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Viandanti tra i mondi. I luoghi in Magic: The Gathering

Agosto 1993, Origins Game Fair, Columbus, Ohio. La Wizard of the coast (casa editrice di giochi di ruolo) presenta il primo gioco di carte collezionabili al mondo nato dall’ingegno del matematico Richard Garfield: Magic: The Gathering (MTG).

Fu un successo inaspettato che continua fino ad oggi e vanta milioni di giocatori in decine e decine di paesi. Da quale formula nasce questo trionfo?

L’aver dato un supporto materiale, tascabile e collezionabile a uno scenario fantasy dalla storyline ben costruita e, a braccetto, l’avervi infuso la sfida del creare strategie dinamiche su basi abbastanza aleatorie.

Ma penetrando questa dimensione, cosa significa affrontare una partita di MTG?

Immedesimarsi in maghi che, ricorrendo a evocazioni e sortilegi attinti dal grimorio (il proprio mazzo di carte, qui visto come libro d’incantesimi), si confrontano in battaglia.

Non vi tedierò con regole e fasi di gioco, per altro non propriamente semplici e sbrigative; vi basti sapere che gli sfidanti daranno vita a scontri tra creature fantastiche (elfi, zombi, minotauri e così via) e lanceranno magie belliche fino alla distruzione degli avversari.

Partita di carte Magic: The Gathering [ph. Tourtefouille by Wikimedia Commons CCA SA 4.0]

Giocando a Magic interpretiamo del maghi, quindi, ma dove operiamo?

L’ambientazione in cui ci si cala è il multiverso immaginario di Dominaria: qui svariati piani d’esistenza si sovrappongono e, di rado, entrano in contatto dando vita alle epopee in cui agiamo noi e i personaggi rappresentati nelle carte da gioco.

Bene. Dunque siamo stregoni viaggiatori che percorrono le vie tra i mondi.

Ma udite, udite non siamo gli unici in grado di muoversi magicamente nel multiverso!

Nel nostro peregrinare incontriamo decine di esseri di razze differenti (si, razze: come il genere fantasy spesso vuole, nelle creazioni di Garfield v’è spazio per ibridi umanoidi d’ogni sorta) dotati della stessa abilità: i Planeswalkers o camminatori tra i piani.

Planeswolkers

Si dice (gli autori dicono) che solo una creatura su un milione nasca con il dono della scintilla del viandante e che tra questi siano pochi coloro che riescono ad accendere la propria e mettersi consapevolmente “in viaggio”. Ma a che pro il tumulto dello spostamento? Ognuno ha le sue motivazioni!

Nicol Bolas, uno dei planeswalker più potenti della storia (è un drago lui, per altro) punta da migliaia d’anni alla conquista e il dominio dell’intero multiverso con metodi poco ortodossi; Gideon Jura ha creato un’alleanza con svariati viandanti al fine di difendere e preservare l’autonomia e la pace dei mondi; Garruk migra solitario con la smania di eliminare qualsiasi altro detentore della scintilla, gli piace così…

Ebbene ci sono portatori di luce e portatori di caos, chi si fa i fattacci propri e chi semplicemente “esplora”. Oh, sì perchè Dominaria è un pullulare di variopinti pianeti, naturali o creati da qualche ambizioso artefice, alcuni più alcuni meno simili al nostro.

Investendomi del titolo di viandante vorrei presentare un rapido tour in qualcuno di questi piani: scintilla attivata, attraverso la Cieca Eternità, lo spazio che divide gli universi.

Rinvengo sull’umida sabbia d’una battigia: di fronte, qualche chilometro in mare, sfilano dei galeoni; alla mia schiena si staglia una fitta giungla tropicale. Mi alzo in volo (abilità che mi concedo per comodità narrativa) per avere una panoramica migliore e nella macchia verde, sotto il planare di grossi pterodattili, spuntano rade rovine di palazzi sopraffatte da tempo e vegetazione.

Sono ospite su Ixalan, un piano che può ricordare il nostro centro America per conformazione e clima.

Ixalan

Chi ha ideato (siamo nella realtà) il luogo e la storia a esso legata si è lasciato ispirare proprio dagli eventi del primo ‘500 accaduti in Messico e dintorni.

In queste terre (ritorniamo su Ixalan) gli indigeni, come fossero una civiltà precolombiana, sono in perenne lotta contro i “conquistadores” vampiri e vigili verso le incursioni piratesche: cavalcando i fidati raptors (siamo nel fantastico, l’anacronismo ci sta) e stringendo alleanze con ancestrali creature anfibie, proteggono le sacre città antiche dalla depredazione.

Non è il luogo più ospitale per un planeswalker dal 21° secolo. Serro gli occhi, mi smaterializzo e vengo trasportato altrove.

Vociare di folla, penombra d’un vicolo stretto tra alte pareti. Imbocco l’uscita dell’antro e un vasto viale brulicante di passanti mi accoglie nella metropoli di Ravnica.

Ravnica

Questo è uno dei pianeti più civilizzati e moderni, ospite d’un ambiente urbano che si propaga su quasi la totalità della sua superficie. Imponenti costruzioni dalle guglie solenni coronano il labirinto di strade dove la vita del popolo si svolge tra attività commerciali, fiere e svaghi.

Si perde il conto del numero di razze diverse che convivono qui: pare d’essere in una scena di Star Wars, ma in un passato recente. Goblin e elfi non mi sorprendono più, ma vedere dei soldati dalle fattezze “rinocerontiche” mi spiazza, come anche la giovane gorgone infastidita dal mio sguardo affascinato puntato sulla sua chioma.

So che qui la gestione è retta da dieci Gilde, una sorta di corporazioni con compiti amministrativi differenti, che dopo un passato di guerre raggiunsero la coscienziosa risoluzione di stringere alleanza ponendo le basi del fiorente sviluppo di questa società.

La giovane dai capelli di serpente si avvicina spazientita; onde evitare la pietrificazione per malinteso rifuggo nel vicolo e, lontano da sguardi, “accendo i motori”.

Terza tappa: un’estensione metallica a perdita d’occhio. Mirrodin, il pianeta artificiale creato secoli fa dal leggendario planeswalker Karn.

Mirrodin

E’ una desolazione infinita, inospitale se non fosse per la presenza, da qualche parte, del Groviglio: una foresta intricata d’alberi metallici che può dare una parvenza di vitalità. Mi fu raccontato dell’esistenza di un oceano singolare, una imperturbabile distesa di mercurio liquido sulle cui rive si sviluppa parte della vita autoctona.

Umani e altre specie biologiche popolano questo piano (chissà come) condividendolo con esseri artefatti infusi di magia; una sorta di robot. Ma attorno a me, ora, nulla e nessuno, solo la compagnia luminosa di tre delle cinque lune che gravitano attorno a Mirrodin: 5 satelliti di 5 colori, effettivamente un grande spettacolo che compensa della visita.

Seduto nel freddo chiarore metallico contemplo per lunghi minuti l’arcano incedere delle sfere, poi raccolgo le energie per l’ultimo viaggio.

La mia stanza. Realtà.

Sulla sinistra di questo foglio una pila di carte Magic. Le rigiro tra le mani pensieroso.

E’ stato un trip da nerd.

Eh, sì.

E quanto mi piace ‘sto trip!

Chi ha paura del medico? La medicina tra fake news e leggende arcaiche

Rappresentano circa il 20% delle fake news diffuse dai mezzi di comunicazione nel 2018, seconde solo a quelle inerenti a politica interna ed estera (57%). Stiamo parlando dei contenuti di disinformazione a tematica scientifica, che insieme ad argomenti come diritti ed economia, salute e ambiente, famiglia e fede, cronaca e immigrazione spicca per l’ampia diffusione e per una trattazione perlopiù impressionistica, tesa quindi a toccare l’emozione e l’irrazionalità delle persone.
Questi sono i dati riportati dalla prima indagine sistemica sul fenomeno delle fake news ad opera di AGCOM, l’autorità garante delle comunicazioni in Italia, basata su un campione di oltre 1800 fonti informative e 700 notizie, tra vere e false, diffuse sui media tradizionali e sui social. E sono proprio i social network, primo tra tutti Facebook, a giocare un ruolo fondamentale nel campo dell’informazione scientifica: secondo la ricerca Censis “Assosalute 2017”, presentata solo un anno fa, se il medico di base (53,5%) e il farmacista (32,2%) rappresentano ancora il principale punto di riferimento per gli italiani in materia di salute, piuttosto esiguo è lo scarto con l’autorità attribuita a siti web di dubbia consistenza e post su Facebook virali, a cui si affida circa il 28,4% degli italiani.

Come si presentano oggi, quindi, i pazienti italiani quando bussano alla porta dello studio del medico di base? Lo abbiamo chiesto ad alcuni professionisti del settore, che spazio tra giovani e adulti con una fonte sempre pronta all’uso (“Ma io ho letto su Internet che…”) e anziani in balìa delle parole del medico (“Se l’ha detto lui!”), anche quando quelle parole non sono state comprese fino in fondo.
Un piccolo campionario di domande e risposte, a tratti assurdo e comico, che lascia un sorriso amaro e un pensiero. Che il fenomeno delle fake news non sia solo la faccia di una stessa medaglia, quella della bassa consapevolezza culturale in materia di salute e cura, un tempo attribuita ai più anziani e meno scolarizzati della popolazione? Che non sia solo una nuova forma di fede cieca, con l’affidamento nelle mani di una voce altra, vicina a noi come solo i social sanno essere di questi tempi?

 

Paola (nome di fantasia), allergologa
Intolleranze, allergie e vaccini: 3 casi

Penso di avere qualche intolleranza o allergia perché sono ingrassata!

Spesso sono le donne a fare simili supposizioni. Punto 1: intolleranza e allergia non sono la stessa cosa, non sono termini intercambiabili e indicano situazioni molto diverse tra di loro! Le intolleranze verificabili e riconosciute sono quella al lattosio, al fruttosio e al glutine (o celiachia) e sono mediate da un meccanismo in cui la carenza di un enzima fa sì che gli zuccheri non vengano digeriti e causino i sintomi gastrointestinali (o anche sistemici, nel caso della celiachia). Punto 2: nessuna intolleranza o allergia fa ingrassare! Semmai l’opposto, dato che si tratta di disturbi che causano dolori addominali e dissenteria.
A questo proposito è uscito anche un decalogo della Società Italiana di Allergologia (SIAAIC), molto utile per sfatare miti e… sconsigliare l’uso di fonti inadeguate per ottenere informazioni certificate.

Ho fatto il test del capello / Vega test e sono risultato intollerante / allergico a grano, pomodoro, latte e molto altro. Ho tolto tutto dalla mia alimentazione e mi sono sentito meglio nel primo periodo, ma ora non so cosa mangiare…

I test a cui ci si sottopone in farmacia non sono validati, come spiegato in diversi documenti presentati dall’AAITO [Associazione Allergologi e Immunologi Italiani Territoriali e Ospedalieri, ndr] in merito alla diagnostica delle allergopatie: se ne ricavano risposte standard, qualsiasi sia il disturbo di un paziente, che portano all’esclusione di latte e derivati, di cioccolato e glutine e altro dalla propria alimentazione. Il punto è che qualsiasi alimento, se assunto in quantità sproporzionate, può dare disturbi diversi, ma non legati ad allergie o intolleranze (che, come dicevamo, rimangono sempre un po’ indistinte nella comune percezione).

Non faccio fare il vaccino ai miei figli perché contiene mercurio.

La risposta. La disinformazione a riguardo è talmente alta che spesso mi viene chiesto se all’interno dei vaccini somministrati ci sia piombo, anziché mercurio, perché evidentemente non si conosce la differenza tra questi due metalli… La mia risposta si basa sulle linee guida delineate da FNMOCEO (Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici, Chirurghi e Odontoiatri): in passato nei vaccini era presente il thimerosal, che comunque non era mercurio (e per inciso: si assume più mercurio mangiando una fetta di tonno fresco!), e che nei vaccini attuali non è contenuto.

Cinzia e Alberto, medico anestesista e infermiere
Anziani e salute: no, non sono barzellette…

Chiudere gli occhi… per sempre

Cinzia – Di solito quando i pazienti ultraottantenni devono sottoporsi a un intervento importante chiedono che tipo di anestesia verrà somministrata. “Un’anestesia generale, è necessaria per questo tipo di interventi”. “Eh, basta che poi mi sveglio…” La nostra risposta non può che essere: “Tendenzialmente succede, non sempre però!” [ride, ndr]

Alberto – Caso di un paziente oncologico assolutamente inconsapevole della propria malattia. Registriamo un lungo periodo di alterazioni dell’umore in cui si alternano depressione a picchi di felicità eccessiva. Il medico specialista gli prescrive un farmaco per regolare l’umore, per tranquillizzarlo e renderlo più sereno. Un farmaco per bocca che viene inserito inizialmente a metà dose, per accompagnarlo poi alla dose intera, perché potrebbe avere come effetto collaterale la sonnolenza. Una volta illustrati gli effetti collaterali del farmaco, scritti su tutti i bugiardini, spieghiamo il motivo per cui iniziamo a somministrare metà dose. Risposta del paziente: “Ma voi volete chiudermi gli occhi… per sempre!”

Gli evergreen – trova l’errore

Cinzia – “Ma le piastrelle come sono? Perché l’ultima volta erano basse…”
Alberto – “Altra dicitura classica degli esami ematici: ‘Dottore, ma quindi devo smettere di mangiare i formaggi perché ho il polistirolo alto nel sangue?’”
Cinzia – “Signora, chi le ha prescritto questo farmaco, il medico di base?”
“No, lui non c’era, c’era il suo prostituto…”

Da 190 kg a 80 kg: miracolo!

Cinzia – Nella chirurgia bariatrica (o chirurgia dell’obesità) capita spesso che lo specialista chieda alla paziente che tipo di intervento debba fare, per capire che coscienza ha del trattamento a cui verrà sottoposta. La signora risponde: “La slim!”. “Ma cos’è la slim?!”, chiediamo. “La slim, mi ha detto la slim!” “Ah, la sleeve, la sleeve gastrectomy [Intervento chirurgico che consiste nella riduzione delle dimensioni dello stomaco che determina una minore possibilità di assunzione di cibo nonché importanti modificazioni nella secrezione degli ormoni, tra cui quelli responsabili del senso della fame, ndr]. Ha studiato bene l’intervento che deve fare…?”
“Sì, io devo fare la slim e quindi faccio la slim. Ma poi quanto peso perderò dopo l’intervento?”. “Signora, le asportano un pezzetto di stomaco, non perderà peso appena dopo l’intervento…”. Quasi fosse un trattamento miracoloso o spacciato per tale. Ci abbiamo ricamato sopra: potremmo parlare di Slim fast, il miracolo della chirurgia bariatrica che ti permette di passare dai 180 ai 90 kg!

Breve storia triste

Alberto – Un classico della geriatria è chiedere ai pazienti quali farmaci assumono nella loro quotidianità e vedersi rovesciare sotto il naso il contenuto di un astuccio pieno di pillole. Una volta notiamo qualcosa di strano: un noto farmaco a base di dutasteride, per il trattamento dei disturbi urinari legati all’ingrossamento benigno della prostata.
“Signora, ma chi gliel’ha prescritto questo farmaco?”
“Il mio medico di famiglia”.
“Ma signora, questo farmaco è per i dolori alla prostata…”
“Eh, c’avrò la prostata, me l’ha dato lui!”.
Era l’astuccio delle pillole del marito. Fine.

Un esperimento di narrazione transmediale: il caso B.O.A.

Bordello Occupato Autogestito, in sintesi, uno spazio liberato, occupato e autonomizzato. Al suo interno si proponeva un’attività di sex working, con un approccio ludico della libertà di espressione e costruzione del conoscere se stessi.

Dove? Nessuno sa dove sia B.O.A., eppure qualcuno sostiene di esserci stato!

In realtà, B.O.A. non esiste né mai è esistito, se non nella realtà virtuale. È stato spacciato come posto fisico che proponeva eventi e attività, come fosse uno stabile in cui si ritrovavano i membri di questo collettivo, ma di fatto si trattava di un progetto concettuale, la cui unica tangibilità stava nelle locandine proposte da B.O.A. stesso.

Ho chiacchierato con la mente di questo processo comunicativo (in anonimato su sua richiesta n.d.r.), che mi ha spiegato dell’ esistenza/non-esistenza di B.O.A. su due linee di costruzione: un progetto di tesi di laurea e un esperimento comunicativo per tentare di verificare l’efficacia della narrazione transmediale. Quindi un modo di portare concetti e narrazioni in maniera scomposta su vari media.

Nell’ottica della costruzione di B.O.A. è stato deciso di convergere verso un modello propositivo, non rigidamente costituito ma aperto alle idee e alle proposte di chi si sarebbe avvicinato con interesse. Cosa è successo concretamente?

Innanzitutto, B.O.A. ha messo in evidenza il fatto che il mercato del sesso a pagamento ha un target forte anche in contesti particolari e connotati politicamente. La divulgazione delle sue iniziative ha attirato chi «voleva scopare»: questo modello politico ha raggiunto proprio quella tipologia di persone che volevano sperimentare, indagando, la propria sessualità.

Da subito sono state messe in chiaro le regole di B.O.A.: spazio liberato da sessismo, razzismo, fascismo, con l’intento di uscire dal sistema in cui viviamo. Il progetto aveva due obiettivi paralleli e della stessa importanza: un obiettivo scientifico, dimostrando che questo tipo di comunicazione funziona, e un obiettivo politico, per convincere gli utenti di questo tipo di istanze e rivendicazioni.

I risultati, però, si sono scostati dalle aspettative: l’esperimento ha infatti dimostrato che questo tipo di narrazione, se utilizzato in modo incauto e senza calcolarne bene i rischi, può essere un’arma a doppio taglio. Sembra che siano stati commessi degli errori gravi sia nella costruzione sia nella comunicazione e il linguaggio si è ritorto contro dal punto di vista emotivo, a causa della scelta di un tema politico e non di qualcosa di più frivolo.

Nella narrativa transmediale è il lettore che deve collegare tutti i pezzi, tutte le informazioni che fanno riferimento a un macroargomento e ricostruire il messaggio. Ciò crea curiosità intorno all’oggetto comunicativo, alimentando un meccanismo di mistero, di «erotismo dell’informazione»: lasciare qualcosa di piccolo che non si sa bene cosa sia. Da qui il lettore è portato alla ricerca del messaggio precedente e di quello successivo, quindi alla scoperta di nuove informazioni. È proprio questo mistero che tiene in piedi il meccanismo comunicativo pubblicitario, alimentandone la diffusione.

È stato scelto questo tema, detto brutalmente, perché aveva una valenza «utilitaristica»: sui temi controversi è facile alzare polveroni, fomentati da pareri differenti e da contrasti che si autoalimentano. Esistono un’infinità di posizioni diverse sul tema del Sex Working, anche molto pensate. L’idea è stata quella di partire da un tema importante, che ha a che fare con un certo tipo di rivendicazioni di libertà, di diritti che dovrebbero essere in qualche modo universali: innanzitutto il diritto alla libera scelta riguardo il proprio corpo e la propria vita, che si declina anche come diritto al lavoro e alla libera scelta della propria professione.

Il problema è la condizione in cui versa, almeno in Italia, questo tipo di non-lavoro, spesso ostracizzato e incriminato. Tutt’oggi molto dibattuta è la questione etica, che nel nostro paese risente di una morale di matrice cattolica ancora molto potente e comporta una stigmatizzazione dei rapporti sessuali a pagamento come di tutte quelle abitudini sessuali che si discostano dalla monogamia etero orientata.

Di per sé, la legge italiana non è particolarmente criminalizzante: è lecito lo scambio di prestazioni sessuali per denaro, tanto che è prevista una forma di tutela dei sex workers nella misura in cui il cliente che si rifiuti di dare il compenso pattuito può essere condannato per violenza sessuale. Tuttavia, lo svolgimento pratico di questo lavoro è circondato da una muraglia di regole, norme, scappatoie e zone grigie.

Dal punto di vista procedurale, l’esperienza di B.O.A. ha dimostrato come questo tipo di comunicazione sia pericolosa. La sua deflagrazione può facilmente danneggiare le persone vicine a chi la utilizza, in particolare chi sfrutta i medesimi canali per raggiungere un target poco dissimile. Tuttavia, dimostrare la pericolosità del meccanismo è quel tipo di effetto collaterale che costringe quanti ne sono rimasti scottati a riflettere sulla forza e le implicazioni che un processo comunicativo può avere.

Un’arma, questo tipo di comunicazione particolarmente violenta, che può produrre dei risultati molto d’impatto.

