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Sister Group: il nostro femminismo è antirazzista

Ventimiglia è simbolo degli ermetici confini Europei, la città di confine dove Progetto 20K ha iniziato a operare dal 2016. Oltre al supporto generale alle persone in transito, grazie anche all’ apertura di Eufemia – Info and Legal Point, nasce negli ultimi anni il Sister Group: gruppo femminista nato dall’ esigenza di dedicare spazi specifici alle donne migranti.

Apriamo l’intervista con una domanda che le stesse attiviste si sono poste: «Quali relazioni esistono tra la violenza dei confini e la violenza di genere, che anche noi attiviste sentiamo sulla nostra pelle?». Altra presa di posizione chiave, sottolinea ancora il concetto di sopra: «Il nostro 8 marzo è contro la Legge Salvini, contro la chiusura dei porti, per un Permesso di Soggiorno Europeo slegato dal lavoro e dalla famiglia».

Proprio questa ricerca di intrecci, tra tematiche ampie e complesse si muove il Sister Group: «Un gruppo di attiviste di Progetto 20K e NUDM Genova, in tempi e per ragioni diverse ci siamo avvicinate al contesto di Ventimiglia». Le attiviste ricordano bene le «settimane di monitoraggio sui confini, di manutenzione di sentieri, aiuto materiale e informativo alle persone migranti, ecc… Tutte attività che ci hanno consentito di cominciare a capire qualcosa delle dinamiche del confine».

NUDM Genova per la chiamata alla manifestazione del 14 luglio 2018 a Ventimiglia (GE)

Le attiviste ci raccontano la brutalità del contesto e quella voglia di realizzare un luogo veramente alternativo e solidale, generatrice di interazioni: dall’assenza di possibilità al costruirne una insieme alle persone in viaggio. Continuano le ragazze: «A novembre del 2017 le donne che vivevano sotto il ponte nell’accampamento informale erano sempre più numerose: molte non volevano stare al campo istituzionale della Croce Rossa, troppo lontano e troppo militarizzato. Iniziava a fare freddo e insieme alle donne c’erano bimbe e bimbi piccolissimi, addirittura neonati. Vedevamo che le donne venivano all’Info Point, ma con evidenti difficoltà: se ne stavano relegate in un angolo e il loro turno alla postazione internet veniva sempre dopo quello degli uomini» .

Riusciamo a comprendere quale è stato il percorso di questo progetto nel contesto di confine e all’ interno di Progetto 20K, scoprendone la nascita e l’evoluzione, fino ad arrivare alle attività. «Il Sister Group è nato a fine novembre del 2017 e ha interrotto le attività a dicembre del 2018: Eufemia non esiste più, abbiamo avuto lo sfratto. Come modello esistiamo ancora, siamo convinte della sua utilità e riproducibilità: ha portato l’approccio e la politica femminista all’interno di un progetto politico fatto da maschi e femmine, che sicuramente era predisposto a lasciarsi contaminare, ma non ancora femminista».

Concretamente? Spiegano le attiviste: «Quando Eufemia era in attività, le donne potevano lavarsi, cambiarsi gli abiti e recuperare materiale utile per l’igiene; usare internet e caricare il cellulare, avere informazioni sulla situazione al di qua e al di là della frontiera, sui servizi sanitari del territorio e sui loro diritti; potevano rilassarsi ascoltando musica, facendosi a vicenda unghie e capelli, affidando per qualche ora le figlie e i figli alle volontarie. Era un posto dove ritrovare un barlume di normalità, dove recuperare un poco di energia e fiducia reciproca e dove condividere speranze e ostacoli».

La peculiarità delle attività è anche avere occhi e orecchie anche per le strade di questa peculiare città di confine, cioè nei luoghi dove la violenza è particolarmente brutale. «Avevamo una particolare attenzione a ciò che accadeva fuori da Eufemia: tante donne arrivano già sotto controllo del racket della tratta e queste donne sono difficilmente avvicinabili: arrivano e subito scompaiono. Abbiamo cercato di monitorare questi movimenti clandestini per capire come provare a intercettare e aiutare queste donne – tra loro tante minori», mi spiegano le attiviste.

Questa attenzione si coglie anche dalla localizzazione fisica che aveva l’ Infopoint di Progetto 20k nel suo complesso, cosi spiegato dal gruppo: «Abbiamo aperto il Sister Group all’interno dell’ Infopoint Eufemia, situato in posizione strategica: a cinque minuti a piedi dalla stazione ferroviaria di Ventimiglia e a un passo dall’accampamento informale sul greto del fiume Roya. Un giorno a settimana lo spazio era aperto esclusivamente a donne e bambine/i».

Diverse attiviste, essendo liguri, vedono questo confine come primario nella loro azione politica: «Ventimiglia era la nostra frontiera: da anni vedevamo le violazioni sulla pelle delle persone migranti, l’ostilità o totale cecità della cittadinanza e delle istituzioni, vedevamo quanto questo danneggiasse anche noi, italiane magari, ma con pelli di diverso colore e con il bisogno di cambiare la società a beneficio del 99% della popolazione mondiale. Era però difficile capire come intervenire, come incontrare le persone migranti. L’ infopoint Eufemia, aperto da Progetto 20K ci dava una base fisica e pratica per lavorare sul territorio e in particolare per noi con le donne e le/i minori».

La mancanza di uno spazio fisico riduce notevolmente le possibilità d’azione, ma ancora una volta la riflessione delle attiviste è profonda e laboratoriale. Valorizzando l’autodeterminazione dei corpi delle donne migranti, «ricominciando le attività, trovando un luogo adatto. Se questo non fosse possibile, di dovrà riorganizzare il lavoro orientato alla relazione con le donne in maniera differente. Abbiamo delle ipotesi ma dobbiamo darci il tempo di sperimentarle e verificarle».

Concludendo, Sister Group porterà l’8 marzo, data dello sciopero femminista globale, anche la questione migratoria, «perché il nostro femminismo parla al 99% della popolazione mondiale, quindi non può che essere antirazzista. In Italia, ma non solo, assistiamo a una campagna di odio contro le persone migranti, diventate ormai il capro espiatorio per ogni male sociale.

Vediamo come siano le donne migranti a pagare il prezzo più alto di questo razzismo diffuso: perché la protezione umanitaria non può essere rinnovata e vengono sbattute fuori dalle accoglienze anche se incinte, anche se con minori. Quando diciamo “sorella non sei sola” lo diciamo a tutte le donne che hanno deciso di cambiare la loro vita, di cercare una strada di libertà e autonomia, ma costantemente si scontrano con la violenza dei confini, dell’economia, del sessismo».

Ph credits: Progetto 20k, NUDM Genova

L’orgoglio delle differenze

Avete mai partecipato a un Pride?

Ricordo il mio primo Pride, ero a Genova ed era il 2009. Ricordo che, raggiunto il concentramento, mi trovai circondata da migliaia di volti e di corpi. Vidi Don Andrea Gallo a bordo del carro della sua comunità di San Benedetto al Porto, attorniato da tutte le sue magnifiche trans salvate dalla strada. Ricordo l’abbondanza e i colori di alcune di loro, la trattenuta semplicità ed eleganza di altre. Per la prima volta realizzai di trovarmi in mezzo alla differenza, alle differenze.

Solo camminando fianco a fianco di queste persone ho capito negli anni quanto un Pride possa effettivamente educare alle differenze, insegnandoti ad apprezzarle e a farle diventare parte di te. Condividere i propri passi con emeriti/e sconosciuti/e che camminano al tuo fianco per i tuoi stessi motivi è qualcosa di altamente formativo, che non impari sui libri di scuola. Il Pride è la celebrazione stessa delle differenze, una manifestazione che accoglie ogni identità e sospende il giudizio, perché è casa di tutti/e.

Lo striscione “Educare alle differenze” durante il corteo di RompiamoIlSilenzio Bergamo (foto di RompiamoIlSilenzio, Tutti i Diritti Riservati).

Ho sempre ritenuto che i miei genitori fossero delle persone progressiste e sufficientemente flessibili. Eppure quando si parlava di Pride non perdevano mai l’occasione di definirlo una buffonata, un carnevale osceno che danneggiava soltanto l’immagine delle persone LGBTQI. Per anni ho provato a convincerli del contrario, cercando di mostrargli un’altra realtà, non certo quella trasmessa dalla televisione. Eppure il loro pensiero è cambiato soltanto l’anno scorso in occasione del primo Bergamo Pride. Condividendo con loro le gioie e le frustrazioni dell’organizzazione della manifestazione, hanno iniziato a rendersi conto che il Pride era qualcosa di più. Finché, con mia grande commozione e sorpresa, non sono scesi in piazza lo scorso 19 maggio, altrettanto commossi. Era il loro primo Pride ed erano orgogliosi di me, di quello che avevo contribuito a realizzare. E così molti altri genitori, fratelli e sorelle, amici e parenti, colleghi/e e compagni/e di scuola dei miei amici e delle mie amiche attivisti/e. Ricordo che l’intera famiglia di Stefano, amico attivista, camminò al nostro fianco, accompagnandolo con emozione.

Sono convinta che i miei genitori, come la famiglia di Stefano e molte altre persone, siano tornati a casa con qualcosa in più, una ricchezza mai sperimentata prima. Qualcosa che va oltre ai pregiudizi e si trasforma in esperienza diretta del mondo LGBTQI.

Manifestanti con il volto coperto per protesta durante il corteo di RompiamoIlSilenzio Bergamo (foto di RompiamoIlSilenzio, Tutti i Diritti Riservati).

Ma l’educazione alle differenze ha assunto anche un ruolo più istituzionale nell’ambito di Bergamo Pride 2018, quando abbiamo organizzato un convegno proprio su questo tema. Abbiamo coinvolto il forum nazionale di Educare alle differenze, l’associazione culturale Immaginare Orlando e altre realtà territoriali che si occupano di educazione alle differenze per condividere buone prassi e esperienze. Da questo incontro è emersa la necessità, da parte di formatori/trici, studenti e docenti, di trattare l’inclusione e la prevenzione del bullismo attraverso l’intervento nelle scuole, reso però sempre più difficoltoso dai sostenitori dello spauracchio “gender”.

Educare al rispetto delle persone, al superamento dei pregiudizi di genere, alla inclusività, all’anti-razzismo e alla non-discriminazione viene infatti strumentalmente letto da qualcuno come “un incentivo al transessualismo” – come se la transessualità si potesse insegnare o trasmettere! -, come ci ricorda il recente attacco mediatico da parte di due parlamentari leghisti al progetto di educazione alle differenze portato avanti da Immaginare Orlando e dalla Cooperativa Impresa Sociale HG80 in collaborazione con il Comune di Bergamo.

Pregiudizi come questi, che diventano sempre più istituzionalizzati, non fanno altro che ostacolare il raggiungimento della piena consapevolezza e del rispetto di sé e dell’altro/a. Così facendo, proprio le famiglie che si vorrebbero “proteggere” vengono lasciate sempre più sole ad affrontare i bisogni dei loro figli e delle loro figlie, lasciati/e in balia della convinzione che se sei femmina certe cose non le puoi fare perché sono ad appannaggio esclusivamente maschile e viceversa, o che sia giusto nascondere e negare la tua omosessualità o il tuo transgenderismo  perché è qualcosa di cui ti devi vergognare. O, ancora, che sia giusto molestare o stuprare una donna perché indossa una minigonna. O picchiarla fino a farla abortire perché sono un compagno o un marito geloso

Lo striscione di Non Una Di Meno durante la manifestazione di Bergamo Pride 2018 (foto di Bergamo Pride, Tutti i Diritti Riservati).

Bergamo Pride 2019 – Orgoglio oltre le mura continuerà il percorso di educazione alle differenze avviato l’anno scorso, proponendosi come punto di riferimento per la libera espressione di identità e diversità. Il corteo finale del 18 maggio si costituirà infatti come spazio sicuro entro il quale poter manifestare liberamente chi siamo ed entrare in contatto con la cittadinanza.

A questo proposito, organizzeremo in collaborazione con il Cinema Capitol la proiezione di Boy Erased, prevista per il 14 marzo, film basato sulla storia vera di Garrard Conley, diciannovenne costretto dai genitori a seguire una terapia di conversione dall’omosessualità dopo aver fatto coming-out.

Il comitato aderirà e parteciperà inoltre alla manifestazione contro la violenza di genere indetta da Non una di meno che si terrà a Bergamo l’8 marzo e proseguirà il proprio lavoro di ricerca nell’ambito della due giorni letteraria in programma per aprile, occasione in cui ci confronteremo con autori, autrici, attori, attrici e attiviste sul tema delle differenze.

La leggerezza del dolore: l’arte liberatoria di Sophie Hames

«Si usa uno specchio di vetro per guardare il viso e si usano le opere d’arte per guardare la propria anima», affermava George Bernard Shaw, intramontabile drammaturgo irlandese; rileggendo oggi le sue parole, ci si accorge di come l’arte rimanga sempre fedele a se stessa, mantenendo in ogni sua declinazione una facoltà catartica incorruttibile e pura, in grado di resistere all’inesorabile scorrere del tempo.

Dei poteri di questo specchio astratto che mette a nudo le anime e i sogni, è ben a conoscenza Sophie Hames: attrice di origine belga, una vita nel teatro, co-fondatrice del progetto itinerante Isabelle il capriolo, nato e cresciuto in una frazione della provincia bergamasca. Pequod l’ha incontrata per parlare insieme di arte e libertà, di gioia e di dolore, ma soprattutto di come il teatro abbia il potere di dar voce ai più deboli.

 

Sophie, partiamo dall’inizio. Come è cominciata la tua avventura nel mondo del teatro?

Ho iniziato a recitare da adolescente: a quattordici anni ho avuto il mio primo approccio al teatro; a diciotto capii che quella dimensione avrebbe fatto sempre parte di me, tanto che decisi di renderlo un lavoro. Partendo dalle base di teatro tradizionale, ho studiato scenografia, concentrandomi soprattutto sulla realizzazione di maschere.

 

 

Come è nata l’associazione Isabelle il capriolo?

Si tratta di un progetto ideato assieme a Luciano Togni: siamo nati come teatro di strada, abbiamo mosso i primi passi realizzando le nostre performance all’interno di spazi non convenzionali. Dopo aver lavorato con numerose compagnie locali, siamo riusciti a portare uno spettacolo all’interno di una basilica lombarda in occasione del suo centenario, inscenando uno spettacolo su San Martino per analizzarne la figura nelle sue contraddizioni. La nostra compagnia è stata il frutto del sodalizio di un piccolo nucleo circoscritto ed eterogeneo: all’inizio eravamo tre attori, di cui uno buddhista. Forse anche a causa della natura del nostro gruppo, ci siamo interessati sin da subito alle tematiche e alle tecniche più svariate, fondendo le nostre conoscenze in una commistione fatta di danze indiane, strumenti musicali, sperimentazioni con la voce.

 

Un teatro ricco di sfumature e in continua trasformazione; quali sono state le vostre evoluzioni successive e come hai contribuito a questo sviluppo?

Dalla strada siamo passati agli spettacoli con le marionette, e in questo senso ho avuto la possibilità di esprimermi a fondo. Per l’idea dei fantocci ho preso spunto dalla tecnica del bunraku giapponese: utilizzo marionette alte un metro e cinquanta, create da me; sulla scena esistono solo loro, io le muovo ma sono completamente coperta di nero. Molte delle mie creazioni sono caratterizzate da elementi surreali, quasi onirici, ma ogni spunto parte sempre dall’osservazione della realtà. Per rappresentare il personaggio di Cristo, ad esempio, mi sono ispirata a una scena del film Pianeta Verde: al posto delle ferite e del sangue sul suo corpo, ho messo alcune farfalle fissate con delle puntine. Volevo rendere un’immagine di grande umanità, leggera e opprimente allo stesso tempo.

 

Scena tratta dallo spettacolo “Isotta”

 

Credi che ci possa essere leggerezza nel dolore?

Credo che si possa fare un esercizio per vivere nonostante il dolore. Non è facile vivere, ma il dolore la maggior parte delle volte ce lo creiamo da soli. Possiamo essere pieni di ferite e allo stesso tempo avere ali di farfalla. Questo tema è una costante nel mio lavoro; lo affronto anche nel mio ultimo spettacolo: un’anziana donna apre la scena e interroga il pubblico, chiedendo cosa manca all’uomo per essere felice. Forse la soluzione è racchiusa nelle stesse parole della vecchia narratrice: «Fatevi mancare l’infelicità».

 

Con il teatro sei attiva anche nel sociale, e ti interessi di femminismo: di cosa ti occupi nello specifico?

Da qualche tempo collaboro con la professoressa Cristiana Ottaviano, docente di Sociologia all’università di Bergamo: grazie ai risultati delle sue ricerche abbiamo realizzato degli spettacoli sugli stereotipi di genere. Credo che si dovrebbe educare alla fragilità: da questo punto di vista, purtroppo, gli uomini sono ancora più prigionieri di noi, perché c’è uno stigma maggiore sulla vulnerabilità vissuta e manifestata da un uomo; è come se, nel pensiero comune, la virilità si potesse collegare solamente al concetto di forza, ma l’idea che la fragilità appartenga a un solo sesso penalizza tutti.

 

 

Pensando a un tuo personaggio femminista, quale ti viene in mente?

Sicuramente Isotta, uno dei personaggi del mio ultimo spettacolo. L’opera è una rivisitazione del mito di Tristano e Isotta: nella mia storia, Isotta non è vittima del destino, ma sceglie liberamente di far bere il filtro d’amore a Tristano. È una giovane che decide e corre rischi: perde la sua verginità con l’uomo che ama, conosce il suo corpo e lo celebra liberamente, scardinando molti tabù. Anche i protagonisti maschili in questo progetto sono profondamente femministi; il Tristano della tradizione è rappresentato come un guerriero invincibile, qui è presentato nelle sue vulnerabilità proprio perché è un personaggio lirico, così come Re Marco: è omosessuale, ma sposando Isotta si nasconde da se stesso. Emblematico è il fatto che le dica: “non possiamo vivere, possiamo solo fingere di vivere”.

 

Racconti anche storie di violenza di genere?

Certamente. Con Cristiana Ottaviano parliamo ai giovani, andiamo nelle scuole, cerchiamo di combattere gli stereotipi attraverso l’arte e il dialogo. Il mio spettacolo, Suzanne et Erik 157 jours, parla anche di questo: un amore che da idilliaco si fa distruttivo, sfociando nel controllo e nella gelosia, quindi nella violenza psicologica, la più subdola.

 

In copertina: Sophie con le marionette di Isotta e della Narratrice, da lei create.

Fotografie di Luca Capponi ©.

“Cucinare tra le righe”, quando i romanzi prendono vita in un piatto

Se ci pensate bene tutti i libri, dal thriller più angosciante al romanzo di formazione classico, sono accomunati da un elemento che spesso rimane in secondo piano. Cosa? Il cibo. Tutti i personaggi hanno bisogno di nutrirsi, per alcuni è solo una necessità, per altri è un rito raffinato o un momento di condivisione, e poche opere letterarie rinunciano a raccontare le scene di questo atto essenziale.
Il cibo evoca ricordi, raduna i personaggi, favorisce dialoghi, costruisce le abitudini dei protagonisti e così li caratterizza. Il racconto di un pasto a volte è necessario allo svolgimento della trama, quando per esempio – come nella vita, dopotutto – intorno alla tavola si svolgono discorsi importanti. In altri casi è importante non il gesto del mangiare, ma cosa si mangia. Avete presente la Madeleine per Proust, e il rito dell’omelette in Sostiene Pereira? Ecco.

Se il cibo e la lettura possono a loro modo permetterci di viaggiare, immaginate cosa può succedere quando libri e ricette si incontrano. In rete c’è un posto virtuale (ma dietro c’è una persona vera) dove questo accade, ed è il blog “Cucinare tra le righe”.

Cucinare tra le righe Pequod Rivista
Consolazione di riso al latte, ricetta ricavata dal romanzo “Afrodita” di Isabel Allende.

