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Difesa planetaria: mode ON

Circa 65 milioni di anni fa, i dinosauri si sono estinti a seguito della collisione sulla superficie terrestre di un asteroide grande approssimativamente 10 km. L’impatto ha rilasciato polveri che hanno portato ad anni di buio, oscurando circa il 99% della radiazione solare, con conseguente crollo delle temperature e drastica riduzione della fotosintesi. Effetti a cascata si sono quindi susseguiti, causando la scomparsa del 75% delle specie viventi.

La missione AIDA (Asteroid Impact & Deflection Assessment Mission) vedrà l’ESA (European Space Agency) collaborare con la NASA (National Aeronautics and Space Administration) proprio allo scopo di studiare e testare sotto quali condizioni è possibile per un razzo poter deviare un asteroide in rotta di collisione con la Terra. In particolare, all’interno della Planetary Science Division della NASA, a seguire il progetto sarà il Planetary Defense Coordination Office, un dipartimento  che ha lo scopo di favorire la coordinazione tra agenzie intergovernative per rispondere alle minacce di impatto. Tra i suoi compiti, infatti, vi è anche quello di catalogare e tracciare gli oggetti potenzialmente pericolosi (PHO, Potentially hazardous objects), con lo scopo di coordinare gli sforzi per la protezione e la difesa.

Il target ideale per questo tipo di test è stato individuato in 65803 Didymos, dal greco gemelli. Si tratta infatti di un sistema binario di asteroidi, in cui il più piccolo, chiamato informalmente Didymoon, dal diametro di 150 m, orbita intorno al corpo più grande, di circa 800 m di diametro, ad una distanza approssimativa di 1,1 km. L’obiettivo della missione è dunque impattare Didymoon con lo scopo di cambiarne la traiettoria, imprimendo una variazione di velocità al corpo e andando quindi ad agire anche sul periodo orbitale.

Un sistema binario di asteroidi, il sistema Antiope (Wikipedia / ESO / CC BY 4.0)

Il sistema si presta bene a questo tipo di missione per una serie di ragioni: innanzitutto è classificato come un NEO (Near-Earth Object), ovvero un corpo del sistema solare la cui orbita lo potrebbe portare nelle prossimità della Terra, senza comunque rappresentare per essa un pericolo. Data la sua relativa vicinanza, è più facile studiare l’andamento della missione, sia da terra che tramite un razzo di prossimità. Inoltre, essendo un sistema binario, si presta bene al rilevamento di piccoli cambiamenti nel periodo orbitale, anche per i valori della missione in esame, che sono dell’ordine dello 0.5 – 1 %. In aggiunta, le dimensioni del corpo più piccolo sono all’incirca quelle tipiche per un asteroide che potrebbe rappresentare un effettivo pericolo per la Terra, rendendo così la missione altamente istruttiva per eventuali  future applicazioni.

L’AIM (Asteroid Impact Mission), la sonda in fase di sviluppo presso l’ESA, avrà lo scopo di avvicinarsi all’asteroide per monitorare il corpo orbitante intorno a Didymos. La sonda dovrà provvedere a mappare ad alta risoluzione il corpo, al fine di poterne studiare la superficie e la struttura interna.

Il lancio è previsto per ottobre 2020, mentre nel 2022, quattro mesi dopo l’arrivo di AIM, la sonda DART (Double Asteroid Redirection Test), implementata dalla NASA, raggiungerà il sistema, e quindi impatterà con Didymoon ad una velocità, relativa alla Terra, di circa 6.25 km/s. Didymoon pure è in movimento ad una velocità simile, pertanto, dal suo punto di vista, la variazione che sentirà provenire da DART sarà in realtà relativamente lieve, tale comunque da garantire leggere variazioni nel suo periodo orbitale.

Al momento dell’impatto, il sistema di Didymos si troverà a meno di 11 milioni di chilometri dalla Terra, consentendo, con relativa precisione, l’osservazione con telescopi a terra e radar planetari. Secondo quanto affermato dall’ESA, inoltre, AIM si troverà in posizione privilegiata per osservare DART colpire Didymoon e provvederà quindi a fornire un paragone prima-dopo per quanto riguarda la struttura del corpo e il cambiamento orbitale, al fine di caratterizzare l’impatto di DART e i suoi effetti.

L’importanza di questa missione è dunque altissima. Innanzitutto si tratta di una sfida senza precedenti, in quanto consiste nel primo intervento umano di alterazione significativa della dinamica di un corpo appartenente al Sistema Solare. Inoltre, le informazioni ricavabili dalla missione riguarderanno anche il tipo di forza che è necessario imprimere per deviare l’orbita di un asteroide pericoloso e come poterla applicare in caso di emergenza; i risultati, dunque, forniranno un’ottima base per la programmazione di future strategie per la difesa planetaria.

Moderni baccanali, tour tra l’Europa che festeggia brindando

Si sono chiusi questo weekend i festeggiamenti per una delle festività europee tra quelle che più hanno avuto successo e diffusione nell’antico continente. Se già non l’aveste intuito, stiamo parlando della festa di San Patrizio, tradizione che dall’Irlanda ha negli ultimi anni colorato del suo tipico verde trifoglio gli ultimi giorni d’inverno di ogni angolo d’Europa.
La celebrazione del giorno di San Patrizio, commemorativa dell’arrivo del cristianesimo in Irlanda, risale al IX secolo; già nel 1600 fu ufficializzata e divenne festa nazionale, che gli irlandesi esportarono durante i forti flussi migratori del XVIII secolo, in tutta l’Inghilterra prima e nel resto d’Europa poi. Fu forse proprio la nostalgia per le tradizioni della propria terra, in particolare per le bevande alcoliche, accostata alla figura del Santo patrono d’Irlanda, a determinarne il successo e la rapida diffusione: oggi, infatti, dal 17 Marzo al successivo weekend, in tutta Europa giovani in abiti verdi e cilindro in testa, brindano sollevando bicchieri colmi di sidro o birra artigianale, prediligendo la scura dublinese Guinness.

Festeggiamenti per il giorno di San Patrizio al pub irlandese The Old Dubliner di Hamburg [ph. Hinnerk Rumenapf CC BY-SA 4.0 International]

Di feste incentrate sul consumo dell’alcolico nazionale, del resto, è costellato l’intero continente, che dietro commemorazioni e celebrazioni d’ogni tipo, celano (neanche troppo) e giustificano il consumo smodato delle bevande che troneggiano sulle tavole dei diversi paesi.
Se la scura più rinomata è infatti senza dubbio quella irlandese, il primato mondiale nella produzione di birra spetta di fatto a un’altra nazione: il Belgio, produttore di oltre 600 tipi di birra differenti, consumate da colazione a notte inoltrata, non solo come bevande ma anche per la preparazione di specialità gastronomiche. Innumerevoli sono le occasioni per veder scorrere litri di questa bevanda durante i festeggiamenti che hanno luogo in questo stato; tra queste, una forse delle meno note ma più curiose è la sfilata di carnevale di Aalst, a 30 Km da Bruxelles, dedicata alla figura della Voil Jeanet, la sporca Jeanet. Nata nell’Ottocento come semplice scambio di indumenti tra uomini e donne nel periodo del carnevale, dettato dall’impossibilità economica di acquistare veri costumi, questa tradizione per cui l’intera cittadina e i suoi turisti l’8 Marzo indossano abiti da donna, o meglio da prostituta, è stata inclusa nel patrimonio culturale UNESCO nel 2009 e sono state codificate le caratteristiche essenziali del travestimento da Voil Jeanet: al primo posto, seguita da corsetto, ombrello, passeggino e alimenti puzzolenti, troneggia un orinatoio portatile riempito di birra e pan di zenzero.

La birra del resto la fa da padrona in occasione di innumerevoli festività, anche in paesi che solo marginalmente si occupano della sua produzione e che prediligono alcolici che poco hanno a che fare con il gusto maltoso di questa bevanda. Un esempio è offerto dall’area balcanica, dove accanto alla tradizionale lattina da 33 cl, enormi bottiglie di plastica da 2 litri o più occupano gli scaffali dei supermercati, sebbene siano i superalcolici a imperare sulle tavole dell’est europeo. Negli ultimi anni, sempre più festival sono nati a riempire le estati balcaniche, ma se si vuole assaporare il clima delle tradizioni, tanto storiche quanto legate alla sintesi etnica che caratterizza le nazioni sorte attorno ai Monti Balcani, l’occasione da non perdere è data dal Guĉa Trumpet Festival, che raduna i trombettisti di tutta la regione di Dragaĉevo, in Serbia. Rievocando la tradizione delle brass band, che univano ai ritmi delle bande militari il folklore balcanico, e la loro sintesi con il movimento delle gipsy band, in agosto il piccolo paese di Guĉa, che durante l’anno conta 2000 abitanti, si riempie dei suoni soffiati dagli ottoni, degli aromi di maialini arrostiti sulla brace e dei fumi di rakija, la tipica grappa di prugne qui prodotta.
Altrettanto forte è il legame culturale che fino a oggi unisce i paesi post-sovietici alla Russia, pur declinato nelle diverse sfumature locali: specialità gastronomiche a base di cavoli e patate si possono gustare in gran parte dei paesi che furono nell’orbita comunista, accompagnate dalla tradizionale vodka. Un assaggio di questo inscindibile rapporto si può avere nel periodo della Maslenitza, il carnevale russo che precede la Quaresima, in quei paesi che ospitano fino a oggi una consistente comunità ortodossa: in occasione della festa, balli in abiti tradizionali rallegrano le strade dei quartieri, mentre sulle bancarelle vengono offerti bliny (frittelle tradizionali), cetrioli e bicchierini di vodka.

Sull’altro versante d’Europa, nei caldi paesi a occidente, le tradizioni cambiano, ma l’alcol non sembra perdere il suo ruolo di principe delle feste: nella soleggiata Spagna, ad esempio, cerveza e sangria fresche sono spesso servite in grossi bicchieri di plastica, capaci di contenere quasi un litro delle gustose bevande, godute in abbondanza durante le feste. Un’occasione per godere di questa magnanimità, tanto dei baristi quanto della popolazione locale, è offerta dalla Feria di Malaga, in Andalusia, quando le strade della città si riempiono di musica e luci colorate, mentre sui marciapiedi giovani e anziani preparano freschi mojito, pestando giaccio e menta in sacchetti appoggiati sull’asfalto, e bicchieri di tinto de verano, mischiando gazeosa e vino rosso.
La tradizione enologica, oggi diffusa in tutto il mondo, resta sempre un fiore all’occhiello della cultura italiana, che vede coinvolti viticoltori lungo tutta la penisola, in produzioni regionali differenziate, cui spesso corrispondono altrettante feste e fiere: dalla Festa del Vino di Alba in Piemonte all’Appassimenti Aperti di Macerata, dall’Autochtona di Bolzano al Ri-Wine di Riesi, in Sicilia. Tra le fiere vinicole più curiose del nostro paese è la Sagra Enogastronomica che si tiene a metà settembre a Faicchio, in provincia di Benevento: tra le bancarelle che offrono assaggi dei prodotti delle cantine locali e di piatti tipici del posto e i suoni di musiche e danze della tradizione partenopea che si dipanano tra i vicoli caratteristici del centro storico e seguono la processione dedicata a San Nicola, spicca la Fontana delle tre botti, da cui il vino di Massa sgorga per essere liberamente gustato, protagonista di tre notti consecutive di festeggiamenti.