Ph. credits: F.D., tutti i diritti riservati

Viaggio attorno alla circonferenza della Terra piatta

Per cercare la verità, è necessario almeno una volta nel corso della nostra vita dubitare,
per quanto possibile, di tutte le cose.
[Cartesio]

È con la lezione di Cartesio ben fissata nella mente che cerco di approcciarmi ai contenuti del convegno forse più discusso di questo mese, Terra piatta – tutta la verità, tenutosi a Palermo il 12 maggio.

Mettere in discussione la sfericità del mondo nel 2019 rimane per me surreale, ma dati e statistiche dimostrano che la riflessione sulla reale forma della Terra non può ancora esser data come conclusa: i grafici di Google Trends, che nel 2014 avevano segnalato un improvviso picco di ricerche attorno alle parole chiave flat Earth (Terra piatta), rilevano un costante aumento di interesse, mentre dai sondaggi risulta che non solo in America, terra natia della Flath Earth Society, ma anche in Italia, un sempre maggior numero di individui, soprattutto tra i 20 e i 40 anni, dubita della sfericità del globo.

Grafico di Google Trends che mostra l’incremento di ricerche aventi per oggetto flat Earth (Terra piatta) negli ultimi dieci anni

Il primo passo è la ricerca delle fonti: chi sono i ricercatori e quali le ricerche (scientifiche, presuppongo) che sono stati capaci di mettere in discussione un modello dato per certo già ai tempi di Aristotele?

La risposta arriva da uno studio della Texas Tech University, basato su interviste a 31 partecipanti alla prima conferenza internazionale dei terrapattisti, che hanno per la maggior parte dichiarato di esser stati convinti dai video caricati su YouTube. Spiega Alex Olshansky, uno dei ricercatori: «YouTube è dove i primi video sulla Terra Piatta sono stati postati nel 2014. Poiché gli algoritmi di YouTube raccomandano filmati che assomigliano a quelli già visti, una volta trovato un video è come entrare nella “tana del coniglio”».

E allora anch’io, armata del mio scetticismo metodico, mi preparo a gettarmi nella “tana del coniglio”, YouTube sullo schermo e cuffiette alle orecchie, per provare a risvegliarmi “oltre lo specchio”.

Mappa azimutale equidistante, considerata dalla Flat Earth Society come l’unica rappresentazione plausibile della Terra

 

Mi è presto chiaro che, come per gran parte delle teorie scientifiche, anche in questo caso l’unica soluzione per dissipare ogni dubbio è la ricerca empirica: il solo modo per sapere con certezza quale sia la reale forma del nostro pianeta sarà, dunque, un viaggio, o meglio una spedizione. Non basterà lasciarsi trasportare in un tour attorno al mondo dai tecnologici mezzi a disposizione dei moderni. Il controllo dei complottatori che vogliono inculcare l’immagine di un mondo sferico sarà, infatti, sempre in agguato; quindi niente telefoni cellulari né radar: ci resta solo una bussola e la mappa azimutale equidistante. Punti di incontro per i partecipanti, la serie di vagoni che da diverse longitudini ci porteranno ad Hammerfest, in Norvegia, da dove inizierà la nostra vera avventura, diretti alla prima meta: il nord o più correttamente il centro.

È durante questi spostamenti su rotaia che ricevo le mie prime lezioni sul campo di terrapiattismo. Per prima cosa, cambiare la prospettiva. Ferma in una delle innumerevoli stazioni europee, intenta a osservare l’orizzonte, mi scopro sospirare soprappensiero: «Però dei palazzi distanti riesco a vedere solo i tetti». Prontamente, un compagno di cabina si appresta a salvarmi dal rischio di cascare nell’illusione della curvatura terrestre: «È solo un errore ottico dovuto alla distanza», osserva imbracciando un cannocchiale con il quale recuperare l’immagine intera e nitida. Probabilmente perché nei miei occhi non trova ancora quella piena persuasione che cercava, si dilunga in osservazioni sul mezzo di trasporto che stiamo usando, facendomi notare come nessun architetto o ingegnere abbia mai tenuto conto nei suoi progetti della presunta curvatura della Terra, chiosando con la citazione dell’intervista su Earth Review dell’ingegnere Winckler (ottobre 1893): «Ho progettato diverse miglia di ferrovia e molte altre di canali, e questo fattore non è mai stato preso in considerazione. Un piccolo canale navigabile, diciamo di 30 miglia, dovrebbe secondo la curvatura avere una tolleranza di 600 piedi. (…) Noi non ci preoccupiamo di calcolare 600 piedi di tolleranza più di quanto non pensiamo di far quadrare un cerchio».

Tabella del calcolo della curvatura della Terra secondo Eratostene di Cirene (276-194 a.C. circa)

Del resto, come potrebbe avere senso pensare a una curvatura dei canali se proprio l’acqua è l’elemento che ci conferma la forma piatta della Terra? È cosa nota che nella fisica dell’acqua vi è la natura a mantenere il proprio livello e chiunque abbia osservato l’orizzonte su una distesa d’acqua lo avrà visto, appunto, orizzontale, piatto. Ed è proprio un paesaggio delimitato da una lunga linea blu che ci accoglie ad Hammerfest, dove alcuni novelli piloti ci attendono per sorvolare il Mar Glaciale Artico e condurci al centro del mondo. Durante gli oltre 2000 km di tragitto, il gruppo si confronta con gli aviatori circa alcuni punti cardine della teoria terrapiattista: se, come vogliono farci credere, la Terra avesse una superficie curva, gli aerei dovrebbero direzionare ogni tot miglia il proprio muso verso il basso, ma questo non avviene. Ancora più significativo è il metodo di calcolo delle rotte aeree: non solo per i nostri piloti è assodato il riferimento alla mappa azimutale equidistante, ma per qualsiasi compagnia aerea che si sposti nell’atmosfera terrestre.

Tra una chiacchiera e l’altra, raggiungiamo il nostro punto d’arrivo: il polo nord o meglio il centro della Terra, là dove veglia immobile la Stella Polaris, mentre la cupola del firmamento le ruota tutt’attorno. Da qui, inizia la tratta più difficile della nostra missione, che ha come obiettivo raggiungere i confini del Mondo; ci spostiamo dal cosiddetto estremo nord al cosiddetto estremo sud e, attraversate le grandi distese di Russia e Cina, ci dirigiamo verso South Okinotorishima, l’atollo giapponese più vicino alla Papua Nuova Guinea, da dove una nave ci porterà a solcare le acque dell’Oceano Antartico. L’idea di un volo diretto in Australia non è neanche preso in considerazione, non tanto perché diffidiamo delle compagnie aeree, quanto perché dell’esistenza di questo Paese, probabilmente ideato per illuderci che i carcerati siano stati deportati qui e non annegati in mare aperto, non abbiamo alcuna certezza.

Firmamento, Sole e Luna all’interno del modello di Terra proposto dalla Flat Earth Society

Navigando in direzione opposta al polo nord, l’esperienza conferma le supposizioni: dell’Australia nemmeno l’ombra, mentre riusciamo finalmente a dar prova definitiva delle reali misure di longitudine e latitudine. Basta lasciarsi alle spalle i moderni GPS e tornare all’utilizzo del log, per accorgerci che non bastano le forti correnti che ci investono a giustificare le discrepanze tra le misure indicate dal modello terra-globulare e la realtà dei fatti, che trova perfetto riscontro sulla nostra mappa azimutale equidistante. Non appena il color smeraldo del muro di ghiaccio antartico alto 400 km si staglia al nostro orizzonte, iniziamo la circumnavigazione della parete, con il sole sempre presente appena alle nostre spalle impegnato nel nostro stesso spostamento attorno la circonferenza del Mondo; se l’Antartide corrispondesse a un polo, dovremmo percorrere circa 18500 km, ma noi siamo già armati della pazienza necessaria a un viaggio pari ad almeno sei volte tanto. E così è: per mesi scrutiamo la parete di ghiaccio in cerca di una fenditura, sferzati dai venti e dalle continue grandinate che ci piovono addosso, determinati a scoprire se oltre quel confine si trovino nuovi mondi.

Latitudine e longitudine secondo la teoria della Terra piatta

Trascorsi anni di peregrinazioni, ormai stremati e decimati, forse pronti ad arrenderci, l’ennesima tempesta si abbatte su di noi; i suoi flutti nascondono il cielo e investono la nostra nave, sconvolta da un rullio turbinoso, e…

E la mia sveglia suona, sincronizzata con un sole che sorge a est e tramonta a ovest, ruotando attorno a una Terra sferica. YouTube continua a propinare teorie ingigantite da musiche apocalittiche; spengo il pc e mi alzo dal letto, posando un piede che la forza di gravità mantiene ben ancorato a Terra. Restano solo un paio di dubbi: perché un indefinito numero di illuminati o massoni, di politici, scienziati, astronauti, piloti, dovrebbe essere interessato a illudermi che la terra sia sferica per avere il controllo sulla mia libertà? E, soprattutto, perché l’idea di un piano tondo delimitato da insormontabili pareti di ghiaccio dovrebbe farmi sentire più libera dell’immagine di una sfera, un po’ imperfetta, che fluttua nell’infinità dell’Universo?

Informazione e comunità LGBTQI: cala il PIL, aumentano i gay

Cala il PIL, aumentano i gay”. Così titolava un noto quotidiano italiano qualche tempo fa. Quale fosse il nesso tra l’andamento economico del Paese e la popolazione omosessuale che lo abita non sono mai riuscita a scoprirlo, ma ho immaginato che non fosse la logica il fulcro dell’interesse del titolista. L’importante era trasmettere una percezione negativa della comunità LGBTQI al lettore attraverso l’associazione di idee.

Sono attivista per i diritti civili ormai da una decina di anni e uno dei motivi principali che mi hanno spinto a diventarlo è stata proprio la mala informazione, nonché i maldestri tentativi da parte di un certo tipo di stampa di trattare le tematiche LGBTQI.

La mia prima azione da attivista lesbica fu quella di cancellare con della vernice una scritta omo-transfobica abbastanza violenta sbombolettata in bella vista sulle mura di Città Alta a Bergamo, la mia città. Dato che con me c’erano due candidati alle comunali, la fotografia della cancellazione della scritta incriminata finì sul quotidiano online locale. Ricevemmo degli insulti pesanti. Avevo vent’anni e per fortuna, dopo anni di bullismo a scuola, avevo già le spalle grosse. Ma ricordo benissimo questo episodio e quelli successivi, quando le azioni e gli eventi di Bergamo contro l’omofobia, l’associazione che fondai nel 2009, venivano pubblicati dal suddetto quotidiano ed erano seguiti da commenti abominevoli. Forse ai tempi non andava ancora di moda parlare di “haters”, ma questo effettivamente erano le persone che commentavano: odiatori professionisti.

Immagine ripresa dalla Pagina Facebook ufficiale de L’Eco di Bergamo. Articolo: https://www.ecodibergamo.it/stories/bergamo-citta/malpensata-danneggiata-la-rotondasistemeremo-a-nostre-spese_1311048_11 (19 maggio 2019; ore 15.03).

Lessico errato, dove termini come “il transessuale” e “il viado” la fanno da padrona, ledendo la dignità delle persone transgender a cui ci si riferisce con i pronomi sbagliati. Resoconti di Pride in cui il numero dei partecipanti cala inspiegabilmente rispetto alla realtà della piazza. Articoli paternalistici che celano giudizi morali. Invisibilità delle donne lesbiche. Mancata moderazione dei commenti degli utenti. Queste sono solo alcune delle imbarazzanti strategie adottate da parte del giornalismo italiano in materia LGBTQI. Quando si tratta di Pride, per esempio, le strade sono due: o la mancata copertura dell’evento da parte di alcuni quotidiani, come accaduto lo scorso anno in occasione della prima edizione di Bergamo Pride, o la scelta ben precisa di far apparire il Pride come una pagliacciata, attraverso una minuziosa ricerca di immagini e titoli volutamente fuorvianti, che puntano a scandalizzare il pubblico.

Immagine ripresa dalla Pagina Facebook ufficiale de L’Eco di Bergamo. Articolo: https://www.ecodibergamo.it/stories/bergamo-citta/malpensata-danneggiata-la-rotondasistemeremo-a-nostre-spese_1311048_11 (19 maggio 2019; ore 15.03).

Queste strategie portano inevitabilmente alla manipolazione di informazioni e dati oggettivi per arrivare alla pancia del lettore, scatenando tutta la sua omo-lesbo-transfobia.

È quanto successo per esempio in occasione del secondo Bergamo Pride, quando un gruppo di partecipanti è salito sulla rotonda cittadina appena piantumata, danneggiandola. Nonostante il comitato organizzatore si fosse subito attribuito la responsabilità politica ed economica dell’accaduto, uno dei più noti quotidiani locali non ha esitato a cavalcare l’accaduto per gettare fango sull’organizzazione, rilanciando le parole ingiuste e cariche di odio di una candidata di destra in campagna elettorale, senza un previo passaggio di verifica con la controparte interessata.

I lettori non hanno avuto filtri e la totale mancanza di moderazione dei commenti da parte dei Social Media Manager ha consentito che venissero postati insulti molto pesanti nei confronti del comitato Bergamo Pride e dei partecipanti alla manifestazione. Possibile che sia sufficiente un danno – seppur increscioso, comunque facilmente risolvibile – all’aiuola di una rotonda per gettare discredito sull’intera comunità LGBTQI? Probabilmente il quotidiano in questione sapeva molto bene quali tasti toccare.

Immagine ripresa dalla Pagina Facebook ufficiale de L’Eco di Bergamo. Articolo: https://www.ecodibergamo.it/stories/bergamo-citta/malpensata-danneggiata-la-rotondasistemeremo-a-nostre-spese_1311048_11 (19 maggio 2019; ore 15.03).

Eppure in questa spiacevole vicenda riesco comunque a trovare un lato positivo: l’omo-transfobia di molti miei concittadini e concittadine è stata finalmente smascherata, dimostrando quanto ci sia ancora bisogno di Pride in una città come Bergamo.

E proprio nell’ambito del percorso di questo secondo Bergamo Pride, abbiamo avuto l’onore di ospitare Federica Cacciola, in arte Martina Dell’Ombra. Federica interpreta un personaggio diventato celebre sul web per aver trollato con fake news e commenti paradossali il popolo dei social. Attraverso Martina Dell’Ombra, pariolina ricca e snob, Federica ha ingannato milioni di persone con la sua satira acuta e brillante. Con lei abbiamo riflettuto sul confine labile tra realtà e finzione, presentazione oggettiva dei fatti e manipolazione delle informazioni e lo abbiamo fatto attraverso una intervista doppia.

Martina ha passato in rassegna parte degli stereotipi legati al mondo LGBTQI, interpretando il personaggio dell’italiano medio che si approccia al tema dell’omosessualità e, nel tentativo di dimostrare apertura, rivela invece la propria omo-transfobia: “Ho tanti amici gay, sei un poveraccio se non hai amici gay. Ormai gli unici che non hanno amici gay sono i gay”.

Federica, invece, ha posto al centro della sua riflessione la cultura, unico strumento in grado di farci interrogare sulla veridicità delle notizie che ogni giorno ci bombardano sui Social. Milioni di persone hanno pensato che Martina Dell’Ombra fosse un personaggio reale che desse opinioni reali, insultandola con epiteti sessisti di ogni tipo, senza chiedersi perché le sue dichiarazioni fossero così paradossali. Come lei stessa ha sottolineato, “I media si nutrono del trash” e “Non siamo più in grado di interpretare i livelli di lettura di un contenuto, per questo proliferano le fake news”. Sembra proprio che le persone si fidano ciecamente del web e di quello che leggono sui Social, senza curarsi di approfondire e controllare le informazioni ricevute.

Immagine ripresa dalla Pagina Facebook ufficiale de Bergamonews. Articolo: http://www.bergamonews.it/2019/05/20/rotonda-danneggiata-bergamo-pride-coprira-le-spese-responsabili-ci-diano-mano/309592 (20 maggio 2019; h 11.00).

Come illustrano le Linee guida per una informazione consapevole LGBT dell’UNAR: “Dai dati di una ricerca del 2012 svolta dal LaRiCa (Laboratorio di Ricerca Comunicazione Avanzata) dell’Università di Urbino emerge il ruolo crescente di Internet nella dieta informativa degli italiani. Il 50,5% usa una combinazione di fonti informative online e offline e quasi la metà (48,7%) dichiara di attingere a 5 o più mezzi di comunicazione (radio, tv locale, tv nazionale, allnews, stampa locale, stampa nazionale, internet). Gli online news consumer sono il 51,1% della popolazione, ma il 93,8% nella fascia 18-29 anni. Nel 62,7% dei casi utilizzano fino a 5 siti web diversi per informarsi, e in 1 caso su 4 ottengono informazioni attraverso amici o pagine fan in Facebook. Oltre 1 utente su 3, inoltre, contribuisce sui Social Network alla creazione di news, inserendo commenti o condividendo le notizie attraverso le proprie reti. La rete, insomma, occupa uno spazio sempre più importante nel lavoro di chi fa informazione e nell’esperienza di chi ne usufruisce.”

La comunità LGBTQI ha ancora tanta strada da fare affinché gli organi principali di informazione ne presentino un’immagine realistica, favorendo il calo delle discriminazioni.

Secondo il rapporto di Amnesty International sulle discriminazioni del 2018, infatti, il 61,3% dei cittadini tra i 18 e i 74 anni ritiene che in Italia gli omosessuali siano molto o abbastanza discriminati. D’altronde è stato oggetto di insulti e umiliazioni il 35,5% della popolazione Lgbtqi contro il 25,8% degli eterosessuali. E, in generale, il 40,3% delle persone Lgbtqi afferma di essere stato discriminato nel corso della vita, a scuola o in università e sul posto di lavoro.

In Italia, un ragazzo o una ragazza su due, tra gli 11 e i 17 anni, ha subìto episodi di bullismo. Se il bullismo non è un fenomeno nuovo, sicuramente lo è il cyberbullismo. Secondo i dati Istat, il 22% dei ragazzi italiani che utilizzano Internet e smartphone (oltre il 90%) sono derisi e umiliati in rete. Per fare un esempio: in Italia, il 55,9% si dichiara d’accordo con l’affermazione “Se gli omosessuali fossero più discreti sarebbero meglio accettati”, mentre per il 29,7% “La cosa migliore per un omosessuale è non dire agli altri di esserlo”.

Immagine ripresa dalla Pagina Facebook ufficiale de Bergamonews. Articolo: http://www.bergamonews.it/2019/05/20/rotonda-danneggiata-bergamo-pride-coprira-le-spese-responsabili-ci-diano-mano/309592 (20 maggio 2019; h 11.00).

Bergamo Pride si costituisce invece come spazio sicuro, dove parole come “discretezza” non sono accettate e chiunque può manifestare la propria identità come meglio ritiene opportuno, tutelato/a dal manifesto politico e dall’organizzazione. Relegare le persone LGBTQI all’invisibilità non le rende certamente più tollerabili, le discrimina e basta, così come chiedere loro di non fare coming out e di restare nell’ombra. Pertanto il team di comunicazione di Bergamo Pride e il comitato stesso continueranno a lavorare in questo senso, con l’obiettivo di diffondere una cultura del rispetto delle identità, promuovendo una informazione corretta che rispetti i parametri indicati da UNAR.

 

Immagine di copertina libera da qualsiasi copyright.

Immagini presenti nel testo di Pequod Rivista. Tutti i diritti riservati.

Malpensata manda a dire. Scatti di quartiere

Si è concluso da pochi giorni il laboratorio di fotografia Malpensata manda a dire, a cura di Francesca Gabbiadini, nell’ambito di Trasfigurazioni, format con protagonista questo quartiere vivace e in continuo cambiamento, appena fuori dal centro di Bergamo. Le immagini prodotte dai fotografi partecipanti saranno esposte, assieme alle opere degli altri laboratori di Trasfigurazioni, sabato 25 e domenica 26 maggio presso lo Spazio Gate.

“Male pensata”, così era definita la cascina che dette il nome al quartiere; l’area, infatti, agli inizi dell’Ottocento era poco invitante, il terreno poco fertile e sassoso, gli spazi verdi e incolti. Oggi questo spazio urbano si presenta ai nostri occhi come un ambiente variopinto e multietnico. Attraverso l’obiettivo della macchina fotografica scorgiamo un quartiere in cui siti storici si accostano a luoghi moderni e in cui convivono, l’una a fianco all’altra, identità tra le più disparate. Quali sono, quindi, i protagonisti della Malpensata?

Il primo incontro è con Johnny, che attraversa l’ampio parcheggio vendendo rose e ha sempre il sorriso sul suo volto gentile; anche se un po’ imbarazzato, si lascia fotografare.

