentale, in cui abbiamo un bel pedale di accompagnamento eseguito dai bassi (dal violoncello e dalle viole con sordina) che finisce con una corona, dopo la quale inizia il coro dei savoiardi.

«Fermiamoci, amici,/ Beviamo uniti un po’:/ Mentre tocchiamo, / Tutti gridiamo/ Viva il buon Vino, chi l’inventò!/ Ton. (con bicchiere alla mano.)/ Questo è il ristoro, il balsamo/ Del pover galantuomo,/ Corrobora, Vivifica,/ Fa stare in sanità,/ Soldati, Villani,/ Poeti, Artigiani,/ I Ricchi, i Pitocchi,/ I Savj, gli allocchi,/ Sia bianco, sia nero,/ Nostran Forestiero,/ Han tutti bisogno/ Di fare glù, glù./ Coro (bevendo) Evviva il buon Vino!/ Facciamo glù glù.»

Nella partitura manoscritta da J.S. Mayr, in coincidenza della fine dei primi due versi c’è una corona e così anche con i versi successivi della prima strofa: probabilmente (come notiamo anche dall’indicazione del libretto di Rossi) per lasciar tempo ai personaggi di brindare tra loro. Notiamo anche che la parte melodica cantata dal coro, dopo la corona viene ripresa solo strumentalmente: c’è alternanza tra la parte corale e quella strumentale, elemento che riconduce alla canzone popolare in cui questa pratica è molto usata. Questo schema cambia nella parte finale, quando inizia a cantare anche il personaggio di Jonas: il coro dei savoiardi diventa sfasato e delle figurazioni ritmiche si susseguono quasi a canone, forse a richiamo proprio dei canti alpini, anche se questa struttura potrebbe benissimo voler ricreare quelle situazioni da osteria in cui il ritmo e la sbronza spesso non coincidono.

Canto alpino…
…o ebbrezza da vino?

Cecchina suonatrice di ghironda, melo-dramma comico in un atto

Rappresentata durante il Carnevale del 1811 nel teatro Giustiniani San Moisè, a Venezia. Una farsa in cui il libretto è di Gaetano Rossi e la musica di Pietro Generali. Dico, Giannetta, Tu allegra tanto ognora è la canzone di Cecchina:

«Cec. (prende la sua Ghironda, e siede, e accompagnandosi, canta la seguente canzonetta:/ Dico, Giannetta,/ Tu allegra tanto ognora,/ Dov’è il tuo buon umor!/ Ah; poveretta!/ Qualcuno t’innamora;/ E’ fatta pel tuo cuor …/ Stà in guardia, veh, Giannetta,/ Stà in guardia dall’amor…/ (Il Consigliere, e Andrea, che tratto tratto applaudiranno a Cecchina, alfine alzano il bicchiere, e ripetono maliziosamente l’ultima strofa./ Stà in guardia, veh, Giannetta,/ Stà in guardia dall’amor…/ Cecchina ripiglia il canto, e concentrandosi, con passione)/ Io l’ho provato,/ Non ti fidar d’amor,/ Noja, dolor ci dà,/ Se gli dai retta/ Ti burla, poveretta,/ E’ fatta pel tuo cor,/ Stà in guardia, veh, Giannetta;/ Stà in guardia dall’amor…/ (il Consiglere e Andrea come sopra ripetono/ Stà in guardia, veh, Giannetta;/ Stà in guardia dall’amor…/ Cecchina và astraendosi, canta macchinalmente; la musica và cessando, e ripete senza accorgersene./ Stà in guardia dall’amor!../ Oh! Povero mio cor!..»

La canzone è in 6/8 a Tempo Giusto Pastorale, a Tempo andante di canzone Pastorale e già con questi pochi elementi c’è un forte richiamo all’ambito della musica popolare per quello che riveste il tempo in 6/8 in sé e a tutta una sfera musicale a cui è legato: è un tempo usato molto nella musica per danza e in generale nella canzone popolare perché favorisce la memorizzazione della melodia e rende più chiara e semplice la percezione del ritmo. L’accompagnamento, nelle prime otto battute circa, presenta una sorta di ostinati ritmici, per un tipo di scrittura che non sembra avere delle voci troppo polifoniche: è un accompagnamento abbastanza semplice; il canto della parte di Cecchina e il primo violino, che conducono la parte melodica principale, procedono per terze parallele.

L’effetto-ghironda

L’organico previsto per questo pezzo è composto dai violini (primo e secondo), le viole, flauto, oboe, clarinetti, corni, trombe, fagotto e violoncello; per riprodurre il suono della ghironda con questi strumenti era necessaria una “preparazione” di alcuni archi: tra le corde venivano inserite delle carte da gioco per far sì che frizionando con l’archetto uscisse un suono che imitasse il tipico ronzio della ghironda. Accanto, l’ utilizzo “muto” di alcuni legni che dovevano emettere le note solo con le chiavette per imitare il rumore prodotto dai tasti della ghironda.

In conclusione, possiamo quindi osservare come tutti i grandi cambiamenti storico-politici e sociali di questi anni abbiano influenzato la musica: nasce, nell’epoca del grande successo del romanzo, una concezione completamente mutata dell’opera musicale che è ora proiettata al superamento delle stilizzazioni strutturali e foniche per un’assunzione e trattazione frontale, cruda e realistica dei temi che vengono affrontati. Sul palco si vuole la realtà e tutte le figure che la compongono e la caratterizzano tentano di farla aderire il più possibile alle polverose e antiche norme della musica d’arte. 

Laurence Philomene: testimonianze di identità non binarie

Difficilmente capita di imbattersi in un* artista come p e dimenticarsene. Laurence, che si identifica come persona di genere non binario – quindi al di là della dicotomia, e quindi del binarismo, maschio-femmina, è un* fotograf* professionista, la cui notorietà è cresciuta a pari passo con la sua serie di scatti più famosa: “Non-Binary Portraits”, ritratti fotografici di persone che, come Laurence Philomene, si identificano come non binarie. Soggetti particolarissimi, spesso amici che l’artista canadese ha ritratto più volte nel corso degli anni e membri della comunità queer e trans, affiancati a un uso vibrante del colore, che è il secondo protagonista delle sue fotografie, sono i tratti più caratteristici di Philomene che, scatto dopo scatto, lavora sui temi della transessualità e della varianza di genere.

Hai cominciato ad interessarti alla fotografia molto presto. Qual è stata la spinta a continuare su questa strada, piuttosto che usare altre forme di espressione artistiche?

Penso che poiché il mio interesse per la fotografia è iniziato quando ero così giovane, sembrava che non ci fossero altre opzioni per me, e da quel momento la mia attenzione era focalizzata nello scattare fotografie e non è mai stato necessario provare altri mezzi, nonostante in questo ultimo periodo mi stia gradualmente interessando ad immagini in movimento.