Preparazione di mojito nelle strade di Malaga, Andalusia, Spagna

Da Malinska a Consonno, la decadenza dei luoghi del divertimento

Entrambi figli degli anni Sessanta e Settanta, entrambi inseguivano il sogno di diventare celebri luoghi di divertimento, entrambi sono stati abbandonati e vandalizzati. Hanno molto in comune il croato complesso alberghiero Haludovo Palace e il nostrano paese di Consonno, soprattutto perché entrambi sono luoghi che emanano il fascino decadente, trascurato e leggermente inquietante di un’epoca passata che non tornerà più.

Nel 1972 Bob Guccione, fondatore della rivista erotica Penthouse, inaugurò poco lontano dalla tranquilla cittadina di Malinska, sull’isola di Krk, l’Haludovo Palace Hotel e l’adiacente Penthouse Adriatic Club Casino. Guccione, dopo aver investito 45 milioni di dollari nel progetto, aveva l’ambizione di rendere questi edifici a cinque stelle dei luoghi di lussuosa perdizione per i ricchi frequentatori dell’allora Jugoslavia, e per un po’ ci riuscì. Si narra di sfarzo e stravaganza, piscine piene di champagne, bellissime cameriere in topless, gioco d’azzardo come se non ci fosse un domani, fiumi di alcool di qualsiasi tipo e la compagnia delle ragazze di Penthouse. Le foto dell’epoca mostrano edifici dal design futuristico e l’hotel, vista mare ovviamente, era inoltre fornito di piscina, bowling, campi da golf e giardini, centro estetico e sauna.

Tanto sfarzo era difficile da gestire economicamente: dopo solamente un anno Guccione andò in bancarotta e il Penthouse Adriatic Club Casino fu chiuso, mentre l’albergo subì un declino più lento, culminato con le guerre nei Balcani degli anni Novanta, che allontanarono definitivamente i turisti. Haludovo Palace, diventato di proprietà statale, ospitò in quell’epoca i numerosi profughi, che inevitabilmente contribuirono alla decadenza materiale dell’edificio. Dopo la fine della guerra in Jugoslavia l’hotel subì diversi passaggi di proprietà e speculazioni finanziarie per poi venire privatizzato e venduto all’imprenditore Božidar Andročec. Egli però non riuscì mai a pagare tutta la somma prevista per l’acquisto e ciò portò alla chiusura definitiva dello stabile nel 2001.  Attualmente la proprietà è della compagnia Enmyn Limited e del russo Ara Abramyan. Gli enormi investimenti necessari per recuperare questo edificio, uniti a quella che sembra essere una burocrazia molto intricata, fanno sì che il complesso resti meta di vandali e attrazione per turisti incuriositi, e per il resto completamente abbandonato, tranne per Omar che promette free sex.

Seguendo il filo di un’altra storia finita male a causa di speculazioni economiche ed edilizie, dalla soleggiata costa croata ci troviamo catapultati nel più vicino territorio lecchese, a Consonno, frazione ormai fantasma del Comune di Olginate.

Gli abitanti di questo antico piccolo borgo vissero tranquillamente fino a quando, nel 1962, l’industriale brianzolo Mario Bagno decise di acquistarlo interamente. Egli aveva grandi ambizioni: voleva infatti trasformare Consonno in una sorta di “Las Vegas brianzola”. In poco tempo sgomberò i paesani, rase al suolo le loro abitazioni e vi costruì edifici dalle architetture più disparate: un centro commerciale arabeggiante con tanto di minareto, una pagoda cinese, un castello medievale, fontane esagerate. C’erano anche il Grand Hotel Plaza, una sala per le feste, sale da gioco, ristoranti e bar. Non rimase nulla dell’antico borgo, tranne la chiesa di San Maurizio con la rispettiva casa del cappellano e il piccolo cimitero.

Consonno visse qualche anno di gloria come luogo destinato al divertimento e al gioco d’azzardo, dove tutto era un inno alla spensieratezza. Tra i numerosi visitatori ci furono anche alcuni personaggi del mondo della tv e dello spettacolo, e sul web si trovano ancora immagini di vecchie cartoline e di volantini che pubblicizzavano feste sfrenate. Pian piano però, come succede spesso alle località turistiche che non si rinnovano nella propria offerta, l’interesse verso Consonno cominciò a scemare. Il colpo di grazia in questo caso fu una frana, nel 1976, che cadde proprio sulla nuova strada di accesso al borgo, isolandolo completamente. Evidentemente, far costruire tali imponenti edifici in un territorio ad alto rischio idrogeologico non era stata la migliore delle idee di Mario Bagno. Fu così che la cosiddetta città dei balocchi si trasformò in poco tempo in un paese fantasma, dove il degrado regna sovrano. L’unico edificio che rimase in funzione ancora per qualche tempo fu il Grand Hotel Plaza, che dai primi anni Ottanta venne adibito a casa di riposo. Quando infine venne chiuso e abbandonato, nel 2006, fu immediatamente devastato da uno dei numerosi rave party che ebbero luogo a Consonno nel corso degli anni, e che ora sono severamente proibiti.

Attualmente alcune associazioni stanno cercando di far rivivere il paese fantasma, aprendo la strada ed il bar ogni domenica e organizzando mercatini, feste e manifestazioni, tra cui la festa di San Maurizio a settembre e la “Burrolata” a fine ottobre. Inoltre nel settembre 2017 Consonno è stata un’affascinante location per lo straordinario “Nascondino World Championship”, il campionato mondiale di nascondino, che ha attratto numerosi giocatori. Il borgo è comunque accessibile a piedi ogni giorno, ma a proprio rischio e pericolo: va tenuto infatti in considerazione che la proprietà è privata e gli edifici, una volta scavalcate le precarie recinzioni, non sono affatto sicuri.

Il complesso di Malinska e il paese di Consonno sono solo due dei troppi casi di incuria e degrado di fabbricati a seguito di speculazioni. Gli unici che paiono trarre vantaggio da questo stato di rovina materiale sono vandali, writer e appassionati di questa sorta di “turismo dell’abbandono”. Nel frattempo gli edifici restano lì, sbarrati e silenziosi, affascinandoci con la loro decadenza che racconta di un passato glorioso, aspettano (invano?) tempi migliori per una riqualificazione.

L’urbanesimo della resistenza: la rinascita dei beni confiscati

La campagna elettorale tace e, con essa, la pletora di partiti e relativi candidati che per settimane ci hanno “intrattenuto” con le loro promesse. I mesi che ci lasciamo alle spalle sono i mesi del dibattito: sui migranti prima di tutto, conditi con sparatorie eastwoodiane negli italici borghi rigurgitanti fascismo della lega più infima, su qualche tassa da livellare e qualche riforma che – dicono – sia il caso di mandare in pensione.

Di certo si è fatta molta attenzione a non citare quei mali, nemmeno troppo oscuri, della nostra nazione: l’illegalità diffusa e la criminalità organizzata. Anzi, quando se n’è parlato, spesso si sono usati termini impropri, volti a edulcorare e imbiancare uno scenario triste e brutto. Un esempio su tutti l’espressione utilizzata nel dibattito sui condoni edilizi: abusivismo di necessità. Nessuna parola o gesto di condanna verso chi, da anni, maltratta l’ambiente e il paesaggio del Paese, sia esso rurale o urbano.

Altro termine-simbolo del momento è paura. La paura destabilizza, crea incertezze, irrita e non va d’accordo col raziocinio, con le idee geniali e innovative. Con la paura, probabilmente, non sarebbero mai nate, in Italia, quelle realtà che portano ventate del fresco profumo di libertà di cui parlava Borsellino in uno dei suoi ultimi interventi pubblici.

Quelle stesse realtà che, per esempio, da oltre un ventennio gestiscono i beni confiscati alle mafie e li fanno rivivere. Si tratta di fabbricati, terreni incolti, aree dismesse e locali destinati a far rivivere un territorio, una comunità e aiutare chi è in difficoltà. Spazi e locali che fanno parte del territorio, del contesto urbano che lo compone. Aree che, per una volta, spazzano via il velo grigio degli affari loschi e portano i colori vivaci dello sviluppo e della cooperazione.


Associazioni, nomi e numeri che tracciano un percorso

Quando si parla di beni confiscati e di lotta alla criminalità organizzata, non si può non citare “Libera”. L’associazione creata nel 1995 da don Ciotti nel tempo è diventata il simbolo di una lotta alla criminalità diversa, che trova la sua ragion d’essere proprio nell’attività del recupero e trasformazione dei beni sequestrati alle mafie.

Don Luigi Ciotti, presidente di “Libera. Associazioni nomi e numeri contro le mafie”.

“Vogliamo che lo Stato sequestri e confischi tutti i beni di provenienza illecita, da quelli dei mafiosi a quelli dei corrotti. Vogliamo che i beni confiscati siano rapidamente conferiti, attraverso lo Stato e i Comuni, alla collettività per creare lavoro, scuole, servizi, sicurezza e lotta al disagio”. Era il 1996 e con queste parole Libera portava avanti la proposta di legge popolare per mettere in atto ciò che Pio La Torre, deputato siciliano ucciso dalla mafia nel 1982, aveva intuito: impoverire la mafia, indebolirla colpendone il patrimonio.

Sono passati esattamente 22 anni da quel 7 marzo 1996. Da quel giorno l’ordinamento italiano ha nel suo corpus di leggi anche il riutilizzo sociale dei beni confiscati ai mafiosi. Ad oggi, secondo i dati pubblicati dall’Agenzia Nazionale per l’Amministrazione dei Beni Confiscati, sono circa 17 mila i beni confiscati alla criminalità.

 

Integrazione locale

Si tratta spesso di edifici che rischierebbero l’abbandono e che, al contrario, vengono recuperati e affidati, spesso, a cooperative sociali o associazioni vicine al territorio. Fabbricati che cambiano destinazione e cambiano le città, i paesi. Restituiscono vita e speranza alla comunità. Da Palermo a Varese, sono tanti gli esempi che si possono citare.
Officina Casona è una cooperativa sociale di Castellanza, in provincia di Varese, che sorge in un edificio appartenuto a un boss del narcotraffico. Oggi quei locali ospitano spazi aperti a tutti e dedicati alla socialità, alla formazione, a laboratori e corsi di vario genere, specie artigianali.

A Palermo sorge, invece, la cooperativa sociale Al Reves, anche questa una cooperativa sociale che ha nella sartoria la sua principale attività. Non mancano anche qui percorsi di inserimento professionale, attività di pubblica utilità per i giovani con problemi giudiziari e attività di formazione soprattutto in ambito imprenditoriale.

Sono tutte facce della stessa medaglia: quella dell’impegno e della lotta. Idee figlie dello stesso obiettivo, quello di ridare le città a chi le vive. Di alzare la testa contro i soprusi e l’imposizione dei fenomeni criminali. Ma anche le idee di chi fa politica attiva, chi si batte e non si piega, di chi crede nella politica, nel voto e negli uomini.

 

In copertina: Palermo, la città con il maggior numero di beni confiscati alle mafie in Italia (© Xerones/Flickr/CC BY 2.0)

Destra, Sinistra e terzo incomodo

Il 4 marzo si avvicina e gli schieramenti affilano i coltelli per questa tornata elettorale: mai come ora il risultato si profila incerto e passibile di ribaltoni dell’ultimo minuto. Emerge un chiaro assetto tripolare con centro sinistra e centro destra insidiati dal Movimento Cinque Stelle, ormai forza pienamente affermata a cinque anni dalla prima comparsa sulla scena politica nazionale.