Tutti i post iniziano con la citazione da un romanzo, la scena in cui appare il pasto realizzato. Segue una breve recensione del libro e infine ricetta e procedimento. Per la maggior parte si tratta di dolci ma si varia con specialità a base di riso e pasta, piatti tipici, sandwich, varietà di pane… e così prendono forma e profumo anche cibi fantastici come le Lambas de Il Signore degli anelli.

“Cucinare tra le righe” ci permette di conoscere, in un colpo solo, personaggi e cibi di mondi (e a volte tempi) diversi. Solo questo basterebbe a renderlo un blog interessante e caratteristico tra i tanti; aggiungeteci però che si tratta della prima esperienza italiana di questo tipo.

La persona che c’è dietro si chiama Carlotta, ha 22 anni e vive a Vicenza. «L’idea è nata quasi un anno fa, volevo avere un progetto tutto mio che andasse oltre il lavoro e unisse due cose che amo fare: leggere e cucinare». Forse un po’ il merito è anche del film Julie e Julia, racconta, perché la protagonista del libro dà una svolta alla sua vita aprendo un blog di cucina.

Cucinare è stata la sua passione fin dall’infanzia: «Da piccola ho deciso di preparare la mia prima torta per il pranzo della domenica in famiglia e ancora oggi è questo il mio compito ogni settimana». La passione si è trasformata in lavoro dopo la scuola alberghiera, ma le richieste della pasticceria in alcuni casi possono limitare la creatività. Ecco il motivo del blog: cucinare le ricette tratte o ricostruite dai libri significa sperimentare, spaziare con la fantasia e tra i continenti, imparare.

Carlotta è la creatrice del blog Cucinare tra le righe, nonché lettrice appassionata, cuoca e pasticcera.

La lettura invece non è stata un amore a prima vista, ci confessa Carlotta: ci sono voluti degli anni prima di trovare il libro giusto. «Prima odiavo leggere. Dopo il fantasy Graceling di Kristin Cashore non mi sono più fermata».

La cura delle fotografie è una parte fondamentale del progetto. Ogni foto dei piatti pubblicata su Instagram è curata nei minimi particolari per mostrare la ricetta e ricreare, per quanto possibile, l’atmosfera del romanzo stesso. Un intreccio affascinante, a volte impegnativo, come uno dei primi piatti cucinati: per colpa di una lavorazione sbagliata e dopo un secondo tentativo, ci sono volute otto ore per cucinare il riso al latte di Afrodita di Isabel Allende.

Il ramen di Kitchen è invece il piatto di cui Carlotta va più fiera. Dopotutto dietro ogni piatto c’è ricerca (tanta), lavoro, preparazione. «Trovare le ricette a volte è semplice, a volte c’è bisogno quasi di inventarle, ma non è mai impossibile».

Riflettere sul cibo nei romanzi ha scatenato una nuova consapevolezza: «Ci sono ricette anche nei libri letti in passato. Quindi si pone il problema di rileggere o ricordare a memoria tutte le potenziali ricette di cui non mi ero mai accorta». Un tentativo che Carlotta inizia a fare con il suo autore preferito, Stephen King.

Qualche idea sulle prossime ricette che troveremo nel blog? Segnatevi Eleanor Oliphant sta benissimo di Gail Honeyman e la biografia di Michelle Obama Becoming. Da tenere d’occhio, poi, la sezione “Film” appena aperta…

Lista di consigli letterari (con annessi culinari… da scovare!)
The Help, regia di Tate Taylor
Kitchen, Banana Yoshimoto
La casa degli spiriti, Isabel Allende
1984, George Orwell
Julie e Julia, regia di Nora Ephron
Exit West, Moshin Hamid
In piedi sull’arcobaleno, Fannie Flagg
Pomodori verdi fritti, Fannie Flagg
Il buio oltre la siepe, Harper Lee

Cibo, lo street artist che copre le svastiche con i muffin (e non solo)

L’idea di alzarmi questa mattina presto per poter intervistare lo street artist Cibo non mi pesa per niente, anzi. È in Thailandia per lavoro e la nostra chiacchierata deve tenere conto delle sei ore di fuso orario.

Seguo Cibo, nome d’arte del veronese Pier Paolo Spienazzè, da quando ho cominciato a notare i suoi formaggi, frutti e tranci di pizza che riempivano vivacissimi i muri di San Giovanni Lupatoto, attivo comune alle porte di Verona.

Inoltre, i suoi video, in cui ricopre le brutture e le svastiche, sono diventati virali sul web.

Il suo ultimo lavoro, il murales che ricopre la facciata dei magazzini della Cooperativa agricola Apo Scaligera è con i suoi 1100 mq il più grande del Veneto.

Buon giorno, intanto devo chiamarti Cibo o Pier?

(Ride) Visto che m’intervisti come Cibo restiamo nella parte.

Cosa stai facendo adesso in Thailandia?

Beh, sono ospite di italiani e ricambio la loro accoglienza facendo murales. Ne approfitto per disegnare tutta la frutta che c’è qua: il mango, il dragon fruit, le banane. Insomma, sto sull’argomento visto che io da sempre sono legato al territorio. Inoltre, faccio ricerca per il prossimo lavoro che avrò a Marsiglia, che sarà proprio la cucina thailandese.

Torniamo in Italia e parliamo dei tuoi disegni. Da dove parte la tua arte? Dove hai imparato a disegnare?

Beh, io ho fatto il liceo artistico e poi disegno industriale del prodotto. Tecnicamente sarei un designer. Con l’unica eccezione che sono ventuno anni che faccio arte in strada e questo nessuna scuola te lo può insegnare.

Perché proprio il cibo?

È nato quasi per scherzo. Mi serviva qualcosa che avesse tutti i colori e proprio nel cibo ho trovato tutti gli accostamenti cromatici possibili. Tranne l’azzurro. Infatti, lo sfondo dei miei murales è azzurro.

La gente poi ha apprezzato molto, anche perché, se fai arte pubblica, devi essere un po’ “pop”. Essendo la tua tela la strada, devi intercettare la passione che c’è nella gente. In questo modo l’opera la sentono un po’ loro. Infatti, per me il lavoro è finito quando faccio la foto al murales, poi la mia opera diventa di tutta la comunità.

Io lego molto le mie opere al territorio. Per esempio, alla Mambrotta (località della provincia di Verona nota per la coltura dell’asparago bianco, ndr) ci sono gli asparagi, io disegno gli asparagi. Ho questo tipo di relazione perché così la gente si può identificare nei miei graffiti.

La tua arte si è legata a una missione. Sono famosi su Facebook i tuoi video in cui copri le svastiche con angurie, muffin o altro. Questa idea è nata in un secondo tempo?

In verità sono dieci anni almeno che copro svastiche. Ho cominciato quando hanno ucciso Nicola Tommasoli (studente veronese ucciso da un gruppo di giovani di estrema destra il primo maggio 2008, ndr) che era all’Università con me. Ho deciso di mettere i video sui social per senso civico. Perché l’idea andava condivisa. Volevo che altre persone scendessero in strada e facessero altrettanto. Magari in altre città, ognuno con il suo linguaggio. Io identifico Verona e la sua provincia con il cibo, perché è agricola. A Milano questo non avrebbe lo stesso significato. Bisogna che gli artisti trovino il linguaggio adatto al loro territorio.

Ma come hanno reagito a questa tua attività?

Molto male. Mi hanno sporto denunce molto pesanti, cercano di ostacolarmi in tutti i modi. Più che altro mi stupisce perché vogliono attaccare proprio me. Io ho sempre disegnato gratis per gli asili, ho sempre cancellato le scritte senza chiedere nulla. Io riesco ad affrontare una situazione come questa con il sorriso, la democrazia e la cultura. Però non tutti ne hanno la capacità o la forza. Se capitasse a un mio collega, che gli cancellassero trenta murales, lui rischierebbe di chiudere, di sparire. E se una comunità perde un artista, questo è un danno irreparabile per tutti. Non ricordo chi l’ha detto che la legge della relatività, se non l’avesse scoperta Einstein, l’avrebbe scoperta qualcun altro cent’anni dopo, invece Guernica, se non l’avesse dipinta Picasso, non ci sarebbe riuscito nessun altro.

Sentiamo in giro dire spesso “tanto votare non serve” ma tu, solo facendo disegni sui muri, hai innescato tutta questa spirale di eventi. Mi viene da chiedere se al giorno d’oggi ha senso fare questo?

Certo che ha senso. Ha senso per Nicola, ha senso per le ingiustizie che ho vissuto, ha senso per la comunità. Ricevo centinaia di foto di gente che cancella le svastiche e le celtiche nelle loro città. Ci sono moltissimi artisti che lo fanno. Io sono diventato involontariamente simbolo di questa lotta. Bisogna educare le persone a dire la propria opinione e a non essere indifferente di fronte ai soprusi. Ognuno può fare la differenza anche ribattendo a una frase ingiusta detta al bar. Non bisogna stare zitti, perché l’odio prospera nell’ignavia della gente.

Un’ultima domanda, Cibo, ti ricordi il primo cibo che hai disegnato?

(Ride) Il primo cibo mi sa un formaggio, un Montasio sei mesi. Uno dei miei formaggi preferiti assieme al monte Veronese. Era a Treviso, ancora dieci anni fa.

 

Foto tratte dalla pagina Facebook di Cibo, tutti i diritti riservati.

Risvegliare i cinque sensi con i dolci tradizionali wagashi

Chiudete gli occhi. Immaginate di essere seduti sul pavimento in tatami di una piccola sala da tè a Kyoto. Una signora di mezza età vestita in kimono tradizionale vi porge una tazza fumante di matcha (tè verde), accompagnata da un piattino di intricati dolcetti colorati. Quelli che state per assaggiare si chiamano wagashi, dolci preparati seguendo ricette tradizionali giapponesi e il cui ruolo principale è quello di esaltare il gusto del matcha.

 

Wagashi servito con tè matcha [ph. Kuruman CC BY2.0 /www.flickr.com]

Per capire meglio la filosofia racchiusa dietro a questo piatto, basta analizzare i kanji della stessa parola 和菓子 wagashi, che si può suddividere in due parti:wa (armonia, pace) e 菓子 kashi (dolciumi). È interessante notare che il kanji 和wa, oltre al significato di “armonia”, indica anche in generale lo “stile giapponese”; la stessa cucina tradizionale giapponese, che nel 2013 è stata inserita nella lista Unesco come patrimonio intangibile dell’umanità, viene chiamata 和食 washoku.

La tradizione culinaria nipponica ha quindi alla sua base il concetto di armonia: armonia con la natura nelle sue svariate forme, che si riflette nella scelta di ingredienti stagionali e locali; armonia tra i sapori, che sono perfettamente bilanciati tra di loro per creare un’esperienza a 360 gradi; armonia tra le pietanze e gli stessi recipienti in cui sono serviti, i cui materiali e colori cambiano a seconda del tipo di piatto presentato.

 

Cerimonia del tè [ph. mrhayata CCA- BY SA 3.0 Unported/Wikimedia Commons]

I wagashi sono il perfetto esempio di arte nella cucina giapponese. Le forme, i colori e i gli ingredienti di questi dolci tradizionali ruotano attorno all’alternanza delle stagioni e vogliono celebrare la transitorietà e la mutevolezza del tempo in connessione con la natura. Ogni wagashi è un’opera d’arte in miniatura, da gustare in quello che diventerà un momento unico e irripetibile.

 

Wagashi e le quattro stagioni

I gusti e l’aspetto dei diversi wagashi sono strettamente collegati alla stagione in corso e alle festività tradizionali che cadono in un determinato periodo. Ad esempio, i ciliegi in fiore sono il simbolo della primavera in Giappone e anche i wagashi si tingono di rosa e verde per rappresentare questa stagione. Tra i più rappresentativi troviamo i sakuramochi, ripieni di marmellata di fagioli azuki e avvolti in foglie di ciliegio, e gli uguisu mochi, palline di pasta di riso ricoperte con polvere dolce al gusto edamame che celebrano la cettia del Giappone, un uccellino il cui canto segna l’inizio della primavera.

Sakuramochi, wagashi tipici della primavera al gusto di fiori di ciliegio [ph. ocdp CC0 1.0/Wikimedia Commons]

 

Durante la torrida e umida estate giapponese i wagashi hanno sapori e consistenze “rinfrescanti”, con colori che ricordano l’acqua. Il colore trasparente viene ottenuto grazie all’utilizzo di agar, una gelatina vegetale ricavata da alghe rosse, che ha un bassissimo apporto calorico.
Alcuni dei wagashi estivi più particolari sono i kuzukiri, tagliatelle fredde dolci preparate con farina di maranta (una pianta selvatica rampicante) da intingere in uno sciroppo di zucchero di canna, e i kingyoku, che rappresentano dei pesci rossi che nuotano in un laghetto.

Selezione di wagashi tipici della stagione estiva [ph. Douglas Perkins CC0 1.0/Wikimedia Commons]

 

Gli ingredienti che fanno da padrone durante l’autunno sono le castagne, le patate dolci e la zucca e si possono ritrovare anche nei wagashi di questo periodo. Tra i più gustosi ci sono i momiji manju, che rappresentano una foglia d’acero e sono originari dell’isola di Miyajima; quelli classici sono ripieni di marmellata di fagioli rossi, ma ne esistono variazioni con il ripieno di matcha, crema pasticcera, cioccolato, limone, mela e addirittura zucca e patate dolci! Un altro tipo di wagashi tipico di questo periodo è lo tsukimi dango, che viene mangiato in occasione delle notti di luna piena, in cui si contempla la luna e le si offrono doni per portare la buona sorte nella famiglia.

Tsukimi dango per celebrare la festa della luna [ph. evan p. cordes CCA 2.0/Wikimedia Commons]

 

Durante l’inverno, infine, molti dei wagashi assomigliano a fiori ricoperti dal ghiaccio, mentre in occasione della celebrazione del nuovo anno è tradizione consumare i mochi che compongono il Kagami mochi: una decorazione da esporre all’interno della casa durante le prime settimane di Gennaio, che l’11 di Gennaio (la fine del primo periodo dell’anno secondo il calendario tradizionale giapponese) sarà spezzata, cotta e mangiata in aggiunta a una zuppa di fagioli dolci chiamata ozenzai.

Kagami mochi, consumati in occasione del nuovo anno

 

Il design dei wagashi elevato ad arte

Poiché i wagashi sono un piatto così radicato nella cultura nipponica, esistono famiglie di pasticceri e artigiani leader nel settore, che lasciano la propria impronta nella cultura culinaria giapponese e internazionale proponendo la propria versione di un determinato tipo di wagashi. Alcuni esempi interessanti sono i manten wagashi creati dalla pasticceria Saiundo, nella prefettura di Shimane; questi wagashi sono dei cubi che rappresentano una notte stellata: la base è in pasta di fagioli anko, mentre la parte superiore è in gelatina di colore blu, decorata con oro alimentare in foglia per rappresentare le stelle.

Manten wagashi di Saiundo [ph. www.saiundo.co.jp]

 

Un tipo di wagashi reso famoso in tutto il mondo è la raindrop cake, che viene preparata in occasione del festival delle stelle del 7 luglio. Il Tanabata Matsuri celebra la leggenda di due innamorati, le stelle Orihime e Hikoboshi (Vega e Altair), i quali, travolti dalla passione che li univa e distratti dallo svolgere qualsiasi attività, vennero separati dal re degli dei, che pose tra loro la Via Lattea; da allora è loro concesso ricongiungersi soltanto durante il settimo giorno del settimo mese, ma in caso di pioggia, il fiume rappresentato dalla Via Lattea, straripando, impedisce alle due stelle di incontrarsi. La raindrop cake nasce come rappresentazione delle lacrime che i due innamorati piangono quando sono distanti l’uno dall’altra.

Sakura Raindrop Cake [ph. Megan Wong CC BY-NC-ND 2.0/www.flickr.com]

 

Chi ha portato l’armonia con la natura a un nuovo livello è la pasticceria Havaro, che realizza gli omonimi wagashi con gelatina vegetale e fiori edibili. Ogni fiore ha sfumature di colore diverse, per cui ogni Havaro sarà sempre unico al mondo, concetto che ci riporta al continuo trascorrere del tempo e al rituale di assaporare i wagashi come un momento unico e irripetibile.

Havaro Bouquet [ph. Havaro @HANAnoBABAROAhavaro]

 

I wagashi sono solo uno degli esempi dell’approccio estetico al cibo in Giappone e sono realizzati in maniera tale da stimolare tutti e cinque i sensi. L’aspetto invitante e la presentazione con estrema attenzione ai dettagli sono un piacere per gli occhi; l’olfatto e il gusto sono stimolati dai profumi delicati e dai sapori degli ingredienti di stagione; la consistenza al tatto e la sensazione nel tagliarli col coltello aggiunge un altro strato all’esperienza sensoriale; persino l’udito viene stimolato grazie alla scelta dei nomi che ricordano la stagione in corso. Chi avrebbe pensato che un dolcetto così piccolo avrebbe potuto essere così carico di significato!

 

 

In copertina: Wagashi di primavera: lysichiton asiatico, rosa di Sharon, ortensia e rosa [ph. Dougla Perkins CC0 1.0/Wikimedia Commons]

Quando ho visto diecimila persone ballare al Pride

Il piazzale della Malpensata si staglia dritto davanti a me. Il battito cardiaco accelera all’improvviso. Manca poco all’orario di inizio del concentramento del primo Pride della città di Bergamo. Nel parcheggio solo auto e agenti in divisa. Un unico pensiero: lo abbiamo fatto davvero.

Sono Laura, ho 30 anni e sono un’attivista LGBTQI bergamasca dal 2009. Di omo-transfobia avevo letto solo sui libri, ma quando le notizie di aggressioni ai danni di persone gay, lesbiche e transgender iniziarono a fare il giro dei quotidiani nazionali e delle reti televisive, decisi che i libri non bastavano più.

Il 2009 fu un anno emblematico in questo senso. In numerose città italiane sorsero dei comitati che organizzavano manifestazioni di solidarietà e protesta: la comunità LGBTQI si stava mobilitando, alimentata da una nuova forza e da un nuovo senso di coesione. Nacque così Bergamo contro l’omofobia, dapprima comitato fondato da due sparute ragazzine, Laura ed Elisa, poi associazione di promozione sociale che contava quasi un centinaio di iscritti.

Il corteo del Bergamo Pride 2018 (foto di Camilla Giubileo, Tutti i Diritti Riservati).

Allora non capivo cosa ci spingesse a soli 20 e 18 anni a dedicare giornate intere alla costruzione di sit-in, eventi,  raccolte fondi per autofinanziare le nostre attività e incontri di sensibilizzazione nelle scuole. Ricordo solo che rinunciavo persino allo studio, osservando i miei esami universitari naufragare: Bergamo contro l’omofobia era sempre più importante di qualsiasi altra cosa dovessi o avessi in programma di fare.

Questa dedizione non comportò soltanto dei sacrifici, ma fu anche ripagata da grandi soddisfazioni. Riuscimmo infatti a presentare una nostra piccola mostra di baci al Parlamento Europeo di Strasburgo. E, cosa più importante, i giovani gay e le giovani lesbiche di Bergamo ci contattavano per chiederci consigli, per capire come accettarsi e farsi accettare dai loro cari, per entrare nelle loro scuole e confrontarci con i loro coetanei. Stavamo diventando un piccolo punto di riferimento.

Dopo otto lunghi e intensi anni come presidente di Bergamo contro l’omofobia prima e socia volontaria dopo, ho deciso che il mio percorso in quella associazione era terminato e ho scelto di dedicare tutte le mie energie alla costruzione del primo Pride della città di Bergamo. Era giunto il momento di sondare se il cambiamento su cui avevamo lavorato per anni era effettivamente arrivato. E la risposta a questa domanda sono state le diecimila persone scese in piazza lo scorso 19 maggio. Bergamo era finalmente pronta.

Tra quelle diecimila persone, però, c’era solo una piccola manciata di attivisti/e che hanno potuto vivere sulla propria pelle l’incredibile difficoltà dell’organizzare un evento di tale portata.