Cosa vuoi trasmettere attraverso i tuoi scatti fotografici? 

Le mie foto sono sempre scattare per me, perché ho l’ossessione di documentare ciò che mi circonda. Per la maggior parte, non c’è distinzione alcuna fra me e le mie immagini, per me sono un’unica cosa e al tempo stesso singole foto. Semmai spero che le mie foto diano a chi le guarda qualche dettaglio sulla mia vita e li facciano sentire calmi e rassicurati.

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Hobbes – Jon in glitter (Laurence Philomene)

Quale pensi sia stata una delle tue più grandi sfide, professionalmente parlando?

La sfida più dura è mantenere una forte motivazione, poiché in questo periodo la maggior parte del mio lavoro lo svolgo in solitario al computer.

Quando hai scoperto l’esistenza della comunità LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex e asessuali), ed in particolare della comunità gender variant?

Ho fatto coming out come queer quando avevo 17 anni e avevo appena iniziato la scuola di fotografia, quindi iniziai a farmi coinvolgere nella comunità intorno a quel periodo. La comunità queer/trans è la mia casa e il luogo dove mi sento più in pace.

Cosa pensi della rappresentazione degli individui gender variant nei media? Cosa vorresti cambiare?

Penso che se c’è una cosa che vorrei vedere di più in termini di rappresentazione è più cura, più rispetto, e meno quella visione capitalistica di “rappresentazione” per il bene di apparire “inclusivi”. Ritengo che ora la rappresentazione queer e trans sia abbastanza onnipresente, ma ciò nonostante tutti quelli che conosco (ed io) lottiamo per prosperare, quindi mi piacerebbe vedere più azioni e più investimento, specialmente nelle vite delle donne trans, che tuttora affrontano ancora la maggior violenza all’interno della società. Direi: siateci per noi, oltre che usarci per il vostro tornaconto.

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Nat – Lucky (Laurence Philomene)

Quale messaggio intendevi trasmettere con la serie “Non-Binary Portraits”?

L’idea dietro la serie “Non-Binary Portraits” era di fotografare/documentare i miei amici che si identificano come non binari e di lasciarli brillare collaborando con loro per l’impostazione di ogni scatto. Tutto quello che faccio è abbastanza semplice, quindi la maggioranza degli scatti sono basati su un singolo colore, sentimento o idea. Lo scopo è mostrare che le persone non binarie esistono, che siamo qui, che ci auto-celebriamo – cosa che vedo accadere di più in questi giorni, ma che non era ancora un punto di forza della rappresentazione trans attraverso i media fino a qualche anno fa.

In futuro, continuerai a lavorare sulle tematiche vicine alle persone non binarie?

Penso che continuerò a lavorare su questi temi fino a che non scoprirò cosa significa il genere per me, quindi probabilmente andrò avanti per sempre!

I colori usati nelle tue foto sono molto forti e ben definiti. È interessante vedere come decostruisci il significato di colori “gendered” come il rosa e il celeste. Che idea vuoi trasmettere attraverso un uso così mirato di questi colori?

Ho sempre usato il colore come forma di espressione: per me ogni singolo colore ha il suo specifico umore e mi piace usare i colori in modo istintivo, uso quello che sento sia giusto. Ho decisamente avuto un periodo rosa qualche anno fa, e amerò sempre il rosa. Per molto tempo ho avuto l’ossessione per la femminilità: da dove nasceva, quali sono i suoi significati, come esiste in relazione con me, eccetera. Ho giocato molto con il rosa associato alla mascolinità, che per me significava fotografare la mascolinità nel modo più femminile possibile. Il blu rappresenta la mascolinità, ma in un modo meno caricato, forse perché in molti modi la mascolinità è vista meno come una minaccia rispetto alla femminilità?

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Lux – Wolfie – Steph as me with tomato (Laurence Philomene)

Il tuo lavoro si avvicina molto ad alcune tematiche femministe. Come descriveresti la relazione che c’è fra i tuoi lavori e i femminismi in generale?

Ho iniziato ad avvicinarmi molto al femminismo intorno al mio secondo anno di college, quando ho avuto la mia prima relazione gay, passando molto tempo su Tumblr e gestendo un collettivo artistico femminile. Tempo dopo avrei detto che il mio interesse si era spostato dal femminismo alle tematiche trans, ma queste due cose sono assolutamente interconnesse. Vivo la mia vita nel modo che preferisco e penso che questo sia di per sé un atto di femminismo: molti dei miei lavori esplorano il tema del femminismo (soprattutto l’identità di genere e i traumi), nonostante il mio scopo principale sia quello di mostrare la mia realtà.

Sto lavorando sul trovare nuovi modi per supportare la comunità locale in modo tangibile attraverso il mio lavoro, per esempio raccogliendo fondi per organizzazioni locali, eccetera, perché la rappresentazione è importante, ma ritengo che le azioni concrete sono ciò di cui abbiamo più bisogno in questo momento.

Se potessi tornare indietro nel tempo, cosa diresti alla tua versione più giovane?

Vivi tutto quello che ti capiterà, stai andando benissimo!!

Articolo scritto da Nicholas e Thuban

Fonte: Il Grande Colibrì

Passa al lato bio: adotta un albero con Biorfarm

Se siete amanti della frutta e in particolare di quella bio, è arrivato il momento di prendere in considerazione un’innovativa start-up: Biorfarm. Nata nel 2015 dalla mente di Osvaldo de Falco e Giuseppe Cannavale, Biorfarm è diventata un’azienda agricola digitale che consente di adottare un albero da frutto a distanza e riceverne i prodotti comodamente a casa. L’idea alla base sarebbe quella di proporsi come alternativa eco sostenibile alla filiera tradizionale, andando a sostenere, da una parte, gli agricoltori e i loro prodotti, mentre dall’altra, creando una rete che connetta consumatore e produttore.

«Il progetto Biorfarm nasce nel 2015, quando stufo del mio lavoro da consulente finanziario per una multinazionale di Milano, ho deciso di tornare in Calabria e impiegare le mie esperienze nell’azienda agricola di famiglia che in quel momento stava affrontando alcune difficoltà», ci spiega Osvaldo, il co-fondatore di Biorfarm. Da un’esigenza totalmente personale, ecco però arrivare l’idea definitiva: «Col passare del tempo il progetto ha interessato diverse aziende agricole e ciò ha permesso a Biorfarm di espandersi. Oggi abbiamo cinque agricoltori presenti sul sito ma sono ben 150 quelli in attesa di entrare nella nostra famiglia», continua il suo fondatore. Il fine ultimo che l’azienda persegue è uno soltanto: creare la più grande azienda agricola condivisa del mondo, in cui consumatore e produttore sono fortemente connessi.