Offriamo ora una panoramica del ventaglio dei partiti che si presenteranno alle urne questa domenica.

La compagine di centrodestra appare composta da tre partiti che si contendono, con più o meno probabilità di riuscita, la leadership. L’ala destra dello schieramento è occupata da Giorgia Meloni con i suoi patriottici Fratelli d’Italia, nostalgici fin dal simbolo del vecchio MSI, che fanno del motto “prima l’Italia e gli italiani” il punto focale del programma: propugnano la salvaguardia del made in Italy, della famiglia tradizionale, delle radici nazionali contro l’islamizzazione messa in atto dagli immigrati. Le loro parole d’ordine sono “sicurezza”, “legalità” e “identità”.

Il simbolo della Lega presentato in occasione delle Politiche 2018 (© leganord.org / Matteo Salvini / CC BY-SA 4.0).

Sempre a destra, ma un po’ più a settentrione, nonostante il grande successo riscosso perfino in terra calabrese, si colloca la Lega del rampante e colorito segretario Matteo Salvini. Anche per i padani al primo posto sta la lotta all’immigrazione clandestina, all’islamizzazione, allo Ius Soli, considerato come un regalo spesso immeritato. L’ “invasione” sembra essere la preoccupazione di Matteo Salvini e dei suoi, che si ergono come baluardo dell’identità italiana e cristiana, giurando addirittura sul Vangelo come i presidenti americani fanno sulla Bibbia. Ma non sono soltanto gli immigrati a minacciare la sovranità italiana: un’altra grave minaccia è costituita dall’“Europa delle banche” che ci vuole “schiavi” e a cui la Lega risponde “No, grazie!”. Sul fronte della politica interna, cavallo di battaglia è la lotta alla legge Fornero, sgradita a molti, alla quale si oppone il diritto alla pensione dopo 41 anni di servizio; la “pace fiscale”, infine, prevede una tassa fissa per tutti (famiglie e imprese) al 15%.

Il fulcro dell’asse di centrodestra è occupato da Forza Italia e dal suo intramontabile leader Silvio Berlusconi, che, per evidenti impedimenti giuridici, si defila e propone come premier in pectore Antonio Tajani. Tra gli azzurri l’imperativo vigente è quello della riduzione delle tasse da compensare con un netto taglio alla spesa statale: la cosiddetta flat tax al (probabile) 23% consentirà di ridurre le sacche di elusione ed evasione. Altre proposte sono la cancellazione del bollo e delle imposte sulla prima casa, sulle donazioni e sulle successioni. Per la lotta alla povertà è previsto un aumento delle pensioni minime a 1000 euro per tredici mensilità.

Passando all’altra metà dell’arco costituzionale, il centro sinistra appare frantumato in almeno tre tronconi: il PD a guida renziana, Liberi e Uguali di Pietro Grasso e Potere al Popolo, che riunisce la galassia della sinistra d’ispirazione comunista. A differenza dello schieramento di centro destra che appare, nonostante le divergenze, solido, il centro sinistra è travagliato da un’annosa lotta interna.

L’attuale Segretario del PD Matteo Renzi durante una seduta del Parlamento Europeo nel 2015 (© European Union 2015 – European Parliament / CC BY-NC-ND 2.0)

All’interno del Partito Democratico, Renzi ribadisce i successi di questi cinque anni e rilancia per la nuova legislatura misure atte a sostenere il ceto medio, tra cui la riconferma degli 80 euro netti in busta paga, l’assegno mensile per le famiglie con figli a carico, la riduzione delle aliquote Ires e Iri sul reddito delle piccole e medie imprese. Altro punto di forza del programma è la creazione di nuovi posti di lavoro a tempo indeterminato, con un occhio di riguardo all’occupazione giovanile e nel Mezzogiorno. Si ribadisce la piena adesione agli ideali europeisti, la difesa dell’ambiente, la valorizzazione del patrimonio culturale italiano. A braccetto con il PD si presenta +Europa di Emma Bonino che porta alto il vessillo dell’europeismo e dei diritti civili: dalla riforma del diritto di famiglia in favore dei matrimoni omosessuali e delle adozioni da parte di genitori gay, ai temi dell’eutanasia, della legalizzazione delle droghe leggere, della riforma carceraria.

Anche Liberi e Uguali – partito guidato da Grasso che riunisce fuoriusciti del PD (su tutti il trio Bersani, D’Alema e Speranza) ed ex-vendoliani, tra cui spicca la presidente della Camera, Laura Boldrini – mette al centro del programma il tema del lavoro, ma prende le distanze dal PD, puntando al superamento del Jobs Act e al ripristino del art. 18, nell’ottica della lotta al precariato e di una maggiore tutela dei diritti dei lavoratori. Sul piano fiscale si respinge ogni idea di imposta piatta e si prediligono invece imposte più progressive e più eque. All’alleggerimento dell’imposta Irpef che grava soprattutto su redditi e pensioni fa da contraltare l’introduzione a livello europeo della Tobin Tax sulle transazioni finanziarie e la tassazione dei profitti delle grandi multinazionali.

Infine, nella galassia della sinistra, troviamo lo schieramento di Potere al Popolo. Come dice il nome stesso è il popolo ad essere al centro del programma elettorale, popolo inteso come comunità accogliente e solidale. La giustizia sociale, la lotta alle ineguaglianze e allo sfruttamento dei lavoratori sono i temi centrali, a cui si affiancano l’accoglienza dei migranti, la salvaguardia ambientale, la lotta allo sperpero del denaro pubblico e alla corruzione.

Il candidato del M5S Luigi Di Maio al Wired Next Festival 2017, Milano (© Mattia Luigi Nappi / Wikimedia Commons / CC BY-SA 4.0)

Da ultimo il Movimento Cinque Stelle, capitanato da Di Maio, che fa della sua estraneità alle logiche della “vecchia politica” un punto d’onore. La proposta mediaticamente più lampante è quella del reddito di cittadinanza, che secondo i pentastellati risolverebbe ogni problema, garantendo dignità a tutti gli italiani. Marchi di fabbrica del Movimento fin dalle origini, riproposti anche in questa tornata elettorale, sono la lotta contro la corruzione della politica e l’abolizione dei finanziamenti pubblici ai partiti. La permanenza dell’Italia nella zona Euro, da programma, dovrà essere sottoposta a un referendum popolare; come pure dal voto popolare dovrà dipendere l’elezione di presidenti di Camera e Senato. Lascia abbastanza perplessi la proposta di introdurre un’unica rete televisiva pubblica.

Questi, in sintesi gli schieramenti e i punti programmatici più rilevanti. Abbiamo omesso il sottobosco di partiti e movimenti di estrema destra, quali Casapound e Forza Nuova, che bussano alla porta del 3%.

Sembra profilarsi un governo di larghe intese e un ritorno alle urne in autunno con una nuova legge elettorale che preveda un premio di maggioranza tale da consentire la governabilità del Paese. Ma la campagna, intanto, continua a imperversare, i conti si faranno solo a partire da domenica sera.

 

In copertina: il palazzo di Montecitorio a Roma, sede del Parlamento italiano (© LPLT / Wikimedia Commons / CC BY-SA 3.0).

Il Grand Hotel di San Pellegrino: tra passato sfarzoso e futuro incerto

Il fascino di quel maestoso edificio sulle sponde del fiume Brembo suscita ammirazione fin dai suoi tempi di gloria. L’aurea di decadenza che lo avvolge da decenni lo rende ancora più intrigante, e il suo futuro incerto ci incuriosisce molto. Stiamo parlando del Grand Hotel di San Pellegrino Terme, simbolo Liberty della Val Brembana, che porta con sé i ricordi di una belle époque in cui la località termale era tra le più rinomate d’Europa.

Le acque di San Pellegrino sono state sfruttate fin da tempi antichi per le loro proprietà terapeutiche, ma il paese si sviluppò come un vero e proprio centro termale solo dopo la metà dell’Ottocento. Fu in questi anni infatti che il turismo termale diventò una tendenza in Europa, offrendo non più solo percorsi curativi ma anche mondanità e divertimento, il tutto nella cornice di un ambiente elegante, elitario e sfarzoso.

Subito dopo la nascita della Società delle terme nel 1899, San Pellegrino conobbe il periodo di maggiore prestigio: nei primi anni del Novecento furono costruiti in rapida successione e rigorosamente in stile Liberty i nuovi Bagni, il portico della Fonte, il Grand Hotel, lo stabilimento per l’imbottigliamento dell’acqua, le due stazioni della ferrovia, il Casinò, la funicolare, diverse strutture ricettive.

I lavori per la costruzione del Grand Hotel ebbero inizio nel 1902, quando la Società Anonima per la Costruzione dei Grandi Alberghi in San Pellegrino commissionò il progetto all’ingegnere Luigi Mazzocchi e all’architetto Romolo Squadrelli, e furono ultimati nel 1904, con una spesa totale di un milione e 200 mila lire.

L’edificio, imponente e maestoso, è composto da sei piani fuori terra, uno seminterrato e uno ammezzato, per un totale di 18400 metri quadri. Sui larghi corridoi si affacciano 150 camere per gli ospiti, 36 per il personale di servizio, 12 appartamenti, un ristorante, bar, una sala da ballo e una sala da biliardo.

L’ingresso della sala da biliardo del Grand Hotel.

Nel 1922 l’hotel venne in parte rinnovato con alcune modifiche alle decorazioni affrescate nella hall e nelle stanze, perché rimanesse al passo con i tempi grazie a un più moderno stile déco.

Il Grand Hotel rappresentava a livello di qualità, modernità, comfort e lusso il meglio che si potesse avere all’epoca in campo alberghiero. Nei suoi anni gloriosi vennero organizzate di frequente grandiose feste a tema, accompagnate da banchetti sontuosi e concerti: tutto il necessario per intrattenere gli illustri ospiti che vi soggiornavano, tra i quali diversi personaggi di spicco dell’epoca. Basti pensare che la Regina Margherita in persona nel 1905 alloggiò in una suite – con vista sul fiume Brembo, ovviamente.

Vista dal terrazzo della stanza in cui ha soggiornato la Regina Margherita nel 1905.

Il Grand Hotel fu inoltre anche sede di importanti eventi culturali, congressi medici e politici. San Pellegrino Terme rimase una località turistica piuttosto in voga anche durante le Guerre Mondiali, anche se il lento declino era ormai alle porte, e il Grand Hotel perse la sua funzione ricettiva per diventare sede del Ministero delle Finanze della Repubblica Sociale italiana. Nel secondo dopoguerra il gioco d’azzardo fu proibito, privando il paese dell’attrattiva turistica che il Casinò creava. Il Grand Hotel si adoperò per ospitare qualche bisca clandestina per supplire alla domanda, ma le spese per la sua gestione stavano diventando insostenibili, soprattutto a fronte di un declino sempre più rapido del turismo termale a favore delle località balneari italiane. A partire dagli anni Settanta, il Grand Hotel cambiò gestione più volte, ma nessuna di esse fu in grado di sostenere economicamente il rinnovamento ormai necessario per resistere alla concorrenza di hotel ben più moderni in località più in voga. L’hotel venne quindi chiuso nel 1979 dall’allora proprietario, la Cassa di Risparmio delle Province Lombarde, e chiuso rimase fino al 1994, quando gli arredi liberty vennero messi all’asta. In seguito, per qualche anno il piano terra fu sede di una casa d’aste di antiquariato, ma l’attività venne ben presto interrotta dalla Magistratura per uso illecito di edificio di valore artistico e storico.