Quando fai attivismo, la frustrazione è uno degli effetti collaterali che devi sempre tenere in considerazione. A volte le difficoltà sembrano insormontabili e la scarsa risposta di pubblico è demotivante. Essere attivista implica mettersi in discussione costantemente, scontrarsi con l’ostilità esterna, mettere a rischio le proprie relazioni personali e sperimentare un forte senso di solitudine. Riunioni infinite, notti in bianco, concitazione e ansia, la paura di sbagliare e quella di non fare mai abbastanza contribuiscono a darti un senso di impotenza. Pensateci: non è facile incassare un no dalle istituzioni, essere ricoperti di insulti da un esercente omofobo o essere descritti/e come depravati da parlamentari, senatori della Repubblica, politici, interi partiti o movimenti che addirittura scelgono di manifestare apertamente contro la tua libertà o di organizzare veglie di preghiera contro il Pride. Ma forse tutto sommato è proprio l’ingiustizia il motore che spinge ad andare avanti. Se non ci fosse la necessità di contrapporsi a una ingiustizia, non ci sarebbe bisogno di attivismo.

Il corteo del Bergamo Pride 2018 (foto di Cristian Bonanomi, Tutti i Diritti Riservati).

Sono convinta che l’attivismo sia qualcosa che hai nel sangue, che si traduce in una motivazione talmente forte che ti spinge a superare la frustrazione di non essere invincibile, perché l’obiettivo è collettivo, non personale, e per questo è più grande persino delle tue paure. Essere a bordo del carro di Bergamo Pride l’anno scorso e spiare da dietro le quinte la folla di gente sotto di me che ballava, rideva, si divertiva e vestiva la propria identità con orgoglio e alla luce del sole è stata una emozione unica che mi ha ripagato di tutto il tempo speso a chiedermi che senso avesse quello che stavo tentando di fare.

Perché in fondo di questo si tratta: tentativi. Non custodisci la formula perfetta o la soluzione a tutti i mali, procedi per tentativi, alcuni dei quali vanno a vuoto. E questo è l’attivismo per me: un tentativo costante di mettere in atto pratiche di libertà che non si esauriscono in un evento, ma che al contrario trovano sempre più vie di intersezione, in quanto la sistematicità dell’oppressione si reitera e si estende a tutte le categorie discriminate, dalle persone LGBTQI ai migranti, passando per le donne e via dicendo. Come scrive l’attivista Angela Davis, l’importanza di fare attivismo sta nell’effetto, più che nei risultati. Le mobilitazioni hanno infatti insegnato agli individui a unirsi, a risolvere problemi attraverso la solidarietà e la condivisione delle lotte. Hanno insegnato il valore di essere movimento. E questo, a parer mio, deve fare un/una attivista oggi: risvegliare il senso di responsabilità collettiva che sta alla base di ogni comunità.

Insisterò quindi a tentare anche in vista di Bergamo Pride 2019 – Orgoglio oltre le mura, cercando di trasformare questi valori in impegno concreto, continuando a essere volontaria all’interno del comitato organizzatore e continuando a essere, semplicemente, attivista, per poter vedere altre diecimila e forse più persone ballare sotto il carro del Pride del prossimo 18 maggio.

In copertina: il corteo del Bergamo Pride 2018 (foto di Camilla Giubileo, tutti i diritti riservati).

Volontariato a misura d’arte

Cosa fanno Rinaldo, Marco, Giusy e Rita a Ponte San Pietro, in via Roma n° 20? Tra una chiacchiera e l’altra parlano di arte, delle opere che stanno realizzando e di progetti futuri.  Ma chi sono? Sono i pittori soci di Un fiume d’arte, associazione animata dalla sua attività di volontariato culturale che promuove e valorizza l’arte in tutte le sue forme, e in particolare mira a creare iniziative tese a rivitalizzare il paese di Ponte San Pietro e a far conoscere l’opera artistica del pittore Vanni Rossi (1894-1973) sul territorio.

Come spiega Marco Botte, segretario dell’associazione, «Un fiume d’arte fa proprie e condivide le parole di Gustavo Zagrebelsky: Le idee racchiuse in se stesse s’inaridiscono e si spengono. Solo se circolano e si mescolano, vivono, fanno vivere, si alimentano le une con le altre e contribuiscono alla vita comune, cioè alla cultura». A dare avvio all’associazione nel 2008 è Marco Ravasio, responsabile dell’Ufficio Cultura della biblioteca comunale, che sprona gli amici artisti a creare un progetto per invogliare i cittadini a impegnarsi nel volontariato culturale locale.

Al gruppo originario, tra cui si ricorda il presidente pittore Cesare Manzoni, da poco venuto a mancare, dal 2013 si è aggiunto un nutrito gruppo di poeti e autori, come Carlo Arrigoni, Mattia Cattaneo, Annamaria Lombardi, che arricchiscono di verve letteraria l’associazione. Di recente si sono associati Fernando Andrea Massironi, Pietro Franco Longhi, Maria Chiara Persico, Petruska Meri e Carlo Della Rocca, che offrono nuove prospettive di sviluppo alla programmazione culturale. Ad oggi Un fiume d’arte consta di un gruppo eterogeneo di artisti che, per passione e hobby, si dedicano alla pittura, al disegno, alla fotografia e alla scultura, ed espongono le loro opere nella “galleria” e in alcune vetrine dei negozi del paese, mettendo in mostra l’arte contemporanea di oggi, rispettando un hic et nunc che vuole fare da connettore sociale con i cittadini, i curiosi e gli appassionati.

Uno scatto da una delle ultime letture di poesia della scorsa edizione della tre giorni di Un fiume d’arte a Ponte San Pietro, nel mese di settembre.

«Perché bisogna valorizzare soltanto le grandi città d’arte, i più importanti musei del mondo e le grandi metropoli?», ci interroga Marco Botte. «Come altre associazioni nate nella bergamasca, vogliamo dimostrare come i piccoli centri abitati, poco conosciuti al grande pubblico di turisti, abbiano molto da offrire». Per esempio, il paese di Ponte San Pietro vanta una Pinacoteca d’arte contemporanea dedicata al pittore divisionista Vanni Rossi, decorata con affreschi del XV secolo di soggetto profano, «ma ci sono altri luoghi da visitare», prosegue Botte: «la chiesa vecchia di San Pietro al Ponte con le opere di Giovanni Carobbio il Vecchio e di Pietro Ronzelli, la chiesa nuova dedicata ai Santi Pietro e Paolo, il rifugio antiaereo costruito nel 1944, la Fondazione Legler e la Villa Mapelli Mozzi».

I 40 soci mettono a disposizione le loro competenze e offrono supporto organizzativo per le iniziative culturali dell’associazione. Durante gli eventi culturali ogni volontario è investito di un ruolo che richiede impegno, dedizione e senso di responsabilità, ma che permette anche di mettersi alla prova, divertendosi, ma soprattutto di imparare a lavorare insieme in una cornice di simpatia e leggerezza. Per le persone di questa associazione fare volontariato significa fare esperienza e confrontarsi con gli altri, scoprire le ricchezze di quartieri e paesi limitrofi, arricchirsi di nuove conoscenze e competenze, oltre che imparare a compiere qualunque gesto senza volere nulla in cambio se non un semplice “grazie” dal pubblico.

Alcuni dei nuovi soci di Un fiume d’arte, che si arricchisce della presenza di volontari storici e dell’entusiasmo di giovani del territorio.

 

Come spiega il vicepresidente Marco Locatelli, «Un fiume d’arte collabora con il Gruppo Storico di Ponte San Pietro, con il festival Effetto Bibbia di Bergamo e l’associazione culturale Le Muse di Curno, e intesse relazioni con diverse realtà locali»: tra queste la biblioteca comunale, la Scuola di teatro di Treviglio di Max Vitali, la Compagnia Trasfigura di Bergamo, giovane e dinamica compagnia di attrici, DANZAREA di Chicca Rota e giovani musicisti come Matteo Franchini, Katia e Silvia Vendrame, che animano la rassegna poetica e le inaugurazioni delle mostre.

Un fiume d’arte dimostra così di essere una realtà in continua evoluzione, molto attiva e ben consolidata sul territorio, per coinvolgere i cittadini del suo paese in attività di volontariato e offrire nuovi stimoli creativi nel campo della promozione e valorizzazione dei beni culturali. Come affermò Henry Ford, e come viene riportato sul sito web dell’associazione, «Ritrovarsi insieme è un inizio, restare insieme è un progresso, ma riuscire a lavorare insieme è un successo».

Volontariato, Africa e Amore

Lasciare casa propria per aiutare gli altri: una decisione coraggiosa, soprattutto quando per realizzarla è necessario confrontarsi con consuetudini e stili di vita di un paese lontano, dove si vivono situazioni di povertà a cui bisogna adattarsi, privandosi delle comodità anche più scontate e banali a cui si è abituati.

Pequod ha fatto qualche domanda a Floriana, che ha vissuto un’esperienza di volontariato in Ghana e precisamente a Dodowa, piccolo paese vicino alla capitale Accra.

Perché hai deciso di fare volontariato all’estero?

Un anno fa, a gennaio, mi sono svegliata e mi sono detta «voglio andare in Ghana!». Non so bene nemmeno io perché; è stata una decisione improvvisa. Ho contattato un amico che era stato in Africa per farmi dare qualche consiglio, poi l’associazione italiana Soho. Mi sono affidata a loro perché è l’unica realtà che conosco che opera senza far pagare un prezzo totale per l’esperienza, ma fornisce le istruzioni necessarie e le indicazioni sui vaccini, per poi lasciare che i volontari si gestiscano in autonomia per l’acquisto dei biglietti aerei. Nel giro di una settimana li avevo già comprati! Sono partita ad agosto, per andare a fare volontariato in un orfanotrofio che ospita 250 bambini, e sono ritornata anche a novembre, dopo aver fatto una raccolta fondi grazie alla quale ho comprato cibo, acqua e vestiti per i bambini; ho pagato per mandarli a scuola e fornirgli cure mediche.

Come era la tua giornata tipo?

Ad agosto i bambini non andavano a scuola, al mattino li aiutavo a fare il bagno: in sostanza dovevo prendere dell’acqua dal pozzo con un secchio, e utilizzando una tazza da tè lavarli, mentre loro si insaponavano con delle spugne speciali. Poi mangiavano, studiavano e giocavano. Spesso si ammalavano, soprattutto di malaria, e allora bisognava portarli in ospedale.

A novembre invece i più grandi andavano a scuola, mentre i piccoli facevano lezione nell’orfanotrofio. A volte, per carenza di insegnanti facevo lezione di inglese, francese o matematica. Poi si mangiava, si tornava a lezione e infine si faceva il bagno e si lavavano i vestiti in grosse bacinelle, con la pietra di sapone. Alla sera distribuivo le medicine. Quasi sempre, capitava l’imprevisto: molti dei bambini soffrono di reumatismi, si ammalano di malaria, o semplicemente bevono acqua non potabile e si sentono male.

Hai avuto una preparazione personale o professionale prima di partire?

No, la prima volta non avevo idea di cosa mi aspettasse. Alloggiavo in una casa di volontari, luogo che definirei fatiscente, ma che è diventato il mio posto preferito sull’intero pianeta. È una piccola casetta con due stanze, in ognuna delle quali ci sono letti a castello per 6 persone; non c’è acqua corrente e l’energia scarseggia. Un bidone fa da cisterna per l’acqua, e la doccia consiste in una porta di legno dietro cui ci si lava con un secchio d’acqua. Il secchio d’acqua si utilizza anche dopo aver usato il bagno.

Per telefono prima di partire avevo parlato con Mamma Valeria, che si occupa dei volontari in Italia, e mi aveva dato indicazioni su vaccini e malattie, raccomandazioni circa l’utilizzo dello spray repellente anti malaria e suggerito di tenere la bocca chiusa sotto la doccia per evitare i pericoli dell’acqua non potabile. Mamma Valeria mi ha dato tutte queste informazioni ma in maniera molto distaccata per non influenzare la mia idea sull’Africa.

Ma tutto ciò non ti ha fatto vivere l’esperienza con un po’ di ansia?

No, non ho mai avuto ansia, anzi, sono stata avvertita di non avere troppo contatto con i bambini per via di malattie o infezioni, ma io li baciavo e coccolavo! In Africa vivo come vivono loro: cammino scalza, mangio con le mani e non ho il minimo timore! Se dovessi beccarmi un’infezione, so che poi guarirebbe.

Qual è stata la parte più dura dell’esperienza e cosa ti ha dato più soddisfazione?

La situazione più dura da vivere è quando i bambini si ammalano, perché ci si sente male quando soffrono, si vorrebbe fare qualcosa ma non si può. Questa è a livello generale una delle cose brutte dell’Africa: voler fare tanto, cercare di garantire un futuro, ma non poterlo fare. Ci sono certe abitudini e tradizioni che non si possono cambiare e ti fanno sentire impotente: puoi solo dare soldi e affetto. Anche se paghi la scuola a un bambino, il suo livello di istruzione sarà sempre basso perché la scuola non va bene, ma chi è al comando per qualche assurda ragione non ti permette di mandarlo nella scuola migliore. Voler cambiare le cose e non poterlo fare è frustrante: ho la sensazione che l’Africa si sia rassegnata al fatto che la situazione non migliorerà.

La cosa più bella in assoluto invece sono i bambini: lasciano un segno che non si racconta. Quando faccio loro dei regali, sia materiali che no, soddisfacendo i loro desideri, fanno i salti dalla gioia. E nei momenti in cui sono davvero felici io mi sento piena dentro, viva. Quando mi scrivono che gli manco e aspettano il mio ritorno, mi commuovo. Ho intenzione di ritornare da loro ogni 4 o 5 mesi.

Nessuno ti ha mai chiesto: «Perché non aiuti in Italia invece di andare in Africa?»

Vado in Africa perché ormai ce l’ho nel cuore e sono molto affezionata ai bambini, ma quando ho potuto, ho sempre aiutato anche in Italia e anche a Londra, dove vivo ora, mi sono iscritta a un’associazione di volontariato. Credo che il volontariato sia una vocazione, se ce l’hai in Africa ce l’hai in qualsiasi parte del mondo.

Che consiglio daresti a qualcuno che volesse fare la tua stessa esperienza?

L’Africa la suggerisco a chiunque ma il consiglio è di vivere come le persone locali. Una volta nella vita, tutti dovrebbero provare per capire e arricchirsi. L’approccio alla vita è diverso quando il secchio d’acqua deve durare per quattro docce e un boccone di riso va diviso: impari a evitare sprechi, a non lamentarti. L’Africa si poggia sul pilastro della condivisione, “sharing is caring” e anche se il cibo è poco si condivide. I bambini tra di loro si spartiscono il cibo e gli oggetti che regalo e si prendono cura di me: quando un bambino ti imbocca, anche se ha le mani sporche, non si può rifiutare!

 

Tutte le fotografie sono state gentilmente condivise dall’intervistata, tutti i diritti sono riservati.

Un viaggio che non può più fermarsi

Mi ricordo bene quando sentii parlare per la prima volta di Progetto 20K, era la primavera del 2016, qualche mese prima che iniziasse l’attività vera e propria sul territorio di Ventimiglia. Come Pequod ha già raccontato più volte, Progetto 20K è un gruppo di persone che tramite pratiche di solidarietà attiva sostiene e supporta le persone in viaggio bloccate al confine italo-francese, precisamente a Ventimiglia. Decine sono le attività e i microprogetti che porta avanti nella provincia di Imperia e non solo, ma più di tutto vorrei raccontare delle modalità: così lungimiranti, aperte, inclusive, forti e trasversali che hanno aggregato tante persone diverse intorno a questa esperienza politica.

Era il 2016, già da poco più di un anno mi interessavo a contesti sociali e politici a Bergamo ed è proprio alle assemblee della Kascina Autogestita Popolare Angelica “Cocca” Casile che sentii parlare del progetto per la prima volta. Qualche mese dopo si organizzò al bar Circolino Basso la prima presentazione. Ne rimasi subito colpito, per la forza dei racconti di chi c’era stato e delle immagini proiettate: queste persone dicevano di stare sul confine a sporcarsi le mani supportando chi dallo stesso confine era bloccato e violentato! Fu proprio amore a prima vista: l’idea di prendere e partire, anche solo per qualche centinaio di chilometri, per oppormi a violenze e ingiustizie che in realtà non troppo conoscevo, mi affascinava moltissimo.

Il cartello posto all’ingresso dell’infopoint Eufemia di 20K a Ventimiglia in sostegno di Mimmo Lucano, sindaco di Riace e promotore del cosiddetto modello Riace per l’accoglienza ai migranti, arrestato il 2 ottobre 2018.

A Ferragosto mi ritrovai così catapultato nella piccola casetta affittata per il progetto, iniziai a conoscere i luoghi di Ventimiglia e a masticare le pratiche di 20K: subito l’entusiasmo aumentò ancor di più, ma anche la difficoltà di agire in quel contesto. Il senso d’impotenza era all’ordine del giorno, sottovalutarsi e criminalizzarsi erano la costante delle discussioni serali; dall’altra parte c’era l’essere gruppo: l’aggregazione con persone che venivano da un viaggio lunghissimo, culture diverse, lingue diverse e la sensazione, nonostante tutto, di aver loro agevolato il percorso.

La cosa che più mi colpì fu l’ordinanza comunale che vietava di distribuire beni alimentari, acqua o vestiti alle persone per strada e che rimase in vigore fino al febbraio 2017: non parliamo di un’ordinanza del Prefetto o del Questore, ma di un sindaco del Partito Democratico che vietava questi semplici gesti di solidarietà e umanità. Tutto ciò rafforzava il mio impegno, ma soprattutto il progetto. Ci rendevamo conto di essere dalla parte giusta e che ricoprivamo un ruolo politico in grado di ridistribuire potere e garantire autodeterminazione.

Con Progetto 20K ho imparato a seguire ed essere partecipe attivamente di un contesto lontano, ma che aveva (ha) disperato bisogno delle boccate d’ossigeno che sappiamo portare. Ce lo si leggeva negli occhi quando, a settembre 2016, abbiamo deciso di trasformare il progetto estivo in uno di lungo periodo.

Coi mesi imparai a conoscere meglio i miei compagni e compagne di viaggio, alcuni già intravisti e mezzi conosciuti, altri completamente estranei, ma con cui da subito si è costruito un rapporto di amicizia e di fiducia, semplicemente perché si condivideva la stessa avventura. In realtà quest’ultima è molto più simile ad un vero e proprio viaggio: spostarsi dal proprio territorio e intrecciare, in un luogo altro, il viaggio delle persone migranti e contemporaneamente quello delle persone solidali, che ti sostengono come fossi un fratello o una sorella.

Il corteo della manifestazione Ventimiglia Città Aperta organizzata da Progetto 20K il 14 luglio 2018.

Ricordo l’organizzazione della manifestazione “Ventimiglia – Città Aperta”: anche in questo caso si parla di una modalità e di un processo molto esteso, mai visto nell’Imperiese. Un progetto ambizioso che alla fine ha portato diecimila persone il 14 luglio 2018 a Ventimiglia, ma nei mesi prima rinunce, fatica e spossatezza erano all’ordine del giorno. A mano a mano che ci avvicinavamo alla data vedevamo quanto la nostra proposta si rispecchiava negli occhi di migliaia di singoli e organizzazioni in Italia e non solo. Una volta scesi per le strade della città, come molte volte (mi) succede, tutto diventa travolgente e gioioso. Proprio quella spensieratezza che caratterizza Progetto 20K è stata trasmessa ovunque.

Il turbinio di sensazioni che mi hanno attraversato e continuano a farlo le auguro a chiunque si provi ad avvicinare a Progetto 20K o ad altri percorsi. Sicuramente l’essere così inclusivo, aggregativo e stimolante è una peculiarità del nostro progetto, anche dopo aver conosciuto diverse realtà italiane è quasi impossibile trovare la stessa spensieratezza e serenità respirata con questa esperienza. Certo, a volte disordinata e confusa, forse anche avventata, se no che viaggio sarebbe?

 

In copertina: la manifestazione del 29 dicembre 2018 a Ventimiglia, organizzata da 20K per protestare contro la chiusura dell’infopoint Eufemia, che forniva assistenza legale e supporto ai migranti.

Foto tratte dalla pagina Facebook di Progetto 20k, tutti i diritti riservati.

Si ringraziano Claudio, Sara H., Elena e Francesco.