È un progetto ambizioso, certo. Tuttavia non è sbagliato affermare che le premesse ci sono, e sono molto solide. Da questo punto di vista, l’aspetto che contraddistingue maggiormente Biorfarm è il poter seguire l’intero processo produttivo dell’albero che abbiamo adottato. Una volta registrato un account personale sul sito dell’azienda, infatti, tramite la condivisione di foto e video da parte dell’agricoltore, avremo modo di vedere in tempo reale i progressi della nostra pianta. Il consumatore pertanto «ha la possibilità non solo di sapere l’origine dei frutti che gli arrivano a casa ma ha anche la possibilità di venire a conoscenza dei vari trattamenti e lavori che hanno portato al prodotto finito», spiega Osvaldo.

Ma perché bisognerebbe fidarsi di un sistema come Biorfarm? «Da un lato i nostri sono tutti prodotti locali, di qualità superiore rispetto a quelli che si trovano nei supermercati, e dall’altro la consegna è sempre gratuita e prevista entro 24-48 ore dopo aver effettuato l’ordine, senza passare tramite intermediari secondari», racconta sempre Osvaldo. Tutto ciò quindi, ha dei vantaggi a livello di qualità della merce: i prodotti di Biorfarm tendono a conservare una propria freschezza e pregevolezza. Senza contare che i costi sono fortemente abbattuti non dovendo dipendere dalla complessa rete della filiera tradizionale.

Altra caratteristica da sottolineare è il fatto che, come mi illustra sempre Osvaldo, «nel momento in cui l’utente adotta un albero, decide lui stesso quanta frutta ricevere in base alle proprie esigenze. Durante il periodo della raccolta, inoltre, è sempre possibile chiedere all’agricoltore di aumentare o diminuire il quantitativo». Un aspetto molto interessante è che la start up ha in programma di avviare un programma di condivisione di frutti, a tal proposito spiega Osvaldo: «Stiamo pensando di poter dare la possibilità di mettere in comune il proprio albero adottato così che le eccedenze non vadano sprecate. Se, ad esempio, l’albero che ho personalmente adottato produce 100 frutti ma io ne consumo solo 40, con il sistema che stiamo elaborando, i 60 in più potrebbero essere condivisi con altre persone».

Tuttavia, potrebbe manifestarsi anche il caso opposto, ovvero che per svariati motivi (i più comuni sono quelli ambientali) l’albero non produca frutti: «Se la pianta che si adotta non produce frutti, l’azienda ti chiede se può raccogliere i frutti da un’altra pianta nello stesso campo in cui c’è quella che hai adottato. Se però, per cause ambientali, la pianta subisce dei problemi vengono proposte due alternative: la prima è quella di avere un rimborso totale dell’adozione per la mancata produzione di frutti, mentre la seconda è quella di posticipare la consegna ad una nuova raccolta» mi spiega Osvaldo. Nella storia dell’azienda, questo tipo di problema si è manifestato solo una volta e gli interessati hanno optato per attendere una nuova raccolta.

Si capisce, quindi, come la scommessa sia stata, e continui ad essere, vincente: «Io mi sono stupito dell’entusiasmo che ci hanno messo le persone nello sposare questo progetto. I riscontri continuano, infatti, ad essere sempre molto positivi, sia in termini di fiducia ma soprattutto sia per quanto riguarda l’apprezzamento della merce. Malgrado qualche piccola difficoltà la gente è felice dei nostri prodotti, e questo per noi è sicuramente molto importante», conclude Osvaldo prima di salutarci.

L’orto di Insiemeanoiper – Progetto Terra

Prendi un gruppo di amici, aggiungi passione per la natura, del terreno, un pizzico di curiosità e qualche grammo di progetti sociali: ecco la ricetta vincente dell’associazione bergamasca Insiemeanoiper – Progetto Terra.

Insiemeanoiper nasce da un gruppo di amici che, dopo aver svolto per qualche tempo svariate esperienze all’aria aperta, si rende conto che il contatto con la natura fa stare bene e decide di fondare nel gennaio 2016 un’associazione di promozione sociale che ha come scopo quello di rinnovare il legame dell’uomo con la terra. Coloro che ne fanno parte hanno infatti in comune il desiderio di valorizzare la natura, perché trovano che essa e tutto ciò che di bello circonda l’uomo abbia la capacità di renderlo felice. Inoltre, l’associazione sostiene progetti umanitari, nell’ottica quindi di un ritrovamento del tempo non solo per sé stessi, ma anche per gli altri.

I terreni dell’associazione Insiemeanoiper a Mapello (foto di Insiemeanoiper – tutti i diritti riservati).

L’associazione ha approfittato della disponibilità di campi incolti nel territorio di Mapello (BG), area ancora piuttosto preservata dal punto di vista ambientale perché non edificata quanto altre zone dei dintorni. Quindi, avendo a disposizione un vigneto e un campo, i volontari hanno iniziato a portare avanti l’idea di un ritorno alle origini: la coltivazione della terra non ha solo il fine di produrre per consumare ma diventa un vero e proprio stile di vita. Pequod ha intervistato Rosalba, segretaria dell’associazione, e Renato, vicepresidente, per saperne di più.

Perché avete creato un orto?

L’idea è nata perché l’orto richiama il quotidiano: le persone si prendono cura di sé stesse ogni giorno e anche l’orto richiede lo stesso tipo di attenzioni. Noi volevamo creare qualcosa che non fosse solo bello da vedere, ma richiedesse anche tempo e cure, diventando un luogo di incontro e avvicinamento tra varie persone.

L’orto è infatti aperto a tutti, anche ai non iscritti come soci. Coltiviamo molte varietà: si parla infatti di un orto giardino, con una parte di terreno dedicata ai fiori, una parte alle erbe aromatiche, e le zone più vaste alle coltivazioni di frumento, patate, zucche e granoturco a rotazione. Ci sono diverse aiuole e in ognuna di esse viene coltivata una specifica varietà di ortaggi e fiori, e pian piano abbiamo inserito anche dei sistemi per la raccolta dell’acqua piovana per irrigare il campo e non rimanere troppo esposti alla stagionalità degli eventi atmosferici. Inoltre, abbiamo anche un vigneto, seguito perlopiù da un gruppo di pensionati vicini all’associazione. Coltiviamo tutto con metodi naturali, senza utilizzare sostanze chimiche per concimare, e prepariamo il terreno a mano, senza l’ausilio di macchine.

Come è nato l’orto?

Prima di tutto sono stati predisposti dei corsi, in modo che sia il gruppo di volontari dell’associazione che persone esterne ad essa potessero apprendere tecniche di coltivazione naturale. Poi abbiamo disposto la progettazione e la preparazione del terreno, che è stata manuale e ha richiesto molte risorse, ma il gruppo è riuscito ad organizzarsi molto bene.

Qual è stata la parte più difficile nel lanciare il progetto?

