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Esperienze Di Attività Con Marco Peri

Cara Arte, vorrei incontrarti tra 10 anni

Quelli appena passati sono stati mesi lunghi e difficili. Mesi in cui molti di noi hanno potuto partecipare a eventi virtuali, come conferenze, lezioni a distanza e webinar, sperimentando l’importanza del digitale che si è dimostrato un supporto funzionale per le realtà culturali e artistiche in un momento di crisi.

È stato infatti necessario operare un cambiamento, che ha condotto l’arte verso una stimolante sinergia con il mondo digitale. Se molti eventi e altrettante mostre sono stati cancellati o rimandati, alcuni organizzatori e direttori invece hanno deciso di sperimentare un modo innovativo per continuare a esserci, impiegando un altro format. Questo è il caso della Milano Digital Week che sta creando conferenze, conversazioni e dirette su Facebook e Instagram, mentre l’attesissima mostra “Raffaello.1520-1483” presso le Scuderie del Quirinale di Roma ha saputo incuriosire il pubblico online grazie a un’abile programmazione di post e video relativi all’esposizione, includendo anche elementi di backstage e interviste ai curatori.

La Casa Testori di Novate Milanese, d’altra parte, ha creato una proposta pensando ai più piccoli: la rubrica “Artist & Son/Daughter” nata dall’idea di Andrea Bianconi, in cui gli artisti, tra i quali Marica Fasoli e Nicola Villa, hanno raccontato e suggerito delle attività laboratoriali da poter svolgere con i propri figli, divertendosi a giocare e imparare durante la quarantena.

Anche le piccole realtà associative attive sul territorio di Bergamo, sono state inevitabilmente toccate da questa ondata di cambiamento. L’associazione Inchiostro.itinerari e incontri d’arte di San Paolo d’Argon ha creato dei video-pillole in cui svela inedite informazioni e curiosità d’arte, dedicate ai luoghi in cui realizza visite e incontri. Al momento sta preparando un corso di formazione di storia dell’arte del territorio bergamasco curato dallo storico dell’arte Dorian Cara. Diversamente si è mossa l’associazione Un fiume d’arte di Ponte San Pietro, che ha deciso di annullare l’Esposizione di settembre e si sta concentrando sulla creazione della mostra delle opere della pittrice Patrizia Monzio Compagnoni, in programma per il 2021 nella Pinacoteca Vanni Rossi.

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Molte realtà, dalle più grandi alle più piccole, hanno trovato il loro modo per restare a galla, tramite soluzioni utili e sostenibili per continuare a dare importanza e pubblica condivisione del loro patrimonio.

La quarantena ha consentito, però, di mettere sotto i riflettori il mondo dell’arte e della cultura, presentandone luci e ombre. Abbiamo potuto ammirare la qualità estremamente duttile e versatile dell’arte e dei suoi mediatori. Musei, gallerie, centri culturali e associazioni sono infatti riusciti ad adattarsi alle nuove modalità virtuali per comunicare, coinvolgere, rendere fruibile e accessibile il patrimonio. Ma è proprio qui che sono sorte le prime domande sul futuro dell’arte, della comunicazione e della didattica museale da qui a 10 anni.

Certamente osservare un video o partecipare a una visita guidata virtuale è un modo facile, pratico e, oserei dire, “veloce” per viaggiare e ammirare musei e opere d’arte che si trovano in altri Paesi. Se questi contenuti rispondono a un’esigenza “fisica” e geografica, manca però una comunicazione più attenta e curata alla concretezza dell’arte, che è fatta di idee, progetti, gesti manuali, strumenti, tecniche e soprattutto di relazioni umane.

Le attività digitali talvolta descrivono le opere d’arte e i luoghi culturali con una certa freddezza e mancanza di “contatto”, di sensibile coinvolgimento. Visitare un museo o una mostra è un’esperienza sensibile complessa, coinvolgente, unica e soggettiva, che richiede una diversa durata e un tempo da dedicare, una disposizione d’animo e una ricerca selettiva delle opere. Durante la visita il fruitore guarda, sceglie, pensa, si muove, si avvicina, si allontana, impara e forma il proprio sguardo e il gusto critico.

Ad oggi abbiamo a disposizione una programmazione ricca, gratuita ed eccessivamente presente sui social network, che rende indispensabile una creazione e una ricerca di tavoli di confronto e di studio. A tal proposito abbiamo intervistato l’artista Angelica De Rosa e lo storico dell’arte Marco Peri, che ci hanno offerto un curioso spaccato di spunti e riflessioni sull’arte e sulla didattica.

Angelica De Rosa è una giovane artista di 29 anni, che lavora a Milano e si dedica alla realizzazione di suggestive opere nelle quali insegue l’elemento sonoro e sensibile creando un’indagine evocativa che spazia tra corpo e mente, tra udito e vista, tra il percepito realmente e il “potenzialmente” percepibile. La sua arte si basa sul concetto di contatto, di volta in volta studiato attraverso diverse forme e tecniche artistiche, quali la pittura, la scultura, i video e la performance.

Angelica De Rosa
Angelica De Rosa. Ogni diritto è riservato.

L’artista, guardando al presente senza perdere di vista il futuro, vede nella tecnologia «un gigante dalle enormi falcate» che «porta ad un appiattimento del valore artistico, che scardina, a suo favore, l’armonia di valori che compongono un’opera d’arte.»

Il valore e il funzionale apporto della tecnologia al mondo dell’arte ad oggi sono indiscutibili. Ciò non toglie che, secondo l’artista, bisogna farne un uso moderato e specifico, che non vada a intaccare «il delicato equilibrio tra filosofia, poesia, esperienza sensoriale, valenza estetica, matericità e tecnica, che è ciò che genera la produzione artistica.» De Rosa infatti sottolinea che «la magia dell’arte sta nel saper creare uno spazio che favorisca l’incontro tra l’intimità dell’artista e l’intimità del fruitore. Da ciò che accade in quell’incontro si sperimenta cosa sia l’arte.»

L’arte è un’esperienza estetica che amplia e confonde i sensi, in cui fruitore e artista dialogano fra loro. È sempre più necessario preservare la sua forza magica, la straordinaria capacità comunicativa che permette a tutti di avvicinarsi, comprenderla e con divertimento sperimentarla. Di certo il legame che insiste con la tecnologia e il mondo digitale deve, come spiega la giovane artista, «essere in funzione dell’arte. Che la tecnologia possa servire l’arte e non esserne il fine.» Non bisogna confondere le due distinte realtà: si deve trovare un equilibrio di forme e strumenti, un’armonia di cultura e comunicazione.

Marco Peri, storico dell’arte che da anni si dedica all’educazione museale e nel 2018 ha ricevuto il Marsh Awards for Excellence in Gallery Education, che premia le eccellenze in questo campo, ci ha parlato della didattica museale e del ruolo dei musei nel futuro.

Marco Peri
Marco Peri. Ogni diritto è riservato.

«Come cambierà la didattica dell’arte tra 10 anni? Questa è una domanda da libro dei sogni. Il mio auspicio per il futuro è che l’arte possa diventare non solo una presenza ma il fondamento di ogni curriculum formativo. È tempo per un cambio di prospettiva, che sposti l’attenzione dalle qualità degli artefatti ai processi cognitivi e sociali che attraverso l’arte si possono generare. Didattica dell’arte dovrebbe significare educare con arte, cioè considerare l’arte come mezzo e non come fine, uno strumento trasformativo per guardare alla vita e alla realtà. Attualmente le arti hanno un ruolo marginale nei percorsi educativi, ma sono convinto che la musica, il teatro, la poesia, le arti visive, siano strumenti di conoscenza essenziali per sviluppare pienamente le proprie risorse. Il contributo delle arti per la crescita individuale rappresenta un’opportunità di valore aggiunto per generare la conoscenza e la fiducia per immaginare consapevolmente il futuro.»

Ancor più oggi diventa indispensabile capire come l’arte e la sua didattica dovrebbero essere considerate un fondamento imprescindibile per tutti in quanto permettono di imparare e formare il pubblico in modo semplice, diretto e multidisciplinare. Se la didattica può iniziare un percorso di ri-scoperta il ruolo del museo in futuro come sarà? E il suo ruolo nell’educazione culturale?

«Credo che il museo contemporaneo sia un formidabile spazio di relazione, in futuro l’istituzione dovrebbe ambire ad essere sempre di più uno spazio di ricerca sociale democratico e libero», continua Marco. «Tra le istituzioni culturali del nostro tempo, il museo è probabilmente la realtà più promettente nella quale costruire una cultura condivisa. Nel museo si possono esplorare una pluralità di temi insieme a un pubblico ampio ed eterogeneo, dalle famiglie, al mondo della scuola e così via interagendo con tutta la società. In questo senso il museo potrebbe essere un contesto per costruire nuovi modelli di vivere sociale. Non solo un luogo conservativo ma soprattutto un luogo trasformativo che agisce con consapevolezza il proprio ruolo educativo per la società, un laboratorio di idee e di futuro.»

Il museo oggi è un luogo di relazioni umane e di conoscenze condivise, che proprio a partire da questa quarantena può iniziare a sviluppare e approfondire le sue capacità di trasformazione e versatilità: può dedicarsi a pubblici più ampi, trattare temi sempre differenti, diventare luogo di connessione tra le istituzioni universitarie e scolastiche e le realtà cooperative ed associative del territorio, oltre a poter trasformarsi in un centro di ricerca ed elaborazione di buone pratiche di vita. Come evolverà però nel suo rapporto cruciale con il digitale?

Esperienze Di Attività Con Marco Peri

«Questi ultimi mesi», riflette lo storico dell’arte Peri, «in cui i musei sono rimasti chiusi e il distanziamento ci ha impedito di vivere le relazioni in presenza, ci hanno dimostrato le infinite opportunità del mondo digitale.» Misurandoci «con altre modalità di fruizione, divulgazione e creazione di contenuti», continua, abbiamo dovuto anche riconoscere una certa «impreparazione nel gestire le opportunità offerte da questi strumenti.» Investire «intelligenza e creatività» in questo settore, può permetterci di «generare nuovi contenuti di valore», approfittando «del valore aggiunto delle nuove tecnologie come strumento di accessibilità universale e inclusione sociale.»

 

Immagine di copertina e ultima immagine di questo articolo: esperienza di attività culturali assieme allo storico dell’arte Marco Peri. Ogni diritto è riservato.

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Brexit 10 Years On. What future for the EU and the UK?

It seems fair to say that the new decade did not begin at its best. The finalisation of Brexit took place on 31st January 2020 and was shortly followed by the worldwide outbreak of Covid-19. Considering the complexity of global politics, ten years are likely to be gone in the blink of an eye: long-term changes do not usually happen in such a short time. But then, again: in the space of four years the United Kingdom cancelled forty-seven years of European membership, so who is to say?

The European Union’s delegation in London stated that: “The global health emergency triggered by Covid-19 has shown us that the challenges which we face are global and know no borders”. For this reason, we have tried to imagine what could happen after Brexit. What will be the relationship between the UK and the EU in ten years? We have asked this question to political experts, representatives of institutions, British citizens and residents. In order to answer this question it is necessary to make some considerations on the future of the EU as we know it.

Although no one has the power to predict the future, looking at the past may help. The UK’s decision to leave the EU did not come out of nowhere and can be linked to the fact that British Europeanism never really took off. To start, the rhetoric of British exceptionalism is deeply rooted in British culture. Every identity conceives of itself as opposed to someone else and Britons have usually found their counterparts in Europeans.

Secondly, the United States has always been an attractive pole for the UK. The ‘special relationship’ has made the English Channel seem metaphorically wider than the Atlantic Ocean, and it is well known that president Donald Trump has endorsed Brexit. “People have very much taken for granted many of the everyday benefits of being a member state” told us Chris, a British native citizen with a keen interest in the politics of his country, “[even though] the EU has been responsible for crippling [some member] countries’ economies”. According to these premises, the UK’s departure could have been foreseen.

 

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Photo by Agnese Stracquadanio, 2020, All Rights Reserved

 

Historian and former professor of History of the European Integration at the University of Milan Lucio Valent offered his views on some of the likely scenarios for the next decade. “The feeling of belonging to the EU still differs from member to member and the process of the EU losing its appeal started way before the Coronavirus outbreak” he stated. As a historian, it is his job to look at the past, rather than at the future. However, his knowledge of past events may provide a sort of reading key for the future. “Since the financial crisis of 2008, public opinion has progressively shown a preference for national sovereignty over European authority, to the point of questioning the benefits of European membership” he said. “But this is not something new” – Professor Valent added, “the same happened in 1929 when the economic crash was followed by the closure of national borders and the implementation of autocratic policies”.

How the UK will shape its relationship with the EU depends on its internal growth” Valent said. This is because the performance of the economy always has a political impact. “The one-of-a-kind European market cannot be easily replaced. For this reason, the UK is striving to maintain a close economic relationship with the EU”. According to Professor Valent: “Economic consequences that may occur after the transition period could trigger a new wave of Europeanism in the UK”. This is what Chris hopes too. “By 2030 in one way or another we will have ended up drawing the conclusion that it is better to be part of the EU” he maintains. Like Chris, Professor Valent is optimistic about the role that many years of communality with European countries will play in future policy-making in Britain. The EU delegation in the UK does not exclude the possibility of future co-operation: “We hope that on the basis of shared history, shared values and geographical proximity, there is scope for the EU and the UK to work together on the global stage” the delegation stated. However, as Professor Valent pointed out: “if both the common market and the monetary union still exist in ten years, the international weight of the UK could be questioned”. This is a scenario which would scare hard-line Brexiteers too.

Another aspect to take into consideration is that the departure from Europe could trigger not only a new wave of Europeanism, but some internal discontent too. In this regard, Professor Valent reminds us that in recent years a number of European nations have seen regional demands for independence gain momentum, along with the hope of support from the EU in turn. For example, “those who supported the Belgian secession or Catalonia’s separation from Spain aimed to obtain EU protection”. In the same way, “it is possible that Scottish pride will prevail over British identity due to Brexit”, Valent explained. Fidelity to national identity is hard to change. In fact, more than three-hundred years of being part of Great Britain has not tarnished Scottish pride. “The idea of Scotland leaving the UK is supported by a portion of the Scottish public opinion”. “However,” – Valent added “– such a scenario would only prevail if independence was to be followed by European membership, with its large, regulated and rich market”.

 

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Photo by Agnese Stracquadanio, 2020, All Rights Reserved

 

The same applies for Northern Ireland. Here, “the geographic borders and the close relationship with the Republic of Ireland polarise the public debate even more” Valent said. Managing the complex relationship between Northern Ireland and the Republic of Ireland has been a focal point of Brexit negotiations. The Good Friday Agreement of 1998, together with EU regulations, have framed this relationship for many years, and “without the EU, the Good Friday Agreement would inevitably be put under pressure”. If a crisis between England and Scotland occurs, Northern Ireland could also decide to take its own path. According to Chris, the combination of these dynamics and the seemingly unending austerity imposed by the current financial policies and the socio-economic shape the UK is in, will lead to a change in the next general election. “At that point, my hope is that [the government] will seek to reverse the trend” Chris said.