Quando raggiungere l’Italia era più facile

Negli ultimi articoli su Pequod abbiamo parlato molto dell’attuale sistema dell’accoglienza in Italia, intervistando chi nel nostro Paese è arrivato da poco e analizzando gli effetti dell’ultimo Decreto Sicurezza sulle politiche di integrazione. Ma com’era l’accoglienza dei migranti in passato? Come si arrivava in Italia in cerca di lavoro quando ancora non si parlava di “crisi migratoria”? Ne abbiamo parlato con Rosemary, 69 anni, senegalese arrivata in Italia negli anni ‘70 per seguire il marito italiano, e Deme, 40 anni, emigrato anche lui dal Senegal nei primi anni 2000.

Rosemary racconta di come all’epoca la migrazione fosse un fenomeno completamente diverso, in quanto ottenere un visto per l’Italia era ancora piuttosto semplice e il lavoro non mancava. Grazie al cambio conveniente, inoltre, «gli africani potevano costruirsi una casa al paese d’origine anche solo facendo i venditori ambulanti», mentre ora non è più così. Tuttavia, Rosemary precisa che non era tutto rose e fiori nemmeno in passato e che si è dovuta scontrare con la diffidenza che il suo matrimonio misto suscitava: «Quando sono arrivata io, ero la prima africana del paese e per di più sposata con un bianco, che era una vera rarità!». I pregiudizi nei confronti delle donne nere, infatti, non mancavano e Rosemary se lo ricorda bene: «Nei miei primi anni qui mi capitava che quando camminavo per rientrare a casa verso il tardo pomeriggio, c’erano uomini che mi accostavano con l’auto, dando per scontato che mi prostituissi».

Anche Deme sottolinea come vent’anni fa fosse molto più semplice di adesso trovare lavoro, ma, rispetto agli anni ‘70, ottenere dei documenti era già diventato molto più complicato e bisognava trovare delle strade “alternative”: «Quasi sicuramente trovavi un lavoro in nero, qualcuno ti prestava i suoi documenti, andavi alle cooperative e trovavi lavoro subito». Deme ricorda come fosse fondamentale il sostegno da parte della comunità di africani: i nuovi arrivati venivano accolti e ospitati da altri immigrati che poi li aiutavano a trovare un lavoro: «Dopo un mese di stipendio che rimaneva a te, iniziavi a contribuire alle spese della casa. Poi dal posto letto ti pigliavi una stanza, poi una casa in affitto. Era come una piccola comunità».

Deme (nome di fantasia) ha preferito non farsi ritrarre per evitare di essere riconosciuto.

Anche Rosemary concorda: «Vedrai sempre africani che si aggregano tra loro; superiamo insieme le difficoltà: dalla ricerca del lavoro, in cui saremo sempre la seconda scelta rispetto a un occidentale, all’aiutare chi di noi si ritrova senza documenti, magari dopo anni di presenza sul territorio». Questo spirito comunitario non si riscontra invece tra gli italiani, come ricorda con tristezza Rosemary, per cui lo scoglio più difficile da superare è stato proprio il loro atteggiamento freddo e individualista, ben diverso da quello senegalese a cui era abituata. A questo si aggiungevano le difficoltà linguistiche, che generavano a volte delle situazioni tragicomiche: «Mia suocera mi disse che per far brillare la cucina ci voleva “olio di gomito” e io girai tutti i negozi del paese per cercarlo, senza che nessuno si fermasse a spiegarmi che era un modo di dire».

Nei confronti dell’attuale sistema dell’accoglienza in Italia, Deme si dice piuttosto critico: «Da quello che vedo penso che ci sia troppa propaganda. (…) Dicono le parole, ma (…) i fatti non ci sono». Anche Rosemary, pur riconoscendo l’importanza di un sistema di accoglienza che all’epoca del suo arrivo era invece del tutto assente, nutre delle perplessità sulla situazione attuale, in particolare riguardo all’assenza di opportunità di crescita per i migranti: «Trovare un lavoro era d’obbligo negli anni ’80 se non si voleva diventare clandestini, mentre è quasi impossibile per questi ragazzi chiusi nei centri».

Tante cose sono cambiate rispetto al passato per i migranti che cercano di arrivare in Europa, ma il loro desiderio di scoperta e la voglia di riscatto sono ancora gli stessi di allora. Proprio per questo motivo sarebbe opportuno per noi europei tenere a mente le parole di Deme: «Quando uno parte (…) dal continente Africa per venire qua in Europa, lo fa per vedere con i suoi occhi, per capire e comprendere queste “altre realtà” che prima ha sempre solo sentito raccontare. Partendo da quella realtà africana, si porta dietro tutta la strada che ha fatto per arrivare fino a qua. Non è una strada proprio facile». No, non lo è per niente.

 

Articolo redatto da Lucia Ghezzi. Interviste a cura di Sara Alberti e Sara Ferrari.

Su richiesta dell’intervistato, è stato utilizzato il nome di fantasia “Deme” per proteggerne l’anonimato.

In copertina: foto di Antonello Mangano (CC BY-NC-SA 2.0).

Il sistema dell’accoglienza in Italia spiegato da un’esperta

L’approvazione del Decreto Salvini su immigrazione e sicurezza avvenuta il 5 ottobre scorso ha riportato in auge il tema dell’accoglienza (mai scomparso del tutto) all’interno del dibattito politico italiano. La nuova legge ha confuso un po’ le cose, tanto che se si vuole affrontare come funziona il sistema dell’accoglienza in Italia, bisogna fare una distinzione tra un pre-Decreto ed un post-Decreto. Per fare un po’ di chiarezza ho intervistato Alessandra Governa, operatrice legale all’interno di un ente SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati).

«In questo momento lavoro in uno SPRAR come operatrice legale- spiega Alessandra – e sono specializzata in protezione internazionale». Essere un’operatrice legale all’interno di questi centri vuol dire principalmente orientare dal punto di vista legislativo e burocratico gli ospiti che ne abbiano la necessità. «Per diventare operatrice legale ho fatto un corso promosso dall’ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) – mi dice Alessandra – che dal punto di vista della formazione è stato ottimo». Alessandra è stata anche a Ventimiglia come attivista del Progetto 20k, dove ha fornito assistenza legale alle persone che oltrepassavano la frontiera. Inoltre, ha lavorato per un certo periodo di tempo a Lampedusa: «Sull’isola ho fatto la volontaria per un’organizzazione umanitaria e devo dire che è stata un’esperienza che mi ha aiutato tantissimo a crescere nel campo dell’accoglienza ai migranti».

Ma cos’è, esattamente, uno SPRAR? A rispondere è sempre Alessandra: «Uno SPRAR è un centro di accoglienza in cui possono risiedere le persone che in genere hanno già ottenuto un certo tipo di protezione internazionale (anche se non è l’unico caso) per un periodo di sei mesi, fino a quando non viene ultimato il loro percorso di inclusione socio-lavorativa. La caratteristica principale degli SPRAR è quella di avere come primi attori i comuni, i quali danno in co-gestione alle organizzazioni umanitarie le abitazioni che accoglieranno i migranti». Parallelamente agli SPRAR, ci sono i CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria), i quali «non hanno i comuni come attori principali nella gestione, ma sono strutture private direttamente in contatto con la prefettura». CAS e SPRAR, però, sono le destinazioni finali di un percorso che inizia ben prima: «Le persone che arrivano in modo irregolare tramite la rotta balcanica o via mare, dopo aver richiesto asilo, vengono collocati in centri governativi, come gli hotspot dove avvengono i primi soccorsi medici e le prime identificazioni. Qui, i migranti possono formalizzare la domanda di protezione per poi essere trasferiti, a seconda delle necessità, nei centri di prima e seconda accoglienza, ovvero nei CAS o negli SPRAR».

Bisogna però specificare che attualmente, i CAS non offrono strutture adeguate per accogliere persone che provengono da un lungo viaggio come può essere quello dei migranti. I problemi igienico-sanitari ed il sovraffollamento sono più che comuni ed hanno già provocato numerose proteste, tuttavia, una vera soluzione non è ancora stata trovata.

Con il Decreto Salvini è stata inasprita principalmente la legislazione in materia di espulsione: nei CPR (Centri Per il Rimpatrio), infatti, rispetto a prima possono essere portate molte più persone che non necessariamente hanno ottenuto un decreto di espulsione. Inoltre, sempre per effetto del Decreto Salvini, è stato chiesto ai CAS di allontanare le persone con protezione umanitaria, in quanto sarebbero cessati i finanziamenti governativi atti ad aiutare questa categoria di migranti. Agli SPRAR invece: «Viene detto di ricevere solo le persone con protezione sussidiaria (protezione concessa a chi, pur non avendo una protezione internazionale e quindi lo status di rifugiato, fugge dal proprio Paese a causa di ogni tipo di persecuzione ndr) o i richiedenti asilo, ma non coloro in possesso di protezione umanitaria (concessa a chi non ha lo status di rifugiato, ma fugge per motivi umanitari come le guerre o i disastri naturali). Tuttavia, a questi centri di accoglienza viene data la possibilità di accogliere persone con altri tipi di permessi non attinenti alla protezione internazionale», mi spiega Alessandra che aggiunge: «Agli SPRAR è stato però concesso di continuare ad ospitare quelle persone che erano entrati con un permesso di protezione umanitaria prima del 5 ottobre, fino alla conclusione dei sei mesi». Ne consegue che gli SPRAR ed i CAS riceveranno molte meno persone e, in poco tempo, saranno portati a svuotarsi. Ciò va in una direzione completamente contraria rispetto all’idea di integrazione che c’è alla base dei CAS e degli SPRAR: la retorica salviniana, infatti, è incentrata sul potenziamento delle espulsioni e dei rimpatri, cosa che, per quanto la si possa sbandierare, è più facile a dirsi che a farsi.

È difficile immaginare, ora, come si evolveranno le cose, perché il decreto Salvini ha apportato dei cambiamenti significativi, ma, come conclude Alessandra: «sicuramente ci sarà un periodo di transizione per adattare ogni specificità alla normativa vigente. Alla fine, però, l’unica certezza è che le cose cambieranno: non è detto che ciò che c’era prima del 5 ottobre venga stravolto del tutto, ma non è neanche detto che rimanga invariato».

Africa, Europa e sensibilità: cosa sta dietro alla parola accoglienza?

Quanto spesso di sente parlare di accoglienza in questo periodo e quanto spesso questa parola viene strumentalizzata, bistrattata, trasformata, sfruttata? Nella maggior parte dei casi non ci si sofferma a soppesarla, a guardare cosa c’è dietro la facciata di quelle undici lettere, a pensare a cosa è davvero l’accoglienza. A come la vive chi la offre e a come la vive chi la riceve, ammesso che la riceva e che la voglia ricevere.

Pequod ha parlato di accoglienza con Lamine, di origine senegalese, che ha avuto modo di viverla in prima persona, e ha fatto capire a chi scrive che “accoglienza” è una parola piena di significati soggettivi e di punti di vista differenti che spesso, egoisticamente, ignoriamo.

Dove lavori e di cosa ti occupi nel tuo lavoro?

Sono operatore di un centro d’accoglienza e faccio il mediatore culturale in altri progetti. Il mio primo lavoro in Italia è stato da mediatore culturale con l’associazione Arcobaleno, con cui ho girato per le scuole per svolgere dei laboratori sulla cultura africana. In questa intervista, però, parla il Lamine africano, non l’operatore del centro di accoglienza.

Cosa è per te l’accoglienza?

Accoglienza è dare uno spazio, ma non fornire elementi per essere in questo spazio. Ad esempio, se io vengo da te e non ci siamo mai visti prima, tu mi dai il mio spazio, mi metti a mio agio, mi lasci portare quello che ho e quello che sono. Se non sai niente di me, non mi puoi accogliere. Sai quante volte mi è capitato che delle persone volessero cucinare per me un piatto italiano, e ci tenevano parecchio, ma non sapevano che io non mangiavo maiale? In particolar modo una signora, che ha insistito alquanto e lo desiderava moltissimo. Pensa che io ero invitato per la domenica, e lei aveva iniziato a cucinare già il giovedì! Il piatto ovviamente era buonissimo, ma io non mangiavo maiale. La signora però mi aveva dato il suo spazio a casa sua, mi aveva aperto le sue porte e non potevo rifiutare. Ho mangiato, perché per me quel gesto era più importante di ogni credo. In Senegal si dice “Se ti dà uno, non prendere dieci”: lasciare la propria casa per andare a casa di qualcun altro impone lasciare qualcosa all’altro e prendere qualcosa da lui. Altrimenti, se vuoi che le cose vadano come vuoi tu, devi stare a casa tua.

Qual è stata la cosa più difficile da accettare nell’accoglienza che hai ricevuto? E la più soddisfacente?

La mia sensibilità non è stata accolta, perché si vede lo straniero soltanto come uno statuto. Non ci si pensa, ma se si dice a qualcuno “sei un imbecille”, lo si dice alla maschera che ci si trova davanti, senza considerare il fatto che dietro a questa maschera ci sia una persona con la propria personale sensibilità.

D’altra parte, sono riuscito invece a vendere un’Africa che credo che possa essere qui, dei valori che ho ricevuto e che sono vendibili qui, un modo di essere con cui sono stato cresciuto, il modo di vedere la vita che ho e che mi hanno insegnato. Sono il vincitore del premio Tirafuorilalingua 2017 (concorso e festival dedicato a produzioni artistiche che celebrano, promuovono e valorizzano la lingua madre, ndr) per il quale ho scritto una poesia e un racconto sull’introduzione senegalese in società, intitolati Tutti insieme intorno allo stesso piatto. Ho descritto cosa si imparava dalla tradizione di mangiare insieme comportandosi in un certo modo e il significato di ogni singola azione. Credo che questi siano insegnamenti che si possono condividere in tutto il mondo.

Lamine durante la presentazione della sua opera Tutti insieme intorno allo stesso piatto al concorso Tirafuorilalingua 2017.

Reputo che bisogna essere consapevoli del fatto che l’africano in contatto con l’Europa, cioè l’esperienza di un africano che parte dall’Africa e poi arriva in Europa e trova determinate cose, crei un nuovo individuo. Questo individuo non è né africano né europeo, e lui stesso a volte fatica a riconoscersi. Io mi ritengo fortunato e sento di dovere tutto all’Africa, all’istruzione e alla formazione che ho avuto là.

Hai compiuto tutti i tuoi studi in Senegal o anche in Italia?

Ho studiato in Africa e iniziato anche l’Università, ma non l’ho finita. Una volta in Italia, non ho proseguito gli studi, perché non percepisco il riconoscimento del mio bagaglio culturale e perciò ritengo che non mi serva un titolo “vuoto”.

Pensi che le strutture di accoglienza siano adeguate a fornire effettivamente accoglienza?

Il centro di accoglienza mette in pratica quello che c’è nel bando della prefettura, quindi l’impostazione viene dall’alto. Bisogna però capire se si vuole accogliere o no e, soprattutto, per quale motivo accogliere? C’è una grande differenza: se mi accogli in casa tua per una notte e al massimo mi lasci la colazione è un conto, se mi accogli per la notte e poi vuoi farmi fare un lavoro è diverso, devi restare a spiegarmi come si fa, rimanere presente.

Lamine all’evento del lancio dell’edizione 2018 del concorso Tirafuorilalingua.

Cosa può fare un normale cittadino per accogliere?

Tanti normali cittadini già accolgono. La nonna mi diceva che noi non siamo tutti sensibili allo stesso modo. La formazione culturale e intellettuale fa sì che non abbiate nelle vostre corde l’accogliere un africano. C’è una sorta di senso di superiorità, perché dal momento in cui ci si pone in alto e quindi si guarda l’altro da sopra, si definisce l’altro come vittima. Non tutti però si sentono vittima, ognuno ha la propria sensibilità e il proprio modo di vedere le cose in questo caso.

La situazione odierna deriva dal fatto che l’Africa per molto tempo è rimasta immobile. Ricordo benissimo il mio professore di terza media, quando per spiegare la Rivoluzione Industriale ha introdotto l’argomento con queste parole: “mentre l’Africa è affetta da immobilismo, l’Europa affronta una crescita economica senza precedenti”.  Da quel momento ho iniziato a farmi domande su questo immobilismo africano: dall’Indipendenza fino ad ora che cosa si è fatto? Nel 2018 il Senegal ha ancora il programma scolastico che era stato imposto dal colonizzatore! E come mai nelle scuole europee la schiavitù si insegna in modo marginale? Per quanto riguarda i campi di concentramento nazisti tutti si fermano a riflettere, ne mantengono la memoria in una giornata precisa, mentre per la schiavitù non accade niente di tutto ciò. Sai quanti anni, quanti secoli è durata la schiavitù, e quante persone sono morte per questo motivo? Questi dati non vengono approfonditi.

Il discorso è abbastanza semplice: ai dirigenti europei in fondo conviene che le cose stiano in questo modo, se no poi non possono parlare d’altro. Come fai a vincere le elezioni senza parlare di immigrati? Ai governi africani d’altra parte conviene che la forza lavorativa emigri, almeno i dittatori non li butta giù nessuno. Ho un solo desiderio: ai dirigenti africani che vorrebbero comprare armi, date i vaccini.

In copertina: Dia Mouhamadou Lamine alla premiazione del concorso letterario Tirafuorilalingua 2017.

Tutte le foto sono state gentilmente fornite dall’intervistato, tutti i diritti riservati.

Storie di (non) accoglienza: dalla Nigeria alle Valli Orobiche

Blessed e Wisdom hanno in comune una buona parte del loro viaggio verso l’Europa: partiti entrambi dalla Nigeria, hanno attraversato il Niger, conosciuto l’arsura del Sahara e poi le sofferenze della discriminazione e della carcerazione in Libia. A Tripoli si sono incontrati sul gommone che li avrebbe trasportati fino alle coste italiane; un viaggio che avrebbe dato vita a un’amicizia, corroborata dal freddo dei monti delle valli orobiche prima e delle strade cittadine bergamasche poi.

Nel maggio 2017 sono attraccati a Vibo Valentia e in pochi giorni sono stati trasferiti dall’hotspot calabro al comune di Urgnano, nella pianura bergamasca; trascorse tre settimane hanno di nuovo raccolto i loro pochi averi per essere ricollocati nel Centro di Accoglienza Straordinaria istituito a San Simone (Valleve), località sciistica bergamasca nell’alta Valle Brembana, caduta in disgrazia a seguito del fallimento della società Brembo Super Ski, ente gestore degli impianti sciistici. Convertito a Centro d’accoglienza, l’albergo affacciato sulle piste avrebbe dovuto sopperire alla mancanza di posti nelle strutture ordinarie di accoglienza; di fatto, i suoi ospiti hanno trascorso qui più di tre stagioni, prima della chiusura definitiva della struttura.

Abbiamo chiesto a Blessed e Wisdom, rispettivamente di 25 e 28 anni, che in comune hanno anche la revoca dell’accoglienza e quindi l’espulsione dal sistema dei centri per richiedenti asilo, di condividere con noi idee e opinioni sull’ospitalità italiana e di raccontarci le loro esperienze dal Centro di San Simone a oggi.

La protesta pacifica dei migranti a Valleve il 2 febbraio 2018.

Quanto è durata la tua permanenza nel Centro di Accoglienza di Valleve e perché ne sei stato allontanato? Dove vivi ora?

Blessed: «Ho trascorso a Valleve 5 mesi. A novembre sono stato allontanato dal Centro per un litigio con un altro ragazzo: era un periodo di forte nervosismo, perché arrivava l’inverno e noi ci vedevamo sepolti nella neve di San Simone. Una discussione futile è bastata a scatenare la rabbia di entrambi e il ragazzo è finito in ospedale con il setto nasale leggermente deviato. Ho trascorso due mesi alternando la vita in strada a brevi soggiorni in casa di alcuni ragazzi italiani che hanno deciso di aiutarmi, finché una di loro, trasferendosi in una casa spaziosa, mi ha accolto e ha compilato per me la Dichiarazione di ospitalità».