Poco oltre, su via Gavazzeni si affacciano le vetrine del negozio di strumenti musicali Begnis, in Malpensata dal 2006. Acconsentendo alle nostre timide richieste, il proprietario concede di lasciarci fotografare le pareti coperte di chitarre acustiche, mentre ci racconta che il vecchio negozio in via Sant’Orsola, zona pedonale, era diventato comodo per i suoi clienti. Qui, infatti, i musicisti non entrano solo per un rapido acquisto: in questo piovoso sabato mattina c’è un andirivieni di gente che fa domande, prova gli strumenti, prende le misure di un magnifico pianoforte a coda.

Sulla stessa strada troviamo il Patronato San Vincenzo, progetto di don Bepo che da più di novant’anni accoglie chi ha bisogno di un rifugio. Abbiamo l’opportunità di andare oltre gli alti muri esterni grigi, passando sotto l’invito “Amatevi a vicenda” che sovrasta il cortile e scoprendo gli spazi comuni in cui convivono gli ospiti.

Al suono della campanella dell’ultima ora di scuola, il marciapiede di fronte al Patronato viene invaso dagli studenti che si avviano al sottopassaggio che li porta alla stazione. Anche osservandoli attraverso l’obiettivo, riusciamo a percepire l’atmosfera di spensieratezza ed entusiasmo per i programmi del fine settimana.

Seguendo a ritroso il loro percorso, andiamo oltre gli edifici scolastici e ci ritroviamo immersi tra le vie residenziali del quartiere. Tra un condominio e l’altro, sbuca un angolo di Campania, in pieno centro Bergamo: è il bar Amici dello sport, in cui si tifa Napoli, motivo più che sufficiente, unito alla gentilezza dei proprietari, per fermarsi a bere un caffè e ammirare trofei, sciarpe e magliette della squadra.

In fondo alla strada, all’incrocio tra via Furietti e la lunga provinciale che porta a Zanica si affaccia la Chiesa Santa Croce, consacrata il 24 maggio 1924 in occasione dell’anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia ed eretta proprio in ricordo dei caduti in guerra e come ringraziamento a Dio per la fine del conflitto.


All’angolo opposto dello stesso incrocio, il ristorante cinese L&W e, attraversata via per Zanica, un giovane macellaio halal, che ci lascia prendere qualche scatto mentre continua il suo lavoro, tagliando, pesando e incartando pezzi di carne.


Infine, arriviamo al parco della Malpensata, da sempre luogo d’incontro non solo di quartiere, ma per chiunque cerchi uno spazio verde in centro città. La sua riqualifica sembra muoversi nella giusta direzione, soprattutto quando lo vediamo addobbato di arcobaleni per l’imminente Bergamo Pride, a sostegno dell’amore senza differenze. Colorato, come il quartiere Malpensata.

Articolo di Lisa Egman e Sara Ferrari.

Fotografie di Lisa Egman. Tutti i diritti riservati.

Abbattere le mura dell’odio: Bergamo Pride 2019

Articolo di Laura Liverani

Anche quest’anno ce l’abbiamo fatta. Io e gli altri membri del comitato abbiamo portato a termine l’organizzazione della seconda edizione di Bergamo Pride… E siamo incredibilmente sopravvissute/i! Migliaia di persone sono infatti scese in piazza sabato 18 maggio, colorando di arcobaleno una giornata uggiosa e reclamando a gran voce la libertà di essere e di amare. La pioggia non ha infatti fermato la marea di gente che ha pacificamente invaso le strade del centro cittadino, partendo dalla stazione fino al raggiungimento del parco Gate della Malpensata.

Orgoglio oltre le mura”, lo slogan scelto per questo secondo Pride bergamasco, ha connotato la manifestazione, caricandola di un significato simbolico oggi valido più che mai. In un’epoca di muri e confini, Bergamo Pride ha chiesto alla popolazione di attraversarli e abbatterli, in un’ottica di condivisione delle differenze di orientamento sessuale, identità di genere ed etnia. Se da una parte il muro dell’omo-transfobia e del razzismo è stato distrutto – emblematica in questo senso l’azione simbolica della cooperativa La Solidarietà di Dalmine, che ha abbattuto un muro di cartone sul palco – una cinta di mura umane è stata costruita durante il corteo finale: le persone si sono sentite protette dalla folla, si è creato uno spazio sicuro di comunità dove poter essere se stessi senza paura, dove prendere la mano del proprio ragazzo o della propria ragazza per baciarsi in libertà, come ricorda il messaggio ricevuto da Massimo, uomo gay di 58 anni che per la prima volta ha partecipato a un Pride e per la prima volta si è sentito veramente libero.

Riunitosi a partire dai primi di ottobre, il comitato Bergamo Pride ha lavorato instancabilmente per sette lunghi mesi, dando vita a un percorso culturale e informativo. Composto prevalentemente da singoli cittadini e cittadine, provenienti da diversi background, da alcuni rappresentanti del sindacato CGIL e di qualche associazione, il comitato ha avviato una riflessione improntata proprio sul senso di comunità: possiamo ritenerci soddisfatte/i dei risultati raggiunti. Rispetto all’anno scorso, abbiamo lavorato molto sull’unità interna del comitato, cercando di fare coesistere voci e necessità diverse, evitando personalismi e protagonismi e cooperando per un unico scopo. L’amministrazione comunale ha contribuito alla buona uscita dell’evento, mettendo a disposizione le proprie forze e sostenendo la realizzazione di Bergamo Pride.

Tuttavia il percorso da fare è ancora molto lungo, dal momento che è bastato il parziale danneggiamento dell’aiuola decorativa di una rotonda, calpestata da un gruppo di persone noncuranti delle conseguenze che il loro gesto avrebbe avuto sull’organizzazione, per dare sfogo a commenti violenti e senza filtri di centinaia di lettori dei quotidiani locali, nonostante l’organizzazione stessa si fosse già scusata, attribuendosi la responsabilità politica ed economica dell’accaduto. A dimostrazione del fatto che i Pride sono sempre più necessari e sono in grado di smascherare l’omo-transfobia e l’odio che si nascondono dietro a frasi fatte come “io non ho niente contro i gay, ma…”. Abbiamo appurato qual è la vera natura di molti dei nostri concittadini/e; lavoreremo ancora più duramente per costruire un’alternativa all’odio.

Fortunatamente le testimonianze che ho ascoltato alla partenza e all’arrivo del corteo, nonché i commenti positivi che ho ricevuto, parlavano tutta un’altra lingua. Ho visto in manifestazione alcune mie studentesse, con le quali avevo affrontato l’argomento e che a un Pride non erano mai state. Una di loro si è aperta, dicendomi che si è sentita al sicuro, perché avendo subito discriminazioni per il colore della sua pelle sapeva cosa significava sentirsi sbagliati e avere paura. Era la prima volta che parlava di quanto le era successo. Ho anche intravisto una collega, in prima fila a ballare sotto la pioggia, e mi ha fatto molto piacere: il mio ambiente lavorativo continua a spaventarmi molto e non sono dichiarata con tutti/e. Ho visto i miei amici e le mie amiche eterosessuali, i cosiddetti “alleati”, sfilare per i miei diritti e condividere la mia battaglia. Ho incontrato mia madre e non ho resistito: le lacrime sono scese copiose quando l’ho abbracciata.

Anche quest’anno raccolgo i frutti di questo bellissimo e faticosissimo Pride e mi porto a casa un’altra esperienza altamente formativa in vista di una possibile terza edizione. Concludo facendo mie le parole dell’attivista Angela Davis, quando afferma: “Non accetterò più le cose che non posso cambiare. Cambierò le cose che non posso accettare.”

In attesa di ricaricare le batterie e fare un bilancio collettivo di questo Bergamo Pride, vi aspettiamo il 24 maggio alla Biblioteca Gavazzeni di Città Alta per parlare di esperienze di coming out, conflitti, amori e identità in compagnia del Circolo dei narratori di Bergamo e il 14 luglio al Punk Rock Raduno presso Edoné per l’attesa estrazione dei premi della lotteria di autofinanziamento di Bergamo Pride.

Fotografie di Francesca Gabbiadini. Tutti i diritti riservati.

Malpensata site-specific e Trasfigurazioni di quartiere

Nel settembre 2018 la Compagnia Trasfigura presentava Doppi sensi. Il gioco delle parti, uno spettacolo comico-poetico che parla della “lotta” degli organi più nascosti del corpo, pene e vagina, contro il giudicante e mascherante cervello: una produzione autonoma che si rifà ai linguaggi dell’assurdo e del teatro fisico, che gioca con l’immaginario del corpo per parlare con seria leggerezza di tematiche legate al rapporto tra femminile e maschile e alla sessualità del nostro tempo.

Questo approccio e questa ricerca si protraggono nel tempo sia «per piacere che per percorsi di studio affrontati nelle rispettive carriere. È questo ciò che ci differenzia un po’ dalla semplice compagnia teatrale. Nella creazione di uno spettacolo, ci piace molto la costruzione culturale, la commistione di arti visive: abbiamo una forte passione per la progettazione culturale». Queste le parole di Serena Gotti, regista di questo spettacolo e co-fondatrice di Compagnia Trasfigura, insieme ad Alice Laspina.

Capiamo ancora meglio la direzione della giovane compagnia parlando del loro format progettuale Trasfigurazioni che nella sua prima edizione, per tutto il mese di maggio 2019, animerà il quartiere della Malpensata, nella città di Bergamo. Continua Serena: «La produzione teatrale e la progettazione culturale si sposano con la nostra passione per il lavoro site-specific, pensato per le caratteristiche di un particolare territorio, arrivando all’ideazione di progetti che valorizzino il territorio attraverso forme artistiche, non solo teatrali. Nel format Trasfigurazioni, infatti, vengono incluse musica, fotografia, videomaking. Parlo di “format” e non di progetto nel senso che Trasfigurazioni non si concluderà con l’esperienza della Malpensata: il nostro intento è svilupparlo in altri comuni della bergamasca, con sfumature e declinazioni diverse, per esplorare nuove forme di possibili narrazioni artistiche condivise».

Trasfigurazioni_Pequod Rivista

Questa connessione tra forme artistiche e territorio aveva già visto la compagnia impegnata nella sua penultima produzione teatrale: Segrete stanze, una performance specificamente pensata per l’ex Carcere di Sant’Agata di Bergamo. Continua Serena: «Ci piace l’idea della costruzione immediata e la sua fruizione, lavorare su uno spettacolo che non per forza deve avere vita lunga, che non per forza trovi una forma chiusa in cui definirsi. Visti i nostri studi e la nostra formazione, adoriamo lavorare sul site specific, al di là della semplice produzione teatrale, soprattutto per le nostre esperienze di teatro fisico. È questo il lato del teatro che più ci ha interessato e ci ha portato di conseguenza ad arrivare a un progetto come Trasfigurazioni».

Trasfigurazioni_Segrete stanze_Compagnia Trasfigura
“Segrete stanze” (primo studio), presentato da Compagnia Trasfigura all’interno della rassegna Per amore o per forza 2017.

La partenza del progetto nasce dal bando “Legami Urbani”, che al meglio si sposava con le idee delle due artiste, seguite da sei intensi mesi di processo artistico e lavorativo. «Quattro laboratori per quattro tematiche, quattro arti per quattro narrazioni differenti del quartiere: i laboratori di sperimentazione sono il cuore pulsante di Trasfigurazioni, per approfondire la storia che ha contraddistinto la Malpensata attraverso le forme del suono, del video, del teatro e della fotografia. Abbiamo pensato a un progetto il più possibile inclusivo, con attività dedicate ai bambini e agli adulti, dedicate a specifiche fasce d’età».

Trasfigurazioni_laboratori_Pequod Rivista

Trasfigurazioni_laboratori_Pequod Rivista

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Alcuni scatti dai laboratori dalla prima edizione di Trasfigurazioni.

La scelta del quartiere della Malpensata per lo sviluppo delle attività è forse uno dei punti di forza del progetto: da sempre considerato come quartiere “di secondo livello”, ma ricco di storie e culture da rivelare all’intera città. Trasfigurazioni si presenta quindi come una proposta per rivalutarne e raccontarne nuovamente la storia, per donare una veste artistica a un quartiere cittadino ma marginale, trasfigurando. Trasfigurazioni è anzitutto arte partecipativa e relazionale, che si inserisce nei contesti sociali quotidiani per intrecciarsi con essi e creare nuovi punti di vista.

Sono in programma due interessanti giornate conclusive del processo artistico di Trasfigurazioni: sabato 25 e domenica 26 maggio verranno condivisi gli esiti dei laboratori, le narrazioni collettive strutturate nelle forme delle performance musicali e teatrali, della mostra fotografica e della proiezione video; a conclusione, gli interventi di Nicola Feninno (direttore di CTRL Magazine) e Renato Ferlinghetti (Università degli Studi di Bergamo) negli incontri informali a cura di Conversas Bergamo

Ph. credits: Compagnia Trasfigura 

Malpensata_Trasfigurazioni_Pequod Rivista

“Buckets!” di Sebastiano Ruggeri: la musica dei luoghi, la musica per tutti

Dal 4 al 26 maggio il quartiere della Malpensata di Bergamo prende vita grazie a Trasfigurazioni, un progetto artistico-culturale che prevede workshop e laboratori dedicati a bambini, ragazzi e adulti organizzato dalla compagnia teatrale Trasfigura, per giocare, divertirsi, ma soprattutto sperimentare con la storia di questo quartiere. “Buckets!” è il nome del laboratorio musicale che si sta svolgendo in questi giorni presso il Parco della Malpensata: un’attività con percussioni improvvisate ricavate da oggetti quotidiani o di scarto, rivolto a bambini dai 7 agli 11 anni, che terminerà il 25 e il 26 maggio con due momenti di laboratorio aperto a tutti a cura di Sebastiano Ruggeri, il conduttore degli incontri.

Malpensata_Trasfigurazioni_Pequod Rivista

Sebastiano Ruggeri è musicista e docente di attività musicali; dopo la laurea in Filosofia e un diploma ai Civici Corsi di Jazz di Milano, si iscrive al Conservatorio della stessa città. La sua passione per la musica, però, comincia dalle scuole medie, dove si avvicina a questo mondo che tanto lo affascina: inizia a studiare la tromba, poi le percussioni. Ad oggi ha diverse collaborazioni attive, tra cui quella con Pulsar Ensemble (Italia) e con Rayuela (Spagna). Alla musica Sebastiano affianca anche uno spiccato interesse per la didattica e l’insegnamento che diventa per lui un’importante fonte di stimolo, di soddisfazione, ma soprattutto di costante ricerca personale. «I laboratori», spiega il giovane musicista, «sono nati come declinazione di un approccio in continua evoluzione, che ho sviluppato negli anni. Volevo – e ho provato a – costruire una sorta di metodo aperto, che mi permettesse di veicolare informazioni musicali e ritmiche nel modo meno mediato o più immediato possibile. La progettazione dei laboratori è stata fatta insistendo sull’analogia della musica con il linguaggio e con il mondo ludico. Le pratiche sono pensate e costruite come giochi dotati di regole o parametri, su cui si può intervenire con estrema varietà e libertà, permettendo di fatto un adattamento sartoriale dei giochi stessi alle varie situazioni. Questo mi permette di inserire elementi presi da linguaggi musicali differenti, di usare l’imitazione, l’improvvisazione (anche radicale), la conduzione e la composizione collettiva estemporanea e combinarle in base alla costituzione e alla risposta del gruppo».

Sebastiano Ruggeri_Trasfigurazioni_Pequod Rivista

Malpensata_Trasfigurazioni_Pequod Rivista

I laboratori rispondono anche ad una scelta ambientalista ed ecologica: prevedono il riuso e riciclo di materiali, che trovano così un nuovo impiego, un nuovo modo di essere usati e diventano strumenti per fare e creare musica. «Partendo dai materiali tipici dello street drumming», continua Sebastiano, «e aggiungendo strumenti trovati o autocostruiti, possiamo molto facilmente creare una situazione orizzontale, in cui chiunque può da subito fare musica con altri, usando una gamma di suoni affidabile e condivisa, ma anche tremendamente personalizzabile». Ma nella pratica? Durante questi laboratori i bambini, che sperimentano come si creano suoni, armonie e melodie di gruppo, passano la maggior parte del loro tempo «a fare giochi musicali, progettati per poter familiarizzare con concetti come la pulsazione e la condivisione del tempo, la metrica, il groove nel modo più divertente possibile, cioè colpendo a mazzate secchi, pentolacce, coperchi… ecco, ho appena trovato una tazza di latta che suona benissimo se la colpisci forte!». Di certo i bambini non si annoiano: imparano con il gioco e l’esperienza condivisa l’importanza dello stare insieme e del collaborare, senza dimenticare il fil rouge, la musica, a cui si unisce la realizzazione di suoni con i materiali di riciclo.

Malpensata_Trasfigurazioni_Pequod Rivista

Come spiega Sebastiano, «da sempre è stato prioritario per me che il mio approccio fosse adattabile a varie situazioni e differenti interlocutori; dopo averlo sperimentato sia con studenti delle più disparate età che con i detenuti della Casa Circondariale di Monza (dove sto tenendo con il mio amico e collega Alex Stangoni un laboratorio basato su questi principi) posso dire con gioia che ogni gruppo ha sempre impiegato poco tempo e sforzo per impadronirsi delle mie proposte. Il bello è, quindi, che si riesce da subito a fare musica insieme. Il caso di Trasfigurazioni è particolare perché per la prima volta il denominatore, il sostrato è la condivisione del luogo di vita, del quartiere, nella fattispecie un quartiere molto articolato e stratificato della città. Pertanto cercheremo di fare in modo che sia, oltre che teatro fisico della performance, anche un riferimento evocativo che irrompe nella performance stessa: in uno dei giochi cercheremo di raccontare i suoni di una giornata di mercato nel quartiere. Sono davvero curioso di vedere come questo tipo di riferimento potrà indirizzare le scelte sonore del gruppo». “Buckets!” si propone come laboratorio di musica che permette non solo ai bambini di fare pratica con i suoni, di scoprire e di comunicare con un nuovo linguaggio interiore e al contempo collettivo, ma, in vista delle due giornate del 25 e del 26 maggio, sarà anche per gli adulti uno stimolo a conoscere i tanti princìpi di questo lavoro (e non solo), e chissà, forse anche appassionarsi come Sebastiano.

Malpensata, quartiere di aree verdi e popolarità in continuo cambiamento

Il primo sguardo alla Malpensata, arrivando dalle vie del centro di Bergamo, è uno sguardo che respira: un’improvvisa apertura di polmoni e orizzonti su questo quartiere che si dà come spazio. A imprimersi come immagine d’insieme, una volta lasciati gli infiniti sensi unici delle vie principali e superate le colonne della sopraelevata che permette ai treni su rotaia di attraversare la città in direzione Milano, è l’ampio piazzale, posto quasi a segnale dell’inizio del quartiere di cui condivide il nome.

Piazzale Malpensata, pur con il suo sovraffollamento di auto dentro e fuori le aree delimitate dalle strisce bianche della segnaletica stradale e di parcheggiatori abusivi che scrutano in un’ininterrotta ricerca dell’ultimo rettangolo di cemento libero, nella speranza non pretesa di ottenere una moneta, è uno dei pochi angoli di città non ancora monetizzati. Non ancora, ma ancora per poco, visto il nuovo Piano della Sosta, che prevede lo svuotamento del piazzale dalle vetture, non appena verrà inaugurato il parcheggio all’ex gasometro (già in opera), all’angolo opposto dell’incrocio su cui la Malpensata si affaccia, che prevede 300 posti auto, usufruibili pagando 2 € l’ora. A segnalare l’inizio dei lavori di rinnovamento e decongestionamento dell’area, è stata la comparsa dell’ampia rotonda che da fine gennaio si frappone proprio tra i due parcheggi rivali, quasi a monito di un movimento che cambierà il volto della Malpensata.

Progetto per la realizzazione del parcheggio all’ex gasometro e dell’antistante rotonda.

I progetti di rinnovamento non si arrestano alla viabilità, e tra tutti il più discusso è lo spostamento di uno degli appuntamenti più movimentati del Piazzale: il mercato del lunedì, che da più di 50 anni colora la piazza di oltre 200 banchi e una varietà umana che spesso, una volta finiti gli acquisti, si riversa nell’adiacente parco a condividere il pranzo di inizio settimana. Il Comune ha già avviato un investimento da 1,5 milioni per asfaltare l’area di via Spino, nell’adiacente quartiere Carnovali, che ospiterà circa 200 banchi, cui si aggiungono i lavori per adattare il centralissimo Piazzale degli Alpini, proprio davanti la stazione, dove andrà la restante trentina di ambulanti e che già paga lo scotto della sua riqualifica, con lo sradicamento di 25 alberi storici. Le rimostranze arrivano in primis proprio dai venditori, guidati dall’ANA (Associazione Nazionale Ambulanti), cui si uniscono le voci di molti cittadini, che vedono nello spostamento e soprattutto nella frattura del mercato in due diverse aree, tanto lo snaturamento di una tradizione quanto il pericolo di perdere parte del fatturato. A loro si aggiungono i numerosi movimenti per la tutela del verde urbano, che sottolineano come la rapidità nella cementificazione e nell’abbattimento di alberi adulti non potrà essere velocemente compensata dal progetto di ampliamento del parco della Malpensata, le cui giovani piante impiegheranno necessariamente anni per costituire quel polmone verde di cui la città necessita e diventare punto di riferimento per la fauna che annidava nelle aree verdi ormai scomparse.