Il terreno era fermo da anni quando abbiamo cominciato a lavorarci, perciò abbiamo fatto molta fatica a vangarlo. Con il passare del tempo però il terreno sta diventando sempre più soffice.

È stato facile trovare persone interessate?

Inizialmente, da un gruppo ristretto di amici siamo diventati subito una ventina di persone, poi il numero è rimasto stabile: alcune persone si sono allontanate, altre avvicinate scoprendo una passione. Non è semplice trovare gente che si voglia dedicare al progetto, perché l’impegno non è sporadico ma richiede continuità. Per fortuna ci sono alcune persone, nel gruppo, che riescono a dedicare davvero molto tempo, e comunque accettiamo anche chi può aiutarci saltuariamente.

Quali attività svolgete nell’orto?

Svolgiamo diverse attività con i ragazzi, collaborando con centri estivi e scuole. Tramite il CSV, vengono a lavorare nell’orto studenti che devono fare delle ore di volontariato per sospensioni e sanzioni disciplinari. Collaboriamo anche con il tribunale, che ci manda persone che devono scontare sanzioni penali tramite lavoro volontario, con la Caritas per progetti con i richiedenti asilo, con il comune per la partecipazione di ragazzi con disabilità o difficoltà emotive e di inserimento del mondo del lavoro. Abbiamo in essere anche un percorso di catechesi sul tema del creato.

Ogni anno a settembre invitiamo tutti per la vendemmia: in questo modo il momento di contatto con la natura diventa anche momento di divertimento e condivisione. Organizziamo anche la “Festa della Terra” (che quest’anno avrà due edizioni, a luglio e a settembre), che è volta all’aggregazione di persone, perché l’orto non è solo coltivazione, ma anche un luogo dove ci si incontra e si costruiscono legami.

Infine, l’associazione si autofinanzia e, se c’è un ricavo, ne viene donata una percentuale a progetti di solidarietà: quest’anno si tratta di un progetto per la coltivazione della curcuma in Madagascar.

Foto di Insiemeanoiper – Tutti i diritti riservati.

Idee per il futuro?

Inizieremo a breve dei corsi, aperti a tutti, di permacoltura, un sistema che tramite delle colture particolari (ad esempio piantagioni che rilasciano particolari sostanze, come l’azoto) dovrebbe arricchire il terreno invece di impoverirlo, in modo che ciò che viene piantato quest’anno faccia bene al terreno e alla coltivazione dell’anno successivo. La permacoltura prevede anche l’inserimento di animali: sarebbe anche questa una svolta interessante, ma per ora il campo non è recintato.

Vorremmo anche coltivare cereali antichi: al momento abbiamo il mais e stiamo provando la coltura di Senatore Cappelli, un tipo di frumento. Seguiremo la direzione di una sempre maggiore diversificazione delle colture e un miglioramento dell’orto giardino anche dal punto di vista estetico: deve essere un luogo bello da vedere e non solo produttivo, per permetterci di ammirare e rivalutare la bellezza del creato.

Perché frequentate l’orto?

Per passare del tempo insieme ad altre persone che condividono lo stesso interesse, e perché stare in mezzo alla natura libera la mente nonostante la fatica fisica. Prendersi cura del terreno, vedere la bellezza della natura crescere e cambiare colore, sentirne il profumo, aiuta a trovare serenità e armonia. Quando si passa una serata all’orto non si è mai soli, si incontrano gli altri volontari, ci si rilassa e ci si diverte, e le tensioni della giornata svaniscono.

L’orto giardino si trova nei pressi del santuario della Madonna di Prada a Mapello, è visitabile e aperto a tutti. Per maggiori informazioni: insiemeanoiper.jimdo.com

Semi che viaggiano per salvare la biodiversità

Ci sono luoghi sparsi un po’ in tutto il mondo, in cui interi paesaggi si conservano in forme quasi invisibili: si tratta delle banche dei semi, o meglio del germoplasma, edifici dedicati alla conservazione del maggior numero possibile di forme di vita vegetale.

 

L’idea di creare spazi in cui fosse garantita la conservazione della biodiversità risale agli anni Venti e alle ricerche dell’agronomo e botanico Nikolaj Ivanovič Vavilov; lo studioso era impegnato a risolvere il problema della produzione di frumento nella Russia sovietica, insufficiente a raggiungere quel livello di autarchia previsto dal regime: concentrando i suoi studi sulle analisi delle caratteristiche di differenti cereali e sulla loro capacità di adattarsi al clima, Vavilov riuscì a creare una nuova specie di frumento, capace di resistere alle rigide temperature e alla siccità che all’epoca colpivano diversi territori dell’orbita sovietica. Per ottenere questo risultato, Vavilov viaggiò tra Oriente e America, raccogliendo campioni delle diverse specie vegetali che di volta in volta incontrava e che conservava all’interno dell’Istituto pansovietico di coltivazione delle piante (VIRV) da lui fondato a San Pietroburgo nel 1925.

La sua visione globale della botanica non era però vista di buon occhio dal regime leniniano, che identificava le sue ricerche con la “borghese” genetica mendeliana, e nel 1940 Vavilov fu processato con l’accusa di “spionaggio a favore della Gran Bretagna e di boicottaggio dell’agricoltura sovietica”; ai tempi dell’arresto, la sua collezione contava già 250 mila specie. Morto per malnutrizione dopo tre anni di carcerazione, fu riabilitato dalla Corte Suprema sovietica solo a metà anni Cinquanta, quando l’archivio creato a San Pietroburgo prese il nome di Istituto Vavilov.

 

Nikolaj Ivanovič Vavilov (Mosca,1887- Saratov, 1943); accanto, il padiglione russo all’Expo 2015 che mostrava parte della raccolta dell’Istituto Vavilov a San Pietroburgo.

 

Quella di San Pietroburgo rimane fino a oggi un’istituzione tra gli organi di ricerca e preservazione del patrimonio mondiale vegetale, conservando più del 10% delle piante da coltivazione del pianeta; su modello dell’idea di Vavilov un sempre maggior numero di istituti sono stati fondati dagli anni ’80 a oggi. Non è facile stabilire il numero esatto di banche del germoplasma; la cifra si aggira attorno alle 1500 sedi, diffuse in tutti e quattro i continenti, in connessione tra loro secondo sistemi molto simili a quelli degli omonimi istituti finanziari: diversi centri di raccolta e di conservazione ex situ tra cui le sementi, conservate in celle frigorifere a temperature tra i 20 e i 30 gradi sottozero, sono scambiate e condivise, così che le risorse di uno stesso ecosistema possano conservarsi in luoghi diversi del globo.