Wisdom: «Ci era stato garantito che non avremmo trascorso in quel centro più di 5 mesi, poi i tempi sono andati aumentando e la risposta della Cooperativa era sempre che “presto ci avrebbero trasferiti”. All’ennesima promessa disattesa, a febbraio 2018 abbiamo organizzato una manifestazione pacifica per chiedere di essere trasferiti: abbiamo bloccato la strada ai turisti, permettendo l’accesso solo ai bambini delle scuole e ai mezzi spalaneve; in pochi giorni sono arrivati i trasferimenti per la maggior parte di noi ospiti e io mi sono ritrovato a Urgnano e poi a Botta di Serina. Dopo due mesi, però, è arrivato per tutti i manifestanti l’avviso di revoca delle misure di accoglienza e abbiamo dovuto lasciare i vari Centri. Ora vivo per lo più con un connazionale, con documenti regolari, con cui divido le spese di affitto e bollette, ma sempre come ospite in una casa non mia: non ho le chiavi dell’appartamento e non posso aver intestato alcun contratto».

Due migranti intenti a spalare la neve presso il Centro di accoglienza di Valleve.

Cosa pensi del Sistema di Accoglienza italiano?

Blessed: «La sensazione, vivendo nei Centri di Accoglienza, è di essere un morto vivente. Non puoi prendere per te stesso neanche le decisioni più semplici: qualcuno stabilisce cosa mangi, come ti vesti, con cosa ti lavi. Non puoi muoverti liberamente, soprattutto se il Centro è isolato come a Valleve; non puoi cercarti un lavoro, ma al contempo sei obbligato a fare lavori gratuiti senza che nessuno ti ringrazi, anzi dovendo esser tu a ringraziare».

Wisdom: «Gli europei usano gli africani per business. Non ci viene data la possibilità di capire il sistema italiano, né le leggi che lo regolano; veniamo trasportati in questi Centri dove certo veniamo aiutati sulle necessità basilari, ma non abbiamo la possibilità di capire la nostra situazione e veniamo ricoperti di promesse, soprattutto sui tempi e sulle dinamiche per avere i documenti, che sono false. Sarebbe più giusto che ci venisse lasciata dell’autonomia».

Che impressioni hai ricevuto dalle persone incontrate in strada?

Sia Wisdom sia Blessed sottolineano quanti connazionali irregolari siano presenti sul nostro territorio: «Incontro persone nelle città italiane che vivono in Europa da 4/5 anni senza aver mai avuto un Permesso di Soggiorno, alcuni non sono mai stati convocati dalla Commissione Territoriale, altri hanno ricevuto esito negativo. Senza documenti non possono lavorare, né andare a scuola, né stipulare un contratto d’affitto, però rimangono qui perché tornare indietro è impossibile: la libertà che c’è qui non la ritrovi nella situazione che hai lasciato e il viaggio per l’Europa si è già mangiato tutti i tuoi risparmi e ha riempito la tua famiglia di aspettative».

Alcuni migranti fuori dal Centro di Valleve (Bg).

E gli italiani?

Wisdom: «Diciamo che il 40% degli italiani sono amichevoli, il restante 60% è quantomeno diffidente: spesso non ti rispondono quando parli con loro o rispondono in modo maleducato e si offendono se li tocchi».

Blessed è molto più pessimista: «La maggior parte degli occidentali è razzista verso i neri perché sono abituati a concepirci come schiavi. Certo ci sono le eccezioni, come la ragazza che mi ospita e gli amici conosciuti grazie a lei, ma sono una piccola percentuale».

Come pensi potrebbe migliorare il Sistema dell’Accoglienza?

Wisdom:«La cosa più importante è avere dei documenti che diano la possibilità di ricevere una formazione scolastica e accedere al mondo del lavoro. Il fatto di lasciare le persone senza documenti, in lunghe attese, è solo una perdita di tempo; meglio sarebbe dare dei documenti a breve scadenza, ma che diano la possibilità di rendersi autonomi».

Blessed: «Bisognerebbe fare in modo che gli immigrati non si sentano costretti ad attività illegali, quindi fare in modo che possano lavorare secondo le loro conoscenze e capacità e senza venir sfruttati e sottopagati. L’obiettivo di tutti gli immigrati è migliorarsi».

 

Su richiesta degli intervistati, i nomi sono stati cambiati per proteggerne l’anonimato.

In copertina: l’ingresso del paese di Valleve, BG (Celendir/Wikipedia/CC BY-SA 3.0)

L’abolizione dell’integrazione nel nuovo Decreto Sicurezza

Siamo ormai prossimi al compimento del primo bimestre dall’entrata in vigore del Decreto sicurezza e immigrazione, sebbene solo quindici giorni fa sia stata data convalida per convertirlo in legge. La sua applicazione decorre già dal 5 ottobre, per via dei connotati di emergenza della sua materia; titola infatti il Decreto: Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata.

Già queste prime righe basterebbero a suscitare almeno un paio di perplessità. Da un lato, l’accostamento tra due problematiche che hanno tra loro caratteristiche di legalità decisamente diverse: se, infatti, è indubbio che la criminalità organizzata e le associazioni di stampo mafioso siano un problema storico in Italia, che continua a creare situazioni di sfruttamento di esseri umani e di uso illecito di denaro e a originare, in alcune città italiane, uno stato di vera e propria guerriglia armata, tuttavia, accostare tale problematica al fenomeno migratorio sembra quantomeno forzato.  In primo luogo perché la migrazione non sempre coincide con la clandestinità (e il Decreto discute anche aspetti legati all’acquisizione della cittadinanza italiana), ma soprattutto non per forza determina una situazione di insicurezza per lo stato accogliente.

Dall’altro lato, invocare lo stato di emergenza per rendere attivo il Decreto nell’immediato sembra più una mossa propagandistica che di politica assennata, dal momento che le problematiche sottolineate sono di vecchia data e necessitano di una programmazione di largo respiro per trovare soluzioni concrete. Inoltre, il fenomeno migratorio negli ultimi due anni ha mostrato un netto calo, stimabile intorno al -85%, passando dai 164˙872 immigrati del 2016 ai 114˙611 del 2017 e 22˙518 a metà Novembre 2018. A ciò si aggiunga la considerazione che, come più volte ribadito dal direttore dell’Inps Tito Boeri, l’arrivo di popolazione giovane in un Paese come l’Italia, caratterizzato da una contrazione del numero delle nascite (circa -2,65% dal 2017 al 2018) e in cui non si arrestano i movimenti di emigrazione (circa 285˙000 cittadini usciti dal Paese nel 2017, soprattutto appartenenti alle fasce giovani), è di supporto al bilancio economico. La questione era già stata affrontata nel 1998 con la Legge Turco-Napolitano che, considerando che per mantenere un bilancio attivo sarebbe stato necessario mantenere flussi di ingresso di circa 170.000 unita annue, stabiliva politiche volte a favorire l’immigrazione regolare.

Con il Decreto 480/2018 cambia innanzitutto l’approccio della Repubblica Italiana nei confronti dei richiedenti asilo. Attraverso l’Articolo 1 viene infatti abolito il diritto alla protezione umanitaria, previsto dal Testo unico sull’immigrazione del 1998 e figlio di un percorso della politica italiana che risale agli arbori della Costituzione stessa, che garantisce diritto di asilo a chiunque non goda nel Paese d’origine di una democrazia uguale a quella istituita in Italia. Dall’autunno di quest’anno, tale diritto non è più riconosciuto, ossia si disconosce la tutela nei confronti di coloro i quali rischiano nei paesi d’origine trattamenti disumani, degradanti o in conflitto con i loro diritti democratici. Si istituiscono invece “permessi speciali”, che variano dal permesso per cure mediche o per gravi maltrattamenti e/o sfruttamento (di validità annua fino al permanere delle condizioni ma convertibile in permesso di lavoro o di studio), al permesso per calamità naturali, valido solo su territorio nazionale per 6 mesi e non convertibile in un permesso di lavoro o di studio. A questi si aggiunge un permesso di soggiorno per chi si distingue per atti di valore civile, della durata di due anni e non rinnovabile.

La limitazione del rinnovo dei permessi, presentata come mezzo per garantire che non stazionino in territorio italiano persone che hanno perso il diritto a risiedervi, comporta nei fatti l’emarginazione, con la logica conseguenza che chi godrà di questi permessi speciali non sarà nei fatti motivato a essere contribuente dello sviluppo economico e sociale di una comunità di cui farà parte per un periodo di tempo ridotto. Allo stesso modo agisce l’articolo 13, che esclude il richiedente asilo dal diritto alla residenza nel comune in cui abita: la mancata residenza, infatti, comporta l’impossibilità di accesso al mondo del lavoro, rendendo impossibile l’assunzione regolare, così come l’esclusione da ogni tipo di formazione scolastica, dall’apprendimento della lingua italiana ai percorsi di specializzazione.

Ulteriore ostacolo al percorso integrativo è dato dall’abolizione del Sistema dell’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati (Sprar), istituito nel 2002, che rimarrà attivo solo per minori non accompagnati e titolari di protezione internazionale. Il sistema verrà sostituito da Cara e Cas, ossia centri per l’accoglienza straordinaria, il cui orientamento non va in direzione di un’integrazione utile dei migranti, bensì del mero stazionamento di persone, limitate nei diritti di movimento, ricerca di lavoro, formazione scolastica e soprattutto autodeterminazione. Con la scusa di contrastare l’operato, senza dubbio non sempre corretto, delle cooperative cui lo Stato aveva delegato la gestione dei flussi migratori irregolari, anziché istituire un sistema di vigilanza volto a una trasparenza delle spese e a una garanzia dei fondamentali diritti degli ospiti di questi centri, si aboliscono insomma i diritti stessi, si tagliano le spese ricusando ogni utilità di investimento e si creano spazi in cui si nega ogni valore allo scambio interculturale e all’integrazione.

L’articolo 10, comma 3 della Costituzione italiana.

La criminalizzazione del migrante nel nuovo Decreto Sicurezza

Abolendo le politiche di integrazione, il Decreto sicurezza e immigrazione porta, nei fatti, al formarsi di una situazione di maggior instabilità e insicurezza sociale: le analisi storiche e sociologiche hanno infatti più volte dimostrato (spesso proprio con italiani migranti come principali soggetti d’indagine) che marginalizzazione e criminalità sono fenomeni che spesso si intrecciano. La risposta del Decreto è quella di incrementare la morsa restrittiva nei confronti di chi non rispetta la Legge: reati quali lesioni personali gravi, furto aggravato, con scasso o in abitazione, minaccia o violenza a pubblico ufficiale saranno infatti puniti con la revoca della protezione internazionale per chi sia titolare di tale diritto e l’accelerazione dei tempi del procedimento per chi sia richiedente. Se superficialmente l’ostracismo sociale può apparire come giusta conseguenza del mancato rispetto delle regole della comunità, di fatto il provvedimento pone in questione aspetti tanto etici, quanto pratici.

Di fondamentale importanza è il risvolto teorico ed etico della stretta sulla concessione del diritto di asilo. La nuova norma, infatti, pone sullo stesso piano il rispetto delle leggi in vigore all’interno di uno Stato e la tutela di diritti umani che dovrebbero essere universalmente riconosciuti e che sono appunto materia per il diritto d’asilo; come dire che chi non rispetta la legge è giusto venga privato di diritti inalienabili all’essere umano. Ma anche da un punto di vista meramente pratico, la riduzione dei tempi di attesa è più un’utopia che una possibilità fattuale. Chiunque abbia avuto esperienza degli iter che coinvolgono le richieste di asilo sa perfettamente che in Italia, sebbene la legge preveda che il richiedente svolga il colloquio con la Commissione Territoriale, posta a stabilire il suo diritto o meno allo status di rifugiato, entro 30 giorni dalla data di deposito della domanda e riceva l’esito circa 3 giorni dopo tale colloquio, di fatto i tempi di attesa arrivano a un anno/un anno e mezzo. Durante questo periodo il richiedente dispone di un permesso teoricamente a rinnovo semestrale, nella realtà spesso scaduto, ma considerato valido quantomeno ai fini del diritto alla presenza sul territorio, sebbene inadatto all’accesso a mondo del lavoro e dell’istruzione.

Per sveltire le procedure, la soluzione avanzata è quella di stilare una lista di “Paesi sicuri” e “Aree sicure” all’interno degli Stati, cosicché il richiedente proveniente da tali zone, la cui domanda sarà teoricamente presa in considerazione in tempi ridotti (14 giorni dal deposito della domanda, con esito entro 2 giorni), dovrà dimostrare di avere gravi motivi per non rientrare al proprio Paese o quantomeno in un’area del proprio Paese ritenuta sicura. Così impostata, la domanda si scontrerà con sempre minori possibilità di accoglimento, in quanto molti richiedenti partiranno da una posizione di richiesta illegittima, che dovranno argomentare con prove, non così facili da reperire, oppure si troveranno ad affrontare l’ennesimo ricollocamento in aree che di fatto non sono quelle d’origine, bensì limitrofe a quelle da cui fuggono. A ciò si aggiunga che interpretare la politica di alcuni Paesi di provenienza dei richiedenti asilo non è così semplice: moltissimi Stati dei continenti asiatico e africano, infatti, pur essendo paesi con cui l’Europa ha stabilito un dialogo politico e trattati economici, che fanno sì che ai nostri occhi appaiano come regioni sicure, di fatto vivono una politica interna non identificabile come democratica. Basti pensare, ad esempio, alle deboli democrazie di paesi come il Kenya (investito da guerriglia civile a ogni elezione per via dei brogli elettorali), il Togo (guidato dalla famiglia Gnassingbé dal 1967), la Guinea Equatoriale (in balia di Teodoro Obiang Nguema Mbasogo dal 1979, seguito alla dittatura del primo presidente post-coloniale nonché suo zio); oppure i numerosi stati in cui è illegale l’omosessualità, dal Bangladesh (in cui è previsto l’ergastolo) alla Nigeria (fino 10 anni di carcere), o addirittura l’omofilia, considerata reato d’opinione.

La cittadinanza dei richiedenti asilo negli Stati dell’Unione Europea, secondo quadrimestre 2018.

Conseguenza diretta del restringersi delle possibilità di asilo e della rimozione del Sistema d’accoglienza  diventa la presenza sul territorio italiano di un sempre maggior numero di individui sprovvisti di documenti che ne legittimino il soggiorno. Ad oggi si calcola che gli immigrati irregolari in Italia siano all’incirca 500˙000 e che il paese sia in grado di rimpatriarne 7˙000 all’anno. Al fine di potenziare le misure di rimpatrio, recita l’articolo 6 del Decreto, il Fondo[…] è incrementato di 500.000 euro per  il 2018, di 1.500.000 euro per il 2019 e di 1.500.000 euro per il 2020. Problema non risolto è il fatto che, per quanto denaro l’Italia decida di investire nei rimpatri, non sussistono accordi internazionali con i Paesi d’origine, eccezion fatta per la Tunisia, e quindi mancano i presupposti politici per attuare quanto disposto per legge.

Del resto, proprio queste carenze nella comunicazione politica internazionale sono stati in passato alla base del problema del sovraffollamento dei Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR), il cui lavoro viene ulteriormente incrementato dal Decreto 480. Da un lato, infatti, nei casi di difficoltà di verifica dell’identità dei richiedenti, si dispone la possibilità di prolungare la permanenza, stabilita a un massimo di 30 giorni, negli hotspot e nelle strutture di prima accoglienza (CAS e CARA), ricollocandoli per ulteriori 180 giorni in CPR e, quindi, su disposizione del Giudice di Pace, in “strutture  diverse e idonee  nella disponibilità dell’Autorità  di pubblica sicurezza”. Dall’altro si raddoppiano i tempi di possibile permanenza in CPR, da 90 a 180 giorni, stanziando a tal fine “1.500.000 euro per l’anno 2019, per i quali si  provvede  a valere sulle risorse  del Fondo Asilo, Migrazione  e Integrazione (FAMI), cofinanziato  dall’Unione Europea per il periodo   di programmazione 2014-2020″.

Numeri dell’accoglienza in CAS e CARA rispetto agli SPRAR; da sempre si evidenzia un sovraffollamento dei Centri di prima accoglienza rispetto al Sistema dell’accoglienza.

Una disposizione che non tiene minimamente conto delle numerose segnalazioni dell’inadeguatezza strutturale e funzionale di questi centri nel garantire dignità e diritti.  Lungi dall’essere aree di accoglienza, queste strutture rappresentano piuttosto centri di detenzione, i cui ospiti sono privati della loro libertà personale, pur non avendo di fatto compiuto alcun reato.

Tutta un’altra cosa. I ManuFatti, l’anima ecologica dello scarto

Vedere un lampadario fatto con un aspiretto degli anni Cinquanta può essere spiazzante. Come pure un semplice portatovaglioli in vinile. Emanuele Gabusi se la ride mentre mi osserva girare in questa stanza colma dei suoi ManuFatti. «Vedi, tutto parte dalla sensazione di fastidio che mi dà lo spreco. Io ho un diploma di tecnico delle Industrie Meccaniche, per cui montare e smontare è sempre stato il mio mondo». Siamo alla GESV Motor, a Flero (BS), azienda che produce pezzi meccanici fondata dal padre di Emanuele. «L’occhio me lo sono fatto in officina: solo lavorando per l’industria puoi renderti conto delle montagne di oggetti buttati. Ho imparato che un oggetto può avere funzioni diverse da quelle per cui è stato fabbricato. Inoltre, sono stato sempre molto sensibile all’aspetto ambientale. Il fatto che si buttassero via tutte quelle cose per produrre un pezzo nuovo, non l’ho mai sopportato. Ancora oggi mi chiedo perché bisogna costruire una sedia dal nulla, se possiamo utilizzare tutto quello che c’è già».

ManuFatti - PequodRivista
Emanuele Gabusi nella sua officina, la GESV Motor di Flero, in provincia di Brescia.

ManuFatti - PequodRivista

 

Dalla produzione meccanica alla creatività del riuso, grazie a un’esperienza quotidiana tra oggetti di uso comune. «Ma non è stato così semplice. Abbiamo attraversato il 2008, la crisi, la cassa integrazione per tutti. Sono stati anni duri quelli, in cui mi sono trovato con poco lavoro e molto tempo a disposizione», confessa Emanuele. «Pensa che dovevo comprare una lampada e allora mi sono detto “perché comprarla se la posso costruire?”. Così ho creato il primo oggetto con materiali accumulati in magazzino». È proprio nell’anno del boom della crisi economica che Emanuele dà un nome all’idea di recuperare utensili rotti o scartati e crearne elementi di design: nasce il progetto “i ManuFatti”, ovvero gli oggetti fatti da Manu.

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Alcune delle prime lampade realizzate da Emanuele Gabusi con oggetti di scarto.

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«Gli oggetti sono sempre piaciuti, mi attira la loro forma. Li guardo, li studio, prendo appunti su come riutilizzarli. Scrivo migliaia di foglietti, schizzi a penna. A volte, mi sveglio di notte con l’idea di cosa farne».  Come un’idea schizzata su un foglio, come un abbozzo appena accennato, a volte le esperienze più importanti nascono senza una spiegazione apparente, poi si evolvono e tutto diventa via via più chiaro. «In quel periodo ho realizzato il mio primo oggetto di design: una poltrona fatta con un bidone dell’olio esausto. L’ho ritagliato in cima e rivestito il bordo con un sacco di juta. Nel 2010 due ragazze che gestivano uno storico locale di Brescia, Le Tits, hanno organizzato uno “svuota-cantina” e mi hanno chiesto di portare qualcosa. Ho portato questa poltrona perché volevo liberarmene e invece è stato un vero successo: poco dopo mi hanno proposto di fare una mostra personale e in tre mesi ho rivoluzionato il loro locale». A stretto giro arrivano la selezione presso un concorso a Roma con il Ventila Fiore, una lampada nata dal montaggio di un ventilatore e di un vaso, e addirittura un articolo su Glamour per gli orecchini fatti con le palettine per il gelato. «So che può sembrare incredibile: il riutilizzo dei materiali per creare arredi di design oggi va di moda, ma allora era un mondo completamente in ascesa».

 

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Le poltrone ricavate dai bidoni dell’olio esausto riutilizzate durante un concerto di Nicolò Fabi presso la Latteria Molloy di Brescia.
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In alto a destra, gli orecchini realizzati con palettine di plastica per il gelato compaiono sulla rivista “Glamour”.