Corteo di protesta di lunedì 29 Aprile degli ambulanti che, chiuso il mercato, hanno raggiunto con i loro furgoni il Comune di Bergamo; già l’8 Aprile vi era stata una manifestazione simile contro lo sradicamento del mercato in Malpensata, cui avevano preso parte 63 furgoni, congestionando il traficco delle strade di Bergamo. [ph. ANA – Associazione Nazionale Ambulanti]
La speranza è che la natura dimostri ancora una volta quella capacità adattiva che le permette di sopravvivere all’azione umana e che animali e piante, già allontanati da questo quartiere quando a inizio ‘900 sorsero i primi palazzi popolari, siano pronti a riabitare l’area verde prevista dai Piani dell’Amministrazione Comunale.  Nell’ambito del progetto Legami Urbani, che prevede lo stanziamento da parte del Governo di 18 milioni di euro per le periferie della città di Bergamo, si pronostica un ampliamento del 30% della superficie del parco (pari a 5200 mq) e la creazione di uno skate park  con annessa struttura coperta polivalente che andrà a sostituire il vecchio palazzo del ghiaccio, abbattuto già lo scorso anno. In questo modo, il Comune si dichiara in linea con le trasformazioni che il quartiere sta vivendo dagli anni ’60, quando il cimitero San Giorgio, costruito nel 1813 fuori dalle mura della città e soppresso nel 1904, ma smantellato solo verso gli anni ‘40, venne temporaneamente adibito a mercato del bestiame e ospitò saltuariamente il circo equestre e la fiera di Sant’Alessandro. Per secoli, l’area della Malpensata era stata, come la toponimica del nome stesso evoca, poco più che un luogo infelice appena fuori dalla città: ospite di un lazzaretto d’emergenza nel Seicento, poi sede del cimitero e infine destinata allo stoccaggio del gas, il quartiere Malpensata sembrerebbe dovere il suo nome a una vecchia cascina, ormai abbattuta, nel cui cortile sorgeva un albero usato come gogna per gli evasori del dazio, riscosso presso la vicina porta Cologno. Sono i progetti dell’ingegner Bergonzo a trasformare l’aspetto dell’area, in cui sorgono nel 1908 le prime case popolari.

Progetto relativo all’ampiamento del parco Malpensata.

È forse proprio la “popolarità” la caratteristica che fino a oggi contraddistingue il quartiere Malpensata. “Popolarità” che si dà come conformità all’uso del popolo, come spazio accogliente in cui le case popolari non hanno mai smesso di crescere e in cui oggi abitano circa 200 famiglie, che proprio in questi mesi stanno lottando contro i tagli a un servizio considerato fondamentale: l’Aler (Azienda lombarda per l’edilizia residenziale), incaricata della gestione di questi spazi, ha scelto di non rinnovare il contratto di lavoro, in scadenza al 31 marzo 2019, del Portiere sociale, che tanto ha fatto per creare coesione e integrazione tra gli abitanti delle case popolari. Il servizio, rivolto a una rete di inquilini formata circa al 28% di immigrati e al 15% di ultrasessantacinquenni, era stato istituito con funzioni burocratiche, amministrative e di manutenzione, ma negli anni ha avviato progetti quali il doposcuola per i bambini, il mutuo aiuto per persone diversamente abili o economicamente svantaggiate (concretizzato, ad esempio, nella raccolta di mobili, abiti e oggetti di prima necessità), l’interazione con le realtà associative di quartiere, la promozione dell’incontro interculturale, andando a definire quel volto comunitario e, appunto, popolare, che è caratteristico di una Malpensata che resiste all’individualismo imperante e alle insicurezze di una società disgregata.

Presidio del 17 Aprile degli inquilini delle case popolari di Bergamo contro ALER per chiedere il ripristino del portierato sociale, per l’aumento delle manutenzioni e per la riduzione di affitti e spese. [ph. Unione Inquilini Bergamo]
Una popolarità che non esula dai rapporti con una delle istituzioni più attive nel ramo dell’accoglienza, il Patronato San Vincenzo, che dal 1927, anno della sua fondazione da parte di don Bepo, si preoccupa di dare una casa e un futuro ai più bisognosi: «accoglie nel 1938-39 gli orfani dell’Istituto Palazzolo; nel 1943 i giovani ricercati dai nazi-fascisti; nel 1944 un centinaio di ragazzi Libici e un folto gruppo di bambini sfollati da Montecassino; nel 1945 non pochi minorenni figli di fascisti da reinserire nella società. Nel 1951 un gruppo di alluvionati del Polesine; nel 1952 molti degli orfani costretti a lasciare Nomadelfia fondata da don Zeno; nel 1956 i giovani fuggiti dalla rivoluzione in Ungheria; negli anni ’70 una cinquantina di ragazzi eritrei e 200 orfani dei lavoratori (Enaoli)», si legge sul sito della fondazione. Oggi è uno dei punti di riferimento per chiunque abbia bisogno di aiuto nell’inserimento sociale, dagli adolescenti ai poveri passando per gli immigrati, attraverso una rete di attività che si occupa non solo della sussistenza dell’individuo, ma anche del supporto necessario alla sua formazione; da queste premesse nascono iniziative che hanno risonanza in tutto il quartiere, le cui strade si colorano di un umanità sempre nuova, sempre in movimento.

Murales realizzato da Ericailcane sul muro della sede di Caritas Diocesana Bergamo, nel quartiere Malpensata, per il progetto Pigmenti promosso dal Patronato San Vincenzo come estensione della serigrafia Tantemani, laboratorio formativo e lavorativo per ragazzi con diverse abilità cognitive e relazionali.

Basta una passeggiata al parco per cogliere il senso di questa collettività: sul prato verde si incontrano pelli dai mille pigmenti, bambini delle più disparate nazionalità corrono nelle aree attrezzate,  accenti e lingue si mescolano in un nuovo esperanto, mentre gli alberi silenziosi respirano ossigeno nuovo per la città.

 

In copertina, Bergamo [ph. Tiziano Moraca CC BY 2.0 by Flickr]

L’Arte al servizio del singolo: il teatro di Serena Sinigaglia

«Romeo e Giulietta perché è stata l’opera con cui ho debuttato in teatro, il Fastalff di Verdi perché è stata la prima opera lirica che ho diretto e infine La Cimice di Majakovskij perché è stata l’opera che mi ha impegnato di più», risponde così Serena Sinigaglia, regista teatrale, alla domanda su quali siano le tre opere, tra tutte quelle che ha diretto, che ritiene le più importanti.

Nata il 13 Marzo 1973 a Milano da mamma romana e papà veneziano, ha frequentato il liceo classico per poi iscriversi alla Civica Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi, dove si diploma dirigendo Romeo e Giulietta di Shakespeare. In seguito, fonda la compagnia Atir (di cui è l’attuale direttore artistico) con la quale inizia una serie di produzioni di spettacoli ed eventi che continua tutt’ora. Parallelamente al lavoro con la sua compagnia, porta avanti progetti solisti che la vedono impegnata con altri attori in teatri sparsi in tutta Italia e con enti culturali.

Serena crede in un teatro popolare al servizio dei cittadini, e questa linea è condivisa anche dalla compagnia che dirige.

Scena tratta da “Di a da in con su per tra fra Shakespeare”

L’IMPEGNO SOCIALE

«Con Atir ho prodotto spettacoli che spaziavano dai classici, come Shakespeare, Euripide e Aristofane, ai contemporanei, iniziando a collaborare con drammaturghi viventi, come Edoardo Erba e Letizia Russo, che mi interessavano e mi incuriosivano, per scandagliare e affrontare tematiche soprattutto politiche e di attualità», spiega la regista.

Atir, però, non è solo una compagnia che produce eventi e spettacoli: «È anche un progetto culturale, un’idea di arte e cultura al servizio degli altri. Ciò si è concretizzato negli anni quando, come Atir, abbiamo ottenuto la gestione del teatro Ringhiera, situato in via Boifava, a sud di Milano. Qui, abbiamo iniziato a sperimentare un teatro sociale fortemente radicato sul territorio dove intendiamo l’Arte, nell’accezione più ampia del termine, come uno strumento capace di migliorare la qualità di vita dell’individuo.» racconta Serena, che continua: «Abbiamo creato una grande comunità organizzando spettacoli ed eventi e lavorando fianco a fianco con le associazioni socio-educative, religiose e ospedaliere».

1943: COME UN CAMMELLO IN UNA GRONDAIA

Subito dopo essere uscita dalla Paolo Grassi, Serena decide di mettere in piedi uno spettacolo teatrale tratto dalle lettere dei condannati a morte della Resistenza europea. L’opera si chiama 1943: come un cammello in una grondaia, ed è una messa in scena corale: «È uno spettacolo evergreen, perché cerchiamo sempre di farlo quando riusciamo a riunirci tutti, data la sua semplicità e la sua scenografia pressoché assente», spiega Serena.

L’idea dello spettacolo risale alla lettura del libro da cui prende spunto: «Non ancora diciottenne, ho letto le lettere dei condannati a morte della Resistenza europea e ne sono rimasta folgorata. Lo spettacolo, quindi, riflette, da una parte, sulla memoria storica e sul mondo che i condannati della Resistenza ci hanno consegnato combattendo; dall’altra, invece, sul mondo attuale, nato dopo il crollo dell’URSS e dell’utopia comunista alternativa al capitalismo, e sulla degenerazione del capitalismo presente», spiega sempre Serena. Il tutto si basa sul modo che Serena e la compagnia Atir hanno di intendere l’Arte, ovvero, militante e impegnata, senza però dimenticare il divertimento.

Scene tratte da “1943: come un cammello in una grondaia” dalle “Lettere dei Condannati a Morte della Resistenza Europea”

1943: come un cammello in una grondaia è uno spettacolo che si basa sul confronto tra il passato e il presente facendo dialogare i due piani, ma è anche un doveroso tributo a quelle persone che hanno dato la vita per una parola a volte così difficile da sostenere: libertà.

 

 

In copertina: scena tratta dallo spettacolo Le allegre comari di Windsor.

La memoria delle tartarughe marine_Pequod Rivista

Il ricordo come bussola: “La memoria delle tartarughe marine”

Uno dei miei aforismi preferiti recita: “Fate come gli alberi: cambiate le foglie, ma conservate le radici. Quindi, cambiate le vostre idee ma conservate i vostri princìpi”. Queste parole di Victor Hugo  mi appaiono intramontabili: le rileggo e ogni volta finisco per pensare al fatto che per conservare la propria identità, si debba necessariamente conservare la memoria. È proprio sul tema del ricordo che si sviluppa una delle mie letture più recenti: lo scorso novembre, durante il Lucca Comics&Games – la più grande fiera italiana nell’ambito dei fumetti e dei videogiochi, prima in Europa e seconda al mondo dopo il Comiket di Tokyo – mi sono imbattuta nel fumetto che, una volta letto, mi si sarebbe letteralmente cucito addosso: La memoria delle tartarughe marine. Pubblicato da Tunuè, casa editrice specializzata in graphic novel per ragazzi e adulti, è opera della scrittrice ed illustratrice romana Simona Binni, che con Tunuè ha già pubblicato opere come Silverwood Lake e Amina e il vulcano. Durante il nostro breve incontro Simona mi ha dedicato un disegno ad acquarello realizzato sul momento, raffigurante uno dei personaggi della storia.

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Illustrazione di Simona Binni, fotografia di Stefania Haddoub.

Ne La memoria delle tartarughe marine le tematiche affrontate sono molte e complesse: l’indissolubilità dei legami familiari, la paura dell’ignoto e la forza di cambiare rimanendo fedeli a se stessi, ma soprattutto il valore delle radici, la consapevolezza della propria identità e la sua celebrazione attraverso i ricordi. L’autrice, grande amante del mare, sceglie come scenario predominante della sua storia Lampedusa. L’isola, oggi tristemente famosa a causa delle vicende che coinvolgono migliaia di migranti, è descritta come un luogo quasi fermo nel tempo, dimenticato dal mondo. Una realtà apparentemente immota, arcana, circondata da confini liquidi e azzurri che si confondono col cielo, e che al protagonista, Giacomo, stanno troppo stretti. Talmente stretti che un giorno decide di allontanarsi e fuggire nella cosmopolita Milano, lasciandosi alle spalle la famiglia e quel frammento di terra nel Mediterraneo che lo aveva fatto sentire in prigione. Davide, il fratello maggiore, sceglie invece di restare nel luogo a cui sente di appartenere per occuparsi della sua missione: la tutela delle tartarughe marine che a Lampedusa, sulla Spiaggia dei Conigli, depongono le loro uova. Personalità profondamente differenti e contrastanti, i due fratelli finiranno per intraprendere due strade completamente diverse: Davide sceglierà di dedicare tutta la sua vita al mare e alla cura dell’ambiente dove è nato, Giacomo diventerà manager di successo per un’importante azienda milanese; ma niente dura per sempre, e una decina di anni dopo, la vita deciderà di stravolgere i progetti di Giacomo, mettendolo davanti a una serie di scelte che lo costringeranno a fare i conti con se stesso e con le proprie paure.

La memoria delle tartarughe marine_Pequod Rivista
Fotografia di Stefania Haddoub.

Le tartarughe marine che danno il titolo all’opera vengono rese coprotagoniste di una vicenda in cui la voce del passato e quella del futuro si accostano per armonizzarsi, facendo risaltare il ruolo prezioso della memoria. Se all’inizio della vicenda il lettore si approccia a un protagonista apparentemente freddo, riluttante e quasi cinico nel ripercorrere il proprio passato, gradualmente lo stesso lettore è portato ad entrare nelle sue emozioni, a sondarle per metterle in discussione, mettendo così in discussione anche le proprie. La scelta delle tartarughe come animali totem non è casuale: gli studiosi hanno osservato infatti come, annualmente, le tartarughe marine della specie Caretta caretta si spingano fino alle coste sabbiose per deporre le proprie uova; una volta deposte, le femmine scavano una buca profonda e le nascondono sotto la sabbia per non renderle visibili ai predatori. Dopo una settantina di giorni, le uova si schiudono e le piccole tartarughe si dirigono verso il mare. Scientificamente sappiamo che questa precisione e immediatezza nel muoversi verso l’acqua è garantita da tre meccanismi: il fototattismo positivo, che spinge i piccoli a dirigersi verso il punto più illuminato dello spazio circostante; la percezione di vegetazione nei pressi del nido e la pendenza della spiaggia, per cui i cuccioli di Caretta caretta si muovono verso le zone di minore pendenza.

La memoria delle tartarughe marine_Pequod Rivista
Una tavola dalla graphic novel, illustrazione di Simona Binni.

Durante il tragitto verso il mare, quindi, i piccoli memorizzano una serie di informazioni che si rivelano essere affatto casuali. Come tutt’altro che casuale è la scelta delle madri di questa specie di nidificare sulla stessa spiaggia dove sono nate. Questi animali, quindi, finiscono per effettuare una specie di ritorno alle origini, quasi celebrando un rituale ciclico: le tartarughe marine sviluppano una sorta di imprinting nei confronti della loro spiaggia natale e, dopo essere cresciute, utilizzano questa conoscenza irreversibile come una bussola in grado di riportarle a casa. Tale fenomeno, chiamato natal homing, è stato spiegato dagli esperti attraverso due principali ipotesi: la prima afferma che le tartarughe marine siano in grado di memorizzare le caratteristiche chimiche delle loro spiagge natali; la seconda si basa sulla capacità di questi animali di sfruttare i campi magnetici terrestri durante i loro spostamenti in mare; quindi, memorizzando il particolare magnetismo della loro spiaggia natale, da adulte le Caretta caretta sono in grado di farvi ritorno.

La memoria delle tartarughe marine_Pequod Rivista
Una tavola dalla graphic novel, illustrazione di Simona Binni, fotografia di Stefania Haddoub.

Seguire il richiamo delle proprie origini è quindi qualcosa di connaturato nelle tartarughe marine; allo stesso modo, per noi esseri umani la memoria si contraddistingue come elemento imprescindibile: è ciò che ci permette di ritornare con la mente alle prime esperienze dell’infanzia, di avere un’identità, di emozionarci e di consolidare gli affetti, di conservare le conoscenze per poterle condividere con gli altri nella vita di tutti i giorni. Per sentirci realmente a casa siamo chiamati a riscoprire quell’umanità perduta anche e soprattutto ricongiungendoci al passato con spirito critico e riflessivo.

Neppure la scelta di ambientare la vicenda a Lampedusa è casuale: nonostante nella narrazione non venga mai specificato il tempo in cui si svolge la storia, capiamo che si tratta di un periodo recente, e che sullo sfondo si sta consumando un dramma umano in cui la ricerca della propria casa equivale alla ricerca di amore e compassione e la perdita della bussola corrisponde ad una sconcertante perdita di umanità. Con stile dolceamaro e a tratti molto malinconico, attraverso illustrazioni morbide e dai colori pastello che si alternano ad immagini brusche ed essenziali, Simona Binni realizza un’opera dalla profonda carica emotiva, che stimola il lettore a porsi più di una domanda. Quanto valore diamo alla memoria oggi? Quante volte rimuoviamo i tasselli del passato? Forse scivoliamo con troppa facilità nell’errore di pensare che il presente sia un qualcosa di a sé stante, anziché una conseguenza, un sintomo, una spia. La memoria delle tartarughe marine si conclude con un finale aperto, lasciandoci il tempo per rimanere sospesi a riflettere, a contemplare. Si richiude il volume e una riflessione ci accompagna: forse, l’unica maniera che abbiamo per restare umani, è ricordarci di ricordare.

ISREC di Bergamo, una nuova “Primavera” per la memoria della Resistenza

In occasione dell’anniversario della Liberazione dell’Italia intervistiamo Elisabetta Ruffini, direttrice di ISREC di Bergamo, l’Istituto bergamasco per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea, che dal 1968 si occupa di raccogliere, conservare e valorizzare la documentazione relativa alla storia contemporanea all’interno delle biblioteche, avvalendosi delle pubblicazioni scientifiche della rivista Studi e ricerche di storia contemporanea, che dal 1970 lavora a stretto contatto con l’Istituto.

Un’immagine storica di piazza Matteotti, nel centro di Bergamo.

Come spiega la direttrice, «oggi si può parlare di memoria della Resistenza come di una sfida: quella di fare conoscere una parte della storia dell’Italia, parte fondamentale per il processo democratico del nostro Paese, di cui vogliamo essere eredi e attenti custodi. Oggi, però, le nuove generazioni non hanno più legami diretti con quel passato; le generazioni degli adulti e la mia generazione dei 40-50enni, che ora gestiscono il passaggio della storia ai propri figli, hanno dato per scontato le storie delle nonne e dei nonni e alla fine si sono ritrovate impreparate su questo pezzo di storia».

Giovan Battista Cortinovis, antifascista bergamasco.

L’ISREC di Bergamo si impegna pertanto a lavorare (anche) su questa lacuna e si pone come vero e proprio luogo dove la storia e il nostro passato non cadono dimenticati; perciò realizza una serie di iniziative culturali, pubblicazioni, mostre, conferenze ed eventi, durante i quali si discutono e si approfondiscono fatti e storie della Resistenza e della Liberazione. Anche grazie a questo lavoro, quel 1945 non sembra poi così lontano. L’Istituto impiega anche le sue forze nell’organizzazione di attività gratuite per le scuole, per sensibilizzare i giovani e i più piccoli sul tema della Resistenza e dei fatti accaduti più di 70 anni fa. Le scuole dell’infanzia, le scuola primarie e secondarie possono scegliere, all’interno di un ricco e programma di proposte, spettacoli teatrali, lezioni animate, reading, laboratori di musica, visite d’istruzione alla scoperta dei luoghi della bergamasca, che si pongono l’arduo traguardo di raccontare e far conoscere la storia del nostro territorio e dei nostri nonni, imparando a scoprire e a trovare quel legame che unisce strade, piazze, persone, sentieri, storia e territorio. Una novità di quest’anno: l’ISREC collabora con la band La Malaleche, che affianca la passione per la musica all’impegno sociale, attraverso laboratori musicali e la stesura dei testi delle canzoni.