Corridoi delle stanze del Grand Hotel.

Un primo segnale di interesse per la riqualificazione dell’immobile si scorse nel 2000, quando venne acquistato dalla Provincia di Bergamo, che costituì la Società Grand Hotel srl. Nel 2006, venne stipulato un accordo di programma tra Comune di San Pellegrino, Provincia di Bergamo e Regione Lombardia per realizzare interventi di riqualificazione all’interno dell’area comunale. L’anno successivo anche il Grand Hotel fu inserito in tale programma e ceduto per il 95% al Comune, che ne diventò poi unico proprietario nel 2014.

Finora, gli interventi ultimati sono stati il restauro delle facciate, un primo consolidamento strutturale del tetto e la demolizione delle cucine, che si trovavano in un piccolo edificio separato dal corpo centrale. Attualmente il Grand Hotel è in concessione al gruppo privato Percassi, che ha sottoscritto l’accordo di programma e sta portando avanti i lavori di restauro e ristrutturazione del piano terra rialzato.

Vista del Grand Hotel e del fiume Brembo.

La situazione è complessa perché, oltre ai lavori di messa in sicurezza, è necessario riadattare la struttura a standard e normative odierni, e, trattandosi di dimora storica, ogni attività di restauro o ristrutturazione è sottoposta al controllo della Sovrintendenza, che inevitabilmente rallenta le procedure. Inoltre, gli investimenti economici fatti finora hanno già superato i 22 milioni di euro, e ne saranno necessari probabilmente altrettanti per riaprire la struttura. I lavori per il momento procedono, ma i fondi scarseggiano e il rischio che il Grand Hotel ricada nell’abbandono è alto: l’immobile è stato quindi messo in vendita nella (forte) speranza di trovare imprenditori che vogliano investire nel suo gravoso recupero, non necessariamente a fini turistici.

L’amministrazione locale e i cittadini sono molto legati al Grand Hotel e alla sua storia, e vedono molti risvolti positivi legati a una riapertura dell’edificio, sia in termini di sviluppo economico locale e posti di lavoro, sia nel caso diventasse un vivace centro culturale e commerciale usufruibile dagli abitanti stessi di San Pellegrino. Siamo ottimisti: San Pellegrino negli ultimi anni, grazie all’apertura del nuovo stabilimento termale del prestigioso gruppo QC Terme sta attirando sempre più visitatori, e si sa, il turismo attira investimenti di capitale.

E, mentre attendiamo finanziamenti, continuiamo a sognare i tempi d’oro che si nascondono dietro a quegli infissi impolverati.

“Giù la maschera!”, il primo LGBT Pride di Bergamo

Il 23 giugno 2018 sarà una data importante per Bergamo: si terrà infatti il primo LGBT Pride nella storia della città. Una manifestazione che, nonostante sia la prima nel suo genere per Bergamo, si rifà in parte alle tradizioni del territorio. Lo slogan dell’evento “Giù la maschera”, infatti, ci spiega Lorenzo Vergani, membro del comitato organizzatore di Bergamo Pride, «è nato proprio dall’importanza delle maschere nella cultura bergamasca, basti pensare a personaggi come Arlecchino o Gioppino». Oltre al rimando alla tradizione, però, come recita il manifesto politico dell’evento, la maschera simboleggia da un lato “l’oggetto dietro al quale tante persone LGBTQI (lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer e intersessuali) bergamasche si nascondono oggi per paura di essere giudicate”, dall’altro sta ad indicare la facciata di perbenismo e decoro che spesso nasconde in realtà pregiudizi radicati nella popolazione.

E’ proprio per sradicare questi pregiudizi che tutti, a prescindere dal loro orientamento sessuale, sono invitati a partecipare alla manifestazione, sia alla parata finale del 23 giugno che ai vari eventi ad essa legati che la precederanno, a partire dal corteo di apertura del 19 maggio. La manifestazione, infatti, si sta gradualmente trasformando in un evento onnicomprensivo: «Diverse realtà e associazioni culturali del territorio ci hanno scritto proponendo collaborazioni ed eventi collaterali, che speriamo vadano quindi ad aggiungersi alle due manifestazioni principali in programma». Obiettivi ambiziosi, insomma, nonostante nella fase iniziale dell’organizzazione non siano mancati vari intoppi. Tra questi figura anche lo slittamento della data, inizialmente fissata al 26 maggio, deciso da Arcigay a causa dell’arrivo della salma di Papa Giovanni XXIII lo stesso giorno, sebbene non tutti gli altri organizzatori fossero d’accordo con questa scelta.

Il logo di “Bergamo Pride 2018 – Giù la maschera!”

Lorenzo ci spiega inoltre che l’idea di organizzare il Pride è stata ben accolta anche dall’amministrazione comunale. Questo non dovrebbe forse sorprendere, se si pensa che il Comune di Bergamo ospita fin dal 2011 un Tavolo Permanente contro l’Omofobia presieduto dall’Assessore alla Coesione Sociale, Maria Carla Marchesi, con la partecipazione di membri delle associazioni LGBTQI del territorio, come ad esempio ArcilesbicaxxBergamo, Arcigay Cives e Bergamo contro l’Omofobia. Bergamo è inoltre la provincia italiana con il maggior numero di iscritti alla rete R.E.A.DY. (Rete Nazionale delle Pubbliche Amministrazioni Anti Discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere) e in città non mancano altri eventi e manifestazioni culturali su temi quali identità di genere e orientamento sessuale, primo fra tutti il Festival Orlando, realizzato con il patrocinio del Comune di Bergamo.

Le iniziative di sensibilizzazione su questi aspetti a livello territoriale non mancano, insomma. Ciononostante, questo è il primo evento della comunità LGBTQI a Bergamo di questa portata e per i più giovani potrebbe trattarsi del primo Pride della loro vita. «Partecipare a un Pride significa prendere una posizione netta e questo può in alcuni casi spaventare i più giovani e frenarli dal partecipare, ma è un passo importante che aiuta a prendere consapevolezza di sé. Per questo se hanno dei dubbi consiglierei prima di venire a conoscerci e scriverci via mail (info@bergamopride.org) o tramite la nostra pagina Facebook Bergamo Pride».

Tuttavia, in un contesto sociale sempre più aperto a queste tematiche, ormai largamente dibattute dalla stampa e oggetto di campagne elettorali, ha ancora senso organizzare un Pride e scendere in piazza? La battaglia per i diritti civili non si è forse spostata su altri fronti, primo fra tutti online? «Al contrario, oggi più che mai è importante scendere in piazza in prima persona e far vedere che ci sei. Non basta ricevere un diritto sulla carta per avere pari dignità di fatto: questa si conquista quando si viene considerati cittadini come tutti gli altri anche nella diversità. A volte si ha la sensazione che sì, abbiamo ottenuto pari diritti in molti ambiti, ma siamo tuttora davvero accettati solo a patto di omologarci a quanto è considerato la “norma”, a partire da come ci si veste, a come ci si muove, al nostro stile di vita… Che significato ha avere un diritto sulla carta, se poi dobbiamo comunque mantenere una facciata di “normalità”? E’ questo il senso del Pride, far vedere che ci siamo e come siamo». Giù la maschera, insomma.

 

Aggiornamenti: il primo LGBT Pride di Bergamo avrà un’unica data, fissata per il 19 maggio 2018. Segui l’evento Facebbok per ulteriori aggiornamenti.

Le mostre d’arte imperdibili del 2018

Il 2018 sarà un anno che in Italia, e non solo, sarà ricco di eventi culturali e mostre d’arte che permetteranno al grande pubblico di (ri)scoprire e conoscere opere e artisti che fecero dell’arte il loro mestiere e decisero di rompere con la tradizione, creando nuovi stili e diventando delle icone universalmente riconosciute.

Il MUDEC di Milano ospiterà dal 1° febbraio al 3 giugno 2018 la mostra dedicata a Frida Kahlo (1907-1954) con un’interessante selezione di opere, alcune mai viste nel nostro Paese, provenienti dal Museo Dolores Olmedo di Città del Messico e dalla Jacques and Natasha Gelman Collection. Una mostra che vuole dare voce e spazio a una pittrice che diventò icona dell’arte e del Messico e riuscì con uno stile originale, talvolta definito surrealista, a dare il suo eccezionale contributo all’arte del Novecento.

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Frida Kahlo, fotografia di Guillermo Kahlo, 16 ottobre 1932. Da febbraio a giugno potremmo ammirare i suoi capolavori al MUDEC di Milano.

Al Palazzo Reale di Milano dal 21 febbraio si potrà visitare la mostra Dürer e il Rinascimento, dove saranno esposte circa 100 opere tra dipinti, disegni e incisioni realizzate da Albrecht Dürer (1471-1528). Si potranno scoprire le opere e la vita del celebre esponente del Rinascimento tedesco, che compì diversi viaggi in giro per l’Europa e in Italia, dimostrando il suo poliedrico talento come incisore e trattatista, illustratore e scienziato, pittore e matematico.

I Musei Civici di Treviso diventano sede conclusiva della mostra allestita in occasione dell’anniversario della morte di Auguste Rodin (1840-1917). Il 24 febbraio si inaugurerà l’esposizione che proseguirà fino al 3 giugno 2018 con una selezione di sculture e opere su carta provenienti dal Museo Rodin di Parigi. Rodin fu pittore e scultore che rinunciò alla fedele ricostruzione della realtà e dell’anatomia umana, preferendo realizzare opere connotate da una marcata concretezza, a cui aggiunse l’emozione, l’umanità e un forte senso di individualità.

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Auguste Rodin, Il pensatore, 1880-1902, Museo Rodin, Parigi. Dal museo parigino una selezione di opere che rimarranno in esposizione in Italia, a Treviso, fino a giugno.

 

Il Museo Peggy Guggenheim di Venezia dal 27 gennaio al 1° maggio 2018 ospiterà la mostra Marino Marini. Passioni visive, che metterà a confronto, in un allestimento audacemente provocatorio, le opere dello scultore pistoiese (1901-1980) con una selezione di lavori di altri artisti quali Giacomo Manzù, Henry Moore, Pablo Picasso e Auguste Rodin. Si potrà visitare un’esposizione all’insegna della scultura del ‘900, sulla sua tradizione artistica e sulla sua capacità espressiva all’interno del pregevole contesto di Palazzo Venier dei Leoni, sede del Museo.

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Il Museo Peggy Guggenheim di Venezia che ospiterà la provocatoria mostra “Marino Marini. Passioni visive”.

Per l’autunno del 2018 sono in arrivo altrettante mostre che ci faranno amare l’arte, ci stupiranno e, soprattutto, ci permetteranno di ammirare i grandi artisti.

A Milano a Palazzo Reale dal 18 ottobre 2018 al 17 febbraio 2019 si attende la mostra dedicata a Pablo Picasso, dove si ricercheranno inedite relazioni con il repertorio iconografico dell’arte greco-romana. A Palazzo Diamanti di Ferrara dal 22 settembre 2018 al 6 gennaio 2019 arriverà Gustave Courbet, il padre del Realismo francese, che ci permetterà di ammirare immensi paesaggi e una natura abilmente colta nella sua misteriosa complessità. Venezia si appresta a celebrare a partire dal 7 settembre 2018 il 500° anniversario di nascita di Jacopo Robusti detto il Tintoretto (1519-1594), che presenterà una mostra in cui collaboreranno insieme Palazzo Ducale, le Gallerie dell’Accademia e la National Gallery di Washington.