Nel tempo cresce la visibilità di una produzione artigianale e creativa così poco praticata, nascono nuove idee da sviluppare in oggetti sempre più accurati e ricercati, e così gli scarti accumulati in casa cominciano a non bastare più. «Ho cominciato a girare ovunque ci fossero scarti o pezzi rotti: aspettavo fuori dalle isole ecologiche per chiedere alle persone di poter vedere i loro rifiuti prima che li buttassero, andavo nei solai e nelle cantine di amici». Emanuele racconta divertito di una nuova curiosità ma anche di un’esigenza pratica: «La mia tecnica non era più sufficiente, per realizzare un nuovo progetto dovevo infilarmi nei laboratori dei falegnami, dei vetrai, dei tappezzieri… e non ti nascondo che alcuni artigiani erano diffidenti!».

Tutto questo lavoro è stato notato e non sono mancati i riconoscimenti, come la partecipazione al FuoriSalone di Milano nel 2012, in un allestimento dedicato a start-up e designer con un’attenzione particolare alle tematiche ambientali. Sono gli anni frenetici in cui i ManuFatti approdano in numerosi eventi sul territorio bresciano e nazionale, ma la sua più grande soddisfazione è un’altra: «I miei ManuFatti sono diventati sempre più creativi ed è diventato sempre più evidente al pubblico che gli oggetti non hanno limite di utilizzo, che il loro recupero in nuove forme è pressoché infinito». Per questo ricorda come uno degli eventi più creativi la mostra i SettiManu Enigmistici. La locandina è un cruciverba che richiama la Settimana Enigmistica, le opere fotografiche consistono in rebus composti da oggetti riciclati con parole prese dal gioco Scarabeo: le soluzioni dei giochi, ovviamente, sono sempre a tematica ambientale.

iSetteManuEnigmistici - i ManuFatti -PequodRivista
La locandina della mostra i SettiManu Enigmistici, presentata in diverse località della provincia bresciana.

Prima ancora della creatività, l’ecosostenibilità, che si traduce nel riuso dei pezzi che altrimenti sarebbero rifiuti, è la componente caratteristica dell’attività di Emanuele: il design dell’oggetto ha un’anima ecologica. E di questo Emanuele parla a lungo. Mi spiega la sua ultima iniziativa, i laboratori di riuso: «Quest’anno ho iniziato a collaborare con un’associazione di Rodengo Saiano (BS), Il Baule della Solidarietà, organizzando corsi sul riciclo di oggetti per bambini e ragazzi. Mostro recupero delle cose di tutti i giorni e lo faccio tramite esempi pratici: prendiamo un sacco e c’infiliamo tutti i rifiuti che producono durante la giornata, da quando fanno colazione alla cena. Buttiamo tutto lì dentro, i tubetti del dentifricio, i cartoni dei biscotti, penne consumate… non ti dico quante cose vengono fuori! Poi proviamo a riutilizzare questi oggetti per dare una vita nuova». Mi immagino i ragazzi sommersi da chili e chili di scarti quotidiani. «Eh sì, ma è molto istruttivo per loro vedere queste cose. Vedi, il volontariato mi ha sempre attirato, perché mi permette di raccontare l’importanza dell’ecosostenibilità e condividere le idee alla base del riuso».

ManuFatti e Baule della Solidarietà - PequodRivista
Alcuni scatti da uno dei laboratori di riuso organizzati da Emanuele Gabusi in collaborazione con l’associazione di volontariato Il Baule della Solidarietà di Rodengo Saiano (foto: Alice Laspina).

Oggi il lavoro nell’azienda familiare è aumentato, la crisi sembra essersi ridotta. «Ma la passione chiama ancora. Il piacere di recuperare gli oggetti, la sfida di trasformarli in altro. Come quell’oggetto laggiù», dice indicando una delle sue creazioni nella stanza. «È uno scaldaletto. Ne ho fatto un porta spezie per la cucina: dove c’è il rotolo ho messo un mattarello».

Lo guardo girare tra tutti quegli oggetti, prenderli uno a uno. Su una scrivania, tra gli schizzi a penna di un mobile, vedo gli orecchini fatti con le palettine di gelato. Li sfioro, sono colorati di giallo, viola e blu. Conosco una persona a cui starebbero bene, penso e dico. «Prendili» mi dice Emanuele e me li mette in mano. «Emanuele…», provo a protestare. «Lascia stare – dice lui – devo solo trovare una scatola regalo».
Mentre lui cerca tra i cassetti, io mi avvicino alla finestra. Vedo un furgone attraversare la strada, un cartellone pubblicitario proiettare un’ombra storta. È una zona industriale qualsiasi, di un paese che non avrei mai pensato di visitare, ma vi posso giurare che da questa stanza il mondo là fuori è tutta un’altra cosa.

In copertina: il Ventila Fiore, la lampada realizzata con un ventilatore e un vaso, uno degli oggetti di design realizzati da Emanuele Gabusi e presentati al FuoriSalone di Milano (2012). (Foto: Dal sito www.imanufatti.it)

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Weekend europei all’insegna del low cost: dove andare per spendere davvero poco

State pensando di organizzare un weekend in viaggio, ma temete che i vostri risparmi possano non bastare? Pequod ha selezionato per voi due piacevoli mete europee da visitare con un budget ridotto!

Si tratta non solo di luoghi raggiungibili grazie ai sempre più numerosi biglietti low cost, ma soprattutto Paesi in cui il turismo, sebbene in continuo aumento, non è ancora arrivato a intaccare un costo della vita particolarmente basso e in cui le attrazioni storico-artistiche sono accessibili al portafoglio di chiunque, se non addirittura gratuite.

Vista di Porto dal Ponte Dom Luis I

Se a mancarvi è il rumore delle onde che si infrangono e il profumo di salsedine,  è giunta l’ora di visitare i confini occidentali d’Europa! Sebbene non balneabile per gran parte dell’anno, l’Oceano Atlantico regala una vista senza fiato, con quell’orizzonte privo di limitazioni che davvero fa pensare alle fine del mondo. Dalla regione meridionale dell’Algarve fino a Viana do Castelo a nord, il Portogallo offre una sequela di spiagge, praticamente tutte libere; tra queste, la spiaggia che ospita il Faro Molhe do Douro offre un suggestionante spettacolo: qui infatti l’Oceano forma onde alte e forti che creano un muro d’acqua che va e viene tutt’attorno al faro.

Faro Molhe do Douro

Il viaggio per raggiungerla è esso stesso un’esperienza allettante: il tram 1, infatti, dal centro della città di Porto percorre tutto il lungo fiume, fino alla foce da cui il Douro si getta in Oceano aperto. Non solo il paesaggio visibile dai finestrini, ma soprattutto il tram stesso sono tra le attrazioni imperdibili della città di Porto, che conserva tre storiche linee del tram, risalenti al 1872; nonostante il prezzo non sia propriamente economico (3€ a tratta) e il tragitto sia percorribile anche a piedi, l’impressione di essere catapultati in un’altra epoca tra lo sferragliare delle rotaie e l’ingegneria semplice ma geniale di quei sedili in legno, che possono adattarsi alla direzione del tram spostando lo schienale, basta a motivare lo sfizio.

Tram storico di Porto, linea 1

Tanto più che moltissime delle attrazioni di Porto, già di per sé monumento a quell’estetica decadente delle città arroccate su argini scoscesi e attraversate da viottoli stetti che si arrampicano su continui dislivelli, sono per lo più ad accesso gratuito. Giusto per fare un paio d’esempi: in pieno centro storico si erge la stazione di São Bento, le cui pareti sono un’affascinante vetrina dell’antichissima tradizione artistica degli azulejos, le piastrelle bianche e blu importate dalla cultura araba, che qui riproducono, accanto a scene di vita bucolica e mercantile (i due pilastri dell’economia di Porto), alcuni dei più importanti eventi della storia portoghese; monumento al modernismo è invece il ponte su due livelli di Dom Luis I, realizzato dall’ingegnere belga Théophile Seyrig, collaboratore di Eiffel, tra il 1881 e il 1886, che collega le due parti della città, Porto e Vila Nova de Gaia.

Stazione di São Bento, particolare che raffigura Egas Moriz al cospetto di Alfonso VII
Ponte Dom Luis I visto da Vila Nova de Gaia

Non degno di minor considerazione è il prezzo decisamente contenuto dei pasti, basti pensare che la francesinha, panino tipico della città, con un prezzo di 5/7€ costituisce un pasto più che completo, stratificando pane, vari tipi di carne (tra cui salame, salsiccia e wrustel), uova e formaggio fuso, il tutto ricoperto da salsa alla birra. Ancora più gustosi sono i caratteristici pasteis de nata, tortini di sfoglia in cui cuoce una dolce crema alle uova; accompagnati a caffè o cappuccino, che in Portogallo sono preparati davvero all’italiana, sono una colazione gustosa, nutriente ed economica: le nata si vendono, infatti, a 1€ a pasta, mentre un espresso, almeno nei bar non troppo turistici, oscilla tra i 60 e i 90 centesimi.

 

Vista su Sofia dall’alto dei tetti

All’altro capo del continente, una città che offre specialità culinarie tanto varie e appetitose quanto economiche è Sofia, in Bulgaria, annoverata tra le più economiche capitali europee, anche grazie al vantaggioso cambio euro/lev: 1 lev bulgaro equivale, infatti, a 0,51€. Numerosissimi sono i ristoranti, allestiti nello stile ricco di oggettistica, colori e ricami che è tipico dei paesi dell’est, in cui vengono serviti piatti tradizionali, che non lesinano nell’uso di aglio e olio, a cifre che si aggirano tra i 3 e i 6€ a portata; ancora più contenuto il prezzo degli alcolici: 1,50€ per una birra.

Cena a base di piatti tipici

Il fascino della città si dona gratuitamente al visitatore, che qui si trova immerso in secoli di storia che dall’VIII secolo a.C., epoca di fondazione di Sofia, si stratificano arricchendo il paesaggio con stili sempre nuovi; impossibile, ad esempio, restare indifferenti al fascino dei zhaltite paveta, i marciapiedi di colore giallo che guidano i passi del turista dentro il centro storico e lo trasportano nel secolo scorso, all’epoca in cui lo zar Ferdinando prendeva in moglie Maria Luisa di Parma e con lei sfilava su questo tappeto dorato.  Non meno affascinanti gli edifici che su questi viali si dispongono: dalle facciate liberty delle ambasciate di Tsar Osvoboditel agli scavi archeologici della Rotonda di San Giorgio, la chiesa paleocristiana datata attorno al 400, che si nasconde tra i grandi palazzi degli uffici pubblici della città.

Rotonda di San Giorgio [ph: Ann Wuyts CCA-SA 2.0 by Wikimedia Commons]
Poco a nord della Rotonda, si trova il Largo, costruito negli anni ’50 al fine di diventare il centro nevralgico della città, è oggi uno straordinario esempio di cultura sovietica, seppur privato della statua di Lenin, che un tempo troneggiava proprio al centro dell’attuale Piazza dell’Indipendenza, e della stella rossa che svettava sull’ex Casa del Partito. Dalla piazza si arriva a uno degli spazi che più richiamano il sincretismo, non solo storico e culturale, ma anche e soprattutto religioso, che è uno dei tratti che più restano impressi della capitale bulgara: distanti tra loro pochi metri, infatti, si incontrano la chiesa ortodossa della Santa Parascheva dei Balcani, risalente all’epoca medievale ed eretta sopra ecatombe romane, la Moschea di Banya Bashi e la vicina Sinagoga, dietro le quali spicca il curioso Palazzo dei Bagni Pubblici, oggi trasformato in Museo Storico, che si affaccia su un giardino in cui giocano zampilli di acque termali da cui è possibile rifornirsi gratuitamente.

Bagni Minerali Pubblici [ph: Monika Doncheva CCA-SA 4.0 by Wikimedia Commons]

Ex Casa del Partito, sul cui tetto al posto della stella rossa svetta la bandiera nazionale, affacciata sul Largo [ph: Sami C CCA-SA 2.0 by Wikimedia Commons]
Luogo di culto a spiccare per la sua imponenza nella città è, però, senza dubbio la Cattedrale ortodossa, in stile neobizantino, di Alexander Nevskij , le cui cupole azzurre e dorate cambiano sfumatura con lo spostarsi del sole. Del resto, proprio le icone bizantine sono protagoniste tanto degli affreschi di diversi palazzi, quanto dei mercatini che popolano le strade di Sofia e che offrono uno spettacolo di colori in cui l’oro delle aureole dei santi si accosta all’argento della paccottiglia sovietica e ai caldi colori delle lane ricamate e delle terrecotte decorate; non solo un’immersione nel panorama bulgaro, ma anche un’occasione d’incontro con la popolazione locale, che fino a oggi conserva l’abitudine di acquistare sui banchetti spezie, frutta e verdura.

Cattedrale di Alexandr Nevskij, affacciata su una piazza dalla tipica pavimentazione gialla [ph: Hans Birger Nilsen CCA-SA 2.0 by Wikimedia Commons]
In copertina: vista di Porto, affacciata sul fiume Douro, da Vila Nova de Gaia, comune nel distretto di Porto.

Due consigli più uno su qualche posto da visitare spendendo poco

Si dice che i soldi meglio spesi sono quelli spesi per viaggiare e certo è innegabile che l’esperienza della scoperta di nuove terre sia un piacere impagabile; tuttavia, conciliare risorse economiche e itinerari non sempre è facile.

Pequod ha chiesto qualche suggerimento a chi del viaggio a fatto il proprio stile di vita: con l’aiuto di Elisa e Michelangelo, travel blogger di professione, vi raccontiamo di qualche meta che, forse, potrebbe fare al caso vostro.

«Qualcuno ci definisce nomadi digitali, noi crediamo semplicemente di essere persone che amano i viaggi alla follia e che non vogliono ridurli a poche settimane all’anno – mi spiega Michelangelo – per questo abbiamo fatto in modo di organizzare la nostra vita per viaggiare il più possibile, diciamo 365 giorni all’anno.

Lavoriamo da remoto: ci occupiamo di digital marketing, e lo facciamo da ovunque nel mondo. Non abbiamo bisogno di un ufficio, l’ufficio ci segue ovunque. Il nostro sito, 2backpack, sta diventando un vero e proprio lavoro; nel frattempo abbiamo un sacco di clienti che provengono da ogni parte d’Italia che gestiamo mentre siamo in giro per il mondo».

Alla domanda su quali siano i posti migliori e quali quelli peggiori in cui sono stati, Michelangelo non ha dubbi: «Io da sempre amo l’India, è una passione viscerale che trascende le difficoltà innegabili a cui il paese ti costringe; Elisa, invece, ultimamente si è innamorata perdutamente dell’Albania. I peggiori? No, non ne esistono. Ogni luogo ha un suo perché, per uno o più motivi».

L’India è un ottimo esempio di Paese da visitare spendendo poco: città come Mumbai, Calcutta o Nuova Delhi e monumenti come il Taj Mahal o il Tempio D’Oro, per fare degli esempi, sono solo alcuni dei motivi che dovrebbero spingervi a visitarla. Elisa e Michelangelo, sul loro sito, offrono qualche riferimento pratico sulle spese: «L’India è un paese molto economico. Si paga in rupie: il valore della rupia si aggira intorno agli 0,013 euro. Vale a dire che 70-75 rupie equivalgono a un euro. Una camera doppia in albergo economico (con standard decisamente indiani) vi costerà tra i 7 e i 10 euro (alcuni stati son più economici di altri), che arrivano a 14-18 euro se volete l’aria condizionata. Ovviamente potete salire di prezzo, e quindi qualità, quanto volete, arrivando a spendere anche diverse centinaia di euro a notte. Mangiare per strada o in un ristorantino alla buona vi costerà 1-2 euro a testa. Una cena di livello leggermente superiore si aggira sui 3-4 euro, al massimo. I trasporti costano pochissimo: nelle città più grandi il biglietto per gli autobus urbani costa circa 15-20 centesimi di euro. Per spostarvi di città in città spenderete sui 2 euro per circa due ore di viaggio».

Il Paese, però, e questo lo spiegano bene anche Elisa e Michelangelo su 2backpack, presenta problemi non di poco conto, come la scarsa igiene e il rischio di incorrere in malattie pericolose. «Vista la grandezza del Paese anche il livello di servizi cambia di zona in zona: il nord e la zona orientale sono più povere e quindi un po’ più impegnative, mentre il sud si sta sviluppando molto grazie alle aziende di IT che ne stanno colonizzando le città principali», viene spiegato sempre sul sito.

Restando in Asia, un altro Paese da visitare spendendo poco è sicuramente la Thailandia. «Ovunque si legge che negli ultimi dieci anni il turismo di massa ha influito sui prezzi che nel Paese si sarebbero alzati vertiginosamente. Non è vero. O meglio, lo è solo nelle mete turistiche, le isole più conosciute. Provate ad andare in regioni tipo l’Isaan (la Thailandia del nord-est, ndr) e vi accorgerete che i prezzi sono davvero bassissimi e il livello medio di alberghi, ristoranti, trasporti pubblici è davvero elevato. Servizi ottimi, a prezzi bassi. Un rapporto qualità prezzo del genere è raro.

Come contenere i costi? Fermatevi molto tempo in ogni singola tappa. Non cambiate ogni giorno, non ne vale la pena: non fatevi prendere dalla bulimia di vedere, vedere, vedere. Vivete un paese e una città. Spenderete meno e ve la godrete di più», mi spiega sempre Michelangelo. Per fare alcuni esempi concreti, facendo alcune ricerche su internet, possiamo trovare camere molto belle a poche decine di euro per notte. E se si è fortunati, qualcosa si trova anche a Bangkok, magari anche in centro. Lo stesso discorso vale anche per il cibo: lo street food è ovunque e a prezzi davvero bassissimi; quindi, perché non provarlo?

Qualche suggerimento anche per chi non volesse volare dall’altra parte del mondo, ma restare vicino casa: l’Europa ci offre infatti innumerevoli esempi di città che, almeno una volta nella vita, vale la pena visitare; tra queste Amsterdam. La città non è propriamente economica, ma con qualche piccolo accorgimento, anche chi vuole spendere poco potrà godersela. A questo proposito Michelangelo mi dà qualche consiglio «Se non potete permettervi di andare in vacanza in un posto provate ad andarci per lavorare o a fare qualcosa di simile. Siti come Workaway, per esempio, danno la possibilità di lavorare part-time in cambio di vitto e alloggio. Anche l’house sitting può essere un’ottima idea: dovrete prendervi cura di una casa (e di animali e piante) quando i proprietari sono fuori per vacanza o lavoro. E in questa casa potrete dormirci gratuitamente».

Per quanto riguarda Amsterdam, prima di tutto, bisogna dire che, se si vuole spendere poco, l’ostello è d’obbligo e se proprio si vuole cercare il risparmio più assoluto, bisogna optare per delle stanze condivise. Poi, come suggerisce il sito viviamsterdam: «Se parlate bene inglese, tour gratuiti sono uno dei modi migliori per esplorare Amsterdam senza alleggerire troppo il portafoglio. Generalmente durano circa tre ore e sono offerti da esperte guide locali che amano condurvi attraverso luoghi emblematici semplicemente in cambio di una mancia». E per il mangiare? Anche in Olanda ci viene in aiuto lo street food con le sue immancabili patatine fritte servite in tutte le salse (letteralmente), o gli innumerevoli dolci che, per chi visita Amsterdam, è quasi un obbligo assaggiare. Anche per quanto riguarda la mobilità Amsterdam è assolutamente all’avanguardia: per chi non avesse voglia di spostarsi con i mezzi pubblici, sono quasi sicuro che, ovunque voi alloggiate, ci sarà un bike sharing dietro l’angolo dove, a prezzi più o meno contenuti, potrete noleggiare una bici e girare la città in lungo e in largo. Tanto le piste ciclabili non mancano di certo, fidatevi.