Besides economic and financial implications, the human aspect is what interests Gianna, an Italian who has resided in London for several years. “What has worried me about Brexit is the problem of immigration” – said Gianna – “I have never been a fan of immigration policies; I struggle to understand why we need borders at all”. She studied philosophy and ethics, and is currently employed by a non-profit organisation working with Italian migrants in the UK. If the British government does not ask for an extension of the transition period before 30th June, “freedom of movement from the EU to the UK will become limited, and those who wish to enter the UK will have to meet certain criteria from 1st January 2021” she added. In Gianna’s words “Brexit represents the first step towards an era of national sovereignty and inward focus”. All this is simply against what the EU represents, “togetherness, communication, freedom of movement, mutual support” she said. Even acknowledging the problems that need to be fixed within such a multilateral body, the EU still embodies “the post-war attitude of choosing openness”. “What worries me more than what the relationship between the EU and the UK will be, actually is: Will there still be a EU?” Gianna said. And that is what worries pro-Europeans all.

 

Cover Photo by Agnese Stracquadanio, 2020, All Rights Reserved

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Social Policies During the Pandemic: the Chinese Approach

As the pandemic became a global threat, each country reacted to it with its own approach. I wrote about the responses enacted by Western states such as Germany, Italy, New Zealand and the United Kingdom in the first part of this article. The desire to understand the situation better brought me to search for further answers by looking at China; the Chinese government has in fact stated that their Covid-19 containment policy should be taken as a lesson by Western societies. To learn more about it, I spoke with Yue Hu, a 25-year-old Chinese woman currently living in Shanghai.

Yue Hu couldn’t recall the date of the first confirmed Covid-19 case in the country but she remembers the government’s efforts to comfort people, while, on the other hand, the government took actions to silence Li Wenliang, a Chinese ophthalmologist who was the first person who spoke out on the new type of coronavirus. “There was no data or information about Covid-19 [initially]”, Yue stated “However, the government took action promptly, imposing a lock down to the whole country”.

 

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Photo by Yue Hu, 2020. All Rights Reserved.

 

The Chinese government immediately adopted policies with regards to the compulsory use of masks, the need for permission cards for outside movement, the cancellation of public transport, the closure of all public spaces and enforced price fixing of daily necessities to keep them affordable. Chinese healthcare authorities promptly divided each medical facility into a quarantine site and a normal site. They also accomplished the feat of building a new hospital in only six days.

Regarding the impact of Chinese social policy on her daily life, Yue said that all her activities had been constrained during the lockdown. “Covid-19 makes job hunting more and more difficult, especially in the art industry,” she stated “so I have had to direct my interest to another field in order to make a living.” Despite the changes this created in her life, Yue thinks that the policies adopted were efficient in protecting people from new infections, even if they could be perceived as “merciless”. Yue doesn’t know the details of the Chinese government’s future Covid-19 agenda, but she trusts they have a plan.

It’s still hard to predict future infection trends, particularly as the virus mutates quickly as it moves from a host group to another. Because of this, Yue thinks that Chinese social policy will be improved and strengthened in the area of personal hygiene. In addition, she hopes for a change toward a society with a better work-life balance, with an increased number of public holidays and flexible working hours. This pandemic demonstrated that flexible working solutions could be used to improve the well-being of those working in office-based jobs.

Mei Banfa is the pseudonym chosen by the second person I interviewed for this article. He is a 28-year-old European man living in Beijing. Like Yue, he named the case of Li Wenliang, the Chinese ophthalmologist who worked at Wuhan Central Hospital. On 30th December 2019, Li Wenliang issued an emergency warning to local hospitals regarding a number of mysterious pneumonia cases, while the Chinese government attempted to cover up the outbreak of a “SARS-like coronavirus” in the Huanan Seafood Market in Wuhan. However, it wasn’t until the beginning of January that the local government decided to close the market to limit the spread of infections.

The policy most specific to China”, Mei stated “was to extend the Chinese New Year holidays. They are often referred to as the largest annual human migration in the world, with figures amounting to around 3 billion trips back and forth between villages and cities.” When the outbreak spread out of proportion, many were already in their holiday locations. As a result, the government managed to effectively slow down and contain the infections, avoiding a scenario in which people would be exposed to the virus in crowded train stations, airports and highways.

As a European from one of the countries worst hit by the virus, Mei often received unannounced visits by local authorities both to his home and workplace in Beijing. These were to check on his travel status, whether he was still in China, if he had been interacting with returning Europeans and so on. “As a result [of the checks], a widespread mistrust towards foreigners began to develop, ultimately targeting those already suffering discrimination, such as people of colour, and affecting the reliability of housing rentals, as well as job stability and personal safety”, Mei stated.

 

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Photo by Yue Hu, 2020. All Rights Reserved.

 

Throughout this crisis, Mei perceived the country’s leadership to be under a previously unseen level of stress and he began to worry about the “stability” of the Chinese government. Ultimately, measures such as a strict control of information, highly restrictive social measures and a heavy propaganda were successful at maintaining the status quo.

Despite Mei’s efforts to integrate into local society, he noted that “the time for full integration in China’s society is not yet mature.” On the other hand, “no man is an island” is Yue’s way of describing her own unusual situation. “We have to overcome many barriers together”, she stated “The pandemic is just an alert for the public [about the need to pay] attention to healthcare. The situation taught us an important lesson: all human beings are vulnerable when facing a virus that comes from nature.”

 

Cover image and Photos by Yue Hu, 2020. All Rights Reserved.

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Social Policies During the Pandemic: the Western Approach

Never in my whole life would I have imagined that I could experience something like this one day”, my flatmate said to me during a chilly morning at the end of March, on what was on one of the first days of lockdown in London. I remember how relieved I felt when our Head Manager at work decided that all employees could work remotely. Remaining in the safety of my flat meant finally being able to go through my days free from the endless hand-washing and people’s scrutiny in shared spaces. My intense relief might seem an overreaction to some, but I am from Bergamo, the Northern Italian city notorious for being the epicentre of the European Covid-19 pandemic.

After the first few Covid-19 cases were confirmed in mid-February, the Italian government announced the lockdown of the whole country on 9th March. Bergamo, which quickly became the country’s worst hit city, was not immediately declared part of the so-called red zone. Alzano Lombardo, a town in Bergamo’s province, failed to separate the first Covid-19 patients from others in its hospital. Instead, relatives and other people in need were allowed to come and go without the hospital taking the necessary precautions. The local healthcare authorities were also responsible for the lack of prompt intervention into the administration of retirement homes. Patients and medical staff were not provided with the equipment needed to mitigate the spread of the virus, ultimately contributing to a huge death toll. In Bergamo, everybody knows someone who lost a loved one. It will be difficult for residents to forget the images of military trucks lined up on the city’s streets, to take the bodies of the deceased from Bergamo to nearby towns, a measure made necessary by the lack of space in cremation facilities in the city. My parents, who live there, would describe to me the deafening silence that surrounded them at the time, interrupted only by the bell tolling for the dead.

 

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Photo by Yue Hu, 2020. All Rights Reserved.

 

What happened in my home city greatly affected the way I have been approaching the lockdown in the United Kingdom. It made me question the society I live in. Before this pandemic, I used to work around 40 hours per week and dedicated an average of 10 more hours to my passion for journalism and photography. I would spend 50 hours each week working, my contribution to society. On a recent morning, while observing the neighbours’ garden – a luxury I cannot afford – from my window, I found myself wondering: what is this society contributing back to us and our personal well-being?

It is fair to say that this pandemic does not place us all in the same boat. Western societies are built on multiple social layers, with inequalities perpetuated through our backgrounds. Personal history and ethnicity, social class and gender identity significantly affect what tools (material or otherwise) a person has at their disposal to react to an emergency such as several weeks of lockdown. It is this specific area of social inequality and injustice that social policies should work to even out in a democratic country.

They didn’t take it seriously early enough”, said Sally, a 66-year-old Musician who lives in London. Sally and her husband agree about the inadequacy of the response from the Boris Johnson’s government to the pandemic. They feel lucky to have a garden and plenty of outside space near their house, and for living in a small, friendly and supportive community. However, Sally was quick to point out that BAME (Black, Asian and Minority Ethnic) communities are being disproportionally affected by the virus, due to being over-represented in key frontline jobs and low-income households. Her husband Patrick, a 70-year-old painter, reflected on how the current Conservative government is likely to try to keep the status quo as much as possible. “For instance,” said Patrick, “[by implementing] a market-driven agenda with reduced social services. However, I’m hopeful [that] in the longer term we will get a socially responsible Labour government that will try to share the economic burdens resulting from both Covid-19 and Brexit more fairly.”

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Photo by Yue Hu, 2020. All Rights Reserved.


Isabella works in the hospitality industry Germany and is currently unemployed due to the pandemic. She explained
the country’s effort to collaborate with the Robert Koch Institute (RKI), the German Federal Government Agency and Research Institute responsible for disease control and prevention. At the same time, the German government also called upon its citizens to act responsibly during the pandemic rather than forcing people into a compulsory lockdown. “The Social Protection System is the government’s response to the economic issues faced by the country’s population. The System helps by providing us with an income through a quick and simple application process.”

On the other side of the Atlantic, Ilaria, an Italian worker based in New York, shared with me her experience of the pandemic under Trump’s Presidency. After the first confirmed case of Covid-19 on 1st March, New York’s Governor Andrew Cuomo enacted the “PAUSE” program. “Bars, gyms, theatres and large venues were closed on 16th March. Governor Cuomo was hesitant to close schools as more than 1.5 million children attend public schools in NYC alone. 75% of them are from low income households and rely on free school meals; not to mention the children of the large homeless population that rely on schools for counselling and/or first aid”. The pre-existing lack of protection for workers’ rights and the large unemployment exacerbated by the state-wide lockdown will affect lives in the country for years to come. In addition, Ilaria pointed out that social isolation has been a new challenge for many. This is especially true for urban environments, where close cohabitation as well as social relationships have been significantly impacted by the virus.

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Photo by Yue Hu, 2020. All Rights Reserved.


Ilaria hopes that abolishing unjust immigration laws and establishing a nationalised healthcare system will be taken into consideration as ways of helping US citizens and residents in times of both crisis and stability. On the other hand – and on the other side of the
globe – Lucia’s move in October 2019 to New Zealand (NZ) was made straightforward by the ease with which she obtained a Working Holidays Visa. NZ’s government’s reaction to the pandemic was immediate. The day the country confirmed 102 cases, Prime Minister Jacinda Ardern closed its borders, announcing the lockdown a week later. “With a population of 5 million people (and almost 30 million sheep)” said Lucia, “NZ is a small and very isolated country. This surely helped the fight against the virus. However, I think it’s also relevant that this is a pretty safe and quiet place that doesn’t face many big emergencies. As a consequence, they had to get well organized in order to face a pandemic”. Thanks to a zero-tolerance policy, NZ achieved zero cases after five weeks of lockdown, during which only essential activities such as hospitals, pharmacies and banks were allowed to remain open for business. Afterward, NZ’s citizens who had been trapped abroad had the opportunity to return home. Lucia thinks that NZ’s government needs now to invest in a long-term project of protection of its natural habitat, by building houses that can last longer than fifty years (which isn’t the case for many current residential buildings), using more thermal insulation materials and encouraging the use of public transport as opposed to private cars, which are currently the main means of travel in the country.

Cover Image and Photos by Yue Hu. Shanghai, May 2020. All Rights Reserved.

Closed But Close

Primavera con firma. La quarantena di Carlotta

Testo e immagini di Carlotta Egidi, tutti i diritti sono riservati.

 

Credo che la vita dell’artista sia una vita meravigliosa e libera: priva di orari e obblighi, se non quelli legati ad una forma di disciplina mentale prima che fisica. ‘’Finalmente’’ si è fermata la vita caotica, dandomi la possibilità di dare spazio al mio vero io e alla mia natura, sola con me stessa.

 

Grafica E Illustrazione
Linee che formano una chioma, 2020, Carlotta Egidi, tutti i diritti sono riservati
Città 23
Città 23, 2020, Carlotta Egidi, tutti i diritti sono riservati
Sbadiglio
Sbadiglio, 2020, Carlotta Egidi, tutti i diritti sono riservati

 

Le figure spesso ricorrenti nelle mie illustrazioni sono gli animali, che rappresentano amore. Amo il mondo animale, in particolare i cani, perché mi donano benessere interiore e consapevolezza di essere intimamente compresa.

Questa sensazione magica l’ho provata per la prima volta con Mayla, un pitbull che è stato il mio primo cane e che purtroppo oggi non c’è più, ma che mi ha lasciato una preziosa eredità: quel senso di complicità e appartenenza che arricchisce la vita degli esseri umani.

 

Senza Titolo 23
Senza titolo 23, 2020, Carlotta Egidi, tutti i diritti sono riservati
Cvbf
BUBBLE, 2020, Carlotta Egidi, tutti i diritti sono riservati
La Donna Che Amava I Colori
La donna che amava i colori, 2020, Carlotta Egidi, tutti i diritti sono riservati

 

Leggere nei suoi occhi l’amore puro, la fiducia incondizionata, mi ha aperto nuovi orizzonti e mi ha arricchito di sensazioni speciali che inevitabilmente si manifestano nel mio mondo personale e artistico. I cani hanno una sensibilità istintiva, un’empatia che permette la creazione di un legame che va oltre la comunicazione verbale, oltre persino al contatto fisico.

Anche la natura è spesso raffigurata nelle miei illustrazioni, questo perché mi da un senso di libertà. Durante la fase di quarantena la natura si è riappropriata dei suoi spazi, gli animali sono tornati a muoversi in libertà e persino il cielo sembra più blu. Il mondo continua a vivere.

 

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Contagious, 2020, Carlotta Egidi, tutti i diritti sono riservati
Primavera Con Firma
Primavera con firma, 2020, Carlotta Egidi, tutti i diritti sono riservati
Grafica E Illustrazione
FROG, 2020, Carlotta Egidi, tutti i diritti sono riservati
Mentre lentamente ci apprestiamo a tornare alla normalità, in quello che è uno dei momenti più duri che l’umanità abbia vissuto, è importante riflettere sull’impatto che le nostre azioni hanno sull’ambiente e su quello che rischiamo di perdere se non cambiamo rotta.

Immagine di copertina: Closed but close, 2020, Carlotta Egidi, tutti i diritti sono riservati.

ATTENZIONE: La redazione di Pequod Rivista si mette a disposizione di chi vuole raccontare la propria quarantena creativa oppure l’esperienza della fase due: inviate la vostra proposta a info.pequodrivista@gmail.com
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Quarantine With My Parents

It’s been nearly eight weeks since I started quarantining now, my social distancing endeavour having begun slightly earlier than the official lockdown.