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L’artista Marina Abramović sarà presente all’inaugurazione della mostra a lei dedicata a Palazzo Strozzi (Firenze), a partire dal 21 settembre 2018.

A Firenze Palazzo Strozzi torna a essere fulcro centrale dell’arte contemporanea dal 21 settembre al 20 gennaio 2019 con la retrospettiva dedicata a Marina Abramović, artista che fa del proprio corpo lo strumento d’espressione creativa. L’evento viene creato con il diretto coinvolgimento dell’artista, che riunirà oltre 100 opere dagli anni Settanta ad oggi offrendo, anche, la possibilità di assistere alla ri-esecuzione dal vivo di alcune sue celebri performance.

E fuori dall’Italia? Quali mostre d’arte sono da vedere assolutamente?

Il 2018 è per Vienna un anno importante in cui si celebrano la vita e le opere di artisti che in diversi campi diedero un importante slancio alla capitale austriaca. Egon Schiele (1890-1918), Gustav Klimt (1862-1918), Koloman Moser (1868-1918) e Otto Wagner (1841-1918) sono i protagonisti indiscussi della Secessione di Vienna di fine ‘800, caratterizzata in campo artistico e architettonico dall’uso dell’oro, di motivi floreali e geometrie essenziali, in uno stile teso a una forte sensualità. Numerosi infatti sono gli eventi culturali, musicali e le mostre (si stimano ben 15 esposizioni), che illustreranno per tutto l’anno come artisti, scienziati, architetti, designer e molti altri hanno avuto un impatto duraturo su Vienna nei primi anni del 1900.

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Gustav Klimt, Il bacio (dettaglio), 1907-1908, Galleria del Belvedere, Vienna. Nel 2018 i Secessionisti ritornano protagonisti della cultura e dell’arte viennesi.

Alla National Gallery di Londra prosegue fino al 7 maggio 2018 un’imperdibile mostra gratuita dedicata al pittore francese Edgar Degas (1834-1917) in occasione del centenario della sua morte. Una mostra che offre la possibilità di ammirare un Degas inedito, autore di disegni e pastelli di straordinaria e unica bellezza, opere per lo più sconosciute al grande pubblico e provenienti dalla collezione Burrell di Glasgow.

Al Guggenheim Museum di New York dall’8 giugno al 16 settembre 2018 si potrà visitare la mostra dedicata all’artista svizzero Alberto Giacometti (1901-1966) con oltre 170 opere tra sculture, disegni e dipinti, dove si può vedere come l’arte scultorea abbia infinite possibilità: si allunga, si destruttura, si ricompone, si trasforma, crea, fa pensare e permette di entrare nell’inconscio dell’essere umano.

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Street art, fotografia di Clem Onojeghuo. Nel 2018 a Singapore si potranno ammirare le opere di celebrità ed emergenti della street art.

L’ArtScience Museum di Singapore dal 13 gennaio al 3 giugno 2018 ospiterà per la prima volta nel sud-est asiatico un’esposizione dedicata alla street art dal titolo Art from the Streets. Ci saranno tutti i nomi più noti al mondo, tra cui Banksy, JR, Shepard Fairey (Obey), Blek le Rat, Futura, Invader, Vhils e Swoon. Si darà però anche risalto all’arte urbana nel sud-est asiatico, con una serie di interventi dal vivo realizzati da artisti locali.

Spiriti danzanti dietro le maschere africane

È un afoso pomeriggio di fine Agosto tra le vie di Dakar; mio nipote Ndiaw ed io passeggiamo soprappensiero, divincolandoci tra le bancarelle stipate di donne dalle formosità abbondanti del mercato di HLM e chiacchierando del più e del meno ci gettiamo nel quartiere successivo. Improvvisa boccata d’ossigeno: il caos delle voci di bancarellisti che trattano il prezzo in un infinito waχale s’interrompe e i vicoli tornano a essere percorribili, inaspettatamente quasi deserti.

Danze rituali in Ruanda

Faccio appena in tempo a chiedermi dove siano i bambini che riempiono dei loro giochi quasi ogni angolo di quest’immensa città, quando da un vicolo trasversale arriva un allegro e agitato vociare; infilo la testa nella stradina rumorosa e tra il polverone sollevato da decine di piedini scuri che scappano e grida di divertito spavento, vedo una massa di stracci e filamenti di corteccia rossa che si erge al di sopra di tutti quei corpicini vestiti di tuniche bianche. Una mano scura copre i miei occhi e il mio corpo è trascinato lontano; mentre cerco di divincolarmi dalla presa e tornare ad assistere allo spettacolo, una spiegazione giunge alle mie orecchie: non posso partecipare al rituale per almeno due motivi, sono una turista e sono donna.

Conosco bene il nome della maschera che il mio sguardo ha appena intravisto: il kankouran, evocato dalle madri ogni volta che un bambino combina qualche disastro o fa capricci; la versione senegalese del nostro babau, che porta via con sé i monelli di casa. La sua missione per le strade della capitale è però ben diversa, rievocando una tradizione mandinga, ancora forte nelle regioni di Mbur e della Casamance e che accomuna Senegal e Gambia: il kankouran arriva al termine del mese d’isolamento che segue al rito della circoncisione, incarnando l’ordine e le regole sociali ed esorcizzando le paure che accompagnano il passaggio dall’infanzia all’età adulta; un corteo munito di bastoni, cui si mescolano gli spiriti dei nuovi circoncisi, lo accompagna al ritmo di tamburi sciamanici e nessuno dei membri che lo compongono osa alzare lo sguardo agli occhi del kankouran, che celano antichi segreti.

Sfilata di kankouran in Casamance [ph. Dorothy Voorhes CC BY-SA 2.0 Generic]

Di queste tradizioni è ricca l’intera Africa subsahariana, che proprio nel mascheramento riversa buona parte dei più antichi significati spirituali: i travestimenti, infatti, riservati a pochi uomini che godono della forza morale necessaria ad avere il privilegio di vestirsene, servono a evocare spiriti presenti e passati, energie che si celano dietro immagini simboliche; chi li indossa rinuncia alla propria identità, assumendo quella del soggetto o del significante rappresentato dalla maschera posta sul volto.

Numerosissime sono le raffigurazioni di animali, più o meno stilizzate: tra le più maestose, il serpente Bansonyi della Guinea, nato in seno all’etnia Baga, che alto fino a 2 metri, custodisce lo spirito del villaggio, protegge dal male e dona prosperità; le antilopi Bambarà, usate durante le danze tyi-wara in Mali, sono legate invece all’agricoltura, favorita dallo spirito di quest’animale erbivoro; acquatici sono i soggetti delle maschere Ijo, etnia nigeriana stabilizzata sulla costa del delta del Niger, che rappresentano in modo stilizzato teste di pesci; uno degli animali più gettonati, infine, è il bufalo, simbolo di forza virile, rappresentato in tutto il continente e soggetto prediletto delle maschere policrome dei Douala, in Camerun.

Non meno diffuse sono le rappresentazioni astratte o antropomorfe; impossibile non citare come esempio del primo caso le maschere nwantantay dei Bwa del Burkina Faso, che rappresentano in forme puramente astratte gli spiriti volanti e senza volto della foresta, ma anche le maschere a forma di torre degli Idoma di Benue State, in Nigeria. Maschere rappresentanti volti umani si incontrano con stili diversi in tutto il continente: dagli ovali bombati degli Yoruba nigeriani e dei Makondé della Tanzania, alle maschere elmo dei Batetela del Congo, dei Bayaka dello Zaire, dei Bobo del Niger. Molte di queste maschere, si accompagnano a indumenti che celano le fattezze umane e sono utilizzate in danze rituali che accompagnano eventi sociali, momenti della tradizione e riti d’iniziazione.

Da sinistra a destra: Maschera Bwa, Burkina Faso, rappresentante una civetta [ph. Raccolte Extraeuropee del Castello Sforzescho / CC BY-SA 3.0] Maschera Bobo, Burkina Faso, rappresentante un’antilope [ph. Sailko / CC BY-SA 4.0 International] Maschera Dogon, Mali, rappresentante una lepre [ph. Raccolte Extraeuropee del Castello Sforzesco / CC BY-SA 3.0]

Molte delle tradizioni dell’Africa ancestrale, si sono perse nella morsa di colonizzazione e decolonizzazione, ma grazie soprattutto all’attenzione rivolta alle maschere africane dal movimento cubista, il valore dell’arte subsahariana è stato rivalutato, sebbene talvolta il significato veicolato sia stato travisato in favore dei gusti di un pubblico si acquirenti. Di contro, la tradizione del carnevale europeo è stata assorbita da questi popoli, già dediti ai festeggiamenti in maschera, e non è forse un caso che la patria del Carnevale più famoso al mondo, Rio de Janeiro, sia caratterizzata da una popolazione nata dalla mescolanza storica di indios, europei e africani.

Nel continente africano non si contano i giorni e i colori delle feste di carnevale introdotte dai coloni: il più maestoso è sicuramente quello di Calabar, in Nigeria, caratterizzato da cortei fastosi e culminante nella premiazione della maschera più bella; mentre tra i più duraturi spiccano quelli delle capitali di Angola, Mozambico e Guinea, che per una settimana si riempiono giorno e notte di acrobati, maschere e giocolieri. In Costa d’Avorio, il Popo Carnaval è stato introdotto da reduci dell’esercito francese; quasi tutte le ex colonie portoghesi organizzano sfilate carnevalesche nei giorni di festa del patrono locale; in Sud Africa, a Città del Capo, il Minstrel Carnival, il giorno dopo la festa di Capodanno, rievoca i festeggiamenti degli schiavi, nell’unico giorno di libertà concesso loro dai padroni bianchi.

Danzatrici nigeriane a Calabar, River State, Nigeria. [ph. Akintomiwaao / CC BY-SA 4.0 International]
In copertina: Maschere antropomorfe Edo, Benin State, Nigeria. [ph. Sailko/CC BY-SA 3.0 Unported]

Le maschere della fragilità umana, olio su tela

Ecco un viaggio mascherato all’interno della storia dell’arte: la maschera come mezzo per fuggire dalla realtà, per nascondersi e salvare la propria profondità. La maschera come simbolo delle ipocrisie e dei mascheramenti della civiltà occidentale.

Rileggendo Nietzsche, ricordo il travestimento come qualcosa che non appartiene all’uomo naturalmente, ma che si assume deliberatamente in vista di qualche scopo. Questo travestimento viene assunto per combattere uno stato di paure e debolezza e la finzione, nella sua accezione generale, copre il dissimularsi e l’escogitare finzioni utili quali concetti scientifici ed è in ogni caso legata alla paura, all’insicurezza, alla lotta per l’esistenza.