Fotografie dal sito 2backpack

Consigli per un viaggio low-cost in Giappone

Il Giappone è da sempre una delle mete preferite di noi italiani. Siamo stati sempre affascinati da questa cultura così diversa dalla nostra, dai paesaggi da cartolina e dalle continue innovazioni tecnologiche arrivate dal paese del Sol Levante. Ma il Giappone ha anche la fama di essere uno dei paesi più costosi al mondo, quindi prima di sceglierlo come destinazione per un viaggio, ci si chiede: quanto mi costerà? Quest’articolo raccoglie una serie di suggerimenti per cercare di contenere al massimo le spese durante il vostro viaggio in Giappone, senza rinunciare però al comfort e alla scoperta delle bellezze che questo paese offre.

Kinkaku-ji o Tempio del Padiglione d’Oro, a Kyoto; costruito nel 1397 come villa per lo Shōgun Ashikaga Yoshimitsu in un giardino progettato secondo i canoni del periodo Muromachi e affacciato sul lago Kyōko-chi, fu convertito a tempio nel 1408 e custodisce nel suo padiglione le reliquie del Buddha.

Il volo e i trasporti

La maggior parte del budget per il viaggio in Giappone sarà sicuramente destinato al volo e ai trasporti, ma si può risparmiare qualcosina se si prenota il volo con largo anticipo e se si approfitta delle offerte relative ai trasporti locali.

Le stagioni più popolari e durante le quali i voli e gli alloggi hanno un prezzo più alto sono sicuramente quella della fioritura dei ciliegi (fine Marzo – inizio Aprile) e quella dei Momi-ji, quando i parchi giapponesi si colorano del tipico rosso delle foglie d’autunno (da metà Novembre a inizio Dicembre). Se però acquistate il biglietto aereo mesi prima della partenza, dovreste riuscire a spendere tra i 450 e i 600 euro. Vi consiglio di dare un’occhiata al sito di Skyscanner, che confronta i prezzi dei voli di diverse compagnie, per farvi un’idea di quanto costa un viaggio in Giappone, in base alle vostre date preferite.

Tempio Tofuku-ji, a Kyoto; costruito nel 1236, durante l’era Kamakura, su ordine del cancelliere imperiale Kujo Michiie, il quale affidò la progettazione del giardino a Shigemori Mirei, che applicò lo stile zen a scacchi di muschio e pietre, conservato fino a oggi nei giardini centrale e settentrionale, circondati da circa 2000 aceri.

Per quanto riguarda i trasporti in Giappone, mi sento di consigliare vivamente il JR Pass, un abbonamento ai trasporti della linea JR che include anche l’utilizzo dei treni veloci giapponesi. Può essere acquistato esclusivamente dall’estero sul sito Japan Rail Pass e costa 222, 354 e 453 euro per rispettivamente 1, 2 e 3 settimane. Il costo può sembrare abbastanza elevato, ma in realtà alla fine dei conti il JR Pass è davvero conveniente: basti pensare che un viaggio di sola andata in Shinkansen (treno veloce) da Tokyo a Kyoto costa 110 euro…circa la metà di quanto spendereste per viaggiare in lungo e in largo per il Giappone per un’intera settimana! Il JR Pass può essere ritirato direttamente in aeroporto e include anche il biglietto del Narita Express (che costa normalmente 3000 yen, pari a 24 euro), il treno che collega l’aeroporto con la stazione di Tokyo.

Ci sono ovviamente altre opzioni per i trasporti se decidete di non spostarvi molto da Tokyo o da Kyoto: le carte ricaricabili Suica e Pasmo offrono piccoli sconti sui biglietti della metro, il Kansai Thru Pass vi permette di viaggiare con i treni locali in Kansai (Kyoto, Osaka, Himeji, Nara), e gli autobus della compagnia Be-Transse vi portano da Narita a Tokyo per soli 1000 yen (8 euro).

Vista di Tokyo dall’alto.

L’alloggio

C’è davvero tanta scelta circa dove alloggiare: i classici alberghi; le ryokan (locande) tradizionali, il cui prezzo spesso include anche la colazione e la cena; i capsule hotel; gli Airbnb. Per esperienza personale, vi consiglio di prenotare tramite Airbnb, che vi da la possibilità di scegliere degli alloggi un po’ diversi dal solito e allo stesso tempo vi fa risparmiare rispetto all’albergo o alla ryokan. Con Airbnb, io e mio marito abbiamo avuto la possibilità di soggiornare in una casa tradizionale a Hiroshima, con tanto di tatami e futon, in un loft super moderno ad Asakusa, uno dei quartieri più antichi di Tokyo, e in una casa a due piani in stile giapponese a Kyoto. Il tutto per una media di 30 euro a testa a notte. Noi abbiamo sempre prenotato l’intera casa, ma i prezzi scendono ancora se vi va di prenotare una stanza privata all’interno di un appartamento. In questo modo avrete anche la possibilità di conoscere qualcuno del posto o fare amicizia con altri turisti. E una dritta importante: cercate di prenotare un alloggio che includa il Pocket Wi-fi, un modem portatile che potrete portare in giro con voi; riuscire a utilizzare Google Maps non ha davvero prezzo!

 

Attrazioni turistiche

La maggior parte delle attrazioni turistiche di Tokyo sono a cielo aperto e gratuite: alcuni esempi sono il tempio Senso-ji nel quartiere di Asakusa, la via pedonale Takeshita Dori ad Harajuku, il Parco di Ueno, i giardini del Palazzo Imperiale. La situazione è un po’ diversa a Kyoto, dove bisogna pagare un biglietto di circa 4 euro per entrare in ogni tempio, esclusi il fantastico Fushimi Inari Taisha e la Foresta di Bambù di Arashiyama.

Statue raffiguranti i discepoli di Buddha nella foresta di Bambù di Arashiyama (Montagna della Tempesta), un’area verde a ovest di Kyoto, destinata a passeggiate tra giardini e templi, ma che ospita anche attrazioni quali la villa dell’attore Denjiro Okochi e l’eremo del poeta Mukai Kyorai.

Se volete vedere Tokyo dall’alto senza dover pagare il biglietto per salire sulla Tokyo Tower o sul Tokyo Skytree, provate ad andare al Tokyo Metropolitan Government Building a Shinkuju (45esimo piano) oppure al Yebisu Garden Place a Ebisu (38esimo piano). Da qui potrete godere una vista che include anche la Tokyo Tower!

 

Cibo e dintorni

Ed eccoci arrivati a ciò che adoro del Giappone: il cibo! Sorprendentemente mangiare al ristorante non costa molto in Giappone. Quasi tutti i ristoranti hanno il menu fisso a pranzo durante i giorni feriali, che costa circa la metà dello stesso menu a cena. Quindi se volete provare un ristorante abbastanza ricercato senza spendere troppo,  andateci a pranzo e chiedete per il lunch set.

Menu Teishoku, di solito composto da un piatto principale, riso, sottaceti, zuppa e una serie di altri piattini a scelta dello chef.

Ci sono poi una serie di catene di ristoranti frequentatissime anche dai locali che sono specializzate in un particolare tipo di piatto e per questo motivo riescono ad offrire dei prezzi competitivi: Ichiran o Ippudo per il ramen (che in generale in tutti i ristoranti non costa più di 10 euro); Yoshinoya, Matsuya o Sukiya che si specializzano in gyudon, riso bianco con manzo e cipolle; Genki sushi o Katsu, due famosi Kaiten Sushi, ristoranti di sushi su nastro trasportatore.

Infine, numerosi sono gli immancabili convenient store (konbini), dove si possono acquistare snack, beni di prima necessità, bevande e anche molti piatti già pronti caldi e freddi. Se, ad esempio, siete in giro per templi a Kyoto e non saprete se avrete tempo per il pranzo o non volete fermarvi nei ristoranti carissimi delle zone turistiche, fate scorta di onigiri in un konbini e poi concedetevi una buona cena alla fine della giornata.

 

 

In copertina: Iyashi no Sato, un museo a cielo aperto che sorge su ciò che rimane di un villaggio agricolo che fu travolto da un’alluvione nel 1966. Il villaggio è stata ricostruito, incluse le 20 case con i tetti di paglia, che sono state convertite in negozi in cui vengono creati e venduti prodotti dell’artigianato locale.

Fotografie tratte dal mio blog Not the usual tourists: due italiani in Giappone & oltre  [Tutti i diritti riservati].

La rete solidale di Progetto 20k a Ventimiglia e oltre

Negli ultimi anni la questione dell’immigrazione si è imposto come tema focale del dibattito politico in Italia e in Europa. Diversi partiti e movimenti in tutto il continente hanno fatto della lotta all’immigrazione il cardine dei propri programmi elettorali, inneggiando alla chiusura delle frontiere e alle espulsioni forzate, senza elaborare delle proposte serie per la gestione adeguata del flusso migratorio e per favorire l’integrazione. A questo clima di populismo opportunista e immobilismo politico, tuttavia, si contrappongono realtà come 20k, progetto nato del 2016 che fornisce supporto ai migranti che gravitano intorno alla frontiera di Ventimiglia (IM). A un anno e mezzo di distanza dalla nostra prima intervista ai volontari del Progetto, li abbiamo ricontattati per capire com’è la situazione al confine di Ventimiglia oggi e come stanno vivendo questo clima politico. Ne abbiamo parlato con Stefano Quaglia, studente di Scienze Politiche a Bologna, che per 20k si occupa dell’organizzazione e coordinazione di eventi e di gestire le relazioni con altre realtà e associazioni esterne.


Come è cambiato il Progetto 20k nell’ultimo anno e mezzo?

20k è un progetto, non un collettivo, e in quanto tale è in continua evoluzione, grazie proprio ai diversi contributi delle persone che man mano vi prendono parte. Nell’ultimo anno e mezzo, infatti, diversi nuovi volontari, di cui un gruppo già facente parte di Non una di meno Genova, hanno iniziato a collaborare al progetto, portando quindi con sé le proprie idee ed esperienze.
La svolta principale per 20k è stata la decisione di organizzare una grande manifestazione a Ventimiglia per l’estate 2018, Ventimiglia Città Aperta, che ha avuto luogo lo scorso 14 luglio. Questo evento, che ha visto la partecipazione di quasi 10.000 persone, è stato un vero salto di qualità per il Progetto, perché ha rappresentato il coronamento degli sforzi compiuti negli ultimi due anni, dandoci un riscontro tangibile del nostro lavoro. La manifestazione ci ha inoltre permesso di allargare la nostra rete di relazioni sia a livello nazionale che locale. Abbiamo ricevuto l’appoggio di piccole associazioni del territorio, studenti delle superiori e anche di privati, cioè in generale della società civile cosciente della questione migratoria e che cerca e vuole essere un’alternativa alle politiche attuali. Diverse realtà locali sono ora partner del Progetto e partecipano attivamente alle nostre iniziative.

Il corteo della manifestazione Ventimiglia Città Aperta del 14 luglio 2018.

Com’è quindi la situazione a Ventimiglia oggi? Il clima politico ostile ha peggiorato la situazione?

Noi di 20k ci teniamo sempre a far presente che dal 2015 a oggi Ventimiglia è sempre stato un laboratorio di pratiche repressive (ma fortunatamente anche di pratiche solidali). Il Sindaco PD Enrico Ioculano, infatti, non ha mai favorito le attività a sostegno dei migranti, vietando ad esempio la distribuzione di cibo e altre iniziative di solidarietà ben prima che anche altri comuni in Italia si muovessero in tal senso.

Detto ciò, sicuramente le posizioni ostili e intolleranti dell’attuale governo Lega-Movimento 5 Stelle hanno contribuito ad accrescere le tensioni sociali e le tendenze xenofobe e razziste anche a Ventimiglia. Grazie alla manifestazione del 14 luglio, infatti, avevamo guadagnato sostegno nel territorio e godevamo quindi di un po’ più di tolleranza anche da parte delle istituzioni; tuttavia, in seguito al Decreto Sicurezza presentato dal governo a settembre e alla circolare del 1° settembre del Ministero degli Interni che chiedeva ai prefetti di intensificare i controlli delle occupazioni, abbiamo subito percepito un inasprimento della repressione nei nostri confronti. La polizia ultimamente si è presentata sempre più spesso al nostro infopoint Eufemia, che ha sede presso un ufficio da noi regolarmente affittato, chiedendo i documenti e cacciando i migranti dall’area. Questi controlli e rastrellamenti su base etnica avvenivano regolarmente anche ben prima di settembre, ma è innegabile che negli ultimi mesi si siano intensificati.


Qual è invece la posizione della popolazione dell’area di Ventimiglia nei confronti dei migranti e del vostro progetto?

Una componente della popolazione di Ventimiglia rimane purtroppo fortemente ostile ai migranti presenti sul territorio; è filo-leghista e in alcuni casi anche filo-fascista, date le minacce di morte inneggianti a Traini (l’autore dell’attentato di Macerata del 3 febbraio 2018, ndr) ricevute dal Sindaco lo scorso marzo. Il resto della comunità sostiene invece il Sindaco PD Ioculano, considerandolo come il salvatore umano che in realtà non è.

Nell’ultimo anno siamo comunque riusciti a instaurare collaborazioni e portare avanti attività con varie realtà locali di tutto il territorio che da Nizza arriva fino a Sanremo e Imperia. L’eccezione è proprio Ventimiglia, dove riscontriamo ancora difficoltà nel creare una rete di collaborazioni, in quanto le associazioni principali, come ad esempio l’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani Italiani, ndr) e la Spes (associazione a sostegno delle famiglie di disabili, ndr), sono fortemente legate all’amministrazione Ioculano. Abbiamo invece un buon riscontro dalla popolazione civile, in particolare da parte degli studenti e di diverse famiglie, che hanno aderito con entusiasmo al nostro progetto e ci supportano nelle nostre iniziative.

Il corteo della manifestazione Ventimiglia Città Aperta del 14 luglio 2018.


Sulla base della vostra esperienza sul campo, qual è secondo voi nella pratica la strada giusta da percorrere per opporsi al razzismo e all’intolleranza?

Noi riteniamo che l’autodeterminazione e la possibilità di decidere della propria esistenza siano  fondamentali. Per questo motivo, non pensiamo che iniziative come l’ “Accademia per l’integrazione” di Bergamo, che ha la stessa impostazione di una scuola militare, siano soluzioni valide.

Per noi la strada da percorrere è quella di fare pratiche di solidarietà attiva creando più sinergie e alleanze possibili. Anche per questo motivo il movimento di Non Una di Meno rappresenta per noi un modello da seguire, perché è riuscito a creare una rete e un lessico globale. Noi stiamo cercando di fare lo stesso, cioè di rendere la soluzione del problema migratorio una questione transnazionale, costruendo alleanze diversificate e coinvolgendo più realtà e persone possibili.


Quali sono i vostri progetti e obiettivi per il prossimo futuro?

In questi mesi vorremmo innanzitutto organizzare dei momenti di “monitoraggio collettivo”, cioè coinvolgere anche piccole organizzazioni e persone locali nelle nostre attività usuali di monitoraggio del territorio, finalizzate a dare informazioni ai migranti, denunciare abusi e testimoniare e comunicare quanto accade al confine.

Oltre a questo, il nostro obiettivo è di organizzare per fine dicembre o inizio gennaio un grande evento pubblico informativo culturale, che coinvolga come detto molte realtà, figure e associazioni diverse tra loro, per raggiungere e sensibilizzare un pubblico più vasto possibile.

 

L’intervista è stata ridotta e riadattata per maggiore chiarezza.

Foto tratte dalla pagina Facebook di Progetto 20k, tutti i diritti riservati.

L’intramontabile coraggio delle idee: l’attivismo di Andrea Giuliano

Abbiamo già avuto occasione di intervistare Andrea Giuliano, attivista LGBTQI divenuto bersaglio di gruppi neonazisti ungheresi dopo aver lanciato un messaggio satirico durante il Pride di Budapest del 2014. Il suo caso è diventato di fama internazionale: è una di quelle vicende che scuotono e coinvolgono, soprattutto in un’epoca in cui l’intolleranza e la diffidenza sembrano rafforzarsi di giorno in giorno. Ci siamo nuovamente confrontati con lui per riflettere sull’importanza dell’attivismo nella nostra epoca.

Durante gli anni a Budapest, ancor prima del Pride del 2014, eri già attivo nel tessuto sociale. Quali sono state le battaglie con cui hai cominciato?

Mi sono sempre considerato un attivista: in Ungheria ho voluto dare il mio contributo per migliorare le condizioni sociali del Paese, soprattutto dal 2012. Inizialmente ho collaborato con associazioni che tutelavano i senzatetto; poi, prendendo sempre più coscienza del clima di intolleranza che stava trasformando la società, ho deciso che avrei manifestato in maniera forte. Questa mia scelta è stata dettata dalla volontà di contestare sia l’intera ideologia di destra ungherese – che vuole a tutti i costi polarizzare la società in nero/bianco, europeo/straniero , ricco/povero- sia l’ipocrisia e il bigottismo della Chiesa, che all’interno del Paese non si è mai realmente schierata a tutela della minoranza LGBTQI.

Andrea Giuliano vestito da sacerdote durante il Pride di Budapest del 2014. [Ph: Stiller Ákos/HVG.hu]

Dopo una tale manifestazione sono arrivati pedinamenti, minacce di morte, addirittura è stata imposta una taglia di 10.000 dollari sulla tua testa: come spieghi questa reazione?

Va considerato che io non sono “solo” un attivista: sono anche straniero, antirazzista, antisessista, antifascista e gay. Tutto ciò, unito alla mia provocazione, ha spinto gli estremisti a reagire in maniera così violenta. Quello che hanno fatto con me non è molto differente da ciò che gli stessi gruppi hanno perpetuato nei confronti di altre minoranze: semplicemente, attaccare un singolo è stato molto più facile.

Il Pride in Ungheria si ripete da anni: come veniva vissuto inizialmente questo evento?

La manifestazione si diffonde nella Budapest degli anni ’90; all’inizio si respirava un senso di libertà nuovo: le persone provavano la speranza di vivere un cambiamento reale, lasciandosi alle spalle la pesante influenza sovietica. Dopo quell’ondata, nel 2007 le dinamiche sono andate peggiorando: la parata è stata accolta da numerosi pestaggi, gli estremisti di destra hanno fatto irruzione aggredendo i presenti. Da quel momento in poi, il Pride è sempre stato circondato da barricate, il centro della città è diventato un recinto chiuso, si sono verificati degli episodi di connivenza tra le forze dell’ordine e i neonazisti. Solo durante la manifestazione dell’anno scorso si è visto qualche leggero miglioramento.

Manifestazione del partito Jobbik, secondo in Ungheria, unito al movimento New Hungarian a Budapest [ph: Orange Files]

Come è evoluto lo scenario politico in Ungheria nel corso degli ultimi anni?

In realtà il raggiungimento di una deriva ultraconservatrice e radicale è stato frutto di un processo tutt’altro che drastico. Il precedente governo socialdemocratico non è stato in grado di rispondere alle necessità del Paese; dopo la caduta del Primo Ministro Gyurcsàny, Orban ha raggiunto una mole di consensi sempre più importante; contemporaneamente, partiti estremisti come Jobbik o quello dei Motociclisti sono cresciuti esponenzialmente. Orban ha modificato la Costituzione, ha comprato intere redazioni giornalistiche o ne ha fondate di nuove, silenziando la stampa apartitica e liberale; oggi, coloro che  cercano di promuovere controinformazione, o che tentano di tutelare le minoranze prive di voce, faticano molto a trovare uno spazio effettivo all’interno del Paese. Tutto l’irrigidimento a cui si è assistito in questi anni non è stato sufficientemente ostacolato dai gruppi progressisti, che non si sono esposti perché temevano di perdere consensi.

Credi che all’interno della comunità LGBTQI ci sia uguaglianza e coesione?

Purtroppo no: all’interno della popolazione LGBTQI (non la considero una comunità proprio perché siamo ancora troppo divisi) si trovano innumerevoli esempi di omonazionalismo: si tende a preporre le questioni di razza sull’affermazione dei diritti umani, a normalizzare certi aspetti delle minoranze anteponendoli ad altri, e questo è uno dei motivi per cui molte persone faticano a ottenere un riscatto autentico. In Italia, poi, si parla ancora troppo poco di queste tematiche; è come se si fossero sbagliati i tempi e i modi: le leggi fatte sono approssimative, insufficienti; è quasi completamente assente una cultura del rispetto, manca un’educazione dal punto di vista affettivo e sociale. Alcuni nuclei, come quello delle persone Trans o Intersex, sono quasi dimenticati, invisibili, sommari: non per niente i tassi di suicidio fra i transessuali sono esponenzialmente più alti. Si dimentica che lavorare sui diritti di una minoranza significa creare un laboratorio per la tutela di altri gruppi deboli. Se i diritti non valgono per tutti, allora si tratta di privilegi.