I progetti e le iniziative non finiscono qui: il 24 aprile al circolo Arci Ink Club di Bergamo ci sarà una serata dedicata alla Resistenza e all’Antifascismo con reading accompagnato da una mostra fotografica, che verrà, poi, riproposto il 25 aprile con MAITE – Bergamo Alta Social Club in piazza Vecchia. Nell’atrio del Palazzo della Provincia in via Torquato Tasso, invece, si potrà visitare un’installazione fotografica di carattere evocativo e simbolico dal titolo Primavera, dove saranno esposte le fotografie in bianco e nero della sfilata dei Partigiani per le vie di Bergamo del 4 maggio 1945. Alcune di queste immagini, però, sono state colorate per sottolineare dei particolari in cui, come in un’eco, possano emergere le parole di alcuni grandi testimoni della Resistenza.

Una fotografia dalla sfilata dei partigiani del 4 maggio 1945 a Bergamo. Questa è l’immagine scelta per la locandina di “Primavera”, la mostra fotografica che sarà inaugurata il 24 aprile all’Ink Club di Bergamo.

«Ma le cose più importanti», dichiara Elisabetta Ruffini, «non affioreranno il 25 aprile perché hanno tempi lunghi, per esempio quelli della ricerca che non produce slogan buoni per le commemorazioni, ma riflessioni scomode sulla città, il suo passato, ma soprattutto sull’immaginario che il presente prepara per il futuro. Lunghi sono anche i tempi delle attività nelle scuole, che, come fucine di saperi e di cultura, ci mettono a contatto quotidianamente con temi scottanti e difficili da trattare insieme alle donne e agli uomini di domani».

È importante, pertanto, far capire e far conoscere l’importanza della storia (sia in quanto italiani sia come cittadini d’Europa) perché ci aiuta a capire il presente, memori degli errori e delle zone d’ombra del nostro passato, e consente di non dimenticare e di mantenere vivo il ricordo dei fatti e delle persone che vissero e lottarono durante il Fascismo e la Seconda Guerra Mondiale. La storia insegna e ci permette di imparare per poter guardare al futuro con chiara consapevolezza, ricordando che la memoria è vita e il nostro domani. Come afferma Elisabetta Ruffini, «io posso mantenere viva la memoria del 25 aprile con il mio esserci, il mio lavoro, la mia passione, la mia rabbia e la mia dolcezza e, se siamo in due a farlo, sarà ancora più viva. Sarà una memoria più ricca di linguaggi, di domande, di interpretazioni, perché sarà più presente e innestata dentro la nostra quotidianità».

Coltivare la memoria: il Giappone di Nagasaki e Hiroshima

8:15, 6 agosto 1945, la prima bomba atomica della storia esplode sulla città giapponese di Hiroshima; si chiama “Little boy” e tre giorni dopo (il 9 agosto) sarà seguita da “Fat Man”. Due nomi quasi ridicoli per le armi più distruttive della storia: Nagasaki e Hiroshima vengono rase al suolo in pochi minuti, i feriti sono centinaia di migliaia.

Dopo quell’evento niente sarà lo stesso: cambieranno le sorti della guerra, è ormai la fine del secondo conflitto mondiale, e cambierà l’animo del Giappone. I sopravvissuti portano addosso la memoria degli ordigni, anche il Giappone come Paese, nella politica, nella cultura e nella società, ha incorporato il segno di quello che accadde. Da quell’esperienza tragica la politica giapponese ha posto un netto rifiuto alla guerra diventando una delle culture più pacifiste al mondo.

C’è chi dice che il Giappone stia ancora provando a fare i conti con il proprio passato, chi afferma che lo abbia riconosciuto e, se non totalmente accettato, almeno messo da parte, senza per forza rispolverarlo continuamente. In mezzo a tutto questo, c’è una memoria fisica che persiste. Se vi capita di passeggiare per Nagasaki e Hiroshima, infatti, sicuramente noterete una serie di monumenti, statue, targhe commemorative.

La memoria è concretizzata in parchi, installazioni e statue che sono veri e propri “luoghi del ricordo”. Il Peace Park di Nagasaki, ad esempio, un’imponente area che comprende due parchi e un memoriale. Imponente ma silenziosa presenza, luogo di commemorazione solenne e di inequivocabile rifiuto a tutte le armi nucleari.

Fotografia di Antonella Succurro. Tutti i diritti riservati.

Al centro dell’area si trova l’Hypocenter Park, un monolite scuro che si posiziona sull’epicentro dell’esplosione. Il museo è un luogo di approfondimento per chiunque voglia informarsi sull’accaduto. Ma è il pilastro della Cattedrale di Urakami il punto più impressionante. Intenzionalmente lasciato nelle sue macerie, è simbolo e monito dei danni causati.

Acqua e luce sono gli elementi fondanti del memoriale, posto quasi interamente sottoterra. “Commemorare la bomba atomica” è lo scopo. O meglio commemorarne le vittime, attraverso quei due elementi che, in quanto assenti durante un’esplosione, rimandano alla tragedia per contrasto.

Fotografia di Antonella Succurro. Tutti i diritti riservati.

Infine, forse il monumento più famoso del parco: la Statua della pace ideata dall’architetto Seibo Kitamura. Le mani dell’uomo indicano rispettivamente la minaccia delle armi nucleari, la destra, e la pace eterna, la sinistra.

Fotografia di Antonella Succurro. Tutti i diritti riservati.

All’interno dell’area del parco sono presenti monumenti donati da varie nazioni del mondo, celebranti la pace universale. La Peace Symbols Zone (zona dei simboli della Pace) fu istituita dal comune di Nagasaki nel 1978 e raccoglie gli omaggi dalle città di Porto, Pistoia, Middleburg, Ankara e da nazioni quali Cecoslovacchia, Bulgaria, Nuova Zelanda. C’è naturalmente anche il contributo di Cina e Corea, i cui cittadini si trovavano a combattere in Giappone al momento dello sgancio della bomba atomica.

“Pace” è la parola che ricorre più spesso, proprio perché è un profondo senso di pacifismo la grande eredità di questa memoria. È facile capire che esiste una volontà di ricordare ma che allo stesso tempo questa non è urlata, e si accompagna alla voglia di andare avanti ma soprattutto alla promozione attiva di politiche pacifiste.

Il memoriale intero si prefigge tre missioni principali: commemorare le vittime, raccogliere ed elaborare informazioni relative alle radiazioni nucleari e promuovere la cooperazione internazionale. Lo fa attraverso disparate iniziative: raccolta delle storie delle vittime, speciali esibizioni e traduzione delle testimonianze, perfino un forum di film sulla pace. Addirittura è possibile visitare parte del memoriale e ricevere informazioni da parte di un sopravvissuto, in forma video, attraverso il portale Peacenet.

 

Fotografia di copertina: Antonella Succurro. Tutti i diritti riservati.

Maschi che si immischiano, storie di speranza e parità

A poco più di un mese dalle manifestazioni per la festa della donna abbiamo l’occasione di incontrare Stefano Fornari, membro del consiglio comunale di Parma e co-fondatore dell’associazione Maschi che si immischiano, per discutere insieme di quest’importante iniziativa ancora troppo poco conosciuta. Con voce pacata e gentile, Stefano parla di un progetto tanto recente quanto rivoluzionario, che sta crescendo rapidamente sul territorio locale e sta allargando la sua influenza anche nella provincia e in altre città dell’Emilia Romagna. Si tratta di un gruppo composto da liberi cittadini, prevalentemente uomini, che hanno scelto di schierarsi con decisione per gridare un forte “no” contro la violenza sulle donne. I dati Istat sono allarmanti: in Italia, oltre 6 milioni di donne hanno subìto violenza e oltre 3 milioni hanno vissuto episodi di stalking; per non parlare delle tante donne che non denunciano violenze o discriminazioni che si perpetrano sui luoghi di lavoro quotidianamente. Maschi che si immischiano si incarica dunque di una missione di sensibilizzazione fondamentale e coraggiosa.

Uno dei messaggi principali promossi dall’associazione Maschi che si immischiano.

Stefano, l’iniziativa che avete portato avanti presenta degli aspetti in un certo senso rivoluzionari. Come e quando nasce Maschi che si immischiano?

Siamo nati a Parma nel settembre del 2016, dopo l’ennesimo femminicidio verificatosi in città. Ci siamo sentiti profondamente scossi nel constatare che l’episodio, dopo aver ricevuto l’attenzione dei media e della stampa, stava cadendo troppo rapidamente nel silenzio e nell’oblìo, come tanti altri casi. Abbiamo deciso di partire dal basso, come liberi cittadini, per creare un nucleo deciso a smuovere le coscienze delle persone comuni, soprattutto di tutti quegli uomini che nella vita quotidiana tendono a non essere consapevoli di quanto potere abbiano le loro parole e i loro gesti, anche quelli più semplici. Grazie alla collaborazione della giornalista Chiara Cacciani, abbiamo unito realtà molto diverse: attualmente siamo nove uomini e Chiara, appunto. Ci occupiamo di divulgazione, sensibilizzazione, dibattiti e manifestazioni inerenti la parità di genere e il contrasto di qualsiasi forma di violenza. La nostra forza sta nel fatto che, pur essendo uomini con vissuti e storie differenti, ci sentiamo accomunati dal forte desiderio di promuovere una cultura del rispetto.

Fotografia di Stefano Fornari ©.

Avete contatti anche con l’associazione nazionale Maschile Plurale, nata a Roma nel 2007. Cosa vi unisce?
Uno dei fondatori di Maschile Plurale, Marco Deriu, è anche nostro associato; ci ha dato supporto nel corso del tempo, in quanto docente e sociologo grazie a dibattiti e iniziative soprattutto in ambito universitario. La differenza tra le due associazioni, probabilmente, è che Maschi che si immischiano cerca di partire da ancora più dal basso per andare a smuovere coloro che non hanno ancora normalizzato l’idea di parità.

Fotografia di Stefano Fornari ©.

Da quando siete nati, avete sempre cercato di coinvolgere nella vostra battaglia anche il mondo dello sport. Nello specifico, di quali progetti vi siete occupati?
Il primo progetto è stato realizzato in collaborazione con il Parma Calcio, che con l’allora capitano Alessandro Lucarelli ci aveva garantito sin da subito pieno sostegno. Nel primo evento, durante la presentazione della partita, i giocatori del Parma avevano indossato simbolicamente un laccio fuxia, e lo stesso avevano deciso di fare le squadre giovanili. Con la collaborazione dei tifosi siamo poi riusciti a realizzare uno striscione, tuttora appeso in curva sud allo stadio, per ricordare un dato allarmante, che purtroppo ancora molti sottovalutano: nel nostro Paese una donna su tre subisce violenza. Durante un’altra occasione, poi, abbiamo ottenuto due risultati importanti: sempre in collaborazione con il Parma Calcio, abbiamo portato avanti una campagna incentrata sullo slogan “Parole da bulli, azioni da vigliacchi”, frase impressa su oltre quindicimila cartoline e trasmessa anche attraverso i led luminosi dei cartelloni dello stadio. Anche con le Zebre Rugby Club di Parma abbiamo promosso molte iniziative per combattere il machismo: il 25 novembre, in occasione della giornata contro il femminicidio, i ragazzi hanno giocato una partita indossando calzettoni rosa, colore che solitamente si tende ad associare solo ed esclusivamente alla femminilità.

Fotografia di Stefano Fornari ©.

Il coinvolgimento di atleti ed esponenti della realtà sportiva è un gesto molto forte e di grande impatto, soprattutto per promuovere un’idea di uomo differente a quella tipizzata e rigida a cui purtroppo siamo abituati. A suo parere, quanta strada c’è da fare ancora in questo senso?
Molta, proprio perché gli uomini sono i primi a non mettersi sufficientemente in gioco per fare la differenza. Sono anche i primi a non rendersi conto di quanto si tenda a sottovalutare i piccoli segnali d’allarme quotidiani: non stiamo parlando solo di violenze fisiche, ma anche di violenze verbali, economiche, psicologiche. Sono errori subdoli quelli che commettiamo ogni giorno: apparentemente piccoli e innocui, ma che rischiano di fare danni enormi se non corretti per tempo. Non solo credo che molti uomini non ammettano di essere fragili e di essere condizionati dall’idea di machismo; credo anche che, tra coloro che non hanno commesso violenze fisiche o psicologiche effettive, ci sia comunque un tentativo di tirarsi indietro, di giustificarsi o mettersi sulla difensiva. Come se fosse qualcosa che non li riguarda. Il punto è che siamo tutti chiamati in causa. Spesso, per esempio, si tendono a fare delle battute con leggerezza, le classiche “battute da spogliatoio”, contenenti gli stessi soggetti e stereotipi, le stesse idee offensive e svilenti; si tende ad usare un linguaggio sessista e discriminatorio solo per fare ironia, pensando che possa addirittura fare piacere. Fino a quando continueremo a comportarci in modo simile, le cose non miglioreranno mai veramente.

Fotografia di Stefano Fornari ©.

Per quanto riguarda i progetti nelle scuole e nel mondo del lavoro, cosa avete realizzato finora?
Abbiamo già svolto diverse iniziative, di cui l’ultima si è tenuta lo scorso 8 marzo in un istituto superiore della città di Parma: abbiamo proiettato un film, intavolato un dibattito e coinvolto più di 520 studenti. Sicuramente tra le idee per il futuro c’è anche quella di attecchire più in profondità nella sensibilità dei giovani e di diffondere iniziative sempre nuove. A fine 2017, ad esempio, è stata inviata una mozione al Comune di Parma per chiedere un impegno ancora più grande a favore di questa importante battaglia per la parità. Ne è nato un appello diviso in sei punti e rivolto a tutti gli uomini, finalizzato a promuovere la parità di genere e un’etica di rispetto e condivisione in ambito lavorativo. Questo risultato ha preso poi piede in tutta la regione: è stato infatti divulgato agli enti statali, a tutti i comuni della provincia e alle grandi aziende del territorio, nelle università e nelle scuole. Da qualche tempo il comune di Cremona ha cercato di emulare il nostro esempio, e noi non possiamo che esserne soddisfatti, anche se il lavoro da fare è ancora tanto.

In copertina: fotografia di Roberto Perotti ©.

Quando l’amore ha un prezzo. Viaggio in Senegal tra prostitute e ‘mbaraneuses

Aprile 2014, Dakar. Io e Hamadou ci aggiriamo per il quartiere di Fass, alla ricerca di un amico come noi tornato a casa a trovare la famiglia. Un passante ci indica una casa a cinque piani. Saliamo gradini sbilenchi su cui si affacciano ampi appartamenti e sbuchiamo su un tetto a terrazza, costellato di porte che nascondono stanzette in affitto. Dietro una di queste porte, Doudou ci aspetta con un piatto di riso fumante; seduta sul letto accanto a lui, una ragazza magra, avvolta in jeans stretti, si aggiusta il rossetto. Mi presento e la invito a mangiare con noi, ma lei distoglie lo sguardo e aspetta che noi siamo sazi per afferrare il piatto e ripulirne il contenuto con gesti lenti, ma che tradiscono un certo appetito.

Mariama, il nome appena sussurrato, ci segue per il resto della serata come una presenza discreta. Andiamo a ballare, beviamo, fumiamo e lei, nascosta in un angolo, risponde di no a qualsiasi invito, con occhi stanchi che reclamano il sonno. Anche se ha detto di non volerla, le porto una bibita e il suo sguardo si sposta dalla bottiglietta a Doudou, quasi a sottolineare che non è stata lei a richiederla. Chiedo spiegazioni di tutta questa circospezione: «È una domestica, -spiega il mio amico- viene dal villaggio per lavorare in una casa qui a Dakar, ma ha perso l’autobus per rientrare nel giorno di riposo. Stanotte dorme con me; in cambio, abbiamo contrattato per il letto e la cena».

Capisco all’istante che la stanchezza del suo volto e la pelle secca delle sue mani non sono solo un’impressione, ma i segni di una giornata di lavoro che non si concluderà quando noi andremo a dormire. Chiedo di andare a casa, fingendo sia mio il suo bisogno di sonno, mentre sento montare dentro me la rabbia per un trattamento ingiusto che trova ulteriore conferma all’arrestarsi del taxi di fronte al bar vicino casa di Doudou: una senegalese avvolta in un miniabito leopardato chiama Doudou con voce suadente. Scorgo appena il gesto di rifiuto del mio amico, ma la voce della donna si staglia chiara nella notte: «Ah stasera risparmi con la ragazzina, ma domani ti aspetto».

L’indomani mi presento anch’io all’appuntamento, incuriosita da tanta disinvoltura in un paese in cui la verginità è ancora un valore utile a ottenere un buon matrimonio. Perdiamo qualche minuto in giochi di sguardi d’indifferenza finché la ragazza non decide un approccio da finta offesa: «Ciao, piacere, Diara», dice rivolgendosi a me. E poi verso Doudou: «Non mi offri da bere?». Le pago una birra e cerco di intavolare una conversazione, ma dopo poche chiacchiere percepisco un’irritata agitazione: «Perdonami cara, ma io sono qui per lavorare». Scopro così che Diara è una prostituta a tutti gli effetti e solo quando mi offro di pagare il prezzo di una prestazione (5˙000 cfa, pari a circa 8 €), o meglio due visto che sono bianca, ottengo il diritto a fare qualche domanda.

Diara, 22 anni, mi racconta che è di Saint Luis, ma vive a Dakar, lontano dalla famiglia così da poter guadagnare facendo il mestiere senza disonore: «Se mai vorrò sposarmi, posso sempre tornare nella mia città, anche se non avrò più il valore di una vergine». Dalla borsetta estrae un documento: «È la mia licenza», spiega. E con sguardo soddisfatto aggiunge: «C’è scritto che sono pulita». Pulita, cioè non contagiata dal virus dell’HIV. La sua soddisfazione non è cosa di poco conto: si calcoli che nel 2017 nella sola Africa subsahariana si contavano poco meno di 26 milioni di individui affetti da HIV (dati avert.org); eppure il Senegal rappresenta un modello a dir poco virtuoso per gli stati confinanti. Lo stato senegalese ha infatti negli ultimi vent’anni intrapreso una battaglia serrata contro la diffusione del virus, le cui armi sono state tanto la prevenzione attraverso la diffusione di anticoncezionali e il monitoraggio delle fasce di popolazione più a rischio, quanto l’incremento di terapie sia in fase di evoluzione del virus in forma di AIDS sia a malattia contratta. Particolarmente efficace è stata la decisione di normare la prostituzione per le ragazze al di sopra dei 21 anni, le quali devono registrarsi presso le amministrazioni locali e in cambio ottengono preservativi e assistenza sanitaria gratuita, che prevede l’obbligo di controlli medici mensili. L’iniziativa ha presto dato i suoi frutti: dal 2010 al 2016 la percentuale di prostitute sieropositive è scesa dal 21% al 7%, mentre i casi annuali di HIV sono diminuiti del 75%. Le donne che risultano positive al virus non sono costrette ad abbandonare il mestiere, ma possono vedere rinnovata la licenza solo se assumono farmaci retrovirali, che non solo riducono la carica virale, ma allungano anche l’aspettativa di vita.

«Quindi tu hai rapporti protetti, usi il preservativo?», chiedo sorpresa, conscia di quanto gli africani siano tendenzialmente restii all’uso di anticoncezionali. E infatti Diara sorride sorniona: «Non sempre, però posso usarlo come motivo per aumentare il prezzo, anche perché io a differenza dei clienti garantisco sul mio stato di salute». Mi chiedo se il rovescio della medaglia non sia stato un aumento del numero di ragazze che offre il proprio corpo, ma Diara pensa che le cose stiano in tutt’altro modo: «Tante ragazze hanno paura di regolarizzarsi, anche perché spesso i poliziotti che si occupano di consegnare o controllare le licenze approfittano di noi; la soluzione più semplice è accettare di avere rapporti con loro gratuitamente, evitando almeno la violenza. E poi c’è la questione dell’onore: se fai la prostituta la società ti giudica, molto più comodo fare ‘mbarane».

Per capire cosa significhi questa parola, ‘mbarane, mi serve qualche giorno e un po’ di dimestichezza con la cultura locale; le prime donne cui chiedo la definiscono come l’abilità di seduzione femminile che permette di ottenere soldi e denaro, senza necessariamente concedersi sessualmente né perdere l’onore. ‘Mbarane è una capacità che quasi quotidianamente si vede applicare per le vie di Dakar: la si impara fin da bambine come abilità nello sgranare gli occhi per chiedere doni agli zii che vivono in Occidente, la si sfrutta da adolescenti per ottenere monili e vestiti dai ragazzi che sperano di far innamorare una vergine, la si applica da adulte per evitare che i mariti cerchino donne più giovani. All’origine però ‘mbarane definisce un comportamento che prende sempre più piede tra le senegalesi, sinonimo quasi di poliandria; le ‘mbaraneuses, infatti, collezionano fidanzati in numero pari alle loro esigenze, facendosi pagare abiti, cosmetici e gioielli, ma anche affitto e bollette. In linea teorica, non è previsto il sesso nei rapporti tra amanti e ‘mbaraneuse, ma conoscere come stanno realmente le cose è praticamente impossibile: le giovani nubili sostengono praticamente tutte di preservarsi per l’uomo che sposeranno, mentre i loro amanti si crogiolano nell’illusione che l’aver colto la loro illibatezza sia garanzia di esser già prescelti per la vita, quindi mantengono il segreto.