Tra le più famose è lo Svalbard Global Seed Vault, il Deposito globale di sementi dello Svalbard, collocato sull’isola norvegese di Spitsbergen, nell’arcipelago artico delle isole Svalbard a circa 1200 km dal Polo Nord; sostenuto dalla FAO, il deposito, finalizzato a garantire la conservazione delle 21 colture più importanti della Terra, funziona come un classico caveau: la banca è proprietaria dell’edificio, mentre i diversi stati depositari restano proprietari del contenuto delle cassette. L’edificio dello Svalbard Global Seed Vault ha dato forte risonanza al progetto, quando nel 2006 l’iniziativa ha avuto inizio trasferendo gli oltre 10̇000 campioni già raccolti dal Nordic Gene Bank (risalente al 1984), e la sua struttura futuristica ha fornito facile spunto per immaginare che incredibile risorsa potrebbe rivelarsi essere nel caso di una catastrofe planetaria. Di fatto, gli obiettivi che queste banche portano avanti hanno una scadenza molto più prossima; a mettere in pericolo la flora autoctona possono essere infatti eventi molto più frequenti di quanto immaginiamo, dall’uso massiccio di sementi sempre più modificate che si sostituiscono alle piante originarie, ai conflitti militari che inevitabilmente danneggiano il territorio che fa loro da palcoscenico: non è un caso che la prima richiesta fatta alla banca norvegese di restituzione delle sementi sia arrivata da Aleppo, in Siria, che a seguito della guerra civile ha visto sparire numerose colture di erbe, frumento e orzo.

Non meno significativi, gli sconvolgimenti che negli ultimi anni sta subendo il clima dell’atmosfera terrestre, che mettono in pericolo non solo la biodiversità, ma i suoi stessi centri di tutela: nonostante sia costruito 120 metri dentro una montagna di roccia arenaria, che garantisce temperature glaciali per molto tempo in caso si fermasse il sistema di raffreddamento artificiale e una temperatura costante mai al di sopra dei 3 gradi sottozero, e 130 metri sopra il livello del mare, così da restare in asciutto anche in caso di scioglimento dei ghiacci artici, l’edificio non ha resistito all’imprevedibile surriscaldamento globale degli ultimi anni e ha subito una prima infiltrazione d’acqua, fortunatamente risultata innocua, nel Maggio 2017.

 

Svalbard Global Seed Vault, Norvegia [ph. 黃逸樂(世界首窮)CC-BY-3.0]

 

Legato invece alla cattiva gestione politica e finanziaria è stato il rischio corso da una delle più antiche riserve d’Italia: la Banca del Germoplasma di Bari, che si occupa della conservazione sia a breve termine (a 0° C) sia a lungo termine (-20° C) di circa 56̇000 semi, ha visto ridursi drasticamente gli investimenti da quando nel 2002 il Consiglio Nazionale delle Ricerche aveva preso in mano la gestione della Banca, provocando il mal funzionamento degli impianti di refrigerazione e un conseguente alzarsi delle temperature nelle celle.

Nata nel 1970, la Banca del Germoplasma di Bari è stata solo la prima delle numerosissime riserve fondate in Italia, costantemente connesse tra loro e con gli orti botanici che lavorano sulla raccolta di sementi, attraverso il sistema RIBES (Rete Italiana Banche del germoplasma per la conservazione Ex situ della flora spontanea italiana). Nato nel 2004, il progetto si è posto «per oggetto principale le specie vegetali autoctone in Italia, minacciate di estinzione, incluse anche le specie legnose e forestali (se e dove minacciate); restano invece escluse come oggetto di interesse le specie coltivate. Un secondo filone di attività riguarda invece le specie autoctone di interesse per la rinaturazione, sempre più richieste, ma di difficile reperimento sul mercato».

 

Andare su Marte a 20 anni

C’è chi a 20 anni progetta un viaggio on the road, chi si concentra sugli studi, chi decide di partire per cercare lavoro in Australia. Ester Bonomi, studentessa universitaria della provincia di Bergamo, a 20 anni si è candidata per andare su Marte, venendo selezionata tra i primi 700 a partire da oltre duecentomila candidati in tutto il mondo.

La missione, dal nome Mars One, è un progetto lanciato dal ricercatore olandese Bas Lansdorp con lo scopo di stabilire una colonia permanente su Marte. Il piano si prefigge l’obiettivo di inviare sul pianeta rosso 14 persone di ambo i sessi e dai background culturali molto diversi tra loro.

Un progetto ambizioso, a differenza delle intenzioni iniziali di Ester, che ora di anni ne ha 24 e ci racconta di essersi iscritta per puro sfizio dietro suggerimento del suo ragazzo dell’epoca: «Abbiamo deciso di iscriverci insieme più per gioco che altro. Quando abbiamo letto del progetto il mio fidanzato ha detto: “Ma sì proviamoci! Anche solo per dire di averlo fatto”. E così è stato». Una scelta presa quindi piuttosto alla leggera, tenendo conto che il viaggio, come chiarito dagli organizzatori fin dall’inizio, è stato progettato per essere di sola andata, dato che un eventuale rientro avrebbe più che raddoppiato il costo della missione e posto notevoli sfide a livello tecnologico. «Chiaramente questa era la condizione più dura e difficile da accettare, però all’epoca non mi spaventava così tanto, ero più che altro trainata dall’enorme curiosità che avevo per un viaggio del genere e dall’idea che fosse un’esperienza irripetibile. Forse, però – aggiunge dopo una pausa – questo era dovuto al fatto che fossi molto giovane e considerassi comunque la cosa solo a livello teorico».

In ogni caso, Ester senza pensarci troppo ha pagato la quota iniziale di 20 dollari, ha girato un breve video di presentazione in inglese e ha compilato un questionario che spaziava dalla richiesta dei semplici dati anagrafici, livello di istruzione, ecc., a domande aperte un po’ più approfondite su vari temi: «Una delle domande ad esempio era: “Hai mai fatto esperienze all’estero che ti hanno permesso di entrare in contatto con culture e persone diverse? E’ stato uno shock per te o si è rivelato uno scambio positivo?”. Io, in realtà, non avendo partecipato ad Erasmus o altri progetti all’estero, non avevo molta esperienza in merito; mi sono quindi limitata a raccontare di quando, durante un viaggio negli Stati Uniti, nonostante il mio inglese un po’ zoppicante ho attaccato bottone con un americano mentre eravamo su una nave in cerca di balene. Evidentemente gli è piaciuto».