I have had extra time on my hands during these weeks, enjoying what has felt like some sort of early retirement experiment. I have taken great pleasure in how the days have stretched in front me almost worry-free, and in the feeling of safety I’ve had in these weeks. Yes: my experience of the lockdown has been very different from that of so many others.

While the world has been turned upside down, and outside in, by the pandemic, I have enjoyed stability and calm for the very first time. Growing up a migrant child, as I did, can in fact instil a peculiar and long-lasting sense of un-safety, both outside and inside the family home. It certainly did for me.

 

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Rainbow near our house, Sara Gvero, All rights reserved
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Swans in Syon Park, 2020, Sara Gvero, All rights reserved
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A row of houses on one of our walks, Sara Gvero, All rights reserved

 

Outside, because many things in the world are unknown or feel different from what you know, you are misunderstood and misunderstand often, and there is so much that is or feels hostile in your surroundings. Inside, because the solitude of migration creates tight bonds among those that live through it together, but can also engender deep resentments and wounds.

The psychological and emotional effects of migration outlive the actual experience, and often undermine the feelings of safety you might be able to build later in life. Life in the outside world is hard, and the place where you find comfort is also at times where you might find anxiety, anger and profound sadness.

Money tends to run low in migrant households, and there is often nobody external to lean on for support. You have to be a parent without the help and knowledge of previous generations, without the comfort of your life-long habits and friendships. You have to be a child without the presence of your larger family and as much as adults try to shield you from family struggles, without ever really being carefree.

 

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Food we’ve cooked during quarantine, 2020, Sara Gvero, All rights reserved
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My mum’s pizza, 2020, Sara Gvero, All rights reserved
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My mum’s apple cake, 2020, Sara Gvero, All rights reserved

 

I was caught by the pandemic in what started as a temporary living arrangement at my parents’ place. Our household has migrated twice, most recently to the UK. Our family’s situation is different now from what it was in the past: money doesn’t run as low anymore, we have reunited with some of the larger family, and we now have good networks of support.

By some funny trick of life, at the age of thirty the lockdown has given me what feels like a second chance at childhood. It has provided me with the opportunity to spend generous amounts of unstructured, unexpected and relatively carefree time with my parents: a rarity in adult life.

Countless days over the last few weeks have felt like childhood weekends, minus the frustration of adults at having to take on all the chores, and the resentment of children at being bossed around. As we planned activities and meals together, we have deeply missed my sister, who lives abroad. But I have had the precious and new experience of spending quality time with the people whom I owe my life, in a situation of physical, economical and emotional safety.

 

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A basil plant we’ve revived during quarantine, Sara Gvero, All rights reserved
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Basil blossoms, Sara Gvero, All rights reserved
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Basil flowers, 2020, Sara Gvero, All rights reserves

 

It does feel unfair that I should have had such a positive experience of quarantine when so many people have fallen ill, have lost loved ones, and are struggling with the direct and indirect effects of the pandemic.

I hold these contrasting feelings in the palm of my hand and I observe them. I am not trying to resolve the contradiction, as such attempts have always failed me in the past. What I can say, is that I am aware every day of the combination of privilege and sheer luck that we have had: so much of the former has been acquired so recently that I have not yet learnt to take it for granted.

Family can mean many things: mine is made up of my blood relatives, but also of the people I have invited in it along the way. What it has never meant is easy, and I would be lying if I said that’s the case now. But the opportunity to spend quality time with my parents as an adult who is able to take care of her own needs, as well as of theirs on occasions, has been priceless.

 

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Travelling to work with gloves on pre-lockdown, Sara Gvero, All rights reserved
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Syon Park, 2020, Sara Gvero, All rights reserved
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Family shopping, 2020, Sara Gvero, All rights reserved

 

I have been able to have conversations with my parents that are free of the need that they meet my expectations of them as their now adult child, which had been the case in my early, and sometimes also late twenties. I have been able to put down boundaries that I wouldn’t have dared to attempt when I was younger.

And, among the difficulties this situation has engendered, I have had the opportunity to get to know them much better, outside of the grief, longing, loneliness and practical worries that overshadow our past.

Many people, maybe most, don’t get second chances at building a positive relationship with their families, and the pandemic might take forever away this possibility for some. For the time I have been able to spend with my parents, and the strengthened bond I now have with them, I will be forever grateful.

 

Cover image: Mum smelling flowers on one of our lockdown walks, Sara Gvero, All Rights reserved

Copertina Abbraccio

BOF: il disegno come visione

Disegni, animazioni e parole di Emma Tramontana, in arte BOF.

 

Ho scoperto il disegno pochissimi anni fa. Non sono un’illustratrice. Disegnare non è la mia principale attività. In realtà lavoro nel mondo del teatro, mi occupo di corpo e parola. Potrei dire che il disegno si è aggiunto alla mia elaborazione creativa come parte altrettanto motoria. Corrisponde ad un movimento interiore, che in alcuni momenti posso tradurre solo come visione.

 

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GIF Autore autoritario: riflesso arcobaleno di tempi scuri, 2020, BOF, tutti i diritti sono riservati

 

Nel tempo mi sono accorta che la necessità di disegnare arriva sempre in particolari stati, spesso connessi a fasi di transizione importanti, metamorfosi in atto: insomma, è come se il disegno arrivasse laddove si aprono altre finestre sui sensi.

Quindi succede che le tracce che lascio sono spesso molto incisive, sebbene io non possieda alcuna
tecnica e in altri momenti davvero non sappia disegnare. Ecco, potrei dire che il segno diventa
potente quanto più è forte l’emozione e l’urgenza da cui nasce.

3 Gif ScanGIF Senza titolo, 2020, BOF, tutti i diritti sono riservati

 

Il disegno intitolato “Non ancora/Non più/Per tutti/Di nessuno” è nato da un sogno bellissimo. Mi sono svegliata e l’ho gettato sul foglio, letteralmente. È una zona di libertà assoluta per me, perché riesco a trovare una sintesi immediata senza filtri. Questa è la potenza delle immagini. È come se mi spostassi. Quello che in teatro si chiama straniamento.

 

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Non ancora | Non più | Per tutti | Di nessuno, 2020, BOF, tutti i diritti sono riservati

 

Anche quando disegno, mi sposto da me, vado da un’altra parte, gioco, nel senso che mi diverto: cambio direzione. Nella densità dell’esperienza che fisicamente, spiritualmente e psicologicamente, siamo costretti a vivere adesso, è riemersa molto la necessità di dissiparne le ombre.

È la mia personale, intima risposta all’inaridimento umano che stiamo vivendo, alla paura e alla violenza di questo triste periodo. Quello che ho collezionato sono piccole tracce guidate da una ricerca di vicinanza e bellezza, una tensione verso una cura per gli occhi e l’anima.

 

Pagina facebook: @emmatra.bof

Pagina instagram: @emmaboftramontana

 

Immagine di copertina: Segreti, 2020, BOF, tutti i diritti sono riservati

 

ATTENZIONE: La redazione di Pequod Rivista si mette a disposizione di chi vuole raccontare la propria quarantena creativa: inviate la vostra proposta a info.pequodrivista@gmail.com

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#EasyRead Migrazione e COVID-19: cronache da Ventimiglia

L’egoismo dell’Occidente copre con un silenzio assordante la questione migratoria. Mentre noi affrontiamo la difficile questione pandemica, le persone migranti continuano ad approdare sulle coste continentali, a muoversi e a fuggire da situazioni dolorose ed esasperate dall’emergenza sanitaria che sta colpendo la nostra Europa.

Progetto 20K, realtà impegnata nel sostegno alle popolazioni migranti dal 2016, ha potuto osservare l’evolversi della situazione a Ventimiglia negli ultimi mesi. Qui continuano i respingimenti dei migranti verso l’Italia, inclusi i minori non accompagnati arrivanti da Malta e Lampedusa.

Da Marzo pochissime persone sono arrivate in città, così come al campo della Croce Rossa, che ad Aprile contava 250 persone, mentre si lavorava sul trasferimento di famiglie e richiedenti asilo presso alcuni centri di accoglienza. Le attività di assistenza spontanee locali hanno subito una battuta d’arresto dall’inizio della pandemia, mentre alcune ONG continuano a operare sul territorio.

L’emergenza sanitaria rende ancora più difficili gli spostamenti delle persone migranti, e a causa dei controlli intensificati diminuiscono le possibilità di muoversi liberamente. A livello nazionale si è mossa una campagna di regolarizzazione per tutti i migranti residenti in Italia chiamata Siamo qui: Sanatoria subito. Ora più che mai è imperativo che tutti possano accedere al servizio sanitario nazionale.

Un altro effetto della pandemia è che tutti i migranti che sbarcano sulle coste europee sono obbligati a passare per l’Italia. Che si possa parlare di una doppia discriminazione? Allo status di migranti e alla sospensione di Schengen, si aggiunge infatti la complicazione dell’aver transitato in Italia, primo paese europeo a essere colpito dal virus in maniera significativa.

Nel frattempo le autorità francesi hanno rinnovato i controlli ai propri confini per altri sei mesi, dal 1 maggio al 31 ottobre 2020.

Immagine di copertina: foto del mare a Ventimiglia, di Hans Braxmeier (dal sito Pixabay).

 

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IOCONME. Storia di una quarantena dipinta

Testo e dipinti di Martina Giavazzi.

Tutti i diritti sono riservati.

 

Eccomi qui dopo molte settimane di isolamento totale. Vivo da sola, e nonostante sia una selvatica di natura, questo distacco totale dal mondo e dalla comunità comincia inevitabilmente a pesare.

Avrei potuto approfittare di questo tempo per pulire casa, sistemare gli armadi, cucinare e molto altro ancora…

In realtà niente di tutto ciò è avvenuto. La mia indole mi spinge inevitabilmente a tirar fuori la vera me, la stessa di sempre. L’isolamento non fa che amplificare il mio essere: mi riscopro. E riscoprendomi ritrovo le peculiarità del mio carattere amplificate da questa inattività obbligata.

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Sono una ragazza pigra, malinconica e introspettiva. La profondità è il mio rifugio.

Tra letto, divano, musica, film e pensieri l’unico risultato concreto prodotto in questi giorni sono i miei disegni. Sono una sorta di diario di bordo da sempre, e spero per sempre.

Ogni disegno è un’emozione che segna un istante. Fatti di getto. Pennellate veloci ricche della mia emotività.

Mi chiamo Martina Giavazzi.

Vivo a Bergamo. Via Quarenghi. Classe 1989.

Ho deciso ormai da tempo (almeno 4 anni) di intitolare ogni mio disegno IOCONME.

Questo per esprimere la mia aspirazione, cioè disegnare per me stessa, mostrando chi sono. Per raccontare che la destinazione finale sono io.

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Un modo per capirmi meglio.

Riguardando i lavori posso facilmente ricordare il periodo e le emozioni che provavo in quel preciso momento. Cambia il tratto cambia la tecnica senza che neanche me ne accorga proprio in base a quello che la vita mi riserva.

Ci butto dentro tutto. Tutto quello che vivo. In questo periodo di quarantena ho collezionato in circa quattro settimane più di 50 lavori. Di seguito, potete trovare i miei lavori in ordine cronologico. Partono dal 9 marzo, inizio del mio autoisolamento.

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Mi sono dedicata a volti femminili che sono la mia grande passione da sempre.

Per i miei lavori uso supporti semplici, a volte di recupero, data anche la scarsa possibilità economica (ho molte idee nella testa spesso però difficili da realizzare). I principali sono carta ruvida di piccolo formato o tavole di compensato utilizzando acquarello, china, pastelli, pastelli a olio, acrilici, bic nera, pennarello indelebile nero.

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Su Instagram mi trovate come @martina.giazz

 

ATTENZIONE: La redazione di Pequod Rivista si mette a disposizione di chi vuole raccontare la propria quarantena creativa: inviate la vostra proposta a info.pequodrivista@gmail.com

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Exploring creativity in quarantine

Text and digital drawings by Georgi Taroni. All rights reserved.

 

We started off joking about productivity under a possible lockdown – did Shakespeare really write King Lear during the plague quarantine? – but then the pressure came. Every influencer, celebrity, vague acquaintance and friend on social media began using their new-found time at home to enhance their skills.

I’ve been messaged about joining art classes, learning a language, getting fit and even earning money all from the comfort of my sofa. On the surface, it all sounds appealing, but the stress of having to achieve as you would at school, university or work is not something I want to experience when snuggled under my comfort blanket and week-old pyjamas.

 

Us On The Sofa

Us On The Sofa, 2020, Georgi Taroni, All Rights Reserved

 

Then I picked up a pencil.

I found a colouring book and began to scribble. I graduated to an iPad pencil and a subscription to an online drawing software and found myself creating digital art. The dust was blown off my long-lost creative soul. For about five years I have felt a distance from my creativity. After finishing my undergraduate degree in Creative Writing, I haven’t written so much as a stanza.

During a sleepy Sunday evening, I put my pencil to digital paper and felt the flood of creative optimism return. The privacy of the app and the ability to immediately erase mistakes without having wasted a single piece of paper, cleared away the boundaries and concern I would usually feel in the unfamiliar territory of creating art.

 

The Snake

The Snake, 2020, Georgi Taroni, All rights reserved.

 

What I have found most liberating in the process of drawing is how solitary it is. Although I haven’t seen any friends of family for over a month now, I haven’t truly been alone either. Through my time looking, seeing, digesting and creating, I have been given the chance to invert my gaze. When I draw, I am in a bubble, the solitude of the bubble allows me to see creatively clearer but also appreciate the comforting chaos that socialising and community brings, when I return to it.

I have never considered myself an artist, nor felt particularly expertly skilled in drawing, however I’ve found comfort in a medium that has betrayed me in the past. Whether digital or actual pencil and paper, drawing creates something new that no one else can feel or create. We can scribble, we can erase but something was made, something was done during a time when time pushes hurriedly past us.

 

The Bulb
         The Bulb, 2020, Georgi Taroni, All Rights Reserved.

 

I feel as if now, I have some control over what I can present to others about my time in lockdown – I can share photographs of a cake I baked, I can retweet uplifting news stories or I can share a piece of my artwork. I can share some of my inner soul through texture, colour and shape.

I can show that being alone doesn’t mean to you can’t travel further than any vehicle could and the smallest step on your creative journey can reveal the glory of a life lived temporarily indoors.

 

Cover Image: The Bulb, 2020, Georgi Taroni, All rights reserved

 

HELLO READER! Pequod Rivista wants to hear about your creative quarantine: send us your text and drawings at info.pequodrivista@gmail.com and we’ll discuss publishing

Festa della Liberazione 25 aprile 2020

#EasyRead 25 Aprile 2020: una Liberazione virtuale

Questo 25 aprile a casa sarà senz’altro particolare. Data l’emergenza pandemica in atto, non potremo dirigerci in piazza, partecipare a cortei, e brindare assieme cantando. Il divieto di assembramenti per tutelare la salute pubblica non ha però fermato la necessità di ricordare la Resistenza italiana e la Liberazione dalle oppressioni nazifasciste.