Il pensiero di una civetteria così ben calcolata mi spinge a osservare con nuovi occhi gli atteggiamenti dei giovani che passeggiano per Dakar: un velo che quasi casca, braccialetti che tintinnano al momento giusto, nuvole di profumi che avvolgono i pensieri; il più piccolo gesto basta ad attrarre per un istante l’attenzione, a illudere con sogni e desideri mai pronunciati, a garantire il prossimo, seppur modesto regalo.

La prostituzione in Italia 60 anni dopo la Legge Merlin

La pratica della prostituzione è presente in ogni cultura e paese del mondo tanto da essere considerata il più antico lavoro della storia. Ma qual è lo status giuridico della prostituzione in Italia?

Nel nostro paese la materia è regolata dalla legge 20 febbraio 1958, n. 75, comunemente detta legge Merlin (dal nome della senatrice Lina Merlin che ne fu promotrice), la quale abolì la regolamentazione della prostituzione, così come disciplinata in epoca fascista, chiudendo le case di tolleranza e punendo con una pena da 2 a 6 anni e con una multa da 260 a 10.400 euro chiunque gestisca una casa di prostituzione o recluti, favorisca o induca una persona a esercitare la prostituzione.

Di fatto l’esercizio del meretricio volontario e compiuto da soggetti maggiorenni rimaneva legale, in quanto garantito dagli articoli 2 e 13 della Costituzione come esplicazione della libertà personale inviolabile, ma veniva meno la sua regolamentazione.

L’Italia ha quindi aderito a uno dei tre modelli giuridici esistenti di trattamento della prostituzione, ossia quello definito “abolizionista”, consistente nel non punire né chi si prostituisce, né chi acquista prestazioni sessuali. Questo sistema, adottato da gran parte dei paesi dell’Europa occidentale (tra cui Francia, Regno Unito, Spagna, Belgio e Portogallo) esenta lo Stato dal prendere parte alla disputa, lasciando però in questo modo la gestione della prostituzione alla criminalità organizzata e al mercato.

Un altro modello giuridico è quello “proibizionista”, che consiste nel vietare la prostituzione e nel punire la prostituta e i clienti con pene pecuniarie o detentive. Lo adottano quasi tutti i paesi dell’Est Europa come Albania, Croazia, Russia, Serbia e Ucraina e, fuori dall’Europa, gli USA.

Un sistema totalmente diverso, chiamato “modello regolamentista”, è invece teso alla legalizzazione e regolamentazione del fenomeno attraverso l’istituzione di luoghi deputati all’esercizio della professione (case o determinati quartieri a luci rosse). Olanda, Germania, Svizzera, Grecia e Turchia adottano questo sistema, che sovente prevede l’imposizione di tasse e l’obbligo di controlli sanitari per prevenire e contenere le malattie veneree.

Cinque prostitute in attesa di clienti in un bordello di Napoli nel 1945, 13 anni prima dell’introduzione della Legge Merlin.

Dagli anni Ottanta nel dibattito politico italiano hanno preso corpo numerose istanze di abrogazione o modifica del sistema attualmente in vigore, giudicato non più al passo coi tempi.  I detrattori della legge Merlin fanno notare come, prima dell’entrata in vigore della norma, la prostituzione nelle strade fosse molto poco diffusa, mentre col nuovo regime giuridico si è assistito a un notevolissimo aumento. Ancor più preoccupante è il traffico di donne, favorito dall’immigrazione clandestina, passato direttamente sotto il controllo delle mafie italiane e dei Paesi di origine delle prostitute illegalmente presenti sul territorio nazionale e che ha la sua causa nell’assenza dello Stato nella gestione del fenomeno prostituzione.

Ecco perché molte sono state le proposte di legge per l’abolizione o attenuazione della legge Merlin. Nel 2008 l’allora ministro per le pari opportunità Mara Carfagna propose un disegno di legge per modificare l’attuale normativa, che tuttavia non arrivò mai all’iter parlamentare. Nel 2013 venne presentato un referendum abrogativo promosso da diversi sindaci italiani, che però si arenò per mancanza del numero necessario di firme. Ancora, nel 2014, il Partito Democratico con l’appoggio trasversale di Lega Nord, Movimento 5 stelle e Forza Italia, presentò un disegno di legge al fine di regolamentare la prostituzione, iniziativa che però non si concretizzò in una norma di legge. Recentemente, in una intervista del 28 febbraio 2019 a Tgcom24, il segretario della Lega Matteo Salvini ha ribadito la linea del suo partito sulla questione: «Ero e continuo a essere favorevole alla riapertura delle case chiuse» ha detto, precisando, però, che l’iniziativa «non è nel contratto di governo perché i Cinque Stelle non la pensano così». Secondo il ministro dell’Interno, «togliere alle mafie, alle strade e al degrado questo business, anche dal punto di vista sanitario, è la strada giusta».

Perché, allora, essere a favore della regolamentazione della prostituzione? Perché la legge Merlin ha mostrato nel tempo le sue falle: la chiusura delle case di tolleranza non ha infatti ridotto il mercato del sesso a pagamento. Le stime dicono che le vittime della tratta delle prostitute siano tra le 75 e le 120 mila (la maggior parte delle quali donne di origine nigeriana portate in Italia dalla criminalità locale). Il totale disinteresse dello Stato nei confronti del fenomeno ha contribuito a renderlo terreno fertile per l’agire incontrastato della criminalità organizzata, la quale lucra ogni anno, intascando miliardi, sulla pelle di povere vittime indifese. Ma introdurre un modello di legalizzazione e regolamentazione vorrebbe anche dire confinare il fenomeno all’interno di determinati quartieri (riducendo di molto la prostituzione di strada) e facendo pagare alle prostitute le tasse per i loro servizi, aumentando così il gettito fiscale e incrementando al contempo la tutela della salute sia delle lavoratrici del sesso, che dei loro clienti.

Per concludere, è bene dire che non esiste un modello perfetto che possa eliminare ogni problema riguardante la prostituzione, che è stato e sarà un fenomeno umano. Compito dello Stato dovrebbe però essere cercare di tutelare al massimo i diritti dei cittadini, introducendo norme che prevengano ad esempio fenomeni di schiavitù sessuale e proliferazione di malattie e, al contempo, rendano più sicuro l’esercizio di questa professione per chi decide volontariamente e senza coercizione di vendere servizi sessuali dietro pagamento.

 

In copertina: il Red Light District di Amsterdam (foto di Erik Tanghe, Pixabay).

Guida a una Milano immorale

Quando si pensa a Milano, la città della Madonnina e di Sant’Ambrogio, vengono subito in mente il celeberrimo Duomo, imponente edificio gotico, il teatro La Scala, prezioso scrigno della tradizione operistica italiana, o il quartiere bohèmienne di Brera, dove si trovano l’Accademia di belle arti, la Pinacoteca e numerose gallerie, studi d’arte e di architettura. Ma proprio questa zona, oggi realtà molto attiva nel panorama artistico-culturale e punto di riferimento per la movida serale, in realtà fino agli anni ’50 non era altro che il quartiere più immorale di Milano, un quartiere a luci rosse che con la legge Merlin del 1958, non senza accese polemiche, fu obbligato alla sua definitiva chiusura. Percorriamo quindi un viaggio a ritroso nel tempo, che si snoda da via Fiori Chiari a via Formentoni, da via Fiori Oscuri a via San Carpoforo, tra le case che un tempo furono i bordelli e gli alloggi privati di donne che vendevano il proprio corpo per scelta o per bisogno.

Valeria Celsi, storica dell’arte di Percorsi d’arte funeraria e ideatrice del percorso “I segreti di Brera” tra le ex case di tolleranza del quartiere milanese.

Valeria Celsi di Percorsi d’arte funeraria, Linda Bertella di Scoprire Milano, Valentina Saracco di Damatrà hanno ideato degli itinerari inediti, a volte teatralizzati, coinvolgenti e intriganti, durante i quali si può conoscere e scoprire il lato hard di questo quartiere di Milano, fatto non solo di ritrovi di artisti, vecchie botteghe, osterie, ma soprattutto di case di tolleranza.
Nel ricco e variegato mondo delle visite culturali Valeria Celsi, guida turistica e storica dell’arte, appassionata di leggende e curiosità su costume e società, ha creato un tour speciale dedicato a Brera e alle case chiuse intitolato I segreti di Brera. «Questo tour che è nato nel 2016 e continua tuttora con un buon successo di pubblico, voleva e vuole essere una proposta diversa alla tradizionale visita-passeggiata nel quartiere di Brera, con l’aggiunta di una nota accattivante e per nulla scontata».
Come spiega Valeria, «bisogna rinnovare i percorsi e cercare di differenziarsi dentro i numerosi tour guidati del capoluogo lombardo». E le visite culturali di Valeria Celsi si distinguono, eccome: il suo tour nel quartiere di Brera è ideato per essere svolto nel tardo pomeriggio e nelle serate estive, durante le quali, passeggiando, accompagnati dalla storica dell’arte, si possono scoprire le strade, le abitazioni e le storie delle prostitute che vissero in questo quartiere. Come Rosa della Canna, che camminava sempre in compagnia del suo mastino; Valeria “l’amante che ferisce”, così soprannominata per i suoi atteggiamenti un po’ aggressivi e al limite del sadomaso, della quale si racconta che arrivò a tagliare il pene di un suo cliente; e le tre sorelle che abitavano in via San Carpoforo al civico 8, nel bordello gestito dalla madre. Non a caso un tempo si diceva andar a sancapofer per identificare con estrema chiarezza non solo dove si andasse, ma anche che cosa si stesse cercando.

Un’immagine d’epoca di via dei Fiori Chiari, negli anni Cinquanta crocevia di prostitute e clienti, case chiuse e strutture a sostegno di donne in difficoltà.

Per non parlare del detto milanese Trav in pee e donna in pian, tegnen sü el Domn de Milan, che significa “Travi in piedi e donna in piano, tengono su il Duomo di Milano”, dove di nuovo ritorna un labile e insistente riferimento al lavoro delle prostitute.
Il percorso di Valeria Celsi non finisce qui e ci porta ancora alla scoperta di altre notizie sul quartiere a luci rosse di Brera. Ci racconta che «la via dei Fiori Oscuri e la via dei Fiori Chiari erano il fulcro della pigalle milanese, l’una dedicata alle case chiuse e ai bordelli non autorizzati e non riconosciuti dallo Stato, mentre nell’altra si trovava una casa d’aiuto per le signorine in difficoltà». Di fronte a via dei Fiori Chiari si racconta che avesse sede una piccola ditta inglese che fabbricava gomme con un’attività piuttosto redditizia. Ma il responsabile decise di far chiudere tutte le finestre che si affacciavano sulla strada: finestre oscurate o murate affinché i dipendenti non si distraessero dalle loro mansioni. Via Formentoni, invece, un tempo era famosa perché faceva parte della Contrada di Tett, dove le prostitute mostravano i loro seni nudi, sporgendosi dalle finestre e dai davanzali. Si prosegue poi per via Madonnina, dove le ragazze facevano cadere dai terrazzi dei cestini vuoti, un gesto dal significato chiaro e specifico: erano libere e disponibili per il prossimo cliente.

Uno scatto da uno dei “bordelli” di Brera.

Nessuna classe sociale rimaneva esclusa dall’elenco degli “ospiti” delle case chiuse: imprenditori, professionisti, impiegati e qualche prete; con il boom economico anche il popolo degli operai si avvicinò sempre più numeroso alle porte dei casini, veri e propri club privati a cui si poteva accedere solo con tesseramento e ad un prezzo maggiore. La clientela, però, era anche composta da guardoni e voyeur, per i quali erano state create apposite stanze nei bordelli. «Durante la Seconda Guerra Mondiale», spiega Valeria Celsi, «si racconta che in una di queste case di tolleranza dedicate ai “guardoni” fossero contemporaneamente presenti un soldato tedesco e un partigiano, uno cliente e l’altro voyeur. Sebbene la situazione fosse molto tesa e pericolosa, per fortuna si risolse con la fuga dell’italiano, che da quel momento in poi ci pensò bene prima di tornare nel quartiere a cercare momenti di piacere…».

Un esempio dei tariffari in vigore nelle case di tolleranza italiane.

Di certo molte ragazze facevano questo lavoro, il più vecchio del mondo, in quanto, povere e in difficoltà economica, non trovavano altro impiego che permettesse loro di mantenersi, ma alcune donne scelsero di loro spontanea volontà di diventare prostitute: così fu per una giovane insegnante di matematica di Bologna, che abbandonò il suo lavoro e si trasferì a Milano in via Porlezza per dedicarsi al suo nuovo mestiere con grande soddisfazione.
A termine di questo breve itinerario non ci resta altro che visitare in prima persona questo quartiere, accompagnati da esperte e capaci guide turistiche, per scoprirne la storia e le curiosità dei suoi vicoli oscuri che, purtroppo, hanno subìto una vera e propria damnatio memoriae. Visitare non solo per trascorrere una serata in scherzosa allegria, tra sacro e profano, ma anche per ricordarci la storia e le tracce di un passato che costituisce la vita di un quartiere e della città di Milano, e ci permette di riflettere sul lavoro e sulla figura della donna oggi.

Vendere il proprio corpo per non perdere la propria indipendenza

Dal dehors del bar in cui l’aspetto, riconosco la silhouette di Neche che ondeggia melliflua verso di me, coronata dall’inconfondibile criniera di ricci fitti, attorcigliati con cura e decolorati quel tanto che basta a dar loro ancora più carattere. Il portamento impeccabile e la sua bellezza curata sono un monito dell’impegno costante che un certo fascino richiede; la bellezza di una donna, per Neche, non è solo un dono di cui ad alcune viene fatta grazia, ma un dovere quotidiano perché «già è difficile essere donne, in un mondo in cui agli uomini tutto è concesso e la forza fisica vale più dell’intelligenza e della compassione; figurati essere pure brutte!».

Del resto, la bellezza per lei non è mera questione di vanità, bensì una faccenda di lavoro, strettamente connessa alla sua professione di sex worker, che svolge da più di trent’anni. La incontro per chiederle del suo mestiere, per capire come possa essere la sua vita.

Come sei entrata nel mondo della prostituzione?

«Diciamo che è il mestiere di famiglia. Sono nata in una casa semplice ma spaziosa non lontano da Puerto Ayacucho, in Venezuela; da bambina dormivo in un grande letto  condiviso con le mie sorelle posizionato nella cucina, che si affacciava sulla stanza dove mia madre riceveva i suoi clienti. Io sono la figlia maggiore, nata da un amore adolescenziale che ha segnato l’inizio della carriera di mia madre; lei è probabilmente figlia di uno degli ospiti di mia nonna, anche se nessuno sa con certezza chi sia mia nonno.

Non ricordo con esattezza a che età ho iniziato a ricevere denaro per godere del mio corpo: da adolescente sognavo di lasciare l’America Latina per venire in Europa, ma per farlo mi servivano soldi che non avevo, così ho iniziato con qualche marchetta; spesso erano gli stessi uomini che venivano a trovare mia madre che si eccitavano all’idea di toccare il corpo di una giovane vergine o anche solo vedermi nuda, prima di avere rapporti completi con lei. Ho perso la mia verginità per amore, con un compagno di scuola; quando la nostra storia è finita, ho rispolverato il mio sogno nel cassetto e ricominciato ad accumulare risparmi con le marchette, ma iniziavo a essere grande e gli uomini chiedevano di più.

Una volta trovati i soldi per il biglietto aereo, la difficoltà restava ottenere un visto d’ingresso; uno dei clienti di mia nonna, che aveva contatti con ambienti consolari, mi propose un incontro con un uomo che poteva farmi avere un visto per l’Italia. È così che sono arrivata in questo Paese».

E una volta arrivata in Italia non hai pensato di cambiare professione?

«I primi tempi in Italia lavoravo di sera come cameriera, mentre di giorno frequentavo la scuola per parrucchiere. È stata la mia coinquilina a suggerirmi di rivalutare il sesso come forma di guadagno; vedeva che ero sempre molto stanca e un giorno mi ha detto: “Sai Neche, non serve far tanta fatica: basta che ti trovi un uomo coi soldi e lo sposi, così lui ti mantiene e tu hai i documenti per restare qui”. Nonostante la mia professione, avevo sempre avuto molto rispetto per il matrimonio, ma quando lei mi ha presentato Antonio, il mio ex marito, mi è sembrato che la sua idea fosse un buon compromesso. Non avevo fatto i conti con il modo in cui lui mi avrebbe trattata: ogni discussione diventava motivo per picchiarmi e minacciarmi; spesso mi diceva che mi avrebbe tolto i documenti e le nostre due bambine. Così dopo un paio d’anni, finita la scuola, ho fatto le valigie e mi sono trasferita in un’altra città.

Qui ho dovuto ricominciare tutto da capo: ho trovato una piccola casa e un altro lavoro serale, ma i soldi scarseggiavano e le bambine restavano spesso a casa da sole. Grazie ad alcuni contatti con altre ragazze venezuelane, ho iniziato a frequentare locali dove era possibile incontrare uomini disposti a pagare per trascorrere una notte assieme. I rapporti sessuali rendevano molto più del lavoro di cameriera, così ho iniziato a crearmi un giro di clienti fissi, un paio dei quali frequento fino a oggi».

Ad oggi, continui a essere una sex worker? Come si svolge una tua giornata-tipo?

«Non ho mai lasciato la mia attività perché di fatto guadagno molto e sono totalmente autonoma. Non ho mai avuto protettori, né sono mai stata costretta a fare cose che non volevo o stare con uomini che non mi piacevano: i miei clienti sono tutti habitué, persone che conosco ormai da molto tempo; diciamo che è come se avessi numerose relazioni, ma nessuno degli uomini con cui esco e faccio sesso può dirmi come comportarmi o intervenire nelle mie scelte. Cresco le mie figlie come meglio credo e gestisco un’attività regolare: il salone di parrucchiere che era da sempre nei miei sogni e che ho aperto una quindicina d’anni fa.

Le mie giornate sono piene di impegni, anche se ora che le mie figlie sono grandi non devo più preoccuparmi di essere a casa in tempo per sostituire la baby sitter e preparare la colazione, che ho sempre preso con la famiglia. La mia routine quotidiana è la stessa da anni: la mattina, dopo le faccende domestiche, vado in palestra per 2/3 ore; dopo pranzo passo dal salone in cui lavorano 3 ragazze, per controllare i conti e la gestione; verso le 16 torno a casa e inizio a prepararmi per l’aperitivo e a prendere accordi con il cliente del giorno. Ho una seconda casa dove passo la notte in compagnia degli uomini».

Come gestisci il rapporto con le tue figlie? Sanno della tua attività?

«Ho sempre cercato di essere una madre il più possibile presente, accompagnandole e andandole a prendere a scuola ogni giorno, trascorrendo le ore pomeridiane con loro, dedicando a loro i week-end. La sera però è raro che io sia a casa e loro sanno che è perché vado a lavorare, ma non conoscono il mio mestiere. Per loro ho ambizioni migliori e sono molto fiera di come sono andati i loro studi e di come si stanno realizzando; volevo spezzare la catena di eredità del mestiere. Hanno un’idea vaga di quello che faccio: quando chiedevano, ho sempre risposto che lavoravo in un locale notturno, ma senza specificare la mia mansione».

Quali sono i rischi del mestiere? Come evitarli?

«Per quanto io cerchi di avere clienti regolari, ho dovuto conoscere molti uomini prima di stabilizzarmi e non tutti sono stati gentili con me. In un paio di occasioni mi è capitato di essere aggredita e trovarmi davvero in pericolo di vita; in entrambi i casi perché il cliente aveva esagerato nell’assumere cocaina, di cui, non ti nego, io stessa faccio uso. Evitare clienti sconosciuti è l’unico modo per sfuggire a questi rischi.

Anche le malattie sessualmente trasmissibili sono un pericolo che si corre. La maggior parte dei clienti paga di più per avere rapporti non protetti, ma io li accetto solo in caso di persone che conosco e che dimostrano di avere gli esami del sangue puliti. Anche usando i preservativi, ci sono comunque malattie che si trasmettono con il sesso orale o anche meno e da queste è quasi impossibile tutelarsi».