Partiamo da Antoine Watteau (1684 – 1721) fu un pittore che si specializzò nel tema delle cosiddette Feste galanti, ovvero i momenti mondani della nobiltà francese settecentesca come i gran balli, i balli in maschera, la caccia, i concerti all’aria aperta, le passeggiate. Watteau ci restituisce tutte le atmosfere Rococò, aiutandoci a riportare a galla la vita quotidiana della società aristocratica francese settecentesca. Il pittore, figlio del suo tempo, si specializza nella “pittura di genere”, in particolare quello teatrale. Innanzitutto questo tipo di pittura nasceva come testimonianza delle messinscena del suo tempo, ma in seguito si evolverà con l’inserimento dei personaggi mascherati della Commedia dell’Arte all’interno di situazioni non sempre consone a questo tipo di teatro. Sono i personaggi mascherati di Watteau: tolti dal palcoscenico e inseriti nei paesaggi idilliaci e pastorali che tanto piacevano all’aristocrazia. Nei suoi dipinti le maschere teatrali diventano delle presenze, non più sceniche, ma elementi metaforici o giocosi all’interno di scenette per lo più arcadiche.

Nelle sue opere numerosissime sono le scene di mascherate in giardino, maschere della Commedia dell’Arte italiana che diventano un soggetto ricorrente, quasi ossessivo e con un valore in sé, ma senza riferimenti narrativi: i commedianti di Watteau sono sempre ritratti in posizioni statiche, in qualche momenti di pausa e rarissimamente impegnati in qualche azione scenica.

Dettaglio da “Gilles”, Antoine Watteau, 1719, olio su tela, 184×149 cm., Louvre, Parigi

Gilles è forse uno dei quadri più noti del pittore: un Pierrot francesizzato, la maschera malinconica del pagliaccio bianco innamorato, che se ne sta lì dando le spalle ai sui compari un po’ pensoso un po’ stralunato è forse la metafora dell’amore non corrisposto.

Cambia la storia, cambiano gli umori e a mezzo secolo di distanza Francisco Goya (1746 – 1828) ci da una rappresentazione pittorica della maschera che si scontra brutalmente con gli idilliaci paesaggi pastorali del Rococò: l’arte per Goya è l’esorcismo con cui evoca e depreca i mostri dell’oscurantismo, una superstizione laica contro quella religiosa. Nei suoi Capriccios del 1799 la ragione evoca dall’inconscio i mostri della superstizione e dell’ignoranza che i sonno della ragione ha generato. Goya non è un pittore visionario ma descrive l’immagine del pregiudizio e del fanatismo con lucidità volontaria, senza l’ironia superiore del filosofo, ma con un furioso sarcasmo. Rivela la superficialità, la precarietà e la menzogna che il suo tempo dava di sé, risultandone così minati i valori e le credenze.

Oppone la realtà del brutto all’ideale del bello: il vero realismo sta nel tirar fuori tutto quello che si ha dentro senza nascondere nulla, senza scegliere. È quello che Goya fa nella sua confessione generale, circondandosi dei suoi fantasmi perché vive in essi e che rappresentano la sola e vera realtà.

Dettaglio da “Caprichos no. 49: Duendecitos”, Francisco Goya, 1799, acquaforte, Museo del Prado, Madrid

Nella prospettiva di Goya non c’è posto per “il bello”: non è per scrupolo morale che non indugia a osservare il bell’effetto di luce o di colore ma vuole l’esatto opposto, presentando una realtà che non è eterna.

Con i Capricci, il pittore spera di educare il popolo, mostrandogli il suo vero volto attraverso uno spregiudicato uso di maschere grottesche e allegorie ammiccanti. I suoi “cattivi” non hanno volto, sono quasi deformi, simboli di violenza e di morte. Volti incomprensibili per cui si fatica a distinguere tra una maschera terribile o una deformazione animalesca e grottesca del viso. Con questa serie Goya crea un intero bestiario, deforma le fisionomie, disegna spettri grotteschi e spaventose maschere di morte. Usa tutti gli espedienti retorici e ne crea di propri per esecrare la tirannia che ammorba la vita del suo popolo e sua personale.

Un salto temporale e geografico ci porta nell’espressionismo fiammingo di fine ottocento: James Ensor (1860 – 1949) potrò nella sua pittura la tendenza a un immaginario inquieto e brulicante di personaggi grotteschi, le cui fonti erano pittori fiamminghi del passato come Bosch e Bruegel. Una qualche influenza sul suo modo di dipingere, che si presenta come un commento al gusto della borghesia meno raffinata, può essere addebitata all’attività della madre che gestiva una bancarella di maschere e souvenir sul lungomare di Ostenda. Più in generale l’artista rivalutò il teatro di strada, il Carnevale e altri aspetti del folklore, fino ad allora considerati troppo volgari per venir citati dalla cultura di alto livello. Contrariamente a ciò, Ensor era convinto che “La ragione è nemico dell’arte” e amò l’irrazionalità tipica del linguaggio popolaresco. Da questo imparò a mescolare nei suoi dipinti personaggi di tutti i giorni a personaggi-metafora: dalle allegorie che compaiono nelle carte di Tarocchi, nelle leggende superstiziose, dalla morte al diavolo, dagli amanti segreti al matto del paese.

“L’Entrée du Christ à Bruxelles”, James Ensor, 1888, olio su tela, 253×431 cm, Getty Museum, Los Angeles

Il tema delle maschere e dei burattini ricorrerà in forme sempre più frequenti e quasi ossessive nell’attività artistica ensoriana a partire dal 1883 con il dipinto Le maschere scandalizzate. Nel frattempo le sue tele cominceranno a popolarsi di bizzarre figure fino a raggiungere l’apoteosi del sovraffollamento in quello che è considerato il suo capolavoro: L’entrata di Cristo a Bruxelles, 1888.

La banale risata che appare sui volti-maschera di Ensor si arricchisce di una superiore valenza spirituale poiché, come tutto ciò che appartiene all’uomo ha un’origine e una fine, anche il riso ha come sua estrema tappa la morte. Unitamente al riso, il motivo della maschera assume un valore ambivalente perché il suo uso permette, attraverso il travestimento, di modificare ciò che dietro vi si nasconde. Maschera e risata sono strumenti che illudono l’uomo sulla possibilità di un superamento collettivo della morte. Il riso acquista valore di forza sociale e proprio quelle strane figure che sembrano il frutto di allucinate visioni attingono invece a una realtà sovrannaturale.

Lo smascheramento è necessario per uscire dalla nostra bolla di debolezza, insicurezza e finzione. Giù la maschera.

In copertina: La Mort et les masques, James Ensor, 1897, olio su tela, 78,5x 100 cm., Musée d’Art contemporain de la Ville, Liège

Ph credits: wikiart

TripAdvisor dalle mille facce

Chi lo ama, chi lo odia, chi non può farne a meno, chi non mette piede in un ristorante senza averlo prima consultato: signore e signori, ecco a voi TripAdvisor!

Il celebre portale raccoglie oggi più di 570 milioni di recensioni relative a qualsiasi aspetto del business legato ai viaggi e al tempo libero: alloggi, compagnie aeree, attrazioni ma soprattutto ristoranti e locali di tutto il mondo. In questo modo i 455 milioni di persone che ogni mese visitano il sito hanno la possibilità di scegliere il meglio che il mercato possa offrire, basandosi totalmente sulle opinioni altrui.

Ma sono sempre affidabili le persone che scrivono recensioni e, soprattutto, sono sempre veritiere le opinioni? Certo, i pareri sono soggettivi, ma spesso si cade in situazioni davvero assurde, incredibili, addirittura ilari, mentre altre volte è necessaria molta ironia da parte del proprietario del locale per rispondere con stile a recensioni quasi inverosimili.

Per far luce su questi aspetti del celebre portale, Pequod ha intervistato uno degli admin della pagina Facebook Insultare su Tripadvisor sentendosi grandi chef, che raccoglie i migliori insulti e le peggiori recensioni trovate sul sito, regalando risate ai suoi followers. Dopo aver letto i post della pagina viene spontaneo simpatizzare con i ristoratori e abbiamo voluto sapere anche la loro opinione in merito.

Immagine di copertina della pagina Facebook Insultare su TripAdvisor sentendosi dei grandi chef (foto di proprietà della pagina – Tutti i diritti riservati).


Com’è nata la pagina?

È nata perché se ne sentiva la mancanza, era un peccato che tutto il materiale che il portale fornisce venisse trascurato. A me piace pensarlo come un moderno Io speriamo che me la cavo.

Qual è stata la recensione più assurda e surreale tra quelle che avete raccolto?

La più assurda quella che ha vinto il titolo di #recinzionedellanno 2017, dove una ragazza si lamentava per il fatto che in un certo locale si pagasse per andare in bagno. In realtà quello che aveva visto non era altro che un cartello vintage con i prezzi delle case chiuse, che faceva parte dell’arredamento del ristorante.

Qual è stata invece la recensione più divertente?

È difficile scegliere. Io sono affezionato da sempre a quella in cui si leggono le lamentele di una signora che contesta il fatto di essere caduta a causa di una pedana in un ristorante, e la Pedana stessa risponde con molta ironia alla sua recensione.

E quella più triste?

Tristi ne abbiamo viste tante, forse troppe. Siamo passati dalle peggiori incompetenze culinarie, ad esempio clienti che si lamentavano che venisse servito il carpaccio crudo, a problematiche più serie, come critiche a un albergo per il fatto che ospitasse profughi, che oltretutto erano in realtà componenti della marina militare algerinaDopo aver postato screenshot di quasi mille recensioni non ci stupiamo più di nulla.

Cosa ne pensi di TripAdvisor come servizio? È utile o può essere pericoloso?

Chiaramente è, in astratto, un servizio utile, ma l’assenza di regolamentazione ne compromette l’utilizzo. Diventa pericoloso nel momento in cui legittima chiunque ad esprimere un giudizio sull’operato di altri. Io spesso mi metto nei panni dei ristoratori e non so come potrei reagire se ricevessi pubblicamente critiche da soggetti non identificati che potrebbero compromettere la mia reputazione professionale.

Tu lo usi, ti fidi nonostante tutto quello che leggi?

Lo uso saltuariamente ma solo per controllare che il locale dove voglio recarmi non sia proprio uno di quelli di cui tutti parlano male.

Pensi che ci possa essere un modo per rendere TripAdvisor più affidabile, o sta semplicemente al buon senso della gente?

L’unico modo per renderlo più affidabile è fornire la prova che colui che pubblica una recensione sia stato effettivamente cliente del locale: il problema della capacità di giudizio critico del recensore rimarrebbe, ma si farebbe comunque un passo avanti.

 


Leggendo le migliori recensioni di ogni mese pubblicate da
Insultare su Tripadvisor sentendosi grandi chef ci si diverte un sacco. Si scoprono non solo clienti maleducati e pretese ai limiti dell’assurdità, ma anche complimenti originali o legati ai successi sentimentali che sono seguiti ad alcune cene. I ristoratori spesso rispondono, dando la versione dei fatti accaduti dal loro punto di vista e aggiungendoci un bel po’ di (dovuta) ironia. In genere si riesce a distinguere tra recensioni negative pubblicate solo per arrecare fastidi, ed altre concrete, basate su errori del personale, che possono sempre accadere. A queste ultime i ristoratori danno risposte per spiegare il loro punto di vista sull’accaduto e scusarsi; fanno però notare che certi dettagli non graditi da parte dei clienti andrebbero evidenziati subito in modo da porvi rimedio tempestivamente, invece che a posteriori, chiedendo sconti in cassa in cambio di recensioni migliori o tramite la pubblicazione di opinioni diffamatorie.