Abbiamo raccolto per voi una serie di iniziative, tra letture, documentari e musiche, per celebrare il 75° Anniversario della Liberazione d’Italia. L’augurio è che siano di ispirazione per immaginare e costruire un futuro sempre più libero ed equo:

 

  • L’iniziativa Io Resto Libero ha creato una piazza virtuale per festeggiare il 25 Aprile insieme, seppure a distanza, con la partecipazione di ANPI – Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Alle 14:30 di oggi inizierà la diretta che può essere seguita su Facebook oppure su uno dei canali elencati sul sito dell’evento. Sarà possibile fare una donazione al fine di fornire aiuto a quanti non hanno abitazione o cibo.
  • Radio Popolare ha organizzato tre cortei virtuali partiti alle 11 di questa mattina da Varzi, Domodossola e Dongo, luoghi segnati dalla Resistenza. I cortei convergeranno infine su Milano, unendosi alla celebrazione “Io Resto Libero”.
  • “Non sono io” è un omaggio video al 25 Aprile realizzato da COSPE e dall’Associazione Carta di Roma. Quest’ultimo raccoglie le voci delle lavoratrici e lavoratori di origine straniera schierati in prima linea nell’emergenza sanitaria, invitandoci ad immaginare un futuro in grado di includere tutte e tutti.
  • Il 25 Aprile è anche musica! Vi invitiamo ad ascoltare l’interpretazione corale di “Bella Ciao” realizzata dai Giovani Cantori di Torino e quella ispirata al folclore bergamasco de Gli Zanni di Ranica (BG). L’associazione Nonna Roma ha condiviso invece questo video dei suoi volontari impegnati a preparare aiuti per i meno abbienti e cantare (a distanza di sicurezza) questa mattina.
  • Se siete in vena di letture, vi consigliamo “L’Agnese va a morire” di Renata Viganò, ispirata dall’esperienza autobiografica come partigiana dell’autrice. “I ventitré giorni della città di Alba” di Beppe Fenoglio, raccoglie invece 12 racconti sulla resistenza partigiana e la vita quotidiana dell’Italia rurale durante e dopo la seconda guerra mondiale.
  • Il sito Open DDB ha reso disponibile gratuitamente “Bandite”, un documentario sull’esperienza delle donne che hanno partecipato alla resistenza tra il 1943 e 1945.
  • Infine, vi ricordiamo che Pequod ha sempre prestato attenzione alla Festa della Liberazione e alla Resistenza. Rileggete i nostri articoli sullo staffettista partigiano Giovanni Marzona, lo spettacolo teatrale “1943: come un cammello in una grondaia” e la nostra intervista con Elisabetta Ruffini dell’ISREC di Bergamo.

 

Articolo scritto da Francesca Gabbiadini e Sara Gvero.

Immagine di Copertina. Fotografia di Tino Petrelli scattata agli studenti di Brera durante la Liberazione di Milano. Autore: Publifoto/Olycom.

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#EasyRead Your mental wellbeing during COVID-19

The spread of the virus has thrown off our routines, separated us from friends and family and forced us to stay at home. It has heightened our anxieties, increased our awareness of death and made many of us feel lonely.

Whether you are ill, worried about others, or simply bored of being at home, it is normal to feel out of sorts. Fortunately there are effective ways for you to take care of your mental wellbeing during the quarantine.

Private and voluntary organisations have created beneficial resources to help us stay well, here we have collected some of the main ones available in English:

  • The mental health charity Mind has produced resources on coronavirus and your wellbeing available to everyone;
  • The Headspace meditation platform is offering free meditation recordings to everyone, and has made Headspace plus available for free to healthcare professionals;
  • Mental Health at Work has information on supporting yourself and others at work;
  • The Anna Freud Centre has resources on supporting children, while NSPCC has produced advice for parents and carers;
  • Rethink Mental Health has a wide range of information for those experiencing severe mental health problems and for those looking after someone else;
  • Mencap provides a free online support community for people with learning disabilities, autism and Down Syndrome called Health Unlocked.

 

Cover Image: 3D Animation Production Company 

Content Providers(s) Cdc Dr. Fred Murphy

Riflessioni sul COVID-19 al tempo della Democrazia

Se la democrazia è una questione di gradi, possiamo immaginarla come una scala che tende a infinito, ossia il modello ideale di democrazia pura. Quello dove nessuno resta escluso, dove il dissenso trova libertà di espressione e il partecipare alla vita politica è un diritto, dovere e piacere di tutti. Quello che non esiste.

Una lezione di democrazia (quasi) pura ci viene data dall’emergenza in atto: il dilagare del COVID-19 ci mette tutti sulla stessa grande barca.

Comunemente detto Coronavirus, il COVID-19 continua a espandersi a macchia d’olio. Che l’uomo sia un animale errante è appunto dimostrato dalla celerità della diffusione, che secondo i dati in continuo aggiornamento riportati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha raggiunto rapidamente 203 tra stati e territori su un totale di 206 in tutto il mondo.

Dalle ultime indagini dell’OMS, emerge che ogni persona può generare un numero medio di contagi (o numero di riproduzione detto “R0” o “R naught”) tra 2 e 2,5. Significa che una persona che ha contratto il virus può contagiarne almeno altre due. Un numero soggetto a variazioni, ma relativamente più alto di una normale influenza il cui grado di contagio si assesta intorno all’1,3.

Si potrebbe essere tentati di dire che le ineguaglianze strutturali della società non giochino alcun ruolo nella diffusione del virus. Ma lo scenario cambia radicalmente se si tiene conto di alcuni fattori, tra i quali:

  • La possibilità o meno di osservare le misure di distanziamento sociale: come non accade ad esempio all’interno delle carceri, dove il sovraffollamento cozza con i provvedimenti presi dal governo;
  • La sussistenza o meno delle condizioni per l’isolamento e per il rispetto delle norme preventive: il caso dei senza tetto (circa 55.000 in Italia), impossibilitati non solo a rispettare i provvedimenti che impongono di restare a casa, ma spesso anche a seguire misure di prevenzione basilari come lavare spesso le mani;
  • La gravità della manifestazione del virus che ha decimato le generazioni più anziane, insieme alle persone affette da altre patologie o con un sistema immunitario già indebolito;
  • La presenza di uno stato sociale e l’accesso alle cure necessarie che non è scontato laddove la sanità non gratuita e il welfare risulta iniquamente distribuito. Ne sono un esempio gli Stati Uniti dove l’8,5% della popolazione non possiede alcuna assicurazione sanitaria.

Il panorama variegato di disuguaglianze sociali di cui soffre la democrazia moderna è ben visibile quando si tiene conto dei fattori che vanno oltre al semplice, bio-democratico, meccanismo di contagio. Quest’ultimo non è infatti influenzato se non marginalmente da fattori come l’età, il sesso o l’estrazione sociale. Dall’Upper East Side ai paesi in via di sviluppo, dal vicino di casa al calciatore, dal Principe Carlo a Boris Johnson, il virus colpisce tutti: anziani, giovani e persino neonati. Nessuno escluso, come dovrebbe accadere in democrazia.

Non è follia dunque voler trarre una lezione politica dall’emergenza sanitaria in corso. Il diffondersi del COVID-19 offre degli spunti riflessivi e anche il tempo necessario per rifletterci su. Mostrandoci cosa democratico sia per davvero, ci obbliga ad aprire gli occhi sui nostri sistemi democratici rivelandoli in tutta la loro fragilità e ci offre un’occasione per chiederci su quali basi vogliamo costruire la società del domani.

Mostrandoci cosa democratico sia, il dilagare del virus ci spinge a riflettere su cosa sia diventata e se il risultato corrisponde ancora all’idea iniziale. Ci interroga sulla solidità delle fondamenta del nostro vivere, e ci trova impreparati. Mostrandoci cosa democratico sia, ci chiede se i sistemi democratici ci piacciono ancora.

Il crescere dei consensi per l’adozione di misure sempre più restrittive e di punizioni sempre più severe verso i trasgressori nelle democrazie europee è un atteggiamento incontrovertibile. Significa che l’emergenza sanitaria ci spinge ad apprezzare quello che fino a ieri respingevamo e ci fa dubitare di cose di cui eravamo certi. Fino a rafforzare ulteriormente il dualismo tra le democrazie liberali e il colosso cinese che la crisi economica e i problemi in seno ai sistemi democratici hanno accentuato negli ultimi anni, a scapito di trasparenza e libertà.

Il rischio è quello di una deriva antidemocratica che vada oltre la fine dell’emergenza. Un esempio da tenere d’occhio è l’Ungheria, dove il primo ministro Viktor Orbán ha assunto i pieni poteri senza restrizioni temporali. Mentre il sogno europeo vacilla, l’apprezzamento verso il governo Conte schizza alle stelle toccando il 56% dal suo secondo insediamento. Allo stesso tempo, i sistemi autoritari iper-controllati come quello cinese non sembrano più così male. Cosa sta accadendo?

Dopotutto, la Cina sembra aver vinto la battaglia contro il virus, tanto da avviare un cordone solidale con altri paesi in piena emergenza. Negli anni il modello cinese sembra aver funzionato, soprattutto in termini di crescita economica. Eppure, non basta. Proteggere trasparenza e libertà avrà sempre un senso.

 

Immagine di copertina: Content Provider, CDC/Dr. Fred Murphy.

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#EasyRead COVID-19. L’attendibilità delle fonti

Nell’epoca della condivisione veloce e frenetica, mai come in una situazione di pandemia è necessario fermarsi a riflettere da dove provengano le informazioni.

Non solo per ricevere le ultime notizie attendibili, ma anche (e soprattutto) per difendersi da una narrativa deliberatamente politicizzata, come è successo a un servizio di TGR Leonardo andato in onda nel 2015.

Di seguito, potete dunque trovare delle realtà che si occupano di fornire informazioni attendibili alla comunità e che spesso si trovano in prima linea nello smentire una bufala scientifica:

 

 

Ringraziamo per la gentile collaborazione Lorenzo Vergani.

Immagine di copertina: @fusion_medical_animation

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La solidarietà a Bergamo è S.U.P.E.R.

Siamo a Bergamo, a un mese di effettiva quarantena COVID-19.  Il brusco rallentamento delle nostre vite non ha fermato la solidarietà, ha fatto invece nascere una rete di supporto pratico alla città che agisce senza scopo di lucro.

S.U.P.E.R. Bergamo è un’iniziativa del circolo MAITE – Bergamo Social Club, che vede 110 volontari (un numero in costante aumento), impegnati a fare commissioni per chi ha problemi a uscire dalle proprie case.

Con il complicarsi della situazione, il loro raggio di azione si è ampliato, garantendo servizi ad una fetta sempre più consistente della cittadinanza.

L’iniziativa si svolge col supporto di varie realtà territoriali: Ink Club, Barrio Campagnola, Club Ricreativo di Pignolo,  Upperlab,  c.s.a. Pacì Paciana, Arci Bergamo e con il sostegno del Comune di Bergamo.

 

 

Cosa significa fare rock sul serio?

di Lisa Egman e Miriam Viscusi

Il 18 e il 21 luglio hanno calcato il palco di Rock Sul Serio il duo I’m not a Blonde e il cantautore Scarda. Pequod ha fatto loro alcune domande per scoprire il mondo del rock e l’atmosfera del festival.

Chi sei e cosa suoni?

I’m not a Blonde: «Sono Chiara Castello, voce, loop station e rumoristiche varie di I’m not a Blonde. È molto difficile dare una definizione al nostro genere, ultimamente lo definiamo electro-art-rock».

Scarda: «Sono Nico, in teoria un cantautore, quindi in teoria faccio il cantautorato ma mi piacciono i ritornelli forti, quindi tendo a essere anche abbastanza pop, dove pop non significa “musica leggera”, significa Pop».

Cosa è il rock?

Scarda: «Ecco, ricollegandomi, certo Rock può definirsi Pop, ma resta Rock, tipo gli Oasis o tipo il fatto che in una certa epoca, di FATTO, il pop erano i Led Zeppelin ecc. In generale è un’attitudine, in generale c’è una chitarra elettrica in mezzo, in pratica può essere di tutto… Anche gli U2».

I’m not a Blonde: «Il rock è principalmente un’attitudine energetica, sia nel modo di scrivere che nel modo di suonare. Oltre che un sound è qualcosa di intenso, un’attitudine di pancia, emozionale».

Come si trasforma il rock a un festival?

I’m not a Blonde: «Esattamente in questo tipo di energia, che ai festival non coinvolge solo chi sta sul palco ma diventa mutuo scambio con chi ascolta e restituisce energia a chi sta suonando. O almeno, così ci piacerebbe che fosse sempre. È proprio questa la magia che può succedere ai festival, un rock in questo senso, denso di questa materia. Si sente l’entusiasmo e il calore, sensazioni fortemente palpabile sia dalle band che dal pubblico».

Scarda: « Chiamando a suonare gente che piaccia ai giovani e abbia carisma sul palco».

Perché Rock Sul Serio?

Scarda: «Perché chiamano a suonare gente che piace ai giovani e che ha carisma sul palco».

I’m not a Blonde: «Sul serio proprio rispetto a sposare una causa, a metterci tutto questo tipo di energia e di non risparmiarsi.

Quando abbiamo vinto “Musica da bere” tre anni fa, nella giuria c’erano anche ragazzi di Rock sul Serio, e lì ci siamo innamorati. Finalmente abbiamo avuto l’occasione per suonare “sul Serio”».

Hai comprato un cactus?

I’m not a Blonde: «Ne ho talmente tanti e stanno figliando, più che comprarlo potrei regalarne io!».

Scarda: «Sto facendo l’intervista nel backstage. Finisco di fare il check e vado a comprarlo».

In copertina: I’m not a Blonde sul palco di Rock Sul Serio [ph. Monelle Chiti].

I Folkstone a Rock Sul Serio: un’esplosione di energia

Ieri sera è esplosa una supernova a Villa di Serio!

Un’energia e una carica travolgente si sono propagate dagli strumenti e dalla voce dei Folkstone, investendo il pubblico sottostante.

Nessuno di quelli che erano sotto il palco è rimasto impassibile: da chi si è lanciato nella ressa, a chi è rimasto ai margini della folla; dal ragazzino con la birra al sessantenne che aveva appena terminato la sua sacrosanta porzione di casoncelli ognuno ha partecipato, a modo suo, a un’esibizione trascinante e coinvolgente.

L’unico rammarico: che non sia potuto andare avanti tutta la notte, che come quando esplode una stella, quello che resta alla fine è un vuoto, come la sensazione che manchi qualcosa a riempire il buio.