Confessioni di una viaggiatrice in solitaria

Quando parlo con qualcuno dei miei viaggi da sola, mi imbatto spesso in due tipi di reazioni: il sospetto mascherato da preoccupazione (“Sola? Ma sei pazza? Non hai paura?”) o l’ammirazione per il mio “coraggio” (“Sola? Ti ammiro un sacco, sei davvero coraggiosa!”). Queste reazioni mi fanno sorridere, perché non credo di essere un’incosciente, né tanto meno un’eroina, solo perché mi reco in viaggio in qualche luogo perfettamente sicuro senza avere compagnia.

La verità è che viaggio (anche) da sola semplicemente perché mi piace ed è un’esperienza diversa dal viaggiare in compagnia. Dal lato pratico, infatti, viaggiare sola mi permette innanzitutto di non dover dipendere dalla disponibilità altrui per partire. Quante volte avete sentito le parole “Verrei volentieri, ma non ho ferie/soldi/tempo, ecc.”? Tutte motivazioni legittime e sensate, ma se voi avete la voglia e la possibilità di viaggiare è un peccato non approfittarne solo perché in quel momento nessuno può partire con voi.

La mia lezione di cucina coreana a Seoul.

Inoltre, essere sola mi consente di organizzare il viaggio in maniera perfettamente aderente alle mie esigenze e ai miei interessi, senza dover scendere a compromessi. Ad esempio, essendo io una vera e propria foodie, in ogni viaggio dedico sempre tempo e risorse a ricercare del buon cibo locale, che si tratti di street food o piatti più ricercati in ristoranti del posto. Siccome quando viaggio in compagnia non è sempre detto che gli altri condividano questa mia ossessione (che si prende anche una buona parte del mio budget), viaggiare da sola è un ottimo modo per dare libero sfogo alla mia passione. Partecipare a una lezione di cucina coreana a Seoul, gustare deliziosi spiedini di pesce in riva al Mar Giallo a Qingdao (Cina) o seguire un mini-corso sullo jamon hiberico a Madrid sono tra le esperienze dei miei viaggi in solitaria che più mi hanno entusiasmata e che non esiterei a ripetere. E quello che è il cibo per me, può essere l’arte, le spa o la corsa per qualcun altro. Ciò che conta è che si tratta di tempo solo vostro e potete dedicarlo a ciò che più vi piace senza compromessi.

Oltre a questi aspetti “pratici”, tuttavia, viaggiare da sola mi ha insegnato moltissimo su me stessa, su cosa amo davvero fare nel mio tempo libero e quali sono i miei ritmi e i miei limiti. Il mio primo viaggio da sola è stato a 22 anni durante il mio periodo di studi in Cina, quando, durante le vacanze estive, ho deciso di recarmi nello Shandong, una provincia non troppo distante da Pechino, sicura e facile da girare. I primi giorni sono stati terribili. Avevo stilato un programma di tutte le cose che volevo fare e vedere e mi ci attenevo rigorosamente. Non importa quanto fossi stanca, quanto magari quel tempio in particolare non mi facesse impazzire o quanto quel museo mi risultasse noioso, mi sentivo in dovere di vedere ed esplorare tutto, senza perdere del tempo prezioso in attività futili come riposarmi o passeggiare. Dopo qualche giorno, ho realizzato che non mi stavo divertendo per nulla e che più che un viaggio mi sembrava una missione per completare la mia check list. Ho iniziato a chiedermi che cosa mi andava davvero di fare quel giorno: volevo recarmi in visita a quel tempio sperduto? Sì? Bene! No? Allora una passeggiata senza meta per la città seguita da uno spuntino di spiedini di pesce e una birra in riva al mare sarebbe stata comunque un’ottima alternativa. Capire che dovevo seguire i miei ritmi è stata una rivelazione e una liberazione, che mi ha aiutata moltissimo anche nei miei viaggi successivi, in compagnia e in solitaria. Durante i miei viaggi da sola, ci sono giorni in cui ho voglia di visitare e vedere tutto e giorni in cui, invece, preferisco concentrarmi su un’attrazione sola per poi passare il tempo a fare people watching o leggere un libro in un caffè. 

Cena a base di enormi molluschi presso il mercato del pesce d Busan, Corea del Sud.

Con questo non voglio dire che viaggiare soli sia tutto rose e fiori. Come in tutti i viaggi, ci sono i momenti no, in cui ci si scontra con inconvenienti più o meno gravi che, quando non si ha nessuno con cui condividerli e affrontarli, possono risultare più difficili e scoraggianti. Allo stesso tempo, tuttavia, riuscire a superare i problemi contando solo sulle proprie forze può anche dare grandi soddisfazioni. Nel corso del mio viaggio in Corea, mi sono slogata una caviglia alla mia seconda tappa cadendo su un sentiero e ammetto che inizialmente ero disperata. Mi sentivo una stupida per essere stata tanto distratta da cadere e credevo di essermi rovinata l’intera vacanza per una sciocchezza. Dopo lo sconforto iniziale, però, mi sono rialzata, ho zoppicato fino alla mia guesthouse, mi sono fasciata la caviglia alla bell’e meglio guardando un tutorial su YouTube e ho iniziato a ripensare il viaggio, cercando attività più fattibili in quelle condizioni. Certo, ho dovuto escludere templi esotici zeppi di gradini e camminate che sicuramente sarebbero stati fantastiche, ma ne ho approfittato per provare esperienze che altrimenti non avrei mai fatto, come andare in una jimjilbang, la tipica spa coreana, passare del tempo a giocare con dei gattini in un cat café, fare lunghe chiacchierate serali sulla situazione della penisola con i gestori e gli ospiti delle guesthouse dove alloggiavo e, infine, rimpinzarmi di molluschi di ogni tipo al mercato del pesce di Busan (ok, forse questo l’avrei fatto comunque…). Nonostante l’inconveniente, quindi, il viaggio è stato un successo e mi ha insegnato che posso cavarmela anche con una caviglia slogata in Corea (e che non devo comprare scarpe con la suola liscia).

Viaggiare è stupendo e poterlo fare sia in compagnia che da soli, a seconda delle mete e delle situazioni, permette di avere accesso a esperienze completamente diverse tra loro, che possono essere ugualmente soddisfacenti in modi differenti. Non è detto che viaggiare da soli piaccia a tutti, ma io consiglio di provarlo almeno una volta nella vita, perché ne uscirete arricchiti e imparerete sicuramente qualcosa, fosse anche a non rifarlo una seconda volta.

 

In copertina: veduta di Gamcheon Village, Busan, Corea del Sud.

Intervista alla solitudine

Per me la solitudine è avere le mani gelate durante l’inverno, senza poterle riscaldare in quelle del proprio compagno. Ma la solitudine non si riduce solo a mancanza e isolamento. Può presentarsi sotto innumerevoli forme: può essere adesso, mentre scrivo tenendo d’occhio i panni portati a lavare nella lavanderia automatica di un quartiere londinese. Può significare farsi un’esperienza all’estero in autonomia, nel rispetto dei propri ritmi e nello scoprirsi differenti.

Il significato di solitudine può cambiare a seconda della nostra età?

Ho provato a chiederlo a diverse persone e di diverse fasce di età. Mi sono confrontata con loro su come vivono la solitudine, cosa gli piace fare e cosa ancora li mette a disagio quando stanno soli. Alcuni di loro hanno avuto un amico immaginario, altri considerano la noia come allarme per andare alla ricerca di compagnia…

Leonardo, 4 anni

Ma cosa vuol dire solitudine? La cosa che preferisco quando sono solo è colorare. Non mi piace tanto star da solo perché spesso mi annoio. Però quando gioco da solo immagino di giocare con i miei amici dell’asilo. (Questa intervista è stata leggermente alterata nella sua forma espressiva dalla redattrice e dalla mamma di Leonardo, n.d.r.)

Martina, 7 anni

Se penso alla solitudine mi viene in mente una cosa brutta, ho paura quando sono da sola anche se spesso sono circondata da tante persone. Poi Dully, il mio coniglietto di peluche, è sempre vicino a me e mi accompagna da quando sono nata. Il mio rapporto con la solitudine è cambiato in meglio quando è nata la mia sorellina, tre anni fa. La cosa che mi piace fare quando sono da sola è giocare a Barbie! (Questa intervista è stata leggermente alterata nella sua forma espressiva dalla redattrice e dalla mamma di Martina, n.d.r.)

Adriano, 27 anni

Quando sono da solo mi piace rendere migliori i miei spazi personali, mettendomi completamente al centro dell’attenzione. Può essere cucinare per me stesso oppure regalarmi qualcosa. Quando sono fisicamente solo, ne approfitto per mettermi in contatto con persone che sono fisicamente lontane da me (Adriano vive a Pechino, n.d.r.). A volte la solitudine mi porta a creare contatti. Se poi mi dico “solitudine” penso a “capacità”. Penso che bisogna essere capaci di stare da soli, per poi stare bene con gli altri. A volte la solitudine è un lusso: il lusso di poter scegliere, ad esempio, con chi voler passare del tempo. Allo stesso tempo, però, è anche vero che la solitudine è una grande problematica di questi tempi: dalla disconnessione dagli altri può derivare la depressione.

Anna, 29 anni

Per me lo stare da soli significa introspezione. Bisogna saper distinguere tra lo stare da soli e sentirsi soli in mezzo agli altri. Solo ultimamente sto imparando a stare da sola con me stessa, ritagliarmi del tempo per fantasticare su scenari e opzioni di vita. La cosa che mi mette più a disagio, invece, quando sto da sola è la percezione del tempo: è completamente sfalsato e scorre in maniera diversissima rispetto a quando sto assieme ad altri.

Rosa, 29 anni

Il mio rapporto con la solitudine è cambiato negli anni. Quando ero piccina avevo un’amica immaginaria: Sandra Bonomi. Di lei sappiamo solo il nome, dai racconti con mia madre, ma nessuno si spiega da dove arrivi un nome così dettagliato. Crescendo, il significato dello star da soli è passato da una condizione sofferta a una che cerco volentieri. Adoro difatti perdermi nei miei pensieri, ascoltando musica o il silenzio. Odio però mangiare da sola: lo trovo terribile.

Martina, 30 anni

D’istinto penso alla solitudine come a una condizione sentimentale. Penso all’assenza della persona che ami. Assenza di un altro da te con il quale condividi anche le dimensioni più intime (per qualcuno può essere moglie/marito, fidanzat*, amic*). Però a ben pensarci non è solo una condizione di assenza. La solitudine può essere anche una presenza, anche ingombrante. Penso che il mio rapporto con la solitudine sia più o meno lo stesso da sempre. Tendenzialmente non cerco la solitudine, preferisco stare con le persone. Poi se proprio sento la necessità di uno spazio per me, me lo creo, mi creo la mia solitudine, ma in mezzo alla gente. Sono una persona che ama la lettura e le biblioteche, per me quella è la solitudine nella moltitudine.

Emily Dickinson (poetessa): “Sarei forse più sola, senza la mia solitudine.”

Alfredo, 42 anni

Per me la solitudine è un momento di estrema tranquillità e pace, dove poter liberare i propri pensieri, che talvolta diventano malinconia. La malinconia al momento può dare una sensazione angosciante, ma se la si ascolta bene è talvolta bello crogiolarsi in essa e sentire tutte le sue sfumature e sensazioni. Sono sempre stato estroverso e solitario, essendo figlio unico ho avuto tante occasioni per star da solo. Diventando adolescente avevo la mia compagnia. Crescendo ho sentito la necessità di cambiare amicizie per non rimanere statico e quindi giravo da solo per andare a conoscere gente nuova. Questo mi ha portato a diversi momenti di solitudine. Mi piace avere i miei spazi, ma odio quando vorrei condividere qualcosa con altri e, invece, per cause di forza maggiore rimango solo.

Loredana, 60 anni

Se mi dici solitudine penso a qualcosa di negativo, che mi creerebbe anche dell’ansia. Vuol dire per me stare completamente da sola, non avere nessuno al mondo, cosa che non ho mai sperimentato. Un’unica volta mi sono sentita veramente sola: mia figlia trasferitasi a Milano per studi. Un senso di vuoto, un momento in cui non mi sono più sentita indispensabile. Ho cercato però di reagire al meglio, prendendomi del tempo per me stessa! Mi piacer fare giardinaggio e, ammetto, fare shopping…

Pietro, 65 anni

Secondo me il significato di solitudine cambia in funzione dell’età. Ora la vivo molto serenamente: in una società in cui siamo bombardati da distrazioni continue, c’è bisogno di intimità e di creare un rapporto positivo con se stessi. Se non sconfina nella depressione, la solitudine per me è positiva. Quando ero piccolo e poi adolescente, per me era difficile star da solo perché dovevo prendermi cura della fattoria assieme ai miei fratelli. Durante gli studi universitari, invece, ho iniziato a conoscere e apprezzare la solitudine, ma solo perché lo studio richiede silenzio e isolamento. Adesso, quando sono solo mi piace leggere e andare a correre in montagna. Determinate attività richiedono la solitudine come elemento essenziale per rafforzare carattere e resistenza: non si può correre senza pensare a nulla.

Sandra, 81 anni

Per me la solitudine significa vivere in una casa vuota. Negli anni è sicuramente peggiorato il mio rapporto con lo star da sola: diventa sempre più difficile conviverci. Capita spesso che, mentre sono a casa, penso alla vita passata e mi faccia travolgere dai ricordi. Tutte quelle cose che ho lasciato indietro a cui non dovrei pensare.

 

In copertina: foto di Francesca Gabbiadini (Tutti i Diritti Riservati).

Viaggio da sola perché – storie di viaggi solitari al femminile

Ebbene sì, sono molte le donne che viaggiano da sole. Perché lo fanno? Tante sono le risposte, e altrettante sono le paure, i miti e le situazioni legate a questo fenomeno. Pequod ha voluto saperne di più e ha intervistato Dana Donato, co-fondatrice assieme a Elena Mazzeschi del progetto Viaggio da sola perché.

Come, quando e perché è nata l’esigenza di fondare questo progetto?

Tutto è iniziato ad agosto 2015, quando sia io che Elena eravamo tornate da qualche mese dal nostro primo viaggio in solitaria. Non conoscevo altre donne che viaggiassero da sole, allora ho scritto un post su Twitter che iniziava con “Viaggio da sola perché” e continuava con la mia personale motivazione. Ho chiesto a chi volesse di mandarmi la sua storia, che pubblicavo all’epoca sul mio blog. Con Elena, cavalcando la moda dei gruppi Facebook, ne abbiamo aperto uno anche noi, e subito si sono iscritte centinaia di ragazze. Dopo qualche mese, abbiamo inaugurato anche il sito web, dove abbiamo inserito le storie delle viaggiatrici. In seguito, il progetto è diventato più articolato: adesso 14 persone scrivono per il sito e in più ci sono altre moderatrici. Il fulcro di tutto ciò è proprio la storia, mancava infatti una rete che facesse in modo che ci si raccontasse, si potessero chiedere consigli e aiutarsi a vicenda. Nella realtà molto piccola da cui vengo, è difficile trovare qualcuno che condivide questa stessa passione, e questo è il caso di tante altre ragazze.

Dana, la co-fondatrice del gruppo, durante un viaggio in solitaria ad Aljezur in Portogallo (Tutti i Diritti Riservati).

Quali sono i motivi principali che spingono le donne a viaggiare da sole?

Le motivazioni sono tantissime e diverse, da quelle più semplici alle più complesse. Io volevo semplicemente fare un’esperienza all’estero, la gratificazione è venuta dopo. C’è chi ha voglia di staccare, chi non ha nessuno con cui partire, chi vuole imparare una lingua. Le motivazioni cambiano anche nel tempo: se la prima volta la causa di un viaggio in solitaria può essere una rottura o una perdita, poi si scopre che in realtà è piacevole e la volta seguente si parte per un’altra ragione, perché è gratificante, per andare oltre ai propri limiti.

Quali sono i vantaggi di un viaggio da soli rispetto a un viaggio in compagnia?

Sempre parlando al femminile, ho individuato tre vantaggi. Il primo è l’accorgersi che si è in grado di fare benissimo cose che non si pensava di essere in grado di fare: ad esempio si pensa di non avere senso dell’orientamento ma poi si impara a orientarsi, o si sapeva già fare ma senza essersene mai accorti!

Il secondo vantaggio è il tornare ad amarsi, piacersi, capire chi si è realmente: questo succede quando non ci si deve occupare degli altri ma solo di sé stessi.

Il terzo vantaggio è quello di incontrare persone fantastiche, imparare a conoscere cosa c’è fuori dal proprio piccolo mondo e scoprire cose che non si sapevano, conoscere posti che erano sconosciuti. Ci si rende conto che c’è un mondo là fuori: non solo culturale ma anche mentale.

È semplice per una donna viaggiare da sola?

Dipende, dal lato organizzativo è uguale per tutti, uomini e donne. Dal lato emotivo a volte si trovano persone che ostacolano la voglia di partire, magari non direttamente, ma instillando dubbi con domande come “sei sicura?”, “non hai paura?”.

Dal punto di vista della sicurezza, non credo che per una donna viaggiare sia meno sicuro che per un uomo. Credo che il problema si ponga solo nel momento in cui si incontrano persone che solo per il fatto che sei donna ti vedono come persona debole o come vittima. E’ fondamentale quando si viaggia da sole, ma anche da soli, tenere gli occhi aperti, che d’altra parte è quello che si fa normalmente, anche nella propria città! La percezione della donna che viaggia da sola è però diversa da quella dell’uomo, perché è considerata vulnerabile, e chi vuole fare del male prende di mira chi considera più debole.

Il modo in cui si vive il viaggio al femminile è invece diverso, credo sia più emotivo e più profondo.

 Qual è l’ostacolo principale per chi vuole partire?

La maggior parte delle volte sono solo ostacoli mentali. Spesso poi, sono semplicemente paure degli altri proiettate su di te. Bisogna liberarsene.

Dana, la co-fondatrice del gruppo, durante un viaggio in solitaria nel Ring of Kerry in Irlanda (Tutti i Diritti Riservati).

Quali sono i miti e le paure più frequenti e come sfatarli?

Lo spauracchio “solitudine uguale noia”: la paura di sentirsi soli o che il viaggio sia noioso. Non è così, perché puoi decidere se stare sola o conoscere qualcuno, e non è detto che ti annoierai. A volte capita di sentirsi sole, magari la città che si visita non piace molto, ma bisogna avere la consapevolezza che viaggiare da soli non è per tutti. Si può provare.
Esiste poi lo stereotipo che chi viaggia da sola è sempre da sola, ma è falso! Le stesse persone viaggiano anche in compagnia, con gli amici o con il compagno, sono semplicemente esperienze diverse.

Credi che il trend dei viaggi solitari sia in crescita? Quali sono le età, i tipi di viaggio, le mete preferite?

Sul nostro gruppo Facebook ci sono quasi 17000 iscritte: la fascia più ampia di donne ha dai 25 ai 35 anni, mentre per le altre fasce i numeri sono più bassi. Le over 60 sono irrefrenabili, fanno dei viaggioni pazzeschi, le ragazze giovani sono sveglissime, noi nel mezzo, dai 25 ai 35, siamo le più paurose: stiamo uscendo da quella generazione di donne che si stanno autodeterminando, però lo facciamo più lentamente rispetto alle giovani di oggi, mentre quelle di età maggiore sono già molto sicure di loro stesse. Siamo però bravissime a cercare di vincere le paure, iniziando con viaggi brevi in luoghi vicini e andando poi sempre più lontano.

I luoghi più gettonati sono il Sud-est asiatico, l’Australia per via del Working Holiday (visto che permette di trascorrere un anno di vacanza e lavoro in Australia, ndr), l’Africa, soprattutto con il Marocco, la Spagna come meta più vicina e le Repubbliche baltiche, che sono mete facili ed economiche. Non viene tralasciata l’Italia, soprattutto per le zone costiere quando il viaggio diventa vacanza, e per le fughe di due o tre giorni. Alcune donne viaggiano da sole anche on the road, in macchina, soprattutto in Irlanda, anche se è un po’ complicato perché noleggiare un’auto è costoso per una persona sola. Pochissime, ma ci sono, viaggiano con il camper e il van. Un altro tipo di viaggio molto gettonato è quello a piedi: tutti i cammini, da quello di Santiago alla Via Francigena, sono perfetti in solitaria, perché sono economici e si possono conoscere molte persone. Spesso sono scelti come primo viaggio.

Quali consigli daresti personalmente a chi vuole fare questo tipo di esperienza?

Sicuramente è necessario organizzarsi. È importante cercare più informazioni possibili sul posto dove si va, sia prima da internet che durante il viaggio dalle persone locali. Consiglio di prenotare una stanza almeno per le prime notti, tenere gli occhi aperti e se si scelgono destinazioni un po’ difficili evitare di avere con sé oggetti di valore. E poi, cercare di aprire la mente e di conoscere il più possibile la realtà che si visita, e soprattutto godersi il viaggio!