Evidentemente sì, dato che Ester, a differenza del suo ragazzo, ha superato la prima selezione, accedendo così alla seconda fase, per cui bisognava sottoporsi a una serie di esami medici per dimostrare di rispettare i requisiti fisici richiesti della missione. Giudicata idonea anche in questa fase, Ester si è quindi trovata a far parte dei primi 700 candidati qualificatisi per il progetto. Da quel momento sarebbero iniziati i colloqui online con i selezionatori. A quel punto, però, Ester ha rinunciato: «All’epoca ero un po’ in una fase di crisi all’università e di grande stress a causa degli esami, non me la sentivo di andare avanti. Inoltre iniziavano a circolare sempre più voci, anche autorevoli, che mettevano in dubbio la validità del progetto». In effetti, vari studiosi hanno criticato duramente il progetto per i troppi errori di calcolo e valutazione della missione. Secondo gli esperti del Massachusetts Institute of Technology (MIT), infatti, i coloni avrebbero resistito solo 68 giorni prima di morire per asfissia a causa del troppo ossigeno generato dalle piante coltivate. Secondo altri, Mars One non sarebbe altro che una truffa per far soldi grazie a un progetto inesistente. Lo stesso Joseph Roche,  astrofisico che figura tra i 100 selezionati per la missione, ha sollevato dei dubbi sottolineando che molti finalisti avrebbero comprato la propria ammissione all’ultimo stadio delle selezioni.

Nonostante le critiche, ad oggi i fondatori di Mars One continuano a promuovere il progetto e il loro slogan di “rendere questa missione su Marte la missione di tutti, inclusa la tua”. Tuttavia, il primo sbarco di umani sul pianeta rosso, previsto inizialmente dal progetto per il 2027, è stato posticipato al 2031 e secondo molti in realtà non avverrà mai.

Anche per Ester il viaggio su Marte è rimasto un sogno irrealizzato, ma secondo lei non è detta l’ultima parola: «Quando sarò vecchia e stanca e avranno inventato i viaggi nello spazio aperti a tutti, vorrò sicuramente andare a fare una crociera».

STAR POEMS, la lingua dell’ignoto

Il Neanderthal che apre lo sguardo sul cielo notturno maculato di luci e palpita nella prima rivelazione.

L’indefinito, l’inesprimibile.

Disarmato testimone che coglie in un tumulto delle sinapsi un caos fuori portata, sterminato.

E una fascinazione, un desiderio, un annientamento e una paura come non mai.

Il trauma gli presentò l’idea del “mistero” e la consapevolezza della predisposizione a subirne l’influsso.

Già aveva sperimentato lo smarrimento e l’impotenza innanzi agli arcani dell’alternanza di luce e buio, dell’imperversare dei venti o del vigore delle mareggiate, ma qui la questione era decisamente più oscura:

vi era in ballo il segreto di un altrove.

Pensò a questo e a come esprimere le sue speculazioni, attinse dalla tavolozza delle fantasie e, per la prima volta, pensò la poesia.

Poiesis, in greco, creazione. Creazione di un’espressività atta a evocare mondi e tempi oltre la portata sensoriale e razionale.

Raccontarsi storie chimeriche con inni e canzoni divenne la celebrazione degli incomprensibili fenomeni e scenari “ultraterreni” che permeavano la nostra vita.

E da quel momento non smettemmo più. Guardiamo in alto e quesiti e sensazioni si fanno versi.

Passano i secoli e questa poetica dei perché e dello “spazio” in cui galleggiamo feconda il terreno delle religioni e cammina a fianco di discipline di indagine quali astrologia e astronomia.

Nei poemi epici greci lo studio astronomico e la mitologia si incontrano dipingendo la volta celeste come un suggestivo palcoscenico in cui agiscono eroi e divinità: corpi celesti e costellazioni personificano i personaggi dell’immaginario collettivo.

Nei testi sacri sempre è presente la figura dell’uomo nel cosmo ma con un tentativo di porre certezza e fine ai misteri dell’universo: nel Miraj di Maometto così come nella commedia dantesca, il settimo cielo e l’empireo sono i grandi immaginari contenitori del tutto, dimora di un Dio che esiste ma di cui non si può avere esperienza.

L’ineffabilità della visione divina non ne permette la razionale descrizione e costringe al ricorso del simbolico e del retorico. Ancora poesia.

Ma l’interesse per l’ignoto scaturisce dal desiderio febbrile di apprendere la natura delle cose: i dogmi religiosi reggono fino ad un certo punto.

Al passo con lo sviluppo delle scienze anche il poeta indaga con acceso raziocinio riportando conoscenze e correlati dubbi nelle sue opere.

Capitale l’esperienza del Leopardi: ancora quindicenne si dedicò ad un vasto studio sull’astronomia convinto che questa disciplina, nei secoli, avesse avuto un ruolo fondamentale nel progresso dello spirito umano.

Dai suoi componimenti emerge che nel meccanismo dell’universo, dove i cicli infiniti accadono senza che la nostra esistenza abbia la minima importanza, il nostro destino è la pena del vagare in un vuoto senza significati.

La salvezza (o perlomeno una consolazione) sta nella poesia: se questo “tutto e nulla” che ci avvolge viene rielaborato e descritto poeticamente diviene medicina di vitalità per l’animo.

Col nostro fantasticare in bella forma ci investiamo di valore e il naufragar ci può esser dolce in questo mare.

  

Dunque la conoscenza dei fenomeni astrali si rivela spesso essere debilitante per l’artista, il quale vede raffreddarsi e sbiadire la materia prima del suo “mestiere”: la contemplazione romantica.

L’immortale Walt Whitman espresse stupendamente il concetto di qui sopra in questi suoi versi:

 

Quando ascoltai l’erudito astronomo,

Quando le dimostrazioni, i numeri, furono dispiegati dinanzi a me,

Quando le carte e i diagrammi mi furono mostrati per sommarli, dividerli e misurarli,

Quando ascoltai trepidante l’astronomo nell’aula delle sue famose lezioni,

Quanto inspiegabilmente presto divenni esausto e sofferente,

Fino a quando alzandomi e scivolando via iniziai a vagare in solitudine,

Nell’umida e misteriosa aria notturna, e secondo dopo secondo,

Volsi lo sguardo alle stelle nel perfetto silenzio.

 

Nel rapimento l’uomo, come essere spirituale, torna al suo stupore atavico: la meraviglia di esistere nel tutto.

Perdersi nella contemplazione dello spazio è ogni modo inevitabile anche per chiunque indaghi metodicamente le sue leggi: la vastità del sapere risulta minima cosa paragonata all’infinità spaziale.

Su basi reali poggiano nuovi mondi artefatti dell’immaginario e prende così forma la fantascienza.

Ma ancora scarna è la produzione poetica in questo genere, forse proprio perché lo “spirito”, per liberarsi dal dolore congenito, tenta di appellarsi al fascino del cosmo con un approccio verginale, senza alcuna costruzione oggettiva.

Quindi sempre costruiremo razzi di pensiero da scagliare oltre le possibili orbite, per fare due intime chiacchiere col buio tempestato di bagliori.