 

Rock sul Serio 2019_Pequod Rivista

Rock – volontari – sul Serio: la voce dei volontari dell’edizione 2019

È iniziato da questa settimana il festival più cool dell’estate bergamasca, Rock sul Serio. Dal 17 luglio fino alla notte del 21 luglio a Villa di Serio concerti e non solo arricchiscono le calde serate bergamasche.
Rock sul Serio è un festival che porta avanti idee green e, come viene ribadito nel sito internet, «ha deciso di intraprendere la strada della sostenibilità ambientale, per promuovere una cultura nella quale crediamo e per offrire un segnale di rispetto verso il nostro territorio»: è un vero eco-festival a tutti gli effetti. Potete trovare il programma sul sito www.rocksulserio.it, dove vi consiglio di guardare le meravigliose Sunset Sessions: un vero spettacolo di musica e pura poesia.

Rock sul Serio 2019_Programma_Pequod Rivista

In queste cinque giornate non solo ci sarà musica per tutti i gusti, ma non mancheranno workshop, mercatini, aperitivi, merende all’aperto, lezioni di yoga, e per i più piccoli il concerto di Dulco Granoturco & Chitarra Scimitarra. E tutto è reso possibile anche grazie al lavoro di numerosi volontari, che hanno deciso di dedicare il loro tempo a questa coinvolgente iniziativa.
Ne abbiamo intervistato qualcuno per capire cosa significa per loro Rock sul Serio. Chiara Noris, Fabio Prestini, Alessandra Cortesi e Simone Tribbia collaborano al festival ormai da tanto tempo e ne hanno visto i cambiamenti di anno in anno. Ma come descrivere questo festival con una canzone?

«Certamente Don’t leave I lonely dei Mellow Mood», risponde Chiara Noris, volontaria da ormai sette anni, «è la canzone giusta per questo festival, unico nel suo genere perché racchiude molti aspetti per me basilari nella vita umana: accoglienza, ambientalismo, tutela dei diritti civili uniti verso un fine comune di uguaglianza e divertimento, con musica sempre ricercata e mai banale».
«La canzone è Tir nel cortile dei Verdena», dice Fabio Prestini, designer: «come canta la band, “ci sono cose che pesano, ci sono cose che schiacciano”, ma solo dopo il duro lavoro ne vedi i frutti e solo allora capisci il valore che ci sta dentro».
Simone Tribbia a gran voce risponde che «non può che essere We are the world: forse sarà banale, ma prima ancora dell’artista e del palinsesto e del genere musicale, quello che si respira a Rock sul Serio è l’unione delle persone che sono presenti, sia i volontari, sia gli allestitori, sia tutti coloro che partecipano e collaborano; è questo senso di unità e appartenenza che mi stimola continuamente ogni anno a essere qui».

Il cactus di Chiara Noris

Alessandra Cortesi, invece, cerca disperatamente il titolo di una canzone, ma poi risponde «non riesco proprio a trovarla. È nel 2013 che inizia la mia esperienza di volontaria e continua tuttora. Perché partecipiamo e continuiamo a partecipare? Secondo me è semplice: la gioia. Anche se in quei giorni siamo praticamente operativi per 16 ore al giorno, l’idea di avere poche ore per dormire non è sicuramente allettante, ma l’atmosfera che si respira, la compagnia degli altri ragazzi, le iniziative che gli organizzatori portano avanti e la consapevolezza di essere parte attiva di tutto questo, spazza via ogni fatica e rende Rock sul Serio una festa prima di tutto per noi stessi».

Rock sul Serio 2019_Pequod Rivista
Il cactus di Alessandra Cortesi

Come ci spiega anche Chiara Noris, «tutto ciò è possibile perché c’è una passione e un credo profondo che proprio come un cactus 🌵, simbolo del festival di quest’anno, resiste anche nelle situazioni difficili, fiorendo e ingrandendosi anno dopo anno».
Il simbolo di questo festival ecofriendly, che ha dedicato la sera del 18 luglio alla lotta Contro le differenze 🌈, è il cactus, che diventa persino il tema di un gioco online (che anch’io ho tentato di fare, ma ahimè ammetto che non sono ancora arrivata al dodicesimo e ultimo livello…). Il cactus è anche il soggetto del concorso fotografico, a cui tutti possono partecipare: basta scattare una fotografia alla piccola pianta grassa e postarla sui social. Ma anche i volontari l’hanno comprato e parteciperanno al contest?
«Ne ho comprato uno durante l’ultimo “Waiting Rock sul Serio”», ci racconta Fabio Prestini. «È un mini-cactus con tante piccole spine che non pungono quasi mai. Le volte che lo fa, però, te le ricordi bene! I suoi migliori amici sono una pianta di basilico ed una di menta.»
Chiara Noris, invece, ne ha più di uno: «Adoro questa pianta, sia per l’aspetto che per le sue caratteristiche. E poi, è pure acquistata in una serra piena di amore, amicizia e nutrita tutte le sere con una melodia diversa che la renderà ancora più speciale».

Rock sul Serio 2019_Pequod Rivista
Il cactus di Fabio Prestini

Alessandra Cortesi ha preferito adottarne uno e portarlo in ufficio, sulla scrivania così anche durante il lavoro può dedicarsi alla piccola pianta e pensare al festival! Simone Tribbia, invece, ridendo spiega «certamente devo ancora comprare il cactus, perché è l’unica pianta che, come single, posso permettermi di tenere!»
Rock sul Serio è un festival che, grazie proprio ai suoi volontari, riesce a fare la differenza e, con il suo ricco programma attira un pubblico eterogeneo, che vuole non solo lasciarsi trasportare dalla musica, ma anche partecipare attivamente. Come scrivono gli organizzatori di Rock sul Serio sulla loro pagina Facebook, questo è il vero e unico obiettivo del festival: «Spread good vibes, diffondere buone vibrazioni. Vogliamo farvi stare bene. Vogliamo che ci facciate stare bene».

Cosplay: indossare un costume e sentirsi più sicuri

Si dice che l’abito non fa il monaco, ma quanto influisce quello che indossiamo su come ci comportiamo e sull’espressione della nostra personalità? Può un costume, paradossalmente, fare in modo che un individuo lasci cadere la sua maschera?

Pequod ha deciso di fare qualche domanda a riguardo a chi in ambito di costumi è molto informato: una doppia intervista alla premiatissima Sabrina, 30 anni, in arte Sylesia Cosplay, e a Luca 32 anni, che si definisce cosplayer amatoriale, ma già organizza raduni molto attesi.

Sabrina nell’abito da Gladiatrice di Aion, ispirato al videogioco Aion: The Tower of Eternity [ph. Roberto Donadello/Tutti i diritti riservati]

Quando hai iniziato a interessarti al mondo Cosplay e cosa ti ha spinto a farlo?

S: Ho iniziato a interessarmi al mondo del Cosplay nel lontano 2010, quando per puro caso mi sono imbattuta in una delle più grandi fiere del settore in Italia, il Lucca Comics. Sin da piccola sono appassionata di anime, manga e videogiochi, tanto che spesso giocavo a travestirmi dai miei personaggi preferiti, ma non immaginavo che ci fossero degli eventi dedicati proprio a questo: a Lucca, mi si era aperto un mondo. Da quel momento ho deciso che sarei diventata una cosplayer a tutti gli effetti ed è subito diventato il mio hobby preferito!

L: Sono sempre stato interessato al mondo dei fumetti e dei videogiochi, ma vengo da un piccolo paese dove non era facile trovare qualcuno che condividesse questo interesse. Poi ho incontrato una persona della zona appassionata come me di questo mondo, con cui sono andato al Cartoomics, quattro o cinque anni fa, e ho deciso di provare anch’io il Cosplay. È un fenomeno che negli ultimi anni sta diventando sempre meno di nicchia, perché ci sono tanti piccoli eventi e si diverte non solo chi si veste, ma anche chi guarda!

Sabrina vestita da Jennefer di Vangerberg, personaggio del videogioco The Witchers Wild Hunt [ph. Massimiliano Pellegrini/Tutti i diritti riservati]

Come avviene la tua preparazione-tipo?

S: La mia preparazione inizia dalla scelta del personaggio che voglio interpretare. Deve ovviamente essere un personaggio che mi piace e in cui riesco a immedesimarmi. Una volta scelto, cerco foto e modelli in 3D per avere la massima visibilità di ogni dettaglio del costume. In seguito, scelgo materiali e tessuti e da lì inizio con il progetto vero e proprio.

L: Mi piace preparare tutto con le mie mani. Scelgo un personaggio per affinità, per come si comporta, e faccio anche una selezione estetica: sono magro e asciutto, non andrò a vestirmi da Hulk! Quando ho scelto il personaggio, stampo le immagini, valuto come arrangiarmi e inizio la parte sartoriale e la costruzione degli accessori. Sono abbastanza pignolo nei dettagli: cerco le stoffe adeguate; spesso faccio, disfo, rifaccio. Alcuni costumi più popolari si trovano anche in vendita; ci sono persone che non fanno Cosplay, ma commissioni, e sono bravissime a creare anche i costumi più difficili e particolari.

Sabrina nelle vesti di Tyrande Soffiabrezza dall’Univeso di Warcraft [ph. Roberto Donadello/Tutti i diritti riservati]

Sei sempre te stesso o ti immedesimi nel personaggio, non solo con il costume?

S: Ho iniziato da subito a fare Cosplay in modo serio e a partecipare a molte gare. Quando si gareggia i metodi di valutazione non comprendono solo il lato puramente esecutivo del costume, ma anche l’interpretazione: per questo motivo, immedesimarsi nel personaggio è fondamentale.

L: Dipende dai momenti. È bello immedesimarsi perché quando si interpreta bene il personaggio i fan apprezzano. Inoltre, ho notato che interfacciarsi con altri cosplayer è più facile che con sconosciuti nella vita ordinaria: se uscissi per un aperitivo con gente che non conosco, non mi sentirei così a mio agio. Il fatto che stiamo interpretando vari personaggi spesso ci rende più facile essere spontanei.

Luca e Ambra, la sua ragazza, negli abiti di due personaggi di Yu Ghi Ho: il Mago Nero e Black Magician Girl [ph. jack.th3.4rist/tutti i diritti riservati]

Qual è il rapporto tra la tua identità e il costume che indossi?

S: Quando indosso il costume che realizzo, improvvisamente non sono più la ragazza timida e un po’ insicura che sono ogni giorno, ma divento il personaggio bello e forte che tanto amo. Posso quindi essere un’altra persona per un giorno e ciò mi fa sentire più sicura di me stessa. È anche questo il bello del Cosplay, ti permette di diventare ciò che desideri essere!

L: L’ambiente Cosplay è fatto da tante persone diverse, non mancano l’invidia e le critiche, soprattutto nelle gare, ma se trovi le persone giuste ti permette di essere te stesso al cento per cento. Nella vita quotidiana siamo sempre sotto alla lente del giudizio altrui e abbiamo tanti piccoli freni, mentre in questo contesto il contatto è molto spontaneo e istintivo. A lungo andare ciò aiuta a comportarsi con più naturalezza anche nelle situazioni di ogni giorno.

Si tratta di interpretare un personaggio, divertirsi e stare bene: posso fare quello che voglio, anche interpretare Hulk pur essendo magro! Il giudizio degli altri non è importante. Vedo tanti ragazzi molto giovani che fanno Cosplay e dopo le prime fiere noto (e anche i loro genitori lo notano) che acquisiscono sempre più sicurezza in loro stessi. I loro costumi li aiutano a esprimere quello che sono, senza remore, più liberamente.

Ambra nelle vesti di Regina Elfaria, personaggio del videogioco Odin Sphere [ph. Chiara Zambarda/Tutti i diritti riservati]

Qual è tuo cosplay preferito o meglio riuscito, e perché?

S: È una domanda a cui mi è difficile rispondere perché amo tutti i miei costumi e ognuno di loro mi ha dato grandissime soddisfazioni. Probabilmente in vetta c’è il mio costume da Gladiatrice di Aion, molto complicato perché composto di parti meccaniche e armatura. La sua realizzazione è stata davvero una grossa sfida per me ma mi ha dato la possibilità di realizzare il mio grande sogno: andare in Giappone, grazie alla vincita di una gara importante.

L: Il mio cosplay preferito è il Mago Nero di Yu Ghi Oh. Mi è sempre piaciuto molto sia il suo outfit sia il suo ruolo nella storia, e ci ho messo davvero tanto tempo per realizzarlo: è infatti un personaggio con un’armatura molto complicata da creare e riuscirci mi ha portato molta soddisfazione.

Un altro cosplay molto ben riuscito l’ho creato per la mia ragazza, Ambra: il personaggio di Elfaria, del videogioco di Odin Sphere. Alcuni costumi danno proprio soddisfazione e anche il pubblico si esalta. Devo dire però che quello che ha riscosso decisamente più successo e che mi ha fatto davvero divertire è quello delle Tre Marie.

Vado molto orgoglioso anche del raduno di One Piece (in copertina,ndr) che organizzo ogni anno a Lucca insieme alla mia ragazza e tre amici, totalmente auto finanziato. Alla gente piace, mi fa un enorme piacere quando incontro qualcuno alle fiere che mi dice: “Ci vediamo al raduno!”.

Luca e due amici che riproducono il logo della marca dolciaria Tre Marie

Le fotografie nel testo sono gentilmente concesse da Sabrina e Luca./Tutti i diritti riservati.

Il batik tra arte e vestiti di Sapsafart

Passeggiando tra i quartieri di Dakar, accade spesso, soprattutto la notte, di venire sopresi dal rullante rumore delle macchine da cucire. Basta seguire il suono e affacciarsi a uno degli usci dei laboratori per ritrovarsi immersi nel fruscio di stoffe e tessuti, che alla luce di lampade opache scorrono sotto gli aghi al ritmo dato dai movimenti sui pedali, per lo più avviati da giovani uomini.

Tra le decine e decine di laboratori, ce n’è uno, nascosto tra i vicoli sabbiosi del quartiere di HLM, che spicca invece per il suo silenzio, interrotto solo dal suono dello stereo che accompagna le lunghe ore di lavoro: è il Sapsafart Atelier, dove Daouda colora i tessuti che verranno trasformati in abiti, tovagliato, quadri e arazzi.

Daouda al lavoro nell’Atelier di Sapsafart.

Come molte delle botteghe senegalesi, anche Sapsafart è uno spazio ricavato all’interno di un’abitazione, in questo caso ne è il cortile, ma immerge fin dal primo ingresso in un’atmosfera artistica tutta sua: accanto alle immancabili icone religiose, quadri e bassorilievi si affacciano sulle pareti, su cui si addossano poltroncine un po’ bohémien raggiungibili solo dopo aver scavalcato vasche e stender. Qui non si cuce, si dipinge con una tecnica approdata in Africa nell’Ottocento, trasportata dai colonizzatori dalla lontana Indonesia, ma subito tradotta nei disegni e nei colori del continente nero.