Un’immagine del Pride di Budapest tenutosi nel Luglio del 2015 [ph: justinvandyke CCA 2.0]

Come ti senti ora?

Non sto bene, perché negli ultimi 4 anni e mezzo la mia vita è stata completamente stravolta: tutti i miei piani e progetti sono stati compromessi a causa di quanto accaduto. Sono in attesa di un processo a Strasburgo che faccia finalmente un po’ di giustizia; al momento sono in Italia, continuo a lavorare per sensibilizzare l’opinione pubblica: non lo faccio per una questione di giustizia personale, ma per ogni singola minoranza oppressa che continua a non essere considerata. Certo, preferirei non battermi da solo: anche da parte di coloro che si occupano di sociologia o studi di genere non ho percepito un grande appoggio. Tuttavia non ho paura.

A tal proposito, cosa credi che si possa fare per sensibilizzare i più giovani in merito a questioni così importanti e delicate?

La necessità di un’educazione adeguata in merito non riguarda solo i giovani. Purtroppo il sistema scolastico non ci concede di sviluppare un dialogo su queste tematiche, ma c’è un reale bisogno di varcare la soglia dell’indignazione, di agire. Quando si è davanti a una società mostro, che promuove barriere anziché dignità e diritti, la contestazione e il dissenso diventano imprescindibili.

 

In copertina: Andrea Giuliano al Pride Week del 2014 a Poznan [ph: Barbara Sinica]

Propagazione di bellezza per sconfiggere logori sistemi

Propagazione nasce nell’ottobre 2017 e rientra nel progetto del Bandito dei Banditi, una sorta di bando che va a supportare nuovi progetti condivisi e nuove idee da realizzare, all’interno del centro sociale autogestito Pacì Paciana. Ho parlato con Francesco, una delle menti di Propagazione, in procinto di laurearsi in media design e arte multimediale in: «un collettivo, una sorta di laboratorio di comunicazione che comprende la grafica, la serigrafia e sperimentazioni di vario genere: l’idea è proprio quella di conoscere i vecchi modi di comunicare per costruirne di nuovi. Non necessariamente i progetti che realizziamo rimangono ancorati alle attività del centro sociale e non solo legate a tutta la sfera politica. Comprendono, per esempio, aziende o piccole attività no profit, associazioni, ecc.. Comunicazione etica è quello che vogliamo fare, mantenendo di base messaggi di antifascismo, quindi antirazzismo, antisessismo e anticapitalismo». Uno dei motivi più forti che lo spinsero a creare questo laboratorio di comunicazione è il fatto che, essendo parte di un movimento schierato politicamente, Francesco si rese conto della necessità di rinnovare i linguaggi comunicativi, su tutti i punti di vista.

«La grande ispirazione che ho avuto è stata data da Ferro Piludu, graphic designer anarchico: colui che progettò la “A” di Anarchia tipografica e mise insieme, nel periodo degli anni di piombo, un gruppo di creativi che si occupavano specificatamente di progettare una grafica e una comunicazione che fosse densa di contenuti e iper-leggibile. Prima di lui, la scuola del Bauhaus costruita su basi socialiste della cultura, della conoscenza delle arti in generale, ma anche molto della grafica che hanno costruito le basi di quella che è la comunicazione oggi e di tutte le tecniche di comunicazione di cui adesso siamo circondati e abituati a vedere».

Il lavoro del “comunicatore” è molto pensante e richiede molte ore, sia di progettazione sia di elaborazione del prodotto. Spesso e volentieri capita che si debba chiedere un compenso, che sicuramente non è paragonabile a quelli del mercato di una grande azienda né tanto meno al favore chiesto da un amico. Un servizio popolare che tenta di essere professionale è quello che spera di essere Propagazione.

Continua Francesco: «Il gruppo al momento è composto da un numero variabile di partecipanti: dalle cinque alle dieci persone, questo in base alle attività che svolgiamo, ognuno ci mette il tempo che vuole. Per la maggior parte sono studenti con competenze di vario genere. Dal punto di vista tecnico il gruppo non è ancora in grado di elaborare progetti che abbiano un impegno superiore al corto/medio termine; c’è bisogno di tanto tempo, non ci sono ancora abbastanza energie per poterlo fare». Non ci sono professionisti né persone politicamente formate. Partecipanti totalmente estranei a questo tipo di ambiente, con Propagazione, trovano il luogo dove migliorare i propri linguaggi, apprendere qualità nuove dando una grossa spinta alle potenzialità di ognuno.

Ho chiesto a Francesco di spiegarmi come si può fare politica con le immagini: «La vera risposta a questa domanda è “Come si fa a non farlo?!” Purtroppo, siamo arrivati a un periodo in cui la comunicazione visiva e verbale è talmente invasiva che riuscire a far passare messaggi complicati, come quelli politici, ti mette di fronte a delle difficoltà non indifferenti. Esse hanno a che fare molto con la creatività, la capacità di sintesi e la costruzione del messaggio. Per esempio, una campagna politica è composta da varie fasi, ciò significa che si ha a che fare con una storia da raccontare che al suo interno ha dei contenuti. Per narrarli, ogni singolo passaggio deve essere costruito per fare in modo che passi esattamente uno specifico messaggio. Penso che Propagazione sia politica anche quando organizziamo corsi gratuiti di grafica o quando produciamo poster per mobilitazioni. È un gruppo aperto a tutti coloro che abbiano voglia di fare in questo senso, a prescindere dal colore, dalle preferenze sessuali e dal loro grado di professionalità. Per quanto mi riguarda potrebbe venirci anche un bambino e anche il suo contributo sarebbe prezioso. Portare questo tipo di dinamiche all’interno della società fa in modo che si crei un’alternativa virtuosa che secondo me è l’unico modo sensato per fare politica oggi».

L’opposto di Propagazione? È lo standard. Parliamo di CasaPound: «È un’organizzazione che a livello grafico ha delle locandine, loghi ,immagini coordinate di alta qualità. Questo perché alle spalle hanno un’agenzia, pagata fior di soldi, che si occupa della comunicazione del partito». Continua Francesco: «uno dei grandi motivi per cui la Lega di Salvini ha vinto, è proprio perché hanno puntato tutto su un discorso di costruzione comunicativa di un certo tipo. Non è grafica ma è progettazione di comunicazione, di social network, di costruzione del consenso e di propaganda. Salvini non ha mai iniziato a fare politica, ha puntato tutto sulla propaganda populista.

Combattere questi meccanismi è difficile ma penso che l’unico modo per poterli sconfiggere è con la bellezza, che non è semplicemente l’oggetto d’arte ma lo stesso oggetto d’arte costruito su un contenuto specifico, un messaggio che sia esattamente all’opposto.

Propagazione vuole costruire con la creatività un messaggio che combatte un messaggio di standardizzazione, omologazione e convincimento delle masse. A me non interessa convincere le masse: a me interessa mostrare alla società, alle persone che ho attorno che con la creatività, con il mettersi in gioco è possibile costruire una società migliore.

Dare l’opportunità alle persone di avere a che fare con creatività, conoscenza e coscienza politica, secondo me è il grimaldello per poter scoperchiare questa macchina di propaganda».

Il vento nero sull’Italia (e sull’Europa)

Da vent’anni Paolo Berizzi, giornalista de La Rebubblica, denuncia la presenza di formazioni di stampo neofascista e neonazista in Italia; da oltre un anno e mezzo vive sotto tutela per le continue minacce e atti intimidatori a causa delle sue inchieste riguardo ai nessi tra partiti, formazioni di estrema destra e criminalità organizzata.

Ad aprile è stato pubblicato il suo libro-inchiesta NazItalia. Viaggio in un paese che si è riscoperto fascista. Che si è riscoperto, appunto, perché, come afferma Liliana Segre, la senatrice a vita sopravvissuta alla Shoah, in fondo, fascista lo è sempre stato, ma solo adesso i tempi sono diventati maturi per una legittimazione di questo fenomeno.

Alcune delle manifestazioni di protesta contro il libro NazItalia di Paolo Berizzi, inclusa l’irruzione nella libreria di Padova.

Si aspettava una reazione così ostile al suo libro NazItalia?

Da una parte sì e ciò significa che ha colpito nel segno. Non mi aspettavo un’ostilità così sistematica e strutturale: cercano in tutti i modi di screditarlo perché è andato a toccare nervi scoperti, rivelando sponde politiche, finanziamenti, tutto ciò che è meno visibile e che è stato portato a conoscenza di un pubblico più ampio.

L’episodio avvenuto nella libreria di Padova può essere assimilato ad un atto intimidatorio di stampo squadrista?

È quello che è stato. Mentre stavo andando a Padova, la polizia mi ha avvisato che mi avrebbero contestato fuori dalla libreria. Distribuivano a chi entrava volantini con la locandina con il titolo di InfamItalia. Non mi sarei aspettato che sarebbero entrati, invece lo hanno fatto, scattando fotografie ai presenti come per schedarli. Fino a ieri queste cose non accadevano. Io dico sempre che è stato un successo aver portato i fascisti in libreria, ma è grave che si sentano sdoganati.

Quali sono le somiglianze e le differenze tra vecchio e nuovo fascismo?

I tratti comuni sono la tendenza alla prevaricazione e la negazione della libertà, fondamento della democrazia.

Si tratta, tuttavia, di un fascismo completamente diverso, non più quello del fez e della camicia nera. Agisce in forme inedite, difficili da riconoscere: è un fascismo liquido, disgregato, fatto da scorie impazzite. Accomuna queste formazioni il rancore verso il nuovo nemico, l’immigrato, il rom, in secondo luogo il sovranismo, il motto “prima gli italiani”, l’isolazionismo.

Le modalità con cui si esprimono sono fortemente sociali: si rivolgono alle fasce più deboli attraverso il cosiddetto “welfare nero”, rispondono ai bisogni primari dei cittadini laddove lo Stato è assente, sostituendosi ad esso. Questa è una novità.

Restano i simboli, diretta emanazione del fascismo e del Terzo Reich, ma la propaganda politica a volte sorprende, adotta forme del tutto nuove: si propongono come diversi dal regime dittatoriale. Questo è il paradosso dei fascisti di oggi: richiedono spazi e libertà politica, fanno le vittime quando sono stati loro a negare il diritto di parola e persino di esistenza.

Il giornalista Paolo Berizzi (secondo da sx) insieme a Nicola Fratoianni e Eleonora Forenza di Potere al Popolo, durante la presentazione del suo libro NazItalia a Bari il 23 ottobre.

Quali le responsabilità della sinistra in tutto ciò?

Le responsabilità sono tante. La prima è di non essere riuscita ad intercettare il disagio delle fasce più deboli della popolazione, non aver dato una risposta alle paure su cui l’estrema destra e la Lega di Salvini fanno leva. La conseguenza di questo è che la sinistra non si afferma al di fuori delle zone ZTL.

La seconda è quella di essersi allontanata dalle zone periferiche: la pasta, prima, la distribuivano le formazioni di sinistra o il cattolicesimo socialista.

La terza è quella di non aver capito che questa destra nazifascista si stava diffondendo nei piccoli comuni, nelle città, nelle metropoli. “Non c’è rischio” dicevano esponenti PD come Renzi e Minniti. Non hanno capito e hanno dato del visionario a chi ne denunciava il ritorno.

In Europa, ma non solo, si sta affermando il fenomeno del neofascismo. Quali le prospettive?

È chiaro che il “vento nero” è diffuso non solo in Europa, ma anche in altri continenti. Bolsonaro (l’attuale Presidente del Brasile, ndr) non ha mai nascosto il suo nazifascismo, è uno che dice di preferire “un figlio morto piuttosto che gay”, non nasconde le sue simpatie per le parole d’ordine che richiamano la violenza, per i metodi dittatoriali. Negli U.S.A abbiamo Trump, in Russia Putin.

In Europa il “vento nero” soffia da tempo, non solo dove l’Ultradestra è al governo, ma anche nel cuore dell’Europa, in Paesi come Inghilterra, Germania, Francia. E Italia. Salvini è stato il primo a intuire, con grande fiuto politico che gli va riconosciuto, che il vento stava arrivando anche da noi. Ha trasformato la Lega da partito autonomista, e, per un periodo, secessionista, a partito sovranista e centralista. È una creazione politica di Salvini, che vince con il sostegno di gruppi di estrema destra come Lealtà e Azione, ispirato ai modelli dei generali delle S.S. e di Corneliu Codreanu, capo delle guardie di ferro rumene.

Matteo Salvini a cena con i dirigenti di CasaPound nel 2015.

Quali sono le prospettive per le elezioni europee del 2019?

Il rischio di uno sfondamento nero e di una deriva autoritaria c’è: alle prossime elezioni si giocano gli equilibri e l’esistenza stessa dell’Europa. Si confermerà e accrescerà il peso specifico del blocco nero sovranista, di tutti quei partiti iscritti al cartello The Movement di Steve Bannon, tra cui la Lega. Non si sa quali potrebbero essere i risultati di questo fenomeno sull’Italia, ma i sondaggi e gli esiti delle recenti amministrative di Trento e Bolzano confermano la crescita della Lega di Salvini, il ministro degli Interni, responsabile delle Forze dell’Ordine, che coccola i fascisti, indossa i loro abiti e da mesi posta slogan quali “me ne frego”. Il cerchio si chiude, Salvini e i neofascisti sono da tempo sullo stesso terreno, nel 2014-2015 la Lega era alleata di Casapound, ora non più, ma l’amore non è certo finito.

Adesso è più sotterraneo questo legame?

Sotterraneo fino a un certo punto. Nei giorni scorsi ero a Bari ad un evento dove erano presenti Nicola Fratoianni e Eleonora Forenza di Potere al Popolo, una delle vittime dell’aggressione squadrista avvenuta a settembre dopo una manifestazione di Salvini. Il ministro degli Interni non ha condannato apertamente, ha solo detto cose generiche in merito. Infatti nel 2015 una foto lo ritrae in compagnia dei capi di Casapound.

Oggi c’è maggior consapevolezza del pericolo neofascista?

Forse sì, dopo vent’anni in cui le mie inchieste cadevano nel silenzio, vent’anni in cui la sinistra ha dormito. Ora se ne sono accorti, ma non abbastanza.

Oggi non è considerato un disonore l’essere fascista. Liliana Segre afferma che il fascismo c’è sempre stato, ma sono mutati i tempi, prima dirsi fascista era un’oscenità ora è caduta la pregiudiziale sul fascismo, non c’è nessuna indignazione.

Questo è un passaggio fondamentale: le nuove generazioni hanno poca memoria perché chi doveva tramandarla non c’è più, per questo è importantissima l’azione di Liliana Segre, che nelle scuole parla con i ragazzi della sua esperienza. Un Paese che non ha memoria non ha futuro. Tanti giovani non comprendono i rischi: questo li porta ad accettare le proposte di questi gruppi, a farsi incantare dalle sirene. Nelle scuole e nelle università agiscono formazioni di estrema destra, mentre prima i collettivi erano di sinistra. È importante informare l’opinione pubblica, le nuove generazioni. Bisogna conoscere l’avversario: alla base di tutto sta la conoscenza.

 

Foto gentilmente concesse da Paolo Berizzi (tutti i diritti riservati).

Beat generation, dizionario minimo di una controcultura

Era la fine degli anni Cinquanta, gli Stati Uniti stavano prosperando dopo essersi lasciati alle spalle la seconda guerra Mondiale. Perbenismo e consumismo nell’aria, c’era voglia di calma e sicurezze, ma non tutti la pensavano così: nelle poco entusiasmanti lezioni della Columbia University, alcuni giovani sentivano che la vita non poteva essere solo quella.

Fu così che, sulle note di Charlie Parker, furono Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Lucien Carr e poi Neal Cassady e Lawrence Ferlinghetti a porre le basi della più importante controcultura del Novecento: la Beat generation. Un movimento culturale senza il quale, per alcuni studiosi, gran parte delle risonanze degli anni Sessanta non sarebbero state così forti da segnare il nostro tempo.

“Sulla strada” di Jack Kerouac, testo-simbolo della cultura beat (fonte: Flickr).

Perché “beat”? Due sono le versioni parzialmente accreditate di questa scelta linguistica. La prima, letterale, sembra tradurre l’aggettivo “sconfitto”, “battuto”, “escluso” o “emarginato”, traducendo quindi la disposizione dell’individuo che condivide lo spirito della Beat generation come contrasto e negazione della cultura in cui viveva – sostanzialmente, quella della borghesia americana degli anni Cinquanta. L’altra versione, opposta, è documentata da una frase di Jack Kerouac (autore di uno dei testi capitali di quel tempo, Sulla strada) secondo cui beat abbrevia “beatific”, assimilabile a “beatitudine”. Lo stato d’animo che, attraverso nuove esperienze, si cercava di raggiungere.

Jack Kerouac (fonte: Flickr).

Per capire quanto importante sia stato questo “movimento” – o meglio, vera e propria controcultura, nuova tendenza che professava visioni opposte alla cultura allora dominante – possiamo fare un giro attraverso alcune parole chiave che ne riassumono bene i concetti.

La strada. Oltre ad essere il nome del romanzo-simbolo della Beat generation, è il luogo dove tutto comincia. È il posto dove ci si illude di cancellare la noia e la morte. Rappresenta il viaggio, la fuga, l’avventura, il selvaggio, la ricerca. Insomma, la vita, direbbe Kerouac.
Cosmopolitismo. Lo spirito è viaggiare, senza una meta precisa, ma solo per riempirsi gli occhi di più cose possibili e fare tutte le esperienze che il mondo permette. Dunque al bando qualsiasi nazionalismo, ciò che unisce è il desiderio di fare le stesse esperienze e la voglia di considerarsi e incontrarsi come “cittadini del mondo”.
Spirituale. La ricerca è in direzione di tutto ciò che aiuta a superare il tangibile e porta in un’altra dimensione (compresi gli eccessi di droghe e alcol).
Rivoluzione. Si viaggia perché si vuole cambiare un mondo che sta stretto, ci si mette in strada per sperimentare la solidarietà e assecondare il desiderio di rivolta verso la generazione precedente. Ci si dà alle droghe, si sperimentano la promiscuità e le prime forme di libertà sessuale, si va contro qualsiasi istituzione abbia imposto delle regole fino a quel momento.
Poesia. Sebbene molti non fossero scrittori o intellettuali, tutti scrivevano poesie. Era urgente il bisogno di comunicare, di urlare quello che si stava vivendo, perché era diverso e incontrollabile quello che si provava, come racconta il manifesto in versi della Beat generation:

Ho visto le migliori menti della mia generazione
distrutte dalla pazzia, affamate, nude isteriche
trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa
hipster dal capo d’angelo ardenti per l’antico contatto celeste
con la dinamo stellata nel macchinario della notte,
che in miseria e stracci e occhi infossati stavano su partiti a fumare nel buio soprannaturale di soffitte a acqua
fredda fluttuando nelle cime delle città, contemplando jazz […]

(Incipit di URLO di Allen Ginsberg)

Allen Ginsberg e Fernanda Pivano.

E in Italia? Se l’Italia ha conosciuto le “urla” di questo movimento è in gran parte merito di Fernanda Pivano, che con le sue traduzioni dall’inglese delle maggiori opere ha contribuito a farle conoscere nel nostro Paese. La Pivano curò anche un’antologia di poesia della “beat generation italiana”, ma ne abbandonò l’edizione senza che questa fosse mai pubblicata. L’episodio italiano della beat generation si colloca tra il 1964 e il 1973. Per farvene un’idea, vi consigliamo il libro di Alessandro Manca, I figli dello stupore: La beat generation italiana: completo ed esaustivo per capire che cosa ha significato quel periodo e come (o se) è stato reinterpretato nell’Italia di sessant’anni fa.

In copertina: Allen Ginsberg.