 

 

[…] mando il mio razzo a sbarcare sul Pianeta ultimo

 dove il Grande Cervello dell’Universo siede in attesa di una poesia

che atterri nella sua tasca dorata […]

vi mando il mio razzo di chimica stupefacente

più dei miei capelli il mio sperma o le cellule del mio corpo

il rapido pensiero che vola in alto col mio desiderio

istantaneo come l’universo e più veloce della luce

e lascio per ora tutte le altre domande incompiute

per tornare a dormire nel mio letto buio

sulla terra.

 

                                                                         Allen Ginsberg – Poesia razzo

 

Film intergalattici

Non è un caso se tra le pietre miliari della storia del cinema appaia tra le prime opere su pellicola un cortometraggio che descrive il viaggio di un gruppo di scienziati sulla superficie lunare: quale tematica poteva meglio mostrare le possibilità di trucchi ed effetti cinematografici, se non l’onirico immaginario che da sempre accompagna l’idea di potersi muovere tra le infinite dimensioni dello spazio, in mezzo a stelle e pianeti?

Era il 1902 e le tecniche cinematografiche ancora tutte in via d’elaborazione, eppure George Méliès riuscì nel suo capolavoro Viaggio nella Luna a creare un’icona destinata a rimanere nel tempo uno dei simboli del cinema stesso: la celeberrima Luna che, grazie a una doppia esposizione con carrello, progressivamente s’ingrandisce sullo schermo ed emerge in primo piano dalla cornice di nuvole che la circonda, rivelando il suo volto umano (ottenuto attraverso un trucco di montaggio), giusto in tempo per veder arrivare la navicella spaziale che le si conficcherà in un occhio.

Viaggio nella Luna, fotogramma – George Méliès

Nasceva così il cinema di fantascienza, anche se per altri cinquant’anni lo si sarebbe chiamato cinema di finzione, accostandolo a opere incentrate su trame fantastiche e sull’uso sempre più massiccio di effetti speciali; è nel secondo dopoguerra, infatti, che la fantascienza esce dall’ambito adolescenziale in cui i suoi prodotti venivano inseriti per rivolgersi al grande pubblico, sempre più affascinato dalle scoperte missilistiche e aereospaziali stimolate dalla corsa allo spazio intrapresa dalle due superpotenze americana e russa.

In questi anni, lo spazio si configura sì come ambiente di scoperta, ma anche e soprattutto come un luogo oscuro, i cui abitanti spiano e tramano contro il popolo terrestre; ovviamente con le dovute eccezioni! Un esempio tra tutti, l’opera di Jack Arnold, ricordato soprattutto per le sue pellicole horror, che ne I figli dello spazio regala un’immagine del tutto nuova delle entità aliene: creature simili a enormi cervelli che grazie all’emissione di onde cerebrali entrano in contatto con alcuni bambini, al fine di aiutarli a sventrare la minaccia alla pace mondiale, rappresentata da una recente invenzione satellitare ad opera di alcuni gruppi militari.

La svolta anticipata da autori come Arnold, divenuto noto proprio grazie alla scelta di portare avanti tematiche ancora viste come sconvenienti e anticipando di gran lunga problematiche poi sempre più attuali quali il rispetto delle minoranze, verrà ripresa e ampliata dai registi della New Hollywood in America e della Nouvelle Vague in Francia. Tra gli anni ’60 e ’70 la scoperta di nuovi mondi diventa infatti il leitmotiv per toccare argomenti scottanti: dal sesso delle avventure erotiche interstellari della Barbarella di Roger Vadim alle riflessioni satiriche sul futuro dell’umanità in cult come Il pianeta delle scimmie di Franklin Schaffner e 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick.

James Fonda protagonista di Barbarella di Roger Vadim

Dai primi successi di pubblico alla nascita di opere alla conquista di spettatori di massa il passo è breve: prima George Lucas con Guerre Stellari (1977), poi Robert Wise con Star Trek (1979), riescono a dare il via a una produzione cinematografica destinata ad accreditarsi nelle generazioni a venire un pubblico sempre più vasto. Grande contributo al loro successo è certamente dato dai forti investimenti non solo nelle produzioni, ma anche nel merchandising a esse ispirato, e certo non è un caso che The Walt Disney Company abbia acquistato i diritti di entrambe; tuttavia, è forse proprio l’attrattiva di queste pellicole a stare alla base delle scelte imprenditoriali, più che l’abilità dei pubblicitari ad attrarre le più varie fasce di pubblico.

L’opera di George Lucas, del resto, ci offre un esempio di come il potere intrinseco di opere che fondano la loro immagine pubblicitaria stuzzicando la fantasia dell’audience e ancorandosi all’idea di un futuro di scoperte tecnologiche e scientifiche sempre più incredibili, sia in realtà racchiuso nella sempre contemporanea capacità del genere epico di entrare in empatia con lo spettatore e scavare in aspetti sempre complessi della coscienza umana. Le tematiche che nei rivoluzionari anni Settanta più facevano presa sui giovani fruitori del cinema rimangono fino a oggi attuali e Lucas ha la capacità di inserirli in un racconto interstellare: alla base della trilogia originale il rapporto padre-figlio, in primis, riconosciuto come nodo emblematico dalla psicologia degli esordi fino ai più moderni approcci, sempre più interessati dal problema della ricerca delle origini e dei legami di sangue. Non meno evidente la multietnicità, questione sempre più impellente nell’era delle migrazioni intercontinentali di massa, vista come possibilità di incontro di figure e mondi diversi e non come fonte di conflitto; Lucas non si limita a proporre un universo di personaggi dalle svariate fattezze, ma utilizza egli stesso un approccio che è espressione della sua cultura figlia delle più diverse tradizioni: dalle lingue ispirate a dialetti tribali (la lingua Jawa ottenuta velocizzando lo Zulu, quella Ewoks nata da un miscuglio tra nepalese e tibetano, quella parlata da Greedo ispirata al sudamericano Quechua) ai riferimenti a registi che hanno ispirato l’opera, primo fra tutti Akira Kurosawa e il suo La sfida dei Samurai. Perfettamente inserito nella rivoluzione sessuale sessantottina e la conseguente emancipazione femminile è anche il ruolo che le donne giocano nelle prime pellicole: non a caso l’acconciatura della Principessa Leila si ispira alle mujeres del Messico, le rivoluzionarie dei primi del Novecento; a cogliere appieno la portata moderna di quest’immagine della donna è la stessa Disney che affida il ruolo da protagonista de Il risveglio della forza a una giovane senza famiglia che scoprirà di avere in sé capacità straordinarie. E la più pregnante delle idee alla base dell’opera, ovvero quella che bene e male non siano due denotazioni qualitative bensì due poli opposti tra cui l’universo si bilancia, è alla base del successo della seconda trilogia, in cui Lucas sviluppa la storia di Dart Fener e quindi le origini del male, che non ha deluso i più affezionati spettatori degli anni Ottanta.