Daouda Ndoye è il proprietario, l’artista del batik. Sulle stoffe traccia i disegni ispirati dalla sua immaginazione e all’estetica africana, quindi inizia la loro trasformazione in tessuti adatti a diventare vestiti: «A volte inizio a lavorare sulle pezze seguendo la mia fantasia – mi spiega – e solo dopo mi preoccupo di come tagliarle, in base all’uso che decido di farne; più spesso, chiedo alla sarta con cui collaboro di iniziare il confezionamento dell’abito con il tessuto grezzo e solo dopo mi occupo di dipingerlo, così che i disegni si adattino alle forme».

Daouda mentre dipinge; alle sue spalle, alcune camicie.

Come funziona la tintura attraverso la tecnica del batik?

«La prima fase riguarda il disegno; una volta tracciate le linee guida, queste vanno ricalcate coprendo con la cera calda le parti che non si vogliono tingere. Si tratta di un lavoro che richiede una certa precisione perché non può essere corretto: una volta che la cera è colata nel tessuto, lo impermeabilizza e quindi non può più essere tinto. Una volta che la cera si è asciugata si procede al bagno di tintura, che consiste nell’immergere la stoffa in una vasca piena di acqua e pigmenti colorati. La procedura si ripete poi tante volte quanti sono i colori scelti, andando di volta in volta a sovrapporre diversi strati di colore. Ogni passaggio richiede dei tempi di attesa, che servono per l’asciugatura della cera e poi del colore, quindi più complesso è il disegno e maggiore è il numero di colori impiegato, più sarà lungo il procedimento».

Da quanto tempo lavori con questa tecnica? Come l’hai imparata?

«Faccio lavori in batik dal 1989, ma solo dall’anno scorso ho fondato il Sapsafart Atelier. Ho frequentato una scuola in Casamance, nel sud del Senegal, dove mi hanno insegnato questa tecnica entrata a far parte della nostra tradizione e ho deciso di farla diventare la mia principale attività lavorativa. Ho sempre voluto avere un lavoro in cui poter esprimere le mie inclinazioni artistiche, infatti mi sono dedicato a lungo alla creazione di sculture e quadri e a questi ultimi ho deciso di provare ad applicare la tecnica del batik. I miei primi lavori erano pensati come arazzi, destinare a decorare le pareti, poi ho iniziato a lavorare la stoffe perché diventassero tovaglie o cuscini. Da qualche anno, ho iniziato a collaborare con alcune sarte e a usare il batik per creare abiti».

Tintura e asciugatura.

Perché hai scelto proprio il batik?

«Mi piace particolarmente creare abiti in batik perché sono pezzi unici e originali, imitabili ma non riproducibili in maniera identica. La tecnica del batik di per sé rimanda alla tradizione panafricana, anche se di epoca piuttosto recente, soprattutto se usata in modo artigianale come faccio io; le linee e i colori sono molto diversi rispetto al più moderno vax, che è la versione industriale del batik: le sfumature che si possono applicare ai pigmenti rimandano ai colori della terra e le forme dei disegni che scelgo si rifanno all’iconografia della cultura africana. Allo stesso tempo, sui tessuti posso esprimermi liberamente, pensare a disegni e composizioni sempre nuovi, spesso nati dall’incontro tra la mia immaginazione e quella della persona che mi ha commissionato l’abito e che poi lo indosserà. Questo fa sì che ogni vestito sia assimilabile a un’opera d’arte, pensata su misura del contesto in cui verrà esposta o, in questo caso, indossata».

Chi sono le persone che ti commissionano abiti batik?

«Ho una clientela molto varia, che include sia uomini sia donne. Confeziono spesso camicie da uomini, ma anche semplici t-shirt, mentre le donne scelgono soprattutto pagne e abiti con lunghe gonne. Anche i turisti sono attratti dal mio lavoro: possono portarsi a casa un pezzo unico di Africa, spesso pensato apposta per loro, e piace molto il fatto che possono assistere e partecipare alla tintura degli abiti che poi acquistano, cosicché l’abito non sia più solo un oggetto, ma un souvenir che porta con sé un ricordo delle loro vacanze. Questo entusiasmo da parte degli stranieri mi ha spinto a cercare uno sbocco per la mia attività anche nelle esportazioni: attraverso la pagina facebook di Sapsafart espongo le mie creazioni e grazie a una rete di amici che vivono in Europa riesco a confezionare abiti anche per chi non può raggiungermi fisicamente».

Due creazioni di Sapsafart: un abito da donna e una camicia da uomo.

Quali sono i soggetti che preferisci dipingere?

«Mi piace che le mie creazioni rimandino a sensazioni ed emozioni legate alla mia terra. Gran parte dei miei soggetti sono legati a oggetti di uso quotidiano di oggi o del passato, come i cauri, le conchiglie che un tempo fungevano da moneta, o le calebasse, le ciotole in legno di zucca; anche gli strumenti tradizionali, dai tamburi alla kora, sono un motivo che uso spesso, così come alcuni soggetti tipici del paesaggio africano, prima tra tutti la pianta del baobab. Molte volte mi ispiro a momenti della vita quotidiana, in cui il più delle volte le protagoniste sono le donne: una madre che porta il figlio nel mbotou (fascia portabebè, ndr) o una giovane che porta un otre in bilico sulla testa. A darmi maggior soddisfazione sono però le composizioni meno realistiche, ma in cui riesco a trasmettere un messaggio che va oltre l’immagine, che spesso nascono da un adattamento dei miei quadri».

Fotografie nel testo di Sapsafart / Tutti i diritti riservati.

Il prezzo etico della moda low cost

Parlando di moda del Terzo Millennio, un’espressione balugina subito nella mente: “Fast Fashion”. Nonostante nell’immaginario comune il termine sia strettamente legato agli anni 2000, con l’espansione a livello internazionale dei marchi low cost che caratterizzano questo tipo di produzione, esso risale di fatto al 1989, quando il New York Times utilizzò per la prima volta quest’espressione in un articolo dedicato alla prima apertura di un negozio Zara a New York.

Fast Fashion” nacque come formula per indicare i brevissimi tempi di produzione e rifornitura dei negozi, sempre al passo con il rapido mutare degli stili in voga: «Il magazzino nello store cambia ogni tre settimane. – spiegava allora Juan Lopez, direttore dell’operazione di Zara negli USA – L’ultima tendenza è ciò che cerchiamo. Ci vogliono 15 giorni tra una nuova idea e la consegna nei negozi». Assecondare i ritmi di una moda sempre più capricciosa diventava in quegli anni di ripresa economica un imperativo, cui le aziende di abbigliamento risposero non solo con uno snellimento nei tempi di produzione, ma anche con un ribasso dei prezzi che diede vita alla moda low cost.

Nata con l’idea di democratizzare la moda, rendendola accessibile a tutti, negli ultimi vent’anni la Fast Fashion, pur senza perdere il suo forte potere attrattivo, è stata più volte sotto il mirino di associazioni interessate al risvolto etico di questo sistema di fabbricazione, guidate in gran parte dal medesimo quesito: come è possibile produrre capi a prezzi tanto contenuti?

Tra i primi aspetti caduti sotto la lente vi è stata l’analisi dei materiali utilizzati e, in particolare, i coloranti e le sostanze chimiche coinvolti nella produzione di vestiti. A lanciare l’allarme è stata Greenpeace, denunciando i danni tanto sull’ambiente quanto per la salute umana, legati all’uso di sostanze tossiche nella filiera tessile; nel 2011, a seguito di analisi su acque collocate nei pressi di industrie tessili in Cina, Vietnam, Messico e Indonesia, è stata lanciata la campagna Detox My Fashion, per l’eliminazione dei perfluorocarburi (PFC) dalla produzione. Protagonisti dei primi controlli di Greenpeace sono stati proprio alcuni tra i più famosi marchi low cost, Zara ed H&M, i cui prodotti risultavano contaminati con sostanze chimiche, in alcuni casi in concentrazioni che superavano i limiti dei regolamenti europei.

La risposta delle aziende è stata positiva, a differenza dei numerosi marchi di prestigio che hanno scelto di ignorare il problema ambientale, tra cui Armani, Diesel, D&G, Gap, Hermes, Versace. Gran parte delle aziende del Fast Fashion non si sono limitate ad appoggiare la campagna Detox di Greenpeace ma hanno anche lanciato nuove linee di abbigliamento ecosostenibile, quali la linea Conscious di H&M e la Join Life di Zara, e promosso iniziative di riciclo degli indumenti usati, che i consumatori possono lasciare nei punti vendita. Tuttavia, è la stessa Greenpeace a sottolineare la natura più promozionale che etica di queste iniziative; in merito alla World Recycle Week di H&M si legge, infatti, sul sito dell’ONG: «Solo l’1% di questi abiti può essere trasformato in fibre riciclate e quindi essere riutilizzato. A titolo di esempio, nel solo 2015 H&M ha venduto 1,3 milioni di capi di abbigliamento contenenti materiale riciclato, il cui contenuto in fibre riciclate era solo di 130 tonnellate. […] il riciclo degli abiti non può essere utilizzata come scusa per acquistare nuovi prodotti».

Altro aspetto drammatico della produzione low cost è quello che riguarda i lavoratori di questo settore, rivelato all’opinione pubblica con particolare tragicità il 24 Aprile 2013, quando il crollo del Rana Plaza di Savar, a Dacca (Bangladesh), causò la morte di 1129 lavoratori di fabbriche tessili che rifornivano, tra gli altri, Auchan, Benetton, Primark e Walmart. Il disastroso incidente fece emergere diversi aspetti oscuri legati a questo settore di produzione: non solo la totale mancanza di misure di sicurezza nelle fabbriche bengalesi, al primo posto come meta di dislocazione della produzione tessile, ma anche la condizione di schiavitù dei loro dipendenti, spesso minorenni, che all’epoca ricevevano uno stipendio approssimato attorno ai 38€ mensili. Un mese dopo la tragedia, 31 multinazionali e la federazione internazionale IndustriALL Global Union firmarono il protocollo Accord on Fire and Building Safety, sulla prevenzione degli incendi e la sicurezza negli edifici, con cui ci si impegna a non fornire commesse alle fabbriche che non risultino in regola con le norme di sicurezza, mentre il governo bengalese assumeva il compito di garantire salari minimi e diritti di associazione sindacale.

Nonostante le migliorie sul piano della sicurezza seguite alla stipulazione di accordi internazionali, la situazione dei lavoratori bengalesi, ma anche di altri paesi svantaggiati, non sembra ancora raggiungere livelli umanamente sostenibili. In molti ricorderanno gli scandali legati alle etichette con richieste d’aiuto nascoste negli abiti di Primark e Zara; sebbene le aziende abbiano trovato giustificazioni legittime (da un lato la smentita di Primark, che ritiene le etichette siano state aggiunte nel Regno Unito e non nei paesi di produzione; dall’altro la giustificazione del gruppo Inditex, che ricollega il mancato pagamento di alcuni dipendenti al fallimento della Bravo Teksil, che si occupava della produzione dei capi), le manifestazioni di Gennaio in Bangladesh, represse violentemente causando diversi feriti e un morto, non lasciano dubbi sull’insoddisfazione dei lavoratori. A provocare i movimenti di protesta è stata soprattutto la revisione dei livelli salariali di Dicembre 2018, che si è rivelata avere impatti diversi per i lavoratori a secondo del livello retribuito, al punto che per alcuni si tratta di un aumento di solo pochi centesimi. Basta una veloce analisi dei dati per comprendere come siano i lavoratori a pagare lo scotto di una moda che cerca di proporsi a prezzi sempre più competitivi: una t-shirt di Tommy Hilfiger, venduta a circa 30€, ha un costo di produzione in Bangladesh di 3,80€; una maglia di Primark, prezzata tra i 4 e gli 8€, ha un costo di produzione di circa 1,20€.

Le etichette con le richieste d’aiuto ritrovate negli indumenti di Zara (a sinistra) e Primark (a destra).

Accanto alle rivendicazioni salariali, emerge la violazione del diritto all’organizzazione sindacale e alla protesta: «Anche dopo i recenti emendamenti, i lavoratori bengalesi continuano a percepire paghe da fame mentre il governo del Bangladesh continua a intimidire i lavoratori e reprimere qualsiasi tentativo di organizzarsi. – spiega a Osservatorio Diritti Deborah Lucchetti, coordinatrice della sezione italiana di Clean Clothes Campaign – La Campagna Abiti Puliti chiede al governo di rispettare questo diritto, di rilasciare tutti i lavoratori e i sindacalisti arrestati e di ritirare le accuse nei loro confronti». Sempre Deborah Lucchetti evidenzia come il problema non riguardi solo i paesi più poveri: « Oggi assistiamo a fenomeni importanti di rilocalizzazione, tecnicamente si chiama reshoring, verso l’Europa appunto, nei Paesi dell’Est in particolare, ma anche Italia. Il lavoro torna a essere competitivo data la presenza preoccupante di fenomeni estesi di lavoro illegale, informale, precario, che si annida nelle parti basse delle filiere produttive, siano esse a Sud, dove il subappalto fuori controllo trionfa, oppure al Nord, come il noto bacino di lavoro sottocosto offerto dalla manodopera cinese in Toscana ci indica. La globalizzazione è una sorta di livella, al ribasso».

 

In copertina: Il Rana Plaza dopo il crollo [ph. Rijians007 via Flikr CC BY-SA 2.0].

Non solo fortuna: la mia vita nel poker

Se ne parla per il suo fascino pericoloso, spesso anche a sproposito: in Italia parlare di poker come di un qualsiasi gioco è ancora un tabù difficile a morire, perché associato a giochi d’azzardo in cui le sorti del giocatore sono nelle mani della fortuna. Nell’opinione comune è diffusa l’immagine di una bisca clandestina riunita intorno a tavolo da gioco circondato da una nebbia fumosa, tra sigari e bicchieri di whisky, nel sottoscala di un locale di seconda categoria. Eppure chi gioca a poker con costanza parla di conoscenza approfondita delle regole del gioco e abilità nel giostrarsi tra queste, di metodo analitico, di studio, di mindset. E ci apre una nuova prospettiva su un gioco di logica e abilità. Ne abbiamo parlato con Luca (nome di fantasia), giocatore di 29 anni della provincia di Bergamo, che ha scoperto nel poker un’attività estremamente affascinante per abilità tecniche e skills mentali, ma anche una fonte di guadagno consistente, che arriva a coprire la metà delle entrate mensili.