Le recensioni possono però portare anche al successo: la Trattoria Camozzi è considerata da TripAdvisor uno dei migliori locali di Bergamo, e Claudio, il proprietario, considera il portale un ottimo mezzo. Nel suo caso, essendo alla sua prima esperienza come ristoratore, non era molto conosciuto, ma grazie a TripAdvisor e alle recensioni positive si è fatto un nome. Lui stesso utilizza il sito per scegliere i locali da frequentare e apprezza le recensioni costruttive. Certo, alcune negative ne ha avute, ma considerando il fatto che gestisce personalmente il servizio ai tavoli e ha quindi un riscontro diretto da parte dei clienti sulla loro esperienza, sospetta che molte giungano dalla concorrenza.

C’è infine una categoria di recensioni alla quale i ristoratori non sanno come reagire: quella che raccoglie le lamentele riguardo alla troppa o troppo poca gente presente nel locale, alla necessità o meno della prenotazione, al bambino rumoroso del tavolo accanto, al gusto personale rispetto alla cucina servita. Sono situazioni, insomma, che prescindono dal controllo dello staff di un ristorante, e forse anche da quello di TripAdvisor: si sente infatti spesso parlare di agenzie che offrono recensioni a pagamento. Qualcuno, incuriosito, ha provato il servizio, e può confermare che le opinioni, totalmente infondate e inventate, vengono pubblicate davvero. A rispondere ci penserà la Pedana.

BlaBlaCar, o l’app dei pendolari d’amore

C’è chi si prepara al weekend organizzando scampagnate, allenandosi per la gita domenicale in montagna o semplicemente pregustando le dormite sul divano davanti alla TV, io cerco passaggi su BlaBlaCar, l’app di car pooling più utilizzata in Italia. Il funzionamento è semplice: si inseriscono città di partenza e di arrivo, l’orario desiderato e il programma mostra i passaggi più in linea con la richiesta. Individuato quello che fa al caso nostro, si può quindi contattare il conducente tramite l’app per accordarsi sul luogo preciso di ritrovo, per poi procedere al pagamento con PayPal o carta di credito e ricevere la conferma del viaggio.

Grazie a BlaBlaCar, nel fine settimana posso raggiungere il mio ragazzo che vive in un’altra regione senza dover spendere una fortuna in benzina e autostrada e senza dipendere da ritardi dei treni, cambi sfiancanti e rischio di scioperi. E non sono la sola a pensarla così. La maggioranza dei viaggiatori che incontro sono studenti o lavoratori che, dopo una settimana di fatica nell’area di Milano, ritornano dalla famiglia nella loro città natale, oppure “pendolari d’amore” – come ci definì un ragazzo con cui viaggiai una volta – in viaggio per raggiungere il proprio fidanzato/a che vive lontano. Insomma, anche con BlaBlaCar sono sempre gli affetti che muovono le persone.

Il profilo pubblico di un utente BlaBlaCar mostra il livello raggiunto e i feedback ricevuti.

Chi non usa BlaBlaCar, spesso rimane incredulo all’idea che qualcuno scelga di salire in macchina con uno “sconosciuto”. “Ma come fai a fidarti?!”, mi sento sempre chiedere con occhi sgranati da amici, colleghi e famigliari. Il punto è che non si tratta di veri e propri sconosciuti. L’app permette infatti di visualizzare i feedback lasciati da altri passeggeri al conducente, che danno un vero e proprio voto al viaggio e scrivono un breve commento. Inoltre, l’applicazione stessa assegna un livello – da “principiante” ad “ambasciatore” – a conducenti e passeggeri, in base al numero di viaggi effettuati e alla media dei voti ottenuti. In questo modo, prima di prenotare è possibile verificare l’esperienza del conducente e i commenti lasciati dai passeggeri precedenti.

Se BlaBlaCar è quindi ben diverso dall’autostop, non è però nemmeno paragonabile a servizi di ride sharing come Uber o simili. Nel caso di questi ultimi, infatti, il conducente effettua un servizio on demand, cioè si sposta in base alla richiesta del passeggero che chiede di essere portato da A a B (un po’ come un taxi), mentre con BlaBlaCar il guidatore deve già recarsi in una destinazione e mette semplicemente a disposizione i posti sulla propria auto per chi deve effettuare la stessa tratta.

A parte gli aspetti pratici di comodità e risparmio, però, BlaBlaCar è soprattutto divertente e permette di interagire con le persone più variegate, che non avremmo altrimenti potuto conoscere in nessun altro modo. Mi capita molto spesso di viaggiare con manager che lavorano presso multinazionali o grosse aziende che mi spiegano di condividere i passaggi con la loro auto su BlaBlaCar solo per fare quattro chiacchiere durante il viaggio e conoscere persone nuove al di fuori del proprio settore.

Grazie a BlaBlaCar, negli ultimi tre anni mi sono imbattuta nei personaggi più disparati. Un ingegnere che lavorava su una piattaforma petrolifera nel Mare di Barents per mesi interi all’anno; un’attivista di Sea Shepherd che ci ha spiegato con un certo orgoglio in cosa la sua associazione si differenzia da Greenpeace; un militare che aveva combattuto in Afghanistan e in Kosovo; un ex-navigatore professionista di rally che ci ha raccontato delle sue gare e del perché il suo ruolo sia importante quanto quello del pilota; dei ragazzi brasiliani venuti in Italia per studiare teologia; due giovani che frequentavano la scuola di aviazione e mi hanno confermato che sì, i piloti Ryanair sono di solito neo-diplomati e più inesperti. Questi solo per citarne alcuni, ma potrei continuare a lungo. Nel corso dei miei viaggi ho ricevuto (e scambiato) innumerevoli consigli su viaggi, posti da visitare, ristoranti da non perdere: dal dibattito sulle gelaterie più buone di Milano, a quello sulla migliore osteria dove gustare la sopa coada a Treviso. Con alcuni conducenti e passeggeri con cui ho viaggiato più spesso, inoltre, si è sviluppato anche un rapporto di amicizia e in un caso è stato anche creato un gruppo WhatsApp “Best Customers BlaBlaCar” per sentirci più facilmente (e condividere i link dei ristoranti di cui parlavamo durante i viaggi!).

Chiaramente, nemmeno BlaBlaCar è tutto rose e fiori e per apprezzarlo occorre sapere adattarsi e, in alcuni casi, armarsi di pazienza. Mi è capitato di imbattermi in conducenti fin troppo disponibili, che facevano mille soste e deviazioni per prendere a bordo o lasciare dei passeggeri, con la conseguenza di rendere il viaggio interminabile. Inoltre, può succedere – fortunatamente non di frequente – di trovarsi in cinque in auto, spalmati contro la portiera o schiacciati tra due passeggeri. Infine, c’è la possibilità, per quanto remota, che il conducente non si presenti o annulli il viaggio all’ultimo. In questo caso, l’importo pagato viene completamente rimborsato da BlaBlaCar, ma chiaramente il disagio di essere stati lasciati a piedi resta. Nella mia esperienza, non mi è mai capitato che un conducente non si presentasse, ma una volta dei ragazzi sono arrivati al luogo d’incontro con un ritardo di un’ora e mezzo rispetto all’orario concordato. Tenendo conto che mi trovavo a Parigi, dovevo rientrare in Italia ed era la sera del primo dell’anno, potete immaginare lo stato d’ansia in cui mi trovavo. Alla fine, però, si sono fortunatamente presentati e ricordo quel viaggio come uno dei più divertenti e speciali che io abbia mai fatto con BlaBlaCar.

Qualcuno dice che il car pooling sia il futuro, altri sostengono che non sia altro che il vecchio autostop adattato ai tempi moderni. Forse è un po’ entrambe le cose, ma qualunque cosa il futuro della mobilità ci riservi, io mi auguro che lo scambio  e i rapporti umani ne siano sempre il fulcro.

Anno nuovo, mete nuove!

L’anno nuovo porta con sé sempre quella voglia di migliorarsi e di realizzare i propri sogni, e un viaggio cos’è se non un sogno che si realizza?

Ci sono però un sacco di posti meravigliosi da visitare, e decidere dove andare è una scelta difficile. Perciò, dove andiamo nel 2018? L’abbiamo chiesto a Tiziana Mascarello, editor dei titoli fotografici di Lonely Planet.

Ci racconta qualcosa sul suo lavoro?

Lavoro in Edt nell’area Lonely Planet e, oltre che dell’area marketing, mi occupo di selezionare i titoli fotografici che pubblichiamo durante tutto l’anno. Questi libri in genere sono tematici e contengono informazioni e foto di suggestione, che sviluppano da punti di vista diversi per aiutare il lettore a decidere quale meta scegliere. Meta che poi si potrà scoprire durante il viaggio che ne seguirà, sebbene queste pubblicazioni permettano di viaggiare anche rimanendo comodamente seduti in poltrona con il libro in mano.

Lisbona, Portogallo

Qual è stata la meta di maggiore tendenza del 2017 e perché?

Ogni anno a ottobre pubblichiamo Best in Travel, che contiene informazioni riguardanti le mete che Lonely Planet consiglia perché in quel determinato anno accade qualcosa in particolare. Al suo interno vi sono classifiche di destinazioni come i top 10 Paesi, città e regioni, le tendenze di viaggio per il relativo anno e le destinazioni più convenienti.

Nel 2017 le tra le destinazioni top c’era il Canada, perché festeggiava il centocinquantesimo anniversario della nascita del Paese, sancita dal Constitution Act che ne determinò l’autonomia. La meta è piaciuta molto ai nostri viaggiatori, come gli Stati Uniti, consigliati per il centenario dei parchi nazionali: c’erano infatti tariffe particolari, e sono state aperte zone in genere non accessibili al pubblico.

Tra le mete più gettonate negli ultimi anni c’è anche il Portogallo, con un occhio di riguardo per Lisbona che è la destinazione favorita dai viaggiatori all’interno del Paese. Inoltre, tra il 2016 e il 2017 hanno suscitato grande interesse Cuba e l’Islanda, per il fatto di essere entrambe isole molto particolari che incuriosiscono i viaggiatori.

L’Avana, Cuba

Quali saranno le mete da non perdere nel 2018?

Nel Best in Travel 2018 troviamo, per quanto riguarda l’Italia, Matera. La città diventerà Capitale della cultura nel 2019, ma è già pronta a ospitare i visitatori, poiché ha intensificato le attività culturali e, non essendo ancora troppo turistica, è meglio visitabile. Inoltre, a fine dicembre è uscita la prima guida delle Dolomiti, meravigliosa destinazione Patrimonio dell’Unesco, e tra pochi giorni verrà pubblicata la prima guida Piemonte, regione che sebbene poco conosciuta offre un connubio perfetto tra storia, arte e natura tutto da scoprire.

Il viaggiatore Lonely Planet è molto curioso e vuole visitare anche luoghi meno consueti: nel 2018 il Best in Travel consiglia la Georgia, che un secolo fa aveva avuto un breve periodo di indipendenza e festeggia quest’anniversario. Il Paese è ubicato in una regione che ha mantenuto uno spirito tradizionale molto forte, quindi c’è molto da scoprire all’interno di essa.

Per quanto riguarda l’Europa, l’Andalusia è una di quelle regioni che hanno una combinazione vincente tra clima meraviglioso, gente meravigliosa, arte e cultura. Siviglia si sta trasformando in una città sempre più vivibile ed ecologica, e dato che nel 2018 cade l’anniversario della nascita del pittore Murillo, ci saranno diverse mostre dedicate a lui stesso e all’arte barocca.