 

Immagine di copertina gentilmente fornita da Viaggio da sola perché (Tutti I Diritti Riservati).

Ge(n-)eri, una ricerca sulle variabili umane

Una curiosità istintiva che muove una ricerca, una ricerca che non è ancora un progetto: Ge(n-)eri è il titolo provvisorio di un’avventura alla scoperta dell’altro intrapresa da Giacomo Arrigoni Gilaberte, classe ’91, giovane transessuale di cui su Pequod abbiamo raccontato il percorso per la transizione da un corpo femminile a uno maschile. Oggi lo incontriamo per scoprire un progetto in fase embrionale, al suo primo stadio di raccolta di riflessioni “sul campo”, che ha per tematica i generi intesi nelle loro declinazioni più diverse e variabili. Ge(n-)eri è un’occasione per ripensare alla propria identità e interrogarsi su alcune tematiche universali attraverso un mezzo di comunicazione alla portata di tutti, discreto e a suo modo sorprendentemente rivelatore: un messaggio vocale su WhatsApp. Così semplice che potrete farlo anche voi: se vorrete contribuire a questa ricerca sui generi, alla fine di questo pezzo troverete il recapito per contattare Giacomo. Ma prima scopriamo più precisamente di cosa si tratta…


Giacomo, ci racconti come è nata questa ricerca?
«Da qualche anno mi sono appassionato alle arti performative, faccio parte di Figli maschi, giovane gruppo teatrale bergamasco, e della realtà milanese Atopos, ma soprattutto ho l’esigenza forte di parlare di identità di genere perché sono un ragazzo trans, perciò è nato il bisogno di portare avanti un progetto in autonomia. Inizialmente pensavo di partire da un testo di riferimento, ma ho sentito da subito che non mi bastava: avevo il limite di un’unica idea-guida, mentre avrei voluto unire tantissimi testi e prendere spunto da tutti. A un certo punto, non so bene come, ho pensato che poteva essere più utile far parlare altre persone. Non volevo raccontarmi in prima persona per una creazione ex novo. Non ho idea della forma che prenderà, ma sono sicuro che si tratta della traccia giusta per la mia ricerca».

Dev’essere stato complicato chiedere ad altri di rivelarsi raccontando di sé…
«In realtà sto ricevendo una risposta molto attiva, perché alla fine quando si chiede a una persona di raccontarsi ricevi tendenzialmente una risposta positiva. Coinvolgere tante persone e dar voce a loro mi sembra il punto di partenza giusto perché, per quanto possa raccontarmi a livello biografico, credo che non saranno mai davvero le mie parole a raccontare quello che voglio raccontare. A volte penso che basta il mio corpo nudo sulla scena, “attraversato” da queste voci che raccontano quello che vorrei raccontare io, perché su genere, corpo e sessualità abbiamo tutti gli stessi pensieri, seppur declinati in altri vissuti».

Foto di scena dallo spettacolo Figli maschi del gruppo teatrale omonimo; in primo piano Giacomo Arrigoni Gilaberte (Ⓒ Giovanni Chiarot/ Zeroidee).

Un’urgenza di base forte ed estremamente personale come base di partenza: con quali mezzi hai deciso di concretizzare questa “raccolta di fonti”?
«Ho scritto una traccia indicativa di punti di riferimento che ho fatto girare a tutti i miei contatti su WhatsApp. Non si tratta di vere e proprie domande, ma una proposta di sette temi che mi interessano di più: “corpo, vestiti, sesso, specchio, capelli/peli, famiglia, tu (chi sei, chi sei stat* finora, chi vorresti continuare ad essere)”. A tutti chiedo di inviarmi preferibilmente un file audio perché il parlato è più spontaneo e perché, chissà, potrebbe diventare materiale da utilizzare (ovviamente se autorizzato). In ogni caso chiedo di sviluppare un racconto in totale libertà. E ho constatato subito che è magico: schiaccio play e in un attimo sento voci diverse, punti di vista totalmente diversi; immagino come potrebbero essere le persone dall’altra parte del telefono».

Il messaggio vocale è un mezzo “ambiguo”: può schermare la propria identità, mettere una distanza, ma anche offrire una possibilità per “esporsi senza esporsi”, confidarsi senza l’imbarazzo dell’incontro di persona.
«Ti dico la verità: ho un’avversione per i messaggi vocali [ride, ndr], ma ho pensato: “E se fosse la cosa che più odio e che mi è lontana a darmi un aiuto? Ho provato a vederla come la forma che potesse rendere più liberi di esprimersi – mi immagino tutti a casa propria, o in macchina, in un momento di riflessione e di condivisione… e poi l’audio puoi farlo durare quanto vuoi. Un limite? A volte le persone possono rimanere disorientate, forse perché devo essere più chiaro nella mia proposta (ed è per questo che correggo di volta in volta il tiro sulle mie tracce scritte), forse perché anche la totale libertà di espressione può lasciare spiazzati».

Giacomo durante un’intervista, un’alternativa allo scambio di riflessioni tramite messaggio vocale per la sua ricerca su identità, generi e corporeità.

Stai pensando a un nuovo metodo per raccogliere le riflessioni e di incontrare la voce dell’altro?
«Nel mio file sottolineo che ognuno può sentirsi libero di raccontare qualsiasi cosa e per molti si sta rivelando un modo per lasciarsi andare: conosco persone che se avessi avuto davanti a me si sarebbero imbarazzate e trattenute. Però sto sperimentando la forma dell’intervista, mi sta aprendo opportunità di incontro con persone che non pensavo di poter avvicinare. Qualche sera fa in un bar ho conosciuto un gruppo di ragazzi che possiamo definire punk e a un certo punto uno di questi mi racconta dei suoi tatuaggi, mi dice di essersi tatuato una svastica sulla gamba. È una persona lontana dal mio modo di pensare, e forse proprio per questo ho voluto accennargli il mio progetto con parole che potesse accettare. Ed è stato lui a chiedermi di raccontarsi in un’intervista. Abbiamo parlato per un’ora e mezza. La cosa che più mi ha emozionato è il fatto che, tra quattro chiacchiere su vestiti e capelli, la persona che ha dichiarato apertamente che non trova ammissibile l’unione tra un nero e un bianco è la stessa che racconta un’idea di famiglia dolce e tenera. Siamo tutti essere umani, siamo fatti della stessa carne, e in una stessa storia puoi trovarti ora in accordo ora in disaccordo. Quello che appartiene a me in realtà appartiene anche agli altri».

Stiamo parlando di un progetto in fase embrionale…
«Direi che siamo alla nascita, sono passati solo due mesi…».

… e già si sta sviluppando, attraverso la ricerca di nuovi strumenti di indagine.
«Ho deciso di partire da chi conoscevo per semplicità, ma vorrei raggiungere un’ampia varietà di persone per avere uno spaccato dell’umanità: vorrei ampliare questo confronto a persone di età diverse, di etnie lontane, a persone con disabilità… Far parlare gli altri al posto mio, di qualcosa che mi riguarda e che mi interessa nel profondo, sta dando dei risultati più grandi di quanto mi aspettassi».

Semmai un giorno elaborerai la tua ricerca in una forma (rap)presentabile pubblicamente, potrebbe letteralmente dare voce alle variabili umane, alla ricchezza delle differenze.
«Ci troviamo spesso a categorizzare le persone dall’esteriorità e da questa prima impressione diamo o meno loro la possibilità di raccontarsi. Voglio scardinare questo modo di pensare e il mezzo della voce mi sta aiutando molto, perché apre un immaginario nuovo senza esaurirlo, perché credo che sia l’elemento più caratterizzante dell’essere umano soprattutto a proposito di genere, perché sovverte l’ordine del nostro modo di identificare le persone».

Se a questo punto è venuta voglia anche a voi di mettervi in gioco con questi interrogativi, contattate il numero 346 5746344: Giacomo vi invierà la traccia elaborata per aggiungere una nuova storia e una nuova voce alla sua ricerca.

Celebrare le differenze per creare inclusività: la cooperativa Il Cortile e il progetto Kirikù

Ci sono storie che è necessario narrare per trasmettere a chi le ascolta gocce di ispirazione, con cui innaffiare quotidianamente le idee per poi vederle fiorire; storie che dissemini lungo la strada come farebbe Pollicino con la mollica di pane, per non perderti nel buio, ritrovare la retta via e permetterti di guardare sempre avanti ricordandoti da dove sei partito. Come la trama di un tessuto, le storie si intrecciano e si tingono di significato: le più coinvolgenti sono quelle che parlano delle persone, dell’arricchimento costante come frutto di un contatto umano autentico, fatto di incontri fra differenze e abbattimento di barriere. Per ascoltare una simile storia mi sono affidata alla voce gentile della dott.ssa Sandra Sesenna, referente dell’area integrazione della cooperativa “Il Cortile” di Salsomaggiore Terme; Sandra è anche la coordinatrice del centro CABAS-based©” Kirikù, finalizzato all’abilitazione di bambini e ragazzi con autismo e disabilità rare: grazie alla sua collaborazione ho potuto comprendere più a fondo la dimensione in cui lavora.

Sandra, la Cooperativa il Cortile nasce quasi trent’anni fa dall’iniziativa di pochi, ma nel corso del tempo è andata strutturandosi sempre di più ed è arrivata a coprire realtà e progetti diversi, di cui Kirikù è solo uno fra i tanti. Qual è stata l’idea che ha permesso che si creasse questo progetto?

L’idea è nata dall’osservazione dei bisogni del territorio: Il Cortile nasce infatti nel 1990 con l’obiettivo preciso di lavorare con minori e disabili. Come dicevi, abbiamo diversi tipi di servizi presenti per rispondere a diverse necessità. Kirikù è piuttosto recente: nel 2010 ho seguito un corso di perfezionamento organizzato dall’Università di Modena e Reggio Emilia, relativo allo studio delle nuove metodologie di approccio per lavorare nell’ambito dello spettro autistico. All’epoca avevamo già attivo il centro disabili Why not e il servizio di assistenza scolastica; tuttavia volevamo impegnarci ulteriormente e crescere ancora di più. Alla fine del corso Angela Volta, presidente di ANGSA (Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici), una realtà bellissima attiva dal 1985 che coinvolge le famiglie di persone affette da disturbo dello spettro autistico, ha proposto di ragionare insieme per aprire sul nostro territorio un servizio di interventi abilitativi a persone con autismo. La realizzazione del progetto Kirikù è stata sostenuta anche dall’intervento della Fondazione Cassa di Risparmio di Parma. Siamo partiti in pochissimi: appena quattro bambini e sei educatori. Attualmente contiamo ventuno ragazzi solo nel progetto Kirikù.

Kirikù è un centro CABAS-based©: cosa significa questo?

Si tratta di un protocollo importato nel nostro Paese dalla Columbia University: la dott.ssa Fabiola Casarini, che tuttora supervisiona i nostri progetti a livello scientifico, si è fatta garante per l’Italia di questa metodologia. Il metodo Cabas© cerca di coniugare la rigorosa metodologia riabilitativa dell’analisi applicata del comportamento (ABA) a contesti naturalistici il più possibile vicini alla vita di tutti i giorni.

 

Una delle stanze adibite alle attività del progetto Kirikù (foto di Sandra Sesenna©).

Di quali fasce anagrafiche vi siete occupati più frequentemente?

Da quando è attivo Kirikù abbiamo intercettato soprattutto bambini piccoli; in particolare il progetto coinvolge minori che hanno appena ricevuto la diagnosi (dall’anno e mezzo ai due anni) fino ad arrivare a ragazzi di diciotto, diciannove anni. Si lavora in tutti gli ambiti di sviluppo della persona, a seconda dei casi che si affrontano e della situazione del singolo individuo.

Secondo quanto hai visto nella tua esperienza, quali sono stati i pregiudizi legati alla percezione delle persone con autismo che hai trovato più difficili da scardinare?

Posso dire che nel corso del tempo le persone con autismo hanno acquisito sempre più spazio e voce: fino agli anni ’90 la diagnosi era molto differente rispetto ad oggi, all’epoca c’era sicuramente meno informazione e meno materiale disponibile. Trent’anni fa era diffusa la tendenza a individuare come causa principale dell’autismo dei bambini l’anaffettività delle madri: fortunatamente, quest’assurda teoria delle “mamme frigorifero” è stata poi smentita del tutto. Inoltre mi sto accorgendo con sollievo che anche la correlazione tra vaccini e autismo sta venendo sempre più frequentemente screditata dalla scienza: si tende ad avere delle convinzioni distorte in merito a questo tema, semplicemente perché i primi segnali di autismo percepibili a persone non esperte emergono in una fascia d’età che è coincidente con quella prevista per le prime vaccinazioni. Ancora una volta, l’informazione scientifica e la conoscenza si rivelano essere alleati fondamentali.

Materiale per le strategie d’intervento (foto di Sandra Sesenna©).

Parliamo della prospettiva delle nuove generazioni: nella coscienza dei più giovani, come viene percepito l’autismo vissuto dai loro coetanei?
È una percezione relativa, dipende dai contesti: dove questi sono stati precedentemente preparati, c’è una sensibilità maggiore. Solitamente l’inclusione risulta semplice se gli utenti sono piccoli: da questo punto di vista Kirikù è unico nel suo genere perché, da quando siamo nati, siamo sempre stati un’unica struttura legata ad un centro di aggregazione giovanile, anch’esso posto sotto l’ala della cooperativa Il Cortile. Il fatto di inserire i più piccoli all’interno delle attività del centro di aggregazione, favorisce indubbiamente l’inclusione. Man mano che si cresce, però, la gestione del tempo libero diventa spesso molto più complessa: una criticità che ci rilevano le famiglie dei ragazzi più grandi è che difficilmente una persona con autismo viene inserita a contatto con coetanei normotipici. Su questo aspetto c’è ancora molto lavoro da fare per raggiungere una completa inclusione.

I dati ISTAT rivelano che le scuole adattate alle necessità di alunni con bisogni educativi speciali sono il 18% e che solo il 32% degli istituti italiani risulta accessibile dal punto di vista delle barriere fisiche. Cosa ne pensi?

Per la mia esperienza, legata alle scuole del nostro territorio ed in particolare agli istituti di Fidenza e Salsomaggiore Terme, posso dire che la Regione Emilia Romagna si è attivata in maniera davvero incredibile. Al momento, tra l’altro, sta formando un gruppo di docenti specializzati sulla formazione dell’autismo. Dove il sistema è farraginoso e complesso, la differenza la fanno le persone: se l’ambiente è ricco di ostacoli ma ci sono la giusta consapevolezza e sensibilizzazione, le barriere fisiche passano in secondo piano, perché al primo posto viene la solidarietà. Anche dal punto di vista del personale educativo, credo che per lavorare a contatto con soggetti caratterizzati da disturbi dello sviluppo o bisogni educativi particolari non sia necessaria solo la competenza professionale, ma soprattutto un inesauribile desiderio di imparare attraverso il confronto e il contatto umano.

In copertina: momenti di gioco alla scoperta dei sensi (foto di Sandra Sesenna©)

Una Sala da Thè per l’integrazione

Laura e Lamin sono seduti di fronte a me, 20 anni entrambi, lei dinamica ed entusiasta, lui più timido e riflessivo; Laura è italiana e studia psicologia a Bergamo, Lamin viene dal Senegal ed è un cuoco. Hanno storie e origini molto diverse, ma entrambi fanno parte di Sala da Thè, il nuovo “gruppo informale multietnico” con sede a Bergamo, che, come recita la loro presentazione su Facebook, è “volto a comprendere i bisogni primari tanto quanto i desideri e le ambizioni profonde di migranti e non”. Laura mi spiega che il gruppo è nato a gennaio 2019 dall’esigenza di fare qualcosa di concreto per favorire l’integrazione e lo scambio con i migranti, vista anche la situazione politica attuale che decisamente non rema in questa direzione. «Molti di noi operavano già singolarmente come volontari in centri d’accoglienza, ma ci siamo chiesti cosa potessimo fare di concreto come gruppo, perché qualcosa bisognava fare, e abbiamo quindi deciso di creare Sala da Thè».

Un incontro di Sala da Thè a Bergamo (foto di Sala da Thè, Tutti i Diritti Riservati).

Un nome decisamente curioso, ma che serve a sottolineare il carattere informale e aperto a tutti del progetto: «La sala da thè è un posto informale dove chiunque può entrare, non serve essere “qualcuno” (…) e dove qualunque persona può esprimere liberamente le proprie idee e avanzare delle proposte riguardo la tematica dell’immigrazione». Il gruppo, composto per ora da una quindicina di ragazzi e ragazze italiane e una decina di migranti, è molto eterogeneo e ognuno fornisce il suo apporto personale mettendo a disposizione le proprie competenze: «C’è chi lavora in uno studio legale, chi in un CAS (Centro di Accoglienza Straordinaria, ndr), chi fa l’educatore, ecc. Abbiamo cercato di raccogliere più esperienze possibili per dare un supporto ai migranti e sopperire alla mancanza di servizi e figure professionali che al momento non ci sono, ma dovrebbero esserci».

Lamin racconta che è stato proprio l’avvocato che lo segue nel processo di richiesta d’asilo a spingerlo a partecipare agli incontri di Sala da Thè e gli ha presentato alcuni membri. In particolare, Lamin si sofferma sull’aiuto che il gruppo fornisce con le pratiche burocratiche: «Quando uno [dei migranti] deve andare in questura, se c’è qualcuno [di Sala da Thè] che è libero lo accompagna. Così con loro va tutto bene».

Tuttavia, Sala da Thè non vuole fornire solo un supporto “pratico” ai migranti, ma anche e soprattutto essere un luogo di condivisione per permettere a tutti di sentirsi compresi e di realizzare i propri sogni e aspirazioni. Quando Laura mi parla di questo obiettivo tanto ambizioso, in un primo momento ammetto di sentirmi un po’ scettica sulla fattibilità del progetto, ma lei non esita a farmi un esempio specifico: “Ci sono due ragazze del gruppo che amano cantare e vorrebbero far conoscere il proprio talento su YouTube. Noi, allora, le abbiamo aiutate a girare un video di una loro canzone a Bergamo. Certo, ottenere i documenti è importante, ma noi crediamo ci sia anche dell’altro”.

Un momento della cena benefit del 16 marzo organizzata da Sala da Thè (foto di Sala da Thè, Tutti i Diritti Riservati).

È proprio con questo spirito che Sala da Thè ha organizzato diversi eventi per far conoscere il gruppo sul territorio e allargare la sua rete di contatti e relazioni. Il primo è stato una cena benefit di presentazione del progetto con un menù senegalese preparato dai ragazzi, tra cui ovviamente anche Lamin, cuoco di professione. È proprio mentre parliamo del “suo” cibo che Lamin, fino ad allora piuttosto timido, improvvisamente si anima e, mentre cerca di descriverci i piatti tipici senegalesi che ha preparato, gli si illuminano gli occhi. Fatica a trovare le parole in italiano, ma grazie a Google ci mostra delle foto davvero invitanti; alla fine, rinuncia a descriverceli a parole e si limita a esclamare con un gran sorriso soddisfatto: “Buonissimo!”.

Laura a queste parole sorride e mi spiega che la partecipazione alla cena è andata ben al di là delle loro aspettative e, per questo motivo, hanno deciso di riproporla in chiave di aperitivo anche per il prossimo evento del 16 marzo presso lo spazio Polaresco di Bergamo, che durerà però un’intera giornata e comprenderà diverse attività. I partecipanti di Sala da Thè proporranno infatti vari laboratori, interamente gratuiti e studiati in base alle competenze dei vari componenti del gruppo: un ragazzo abile con la macchina da cucire, ad esempio, terrà un piccolo laboratorio di sartoria, mentre altri con la passione per la pittura permetteranno a tutti di dare libero sfogo alla propria vena creativa dipingendo su tela. A seguire, ci sarà la presentazione del gruppo, l’aperitivo multietnico e la Jam Session musicale aperta a tutti: “In puro spirito Sala da Thè”, precisa Laura con un sorriso. Infine, la serata si concluderà con il concerto della band Ottocento, organizzato direttamente dal Polaresco. Non è tutto, però. Laura mi racconta con entusiasmo che stanno già lavorando a un nuovo evento per il 31 marzo, una partita interculturale di calcio a cui ci si potrà iscrivere durante la giornata di sabato 16.

Dalle parole di Laura e di Lamin capisco quanto credano nel progetto e quanto siano importanti questi eventi per loro e per tutto il gruppo. A me, in fondo, sembra che il senso del progetto di Sala da Thè stia tutto qui: nell’entusiasmo di Sara e nel “buonissimo!” esclamato da Lamin mentre parla dei suoi piatti con gli occhi luminosi.

 

In copertina: Laura e Lamin (Tutti i Diritti Riservati).