 

Il gioco del poker è un gioco complesso, spesso circondato anche da un’aura di mistero. Cosa ti affascina di questo gioco di carte?
«Credo che il punto di forza del poker risieda nella sua natura poliedrica. Chiunque vi si approcci, probabilmente troverà almeno un aspetto che lo catturi: che si tratti della sua componente aleatoria, matematica, emotiva o socializzante.
Personalmente ho sempre apprezzato il fatto che, nonostante la sua semplicità a livello di regolamento, dia la possibilità ai giocatori di compiere una vasta gamma di scelte all’interno della partita. Poi non posso non citare una meccanica unica nel suo genere che adoro: sua maestà “il bluff”. In quale altro altro contesto si è premiati, pur rimanendo con la coscienza intatta, per aver mentito in modo convincente? E cosa si prova ogni volta che si buttano le chips in mezzo al piatto sapendo di non avere niente in mano?
ll mix di tutti questi fattori mi ha fatto innamorare del gioco, tuttavia le caratteristiche che mi affascinarono inizialmente non sono le stesse che continuano a farlo tuttora. Queste ultime sono prevalentemente legate alla matematica e al lato più tecnico /teorico alla base del gioco e alle strategie che ne derivano. Un altro aspetto del poker che ho imparato ad amare col tempo è il suo essere incredibilmente meritocratico nel lungo periodo, quanto apparentemente “ingiusto” nel breve».

Quando e come ti sei avvicinato al gioco del poker?
«Ho sempre amato il mondo delle carte da gioco fin dalle classiche partite con le carte bergamasche fra nonno e nipote. All’età di 13 anni anni ho scoperto prima Yu-gi-oh e poco dopo Magic the Gathering, a cui peraltro gioco ancora di tanto in tanto. Da lì ho praticamente perso interesse verso tutti gli altri giochi di carte, data la loro scarsa complessità, fino ad una noiosa serata estiva del 2008. Mi trovavo al bar vicino casa col mio gruppetto di amici e decidemmo di sperimentare il poker Texas Hold’em, quel gioco che si vedeva spesso in TV in tarda serata costellato di strani personaggi dal carisma invidiabile e dal look stravagante.
Allora giocavamo senza scommettere un centesimo, ma ci abbiamo messo poco a capire che non poteva essere la stessa cosa senza soldi in ballo, così cominciammo a puntare piccole cifre per dare pepe alle partite. Nei mesi successivi entrai in contatto con alcuni circoli di giocatori, addirittura il proprietario di una piccola sala da gioco mi lasciò le chiavi del locale. Potendo gestire la stanza a mio piacimento, il sabato e la domenica pomeriggio diventarono appuntamenti fissi del pokerino fra amici, altre volte si organizzavano partite casalinghe. Lo ricordo come un bel periodo, avevo coinvolto un bel gruppo di persone e ci divertivamo per ore facendo tornei a 5€ di iscrizione. Nel giro di due anni purtroppo la sala fu chiusa anche perché la regolamentazione si fece più rigida, e pian piano smettemmo di organizzare. Nel frattempo cominciai a provare il poker online: non era la stessa cosa, non c’erano più le risate in compagnia, la sensazione del velluto del tavolo sotto i polpastrelli, il rumore dei trick fatti con le fiches… d’altro canto si potevano giocare più mani in meno tempo, con persone sparse per tutta Italia e partecipare a più tornei contemporaneamente…».

 

Che tipo di abilità sono necessarie nel poker per essere vincenti?
«Preparazione tecnica e assetto mentale. Il tutto si riassume in questi due aspetti imprescindibili, di conseguenza mi sento di dire che qualunque predisposizione caratteriale che possa aiutare nello sviluppo e miglioramento costante di queste capacità, se applicata, porterà qualunque giocatore a vincere nel lungo periodo. Una persona perspicace e dall’intuito acceso che non abbia mai studiato il gioco tramite articoli, video, confronto con altri giocatori e software, avrà meno successo di qualcuno meno brillante ma che faccia le suddette cose. Nel poker infatti l’esperienza fatta al tavolo ha poca rilevanza rispetto a ciò che si apprende studiando, per questo è un gioco così complesso. Perché ad una giusta mossa non sempre corrisponde un output positivo e viceversa. Parlando di mindset, invece, credo che ci siano alcune caratteristiche innate che possano dare un vantaggio al giocatore: razionalità, umiltà, resilienza e distacco emotivo. Si tratta di comprendere le proprie emozioni, accettarle, e far sì che non influiscano sulle scelte che si ritengono corrette.
Nel 2017 è andata in mondovisione una sfida che ha tolto ogni dubbio a riguardo: 4 giocatori professionisti contro Libratus, un’intelligenza artificiale in grado di apprendere ed automigliorarsi studiando strategie ottimali. Superfluo dire che la macchina ha avuto largamente la meglio sulle quattro menti umane».

Come ti sei reso conto del fatto che a un certo punto il poker stava diventando per te una fonte di entrate economiche non irrisorie? 
«Nel 2010 depositai 10€ su una piattaforma di poker online e giocando tornei su tornei, nel giro di poco tempo applicando con disciplina le strategie che avevo appreso tramite letture e video costruii il bankroll, ovvero il capitale dedito al poker. Nonostante fossi un giocatore mediocre il livello medio degli avversari era molto basso, così da subito ho pensato che potessi farne un lavoro in futuro ma in quel periodo non avevo abbastanza tempo da dedicarvi, e lo consideravo una sorta di lavoro part-time.
Nel luglio 2011 venne legalizzato il cashgame, la modalità di gioco in cui ti siedi e alzi dal tavolo con i tuoi soldi quando vuoi (nei tornei, al contrario, si paga una quota d’iscrizione, ogni giocatore riceve lo stesso importo nominale di chips e ci si alza solo quando esse finiscono, o quando tutti gli altri giocatori sono stati eliminati). Il cashgame portò nuova linfa a tutto il movimento, e io stesso mi spostai immediatamente su questa nuova disciplina ottenendo discreti risultati fino al 2013, quando terminati gli studi scolastici, decisi di cimentarmi quasi full time nel poker. Quell’anno, incentivato dalle promozioni offerte da pokerstars.it, mi ero posto un obiettivo economico e di volume di gioco che non fui in grado di gestire, sia perché in quel momento giocavo a livelli più competitivi sia per carenza di mindset. Infatti fra aprile e giugno di quell’anno persi circa 12.000 €, quasi metà del capitale, e nonostante al netto del 2013 fossi in profitto di circa 10.000€ presi una scottatura non indifferente, tant’è che abbandonai immediatamente il progetto per l’anno in corso. Solo dopo realizzai che la sfortuna c’entrava poco con la disfatta di quell’anno.
Al giorno d’oggi il mercato del cashgame in Italia è in netto calo, infatti quelle famose promozioni che mi avevano spinto a giocare tutte quelle ore di fila ormai non esistono più, e il livello dei giocatori è molto aumentato. Il rovescio della medaglia è che chi vuole approcciarsi professionalmente al gioco deve concentrarsi più sulla qualità che sul volume. Circa 3 anni fa ho ripreso seriamente col gioco e ho cominciato a studiarlo più a fondo. Negli ultimi 18 mesi in particolare l’analisi del gioco è diventata parte integrante della mia giornata, specialmente grazie all’incontro fatto con altri due giocatori nel ruolo di coach, che mi hanno indirizzato verso un metodo di studio che mi permette di migliorare di mese in mese, basato sull’assiduo utilizzo di software specifici. Uno su tutti è Pio solver, un programma che, se utilizzato correttamente, aiuta a capire le dinamiche del gioco. Per questo motivo sono sicuro di poter incrementare i miei guadagni che al momento si attestano intorno ai 15-20€ orari, che per un semiprofessionista non sono obiettivamente un granché, ma visti i tempi che corrono non ci si lamenta».

Sembra che tu stia parlando di un vero e proprio lavoro, sia per guadagni che per impegno e costanza…
«Ricordiamoci comunque che il poker è un gioco a somma zero, anzi per dirla tutta anche meno visto che ad ogni giocata si pagano le tasse, quindi il giocatore medio a lungo andare perde per forza di cose. Questo per dire che la via del professionismo non è per tutti, e non ci si può improvvisare. Per intraprenderla, una volta costruita la base tecnica e di mindset, bisogna programmare un piano giornaliero e mensile sensato, che per quanto flessibile sarà simile a quello di un lavoro più convenzionale. Bisogna inoltre mettere in conto che le ore che vi si dedicano potranno portare casomai soddisfazione oltre che guadagni, meno facilmente puro divertimento.
Ti posso raccontare anche la mia giornata lavorativa tipo in questo momento: 2 ore di studio e 3/5 ore di gioco, suddivise in 3 sessioni nell’arco della giornata, intervallate da attività fra cui non può mancare lo sport, visto lo stress generato dalle tante ore davanti al pc».

Certo sentiamo spesso parlare di persone che hanno più lavori per mantenersi, meno spesso si sente dire che alcuni affiancano a un altro lavoro le vincite dal gioco di carte. Come vivi questa situazione? Le persone intorno a te lo sanno? Cosa ne pensano?
La figura del giocatore di poker in Italia è ancora un tabù, e non è nemmeno riconosciuta come professione. Per i miei genitori non è stato facile accettare la mia scelta, ma sono stati rassicurati nel momento in cui videro che la mia passione per il gioco portava anche ad un profitto economico, e capirono che quel che facevo era ben diverso dal gioco d’azzardo. Quasi tutti i miei conoscenti più stretti sanno, e non ne parlo più di quanto non facciano loro con i rispettivi impieghi. Tuttavia con le persone che non conosco a fondo cerco di evitare l’argomento, e siccome svolgo anche un’altra attività part-time, spesso lascio intendere che sia quella la mia principale fonte di reddito. Questo perché so quanta confusione generale ci sia intorno al poker, specialmente tra i meno giovani. Molti non sanno che si tratta di uno skill game e lo considerano alla stregua dei giochi da casinò, o ancora peggio confondono poker online con videopoker (simile alle slot machines).
Spesso poi mi si chiede se non mi sentirei meglio con un cosiddetto “lavoro sicuro”, ma credo che in questo specifico periodo storico tale concetto sia da ritenere quasi obsoleto».

Qualcuno ti ha mai posto delle domande di tipo etico?
«Non così spesso come puoi pensare, forse per non mettermi a disagio. La verità è che ci ho pensato più volte per conto mio. Sono cosciente del fatto che di base il poker è fine a se stesso non essendo in nessun modo costruttivo, e che i guadagni derivino da perdite altrui, ma la cosa non mi disturba. Forse lo farebbe se vivessimo in un mondo utopistico, ma nel mondo reale credo che ognuno cerchi il proprio spazio fra una miriade di possibili impieghi, molti dei quali superflui quanto il poker. Sul fatto che i giocatori migliori vincano e viceversa invece proprio non riesco a farmi problemi, io stesso nel tempo ho regalato un sacco di soldi a chi sapeva come togliermeli, e non ci trovo nulla di sbagliato in questo. Oltretutto quante persone svolgono un lavoro che odiano solo per portare a casa lo stipendio? Ecco, non è il mio caso: finché il gioco continuerà ad appassionarmi e sarò in grado di svolgerlo con profitto non vedo perché dovrei privarmi di questa fortuna».

I tarocchi nell’arte o l’arte dei tarocchi

I tarocchi sono un mazzo composto da 78 carte, il cui numero può variare; i cosiddetti Arcani Minori corrispondono a 56 carte, 22 sono invece gli Arcani Maggiori, che rappresentano un elegante e raffinato vocabolario di figure, colori e simboli, quali il Matto, la Papessa, l’Amore, il Diavolo.
Inizialmente utilizzate come carte da gioco, i tarocchi solo successivamente hanno acquisito un significato enigmatico e simbolico, diventando una porta verso un mondo occulto e dando vita all’arte della cartomanzia.
Dal XIV secolo presso le grandi Corti dell’Italia settentrionale vennero chiamati miniaturisti ed incisori a realizzare questi preziosissimi mazzi di carte. Nella prima metà del 1400 Jacopo da Sangramoro fu incaricato di dipingere per la duchessa Bianca Maria d’Este di Ferrara 14 carte, gli Arcani maggiori, detti anche Trionfi, su pregiata carta di cotone.

A Milano, invece, furono Michelino da Besozzo e Bonifacio Bembo ad essere insigniti di questo pregevole lavoro: l’uno su commissione di Filippo Maria Visconti intorno al 1466 realizzò il famoso mazzo Visconti di Modrone; l’altro intorno al 1463 sotto Francesco Sforza, si occupò nella sua bottega di Cremona della pittura del mazzo Brera-Brambilla.
Durante il XV secolo venne realizzato un altro famoso mazzo di carte, che prende il nome di “Tarocchi del Mantegna”, in quanto il suo creatore si avvalse di uno stile molto vicino al celeberrimo artista. Seppur resti difficile stabilire l’attribuzione, questi tarocchi sono composti da 50 stampe incise a bulino di rara bellezza e altissima qualità esecutiva, che in origine erano rilegate all’interno di libri e solo successivamente vennero smembrate, dato il loro grande successo collezionistico.

Un ciclo di affreschi, che decora Palazzo Borromeo di Milano e datato 1445-1450, mostra con attenzione e devozione di particolari alcuni giochi amati e praticati da un’agiata nobiltà dell’epoca Rinascimentale: il gioco della Palmata, il gioco della Palla e il gioco dei Tarocchi. In quest’ultimo affresco si rappresenta, in un paesaggio naturale dove si scorgono tre melograni ed elementi rocciosi, un gruppo di 5 giovani nobili, tre donne e due uomini, intenti a giocare a carte, seduti ad un tavolo rettangolare.
In epoca più moderna, nel Novecento, però, l’interesse per la creazione dei tarocchi si è affievolita; l’unico artista in Europa che si cimentò nella realizzazione di queste affascinanti carte, fu il pittore surrealista Salvador Dalì, che verso il 1972 su commissione di Albert Broccoli si dedicò alla creazione di un mazzo. Ogni carta, che venne realizzata con le tecniche del collage, dell’acquarello e della goauce, trabocca di significato surrealista: inconscio e sogno s’intrecciano, ricercando un personale misticismo che abilmente impiega il repertorio tradizionale simbolico dei tarocchi.
A partire dagli Anni Settanta è stato realizzato anche il “Giardino dei Tarocchi” presso Capalbio, in Toscana. Fu l’artista francese Niki de Saint Phalle, che diede avvio alla creazione di questo parco esoterico che liberamente si ispira ai tarocchi, al Parco Guell di Antonì Gaudì a Barcellona e al parco di Bomarzo.

Insieme al marito Jean Tinguely, realizzò un gruppo di 22 sculture monumentali, dalle forme tondeggianti e dai colori sgargianti, costruite in cemento armato, ricoperto da un mosaico di specchi, vetri e ceramiche colorate. L’opera si trova su un terreno di circa due ettari e costituisce un vero e proprio “villaggio”, in cui le sculture-case segnano le tappe del percorso. L’artista francese nel suo testamento ha fatto specifica richiesta che in questo luogo colorato ed enigmatico non ci siano visite guidate in modo tale che il visitatore sia costretto ad interpretare queste sculture e possa immergersi totalmente nel mondo magico, criptico e ricco di simboli quale è il mondo dei tarocchi.