La speranza è che, nonostante la delusione rivelata dal botteghino degli ultimi due titoli dell’epopea, la prossima pellicola, prevista per il 2019, sia capace di riprendere tematiche così forti e dare loro un senso altrettanto nuovo e coinvolgente

Musica dallo Spazio per suites planetarie

Un’enorme orchestra diretta da Adrian Boult vuole riprodurre la vastità dell’Universo. È il 29 settembre 1918 e viene eseguita per la prima volta presso la Queen’s Hall, The Planets (I Pianeti), una suite composta dall’inglese Gustav Holst. La suddetta orchestra è la London Symphony Orchestra, niente meno, nella sua formazione più grassa: un esercito di archi, una miriade di strumenti a fiato, tutte le percussioni che vi immaginate (dal tamburello al gong e mezza dozzina di timpani), una celesta, due arpe e un organo; così, per non farsi mancare nulla. La grande passione di Holst per l’astrologia e la teosofia, insieme alle influenze di Gustav Mahler e Arnold Schömberg riguardo alle manie di gigantismo orchestrale, fa nascere questa suite imponente, composta da sette movimenti:

Mars, the Bringer of War,

Venus, the Bringer of Peace,

Mercury, the Winged Messenger

Jupiter, the Bringer of Jollity

Saturn, the Bringer of Old Age

Uranus, the Magician

Neptune, the Mystic

La Terra non è evidentemente inclusa. Ogni movimento corrisponde a uno dei pianeti del Sistema Solare e ripropone i caratteri degli Dèi della mitologia greca. Marte, il portatore di guerra è un brano dalla musica imponente, con un ritmo in 5/4 che solo ansia sa dare, anche grazie alle forti dissonanze; è il brano più famoso della suite e ha sicuramente influenzato i successivi compositori di colonne sonore di film ambientati nello spazio infinito. Venere, la portatrice di pace è un movimento sereno e dolce, in fondo rimane sempre il pianeta più luminoso e brillante del cielo (ed è donna!). Mercurio, il messaggero alato è leggero, rapido e scattante; gira velocissimo intorno al Sole. Giove, il portatore di allegria è GIOVIALE, ma anche scoppiettante e solenne allo stesso tempo; del resto, è il pianeta più grande di tutti. Saturno, il portatore della vecchiaia era il brano preferito di Gustavo e ha una scansione ritmica che inevitabilmente riconduce il nostro orecchio al ticchettio di un orologio; sarà il tempo che passa? Urano, il mago è energico, concitato e grottesco. Infine Nettuno, il mistico rappresenta quello che all’epoca era considerato il misterioso pianeta che stava nei remoti meandri dello spazio fino allora conosciuto.

 

Da qui il tema dello spazio e dell’Universo, le stelle, i pianeti e tutte quelle belle lucine scintillanti è spesso stato oggetto d’ispirazione per i musicisti; qualche esempio pop?

A Frank Sinatra sarebbe piaciuto un sacco che qualcuno lo accompagnasse in un viaggio sulla romanticissima Luna cantando Fly me to the Moon . I Beatles, dopo un viaggio a Oriente e qualche sostanza allucinogena sognano di attraversare l’Universo; un Universo nuovo per cambiare il mondo intorno a loro con Across the Univers. David Bowie mi sa che alzava spesso lo sguardo al cielo e tra un capolavoro e l’altro, lanciò il Maggiore Tom nello spazio dalla Space Oddity.

 

Ispirazioni ed evocazioni. Tutto diventa ancora più interessante quando la musica incontra la scienza: il brano Alba Mundi di Giorgio Costantini è composto nella tonalità della Terra.

Più di tutto è affascinante l’idea che sta alla base di questo processo compositivo: poter ascoltare le note eseguite dai pianeti con la loro oscillazione intorno al Sole. Parliamo di oscillazioni non percettibili all’orecchio umano per via della loro bassissima frequenza e per il vuoto circostante che ne impedisce la diffusione.

In una struttura di nove battute, intona con i bassi, utilizzandoli come impianto per la costruzione armonica, le nove note eseguite dai pianeti del Sistema Solare, nell’esatto ordine di distanza dal Sole. Mercurio è un DO diesis, in LA dell’orbita di Venere, la Terra come Mercurio, il RE di Marte, il FA diesis, Giove è FA, Saturno come Marte, Urano e Nettuno cantano in SOL diesis, Plutone in DO diesis.

La tesi del compositore: «Fin dai tempi di Keplero, in modi ed epoche diverse sono stati scritti molti brani sui pianeti e già Archimede nell’ antica Grecia associava gli intervalli musicali alle stelle erranti. Ma dove entravano la matematica e l’astronomia con le loro leggi fisiche, sparivano l’estetica musicale e la bellezza. Così molti autori (come Gustav Holst in The Planets) hanno preferito musicare i pianeti in base alla loro rappresentazione mitologica: Marte dio della guerra, Venere dea della bellezza, Giove padre degli dei con la sua maestosità, e così via.
Quello che ancora non ero riuscito ad ascoltare era una composizione sui pianeti che affondasse le radici su solide basi matematiche, ma fosse al tempo stesso strutturato come un piacevole brano musicale
».

 

Alba Mundi è stato composto basando l’impianto armonico su nove preudo-note eseguite dai pianeti. Al termine del brano possiamo ascoltare il suono del Sistema Solare, accelerato in velocità di 68 miliardi di volte, quindi 36 ottave, per poter essere udibile all’orecchio umano: è il suono di 2177 anni di vita del Sistema Solare.

Le note dei pianeti sono ottenute dal calcolo matematico applicato ai relativi periodi di rotazione intorno al Sole, corrispondenti all’inverso della frequenza di rotazione. Il principio è il seguente: a ogni corpo con oscillazione periodica costante nel tempo corrisponde una frequenza di oscillazione (espressa in Hertz) e una precisa nota musicale.
La formula matematica per il calcolo della nota è la seguente:

dove F è la frequenza dell’oscillazione del pianeta (nel nostro caso, per oscillazione intendiamo la rotazione attorno al sole), n(semit) è l’intervallo musicale in semitoni a partire dal DO0 (il primo DO a partire da sinistra sulla tastiera di un pianoforte, corrispondente alla frequenza di 32,7031956626 Hz).
La frequenza di rotazione del pianeta è ottenuta dall’ inverso del periodo di rotazione intorno al Sole, calcolato in secondi.

La tastiera in alto nella figura è un’ipotetica tastiera di 12 ottave dove possono essere collocate le frequenze di oscillazione dei pianeti. Per poter arrivare a delle frequenze udibili, dovremmo all’incirca triplicare l’estensione di questa tastiera (come raffigurato nella parte bassa dell’immagine) per poi finalmente accostare un pianoforte a coda reale.

Udire il non udibile della vastità dell’Universo.