Ideogrammi e miniature delle carte da gioco nel continente asiatico

Mentre, come vi abbiamo raccontato, l’Europa scopriva le carte da gioco, ne modificava semi e disegni, inventava sempre nuovi modi per divertirsi con questo pratico supporto, cosa succedeva dall’altra parte del mondo, nella terra natia tanto della carta quanto delle carte da gioco?

Dall’epoca della loro invenzione, sembrerebbe che in Cina le carte abbiano subito ben poche variazioni: pur nell’incredibile varietà di mazzi, spesso differenziati a livello regionale, la forma di questi ludici foglietti sembra essere rimasta quella delle origini, rettangolare ma molto più stretta e allungata di quella degli esemplari europei cui siamo abituati. Questa sottigliezza potrebbe ricondursi ai primi usi delle carte, ideate come variante più leggera e maneggevole delle tessere da domino, di cui peraltro condividono il nome pai (letteralmente, etichette, tessere, targhette), o adoperate come carta moneta. Certamente, la loro forma si adatta alle esigenze dei giocatori, essendo la maggior parte dei mazzi composti da più di 100 carte, di cui molte tenute in mano contemporaneamente.

Carte da Domino “Double Happiness” (Doppia Felicità), su ciascuna carta si trovano rappresentazioni simboliche delle benedizioni della vita [ph. The World of Playing Cards].

Le carte da domino sono fino a oggi particolarmente diffuse in tutta la Cina, raccolte nel mazzo Sap Ng Wu Pai (Carte dei Quindici Laghi), composto da 84 carte che riportano i punti rossi e neri numerati da 1 a 6 di un set da domino cinese. Il nome del mazzo sembrerebbe derivare da un errore di trascrizione legato all’uso delle carte da gioco da parte quasi esclusivamente delle classi più povere: sulla carta da quindici punti si trova infatti l’ideogramma 湖 (lago, appunto), simile tanto nel suono (wu o hu) quanto nella forma all’ideogramma usato in mandarino per indicare la parola “punto”.

Nel centro delle carte, a dividerne le due metà, ci sono delle piccole decorazioni, diverse per ciascuna combinazione di punti, che si ritrovano ingigantite nella variante del Sichuan. In questa regione sudoccidentale della Cina troviamo infatti il mazzo Chuan Pai (Carte dei Fiumi, dal nome della regione), composto da 84 carte di dimensioni doppie rispetto alle Sap Ng Wu, in cui sono rappresentati personaggi di romanzi o opere teatrali, tra cui gettonatissimo è il ciclo di racconti del XIV secolo Shui-hu Chuan (Il margine dell’acqua). Originario sempre del Sichuan è il mazzo Zi Pai (Carte a Ideogrammi), formato da 80 carte con soggetti numerici indicati con ideogrammi neri (ideogrammi ordinari) o rossi (ideogrammi ufficiali).

Carte da Domino con rappresentazioni di personaggi de “Il margine dell’acqua” [ph. The World of Playing Cards],

L’utilizzo come carta moneta è più facilmente riconducibile alle Gun Pai (Carte a Bacchetta), primo stile riconosciuto di carte a semi monetari, a cui si ispirano i mazzi europei. Tradizionalmente, queste carte presentano tre semi: Wen (Denari, simboleggiati dalla tipica moneta forata cinese), Suo (Stringhe, inteso come fila di 100 monete) e Wan (Miriadi, in cui si ritrovano stilizzazioni de Il margine dell’acqua); a questi, in alcune varianti si aggiungono carte speciali, chiamate Vecchio Mille, Fiore Rosso e Fiore Bianco, che si ritrovano nei mazzi di Ceki in Malesia e Singapore e di Pai Tai in Thailandia, probabilmente diffusi proprio da migranti di origine cinese.

L’introduzione di un quarto seme, così come in uso in Europa, si trova già nella tradizione asiatica del Lat Chi, conservato dalle comunità Hakka della Cina meridionale, che utilizzano i semi Sip (Raccogliere), Gon (Infilare), Sop (Stringa) e Ten (Filo). Singolare è il fatto che nello stile Hakka le carte di valore 2 hanno un simbolo simile al Picche europeo, in cui è scritto un ideogramma che ne indica il seme. Entrambi gli usi si ritrovano in Vietnam, nel mazzo a tre semi da Tô Tom (Scodella di Gamberi) e in quello a quattro semi da Bãt; ambedue i mazzi contengono alcune carte speciali: Ông-Lão (l’anziano), Không-Thang (Zero Stringhe) e Chi-Chi (Mezza Moneta).

A sinistra, un mazzo di carte Ceki della Malesia; a destra, un mazzo di carte in stile Hakka.

Un mazzo che dalla Cina ha avuto particolare diffusione in Asia, soprattutto in Vietnam e Thailandia, è quello delle Carte a Quattro Colori (Si Se Pai, in cinese; Bai Tu Sac, in vietnamita; Pai Jîn Sì Sì, in tailandese), usato per un gioco simile al Mah Jong e nel gioco d’azzardo Ju Jiuu (Nove Carri), da cui deriverebbe il Baccarat.

Lo stesso Mah Jong, giocato in Cina con un mazzo da 144 carte, di cui a quelle divise nei tre semi e numerate da 1 a 9 si aggiungono tre Draghi, quattro Venti, quattro Stagioni e quattro Fiori, è tra i giochi d’azzardo più diffusi nel Paese ed esportato in Malesia e Singapore, dove sono state introdotte quattro carte utilizzate come Jolly (Gallo, Gatto, Topo e Centopiedi).

Ancora in Thailandia si trovano le Pai Pong Jîn (Carte Cinesi Sontuose), che riproducono le carte a scacchi cinesi Ju Ma Pao (Carro, Cavallo, Cannone): divise in due colori, rosso e nero, corrispondono ai membri di un esercito, indicati per lo più attraverso ideogrammi, talvolta in piccole figure collocate al centro della singola carta.

Mazzo di Carte a Quattro Colori [ph. 台灣四色牌 by Wikimedia Commons CC BY-SA 3.0].

Versione particolarmente originale delle carte da gioco è quella che si trova in India, nelle carte di forma circolare Ganjifa. Nonostante le profonde differenze, sembra che anche le carte da gioco indiane derivino da quelle a semi monetari della Cina, mediate dall’influenza persiana, come sembrerebbe indicare una plausibile ricostruzione etimologica del loro nome, nato dalla fusione del vocabolo indiano ganji (tesoro) con l’espressione cinese chi pai (carte da gioco). Particolarmente diffuse durante l’Impero Moghul, alcuni precedenti potrebbe risalire al gioco Kridapatram (Stracci dipinti da gioco), di cui preservano materiale e forma: fino a oggi, infatti, i mazzi Ganjifa sono prodotti artigianalmente sovrapponendo vari strati di stoffa inamidata, poi ricoperta di pasta di gesso e dipinta.

Il numero di carte per ogni seme, che prevede 10 carte numerate e due figure, è stabile, mentre vastissimo è il variare del numero di semi, così come l’assortimento dei disegni rappresentati: lo stile Mughal Ganjifa, simile all’originale persiano, prevede 96 carte divise in 8 semi, le cui figure corrispondono solitamente allo Shah (Re) e al Wazîr (Ministro), ma nei mazzi prodotti a Orissa sono sostituiti da personaggi religiosi o mitologici; un simile rimando si trova nello stile Dasâvatâra (Dieci Incarnazioni), i cui mazzi sono appunto suddivisi in 10 semi riferiti alle diverse incarnazioni del dio Vishnu. Variazioni di questo tipo si ritrovano anche nei mazzi Rashi Ganjifa, in cui i 12 semi corrispondono ai segni zodiacali, e Navagraha Ganjifa, ossia dei Nove Pianeti, che includono alcuni satelliti e due fasi lunari. Un caso del tutto singolare sono invece gli stili ibridi, probabilmente diffusisi in seguito all’apertura delle rotte commerciali con l’Europa: pur conservando la forma rotonda e lo stile grafico indiano, alcuni mazzi utilizzano i semi francesi o, più raramente, quelli spagnoli.

Dieci carte da un mazzo di Dasâvatâra Ganjifa.

In copertina: Mazzo di carte Ganjifa di Odissa [ph. Subhashish Panigrahi by Wikimedia Commons CC BY-SA 4.0]

Tradizioni che nascono dall’integrazione. Sguardi sulla storia della migrazione delle carte da gioco

D’abitudine, i giochi a carte si apprendono un po’ per tradizione: ogni famiglia ha i propri giochi prediletti e i nonni spesso hanno l’onore di scegliere a quali vada la preferenza. Da nord a sud Italia i mazzi mutano il loro aspetto, le scimitarre diventano spade e i bastoni si trasformano in mazze.

Ma da dove arrivano queste piccole tessere rettangolari e le regole che ne disciplinano l’uso?

La storia delle carte da gioco si intreccia a quella delle migrazioni umane. Con la semplicità delle piccole cose, questi svaghi semplici e maneggevoli si sono spostati da un continente all’altro attraverso le mani di una miriade di popolazioni, ognuna delle quali le ha rese parte della propria cultura, imprimendo minuscole, infinitesimali modifiche.

La loro invenzione risale all’antichissima Cina, là dove la carta vide la propria nascita; incerto il loro uso: sicuramente ludico, forse anche come carta moneta. Non sappiamo con esattezza né come né quando siano state introdotte in Europa. Probabilmente, dall’estremo oriente sono passate per la Persia e da qui giunte nelle mani dei Mammelucchi, che avrebbero modificato gli originali tre semi cinesi (Jian o Quian, monete, Tiao, stringhe di monete, e Wan, diecimila) nei quattro che si ritrovano negli odierni mazzi tradizionali: Jawkān (bastoni da polo), Durāhim (denari), Suyūf (spade) e Tūmān (coppe). Ciascun seme delle carte mammelucche conteneva dieci carte numerate, cui si aggiungevano tre figure: Malik (re), Na’ib Malik (viceré) e Thānī nā’ib (secondo viceré).

In Europa, la tradizione araba di attribuire identità di ufficiali dell’esercito alle figure, che da precetto coranico non ritraevano persone ma riportavano i nomi della persona di riferimento, venne adattata per rappresentare le famiglie reali, prima nelle figure di “re”, “cavalieri” e “servi” e successivamente in quelle di “re”, “regina” e “fante”. Ciascuno stato elaborò la propria versione dei semi, per lo più discostandosi di poco dagli originali mammelucchi. Furono i francesi, negli ultimi decenni del XV secolo, a semplificare i semi in uso, probabilmente ispirandosi a quelli tedeschi, codificandoli in cuori, quadri, fiori e picche. Negli anni 50 del XIX secolo, poi, gli statunitensi aggiunsero al tradizionale mazzo francese i quattro jolly, andando così a dare forma definitiva al mazzo più diffuso al mondo.

Semi delle carte tradizionali delle regioni italiane e di Spagna, Marocco, Germania e Svizzera

Se tanto mistero resta attorno alle origini e alle migrazioni delle carte, ancora più complesso è ricostruire gli spostamenti e le modifiche dei giochi che con queste si possono fare. Tra i più diffusi al mondo è il Poker; oggi giocato soprattutto on line e nei casinò, conta un infinito numero di specialità e varianti, che vanno dalla presenza o meno di calate, al numero di carte in banco e/o in mano. L’uso forse più singolare è quello adottato durante l’invasione dell’Iraq nel 2003, quando alle truppe americane venne distribuito il mazzo Most-wanted Iraqi, in cui ad ogni carte corrispondeva il nome, una foto e la carica di un membro ricercato del governo di Saddam Hussein. Le origini del Poker  sono d’abitudine associate alla New Orleans di inizio Ottocento o alla poco distante Robtown, in Texas, dove nacque una tra le più diffuse varianti del gioco, appunto Texas hold ‘em; allo stesso modo, è possibile risalire dal nome di altre varianti al luogo in cui nacquero: un esempio tra tutti, il Caribbean Stud Poker, che nel secolo scorso si giocava sulle navi da crociera dirette ai Caraibi. Tuttavia, l’etimologia suggerisce che il Poker sia stato importato negli Statu Uniti dai francesi, che già nel XVIII secolo giocavano a Poque (dal francese pocher, ingannare), forse a sua volta ereditato dal Poken (inganno) tedesco, risalente al XVII secolo. Meno probabile, ma non smentita con certezza, l’idea che le regole potrebbero rifarsi all’italiano Zarro, antesignano della moderna Telesina, che come il Poque si giocava con un mazzo di 20 carte.

Assi del mazzo Most-wonted Iraqi,

Se da un lato i francesi sembrano i più attestati inventori del gioco del Poker, dall’altro negli ultimi anni hanno perso la paternità del gioco in cui si attestano come i maggiori promotori nel mondo: il Belote. Gioco a coppie simile alla Briscola, è stato esportato in quasi tutte le ex colonie francesi, ma la sua influenza si è fatta sentire anche a est: lo troviamo infatti in Bulgaria, in Ungheria, in Grecia e in Croazia. Il maggiore successo lo ha raggiunto in Arabia Saudita e Armenia, dove i giochi più popolari risultano essere, pur con considerevoli varianti rispetto al riferimento francese, rispettivamente il Baloot e il Belot. Nonostante l’etimologia, un gioco molto simile ma soprattutto molto più antico si trova nelle Province Unite Nederlandesi del XVII secolo, il Klaverjassen. In Italia questo gioco, la Briscola appunto, sembra essere arrivato direttamente dai Paesi Bassi, e di qui trasformato nello Schembil, diffusissimo in Libia e in diversi Paesi del Nord Africa. Le esportazioni italiane di giochi di carte sono, del resto, numerose; in primo piano è la Scopa, giocata anche in Spagna con il nome di Escoba, che in Tunisia prende il nome di Chkobba e in Marocco, con qualche modifica, di Ronda.

Numerosissime sono le importazioni in Europa di giochi originari di Paesi lontani: dall’isola di Macao, ad esempio, arriva Baccarà, uno dei giochi d’azzardo tra i più diffusi nei casinò; originari dell’Uruguay sono, invece, Canasta e Burraco; al cinese Khanhoo o al messicano Conquian potrebbero risalire le diverse variazioni del Ramino, incluso il Chinchòn, che si gioca in Spagna, Uruguay, Argentina e Capo Verde. Altrettanto frequenti sono gli scambi all’interno del continente: popolarissimo tra i Paesi dell’ex URSS è, ad esempio, Verju ne Verju, che differisce dal Dubito italiano solo per il numero di carte usate (40 anziché 52); allo stesso modo, l’inglese Beggar-MyNeighbor, si è modificato nel rumeno Razboi e nell’italiano Guerra; discussa è l’origine del gioco italiano del Cucù, identico al Gambio svedese.

Le rotte percorse dai giochi di carte sono complesse e intricate, difficili da ricostruire quasi quanto lo sarebbe una mappatura della genealogia della specie umana. Nelle loro migrazioni, i giochi non conoscono confini e realizzano una vera integrazione: non solo culture che s’incontrano, ma qualcosa di nuovo che ogni giorno, in ogni luogo s’inventa.