Un’altra città europea da visitare nel 2018 è Anversa, che quest’anno offre un mix di arte barocca, ospitando un’importante rassegna di pittura a cui prenderanno parte anche artisti fiamminghi. Inoltre, si stanno riqualificando gli spazi più periferici con opere d’arte e architetture particolari e interessanti: la città vuole allargarsi tramite iniziative culturali anche al di fuori del tracciato turistico classico relativo al centro storico.

Anversa, Belgio

Fuori dal continente europeo, la destinazione top del 2018 è il Cile, che festeggia l’importante anniversario dei 200 anni di indipendenza: per l’occasione, è aumentata la quantità di voli che raggiungono il Paese. Il luogo che il viaggiatore indipendente e avventuroso preferisce all’interno del territorio cileno è Valparaiso, città d’arte costiera, dove si respira un’atmosfera suggestiva tra il romantico e il bohémien.

I flussi turistici negli ultimi anni hanno subito anche il fascino del Giappone. Lonely Planet consiglia di visitarne i luoghi meno noti, specialmente la Penisola di Kii che ora è più accessibile e ancora poco turistica.

Ci sono mete che non passano mai di moda?

Una delle destinazioni top di sempre tra le città continua ad essere New York, la cui guida è in cima alle classifiche di vendita da moltissimi anni. In Italia invece è indiscutibilmente la Sicilia, che piace sempre ai viaggiatori.

New York, USA

Ci sono invece destinazioni che hanno riscosso interesse per tempi molto brevi?

La città di Stoccolma ha meno successo rispetto agli anni scorsi per l’emergere di altre destinazioni, e la stessa cosa succede in America latina per la Bolivia, ora meno visitata perché offuscata dal successo turistico di Cile ed Argentina.

Una delle guide meno vendute negli anni è stata quella di Seoul, ma era stata pubblicata anni fa, quando i tempi non erano ancora maturi. Anche la Tunisia era una destinazione molto amata dai visitatori, e oggi Lonely Planet non ha guide su di essa in catalogo.

Viaggi e sicurezza: c’è davvero paura?

La sicurezza inevitabilmente influisce sui flussi turistici, ma alcune destinazioni, come ad esempio Parigi e Barcellona, subiscono un contraccolpo nell’immediato e in seguito si riassestano. Da quello che vediamo e che i nostri viaggiatori ci comunicano attraverso i social e le mail, percepiamo che si continua a viaggiare, per fortuna. Il viaggio è sempre un elemento forte, va oltre alla paura.

Siviglia, Andalusia, Spagna

Cosa cerca oggi il turista?

I viaggiatori di Lonely Planet cercano luoghi particolari e viaggi in cui fare cose, vivere esperienze. È per questo che pubblichiamo anche libri tematici che danno indicazioni su come viaggiare alla scoperta di nuovi luoghi on the road, a piedi o in bicicletta. Si cercano viaggi d’esperienza, che permettano di conoscere un luogo non solo attraverso una visita di passaggio, ma anche tramite attività, per vedere tutto più da vicino. Il viaggiatore è consapevole, si informa e conosce i posti, li vive in modo più approfondito anche attraverso il contatto con i locali e la loro cucina.

Lei dove andrà nel 2018?

A Berlino, che non ho mai visto in estate, e in Asia Centrale, probabilmente nelle zone dell’Iran, ma il viaggio è ancora tutto da costruire.

Outsport: combattere l’omofobia e la transfobia nello sport

Oustsport, la prima iniziativa a livello europeo creata per raccogliere documentazione scientifica sul fenomeno dell’omotransfobia nello sport, si pone l’ambizioso obiettivo di valorizzare il mondo sportivo come luogo di formazione e contrasto alle discriminazioni in continuità con la scuola e con la famiglia. Nata alcuni anni fa, Outsport è entrata a far parte del progetto Erasmus+, cofinanziato dall’Unione Europea. Abbiamo intervistato Rosario Coco, uno dei fondatori dell’iniziativa, che è anche project manager Erasmus+.

Quali sono gli obiettivi del vostro progetto?

Sin dall’inizio la nostra idea è stata quella di lavorare sulle discriminazioni contro le persone LGBTI (lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali) in maniera innovativa, dal punto di vista dei target, delle metodologie e di un approccio non più meramente identitario, ma concettuale, basato sulla radice sessista e maschilista del pregiudizio omotransfobico.

Come siete riusciti a coinvolgere l’Unione Europea?

Grazie a persone che avevano già esperienza, come per esempio Klaus Heusslein, ex co-presidente della European Gay and Lesbian Sport Association, che ci ha aiutato a individuare le associazioni partner, e a uno staff europeo e italiano che riassume diverse esperienze professionali e di attivismo. Nel maggio 2016, dopo due tentativi di presentazione della application, siamo riusciti a presentare il progetto con Gaycs, dipartimento LGBTI dell’ente di promozione sportiva AICS (Associazione Italiana Cultura e Sport), come promotore nell’ambito dell’azione Sport del programma Erasmus+. Ci eravamo dati l’ambizioso obiettivo di realizzare la prima ricerca europea sulle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere nello sport.

Si tratta di una ricerca molto importante: ci racconti come è nata?

Quando abbiamo scritto il progetto, nella prima versione del 2015, era da poco uscito “Out on the fields” (Fuori in campo), realizzato in Australia da Erik Denison, il primo studio specifico al mondo, che copriva principalmente Australia, Stati Uniti e Regno Unito. Oltre a quello c’era solo un dato sul sondaggio dell’Agenzia dell’UE per i Diritti Fondamentali (FRA) del 2012, per cui metà del campione (94mila persone in tutta l’Unione Europea) dichiarava di evitare determinati luoghi per paura di vivere apertamente la propria identità; tra loro, il 42% sosteneva di evitare gli ambienti sportivi. Data questa scarsezza di dati, abbiamo coinvolto la Deutsche Sporthochschule (Università dello sport tedesca) di Colonia, un’eccellenza mondiale nel settore, che dispone al suo interno anche di un dipartimento di sociologia e studi di genere.

Come si è svolta la ricerca? Quali risultati vi aspettate?

Abbiamo realizzato un questionario attraverso una consultazione molto fruttuosa tra tutti i partner. Ognuno ha fatto il suo, dall’esperienza accademica a quella dell’attivismo sul campo, passando per diverse professionalità. Tutto ciò ci permetterà di avere più informazioni sull’esperienza concreta degli atleti LGBTQIA e di chi, più in generale, ha subito omotransfobia nello sport (anche le persone eterosessuali possono essere colpite da questa tipologia di discriminazione). A febbraio inizierà la diffusione via web, con una specifica campagna social nelle diverse lingue del progetto.

Gli sport sono di certo una grande opportunità per promuovere il rispetto per le identità di genere e gli orientamenti sessuali. Tuttavia in alcuni ambienti sportivi, come quello del calcio, sembra difficile riuscire anche solo a vincere l’omofobia – anche se alcuni paesi come la Germania sono più impegnati di altri su questo fronte [Il Grande Colibrì]. Cosa si può fare?

Occorre rovesciare la prospettiva: intervenire non si può, si deve! Che lo si voglia o no, che si parli dei ragazzi che giocano per strada, dei campioni che sono un esempio per tutti o dei tifosi, lo sport è uno spazio di educazione – o di diseducazione. Outsport, concentrandosi sullo sport di base, ha individuato alcuni meccanismi di intolleranza e discriminazione che sono comuni a molte discipline.

E quali azioni avete sviluppato?

Prima di tutto abbiamo creato i Rainbow Tips (Consigli arcobaleno), uno dei primi risultati della campagna di sensibilizzazione. Successivamente gli obiettivi che abbiamo individuato per utilizzare lo sport come strumento educativo sono state la formazione dei formatori e la costruzione del Final Training Toolkit, strumenti utili per gli operatori dello sport. Infine, al termine del progetto è prevista una relazione per la Commissione europea. Nei prossimi mesi cercheremo poi di coinvolgere atleti e atlete celebri che sostengano la nostra causa, in particolare dando visibilità alla ricerca scientifica e al questionario che verrà lanciato a febbraio.

Il vostro progetto riguarda cinque nazioni: Italia, Scozia, Germania, Austria e Ungheria. Come mai avete scelto di proporre Outsport in questi stati, apparentemente molto distanti tra loro riguardo al rispetto nei confronti delle sessualità “non conformi”?

La filosofia generale della programmazione europea 2020, in cui si inserisce il programma Erasmus+, ci chiede in buona sostanza di mischiare le carte, di condividere abilità, culture e conoscenze, di metterci in gioco. L’Unione Europea ha diversi limiti, strutturali e politici, ma esperienze di questo genere sono molto utili in un periodo storico in cui si alzano muri, anzi forse sono anche un punto di partenza per provare a risolvere i limiti dell’UE.

Quali sono le realtà coinvolte?

Il partenariato è stato costruito a partire dall’ente capofila, AICS. Abbiamo subito individuato nell’università dello sport di Colonia il partner ideale per la riuscita della ricerca. Poi abbiamo pensato a un’associazione di grande esperienza sul tema e con diversi progetti all’attivo nell’ambito dello sport di base come LEAP Sport Scotland (Leadership, uguaglianza e partecipazione attiva negli sport per le persone LGBTI in Scozia). Abbiamo quindi trovato nel Vienna Institute for International Dialogue and Cooperation (Istituto per il dialogo internazionale e la cooperazione di Vienna; VIDC) un soggetto esperto in progetti contro le discriminazioni che hanno coinvolto le grandi istituzioni del calcio come l’UEFA. Infine, abbiamo scelto l’associazione ungherese Friss Gondolat Egyesület (Organizzazione per idee fresche; FRIGO) per contribuire allo sviluppo di questi temi in un paese in grave difficoltà sul piano democratico.

Come vi dividete i compiti?

Colonia si occupa della ricerca, LEAP del follow-up e dei nuovi progetti, AICS e VIDC insieme stanno curando gli Info Day, mentre FRIGO, aiutata da tutti noi, ha l’importante compito di organizzare la conferenza finale a Budapest a fine 2019.

Come pensate di agire in un’Ungheria che appare sempre più insensibile ai temi dei diritti?

In effetti FRIGO aveva organizzato gli Eurogames (i giochi LGBTI europei) nel 2012, ma da allora la situazione è notevolmente peggiorata, al punto che abbiamo avuto notevoli difficoltà anche a trasferirgli la quota di budget, per via della legge approvata la scorsa primavera che limita i finanziamenti dall’estero a enti e associazioni. Quindi partiamo dalle basi, per esempio, oltre ai Rainbow Tips [Outsport], fornendo alcune conoscenze essenziali e contestualizzate nel mondo dello sport [Outsport], ovviamente anche in ungherese. Inoltre abbiamo supportato la nascita di una rete: grazie al corso di formazione per formatori, gli attivisti di FRIGO sono entrati in contatto con una ricercatrice in psicologia sociale molto preparata sui nostri temi, con cui hanno già realizzato un evento lo scorso mese, e con Foldi Lazlo, formatore per il Consiglio d’Europa nell’ambito del No Hate Speech Movement (Movimento contro i discorsi d’odio).

Dopo le cinque nazioni coinvolte, pensate a una possibile estensione del progetto a tutti gli stati dell’Unione Europea?

Certo, il progetto si presta a più di un follow-up, a partire dai risultati della ricerca, che può essere estesa anche agli altri paesi. La comunicazione, che parla già quattro lingue, potrebbe svilupparsi fino alla realizzazione di un magazine tematico sull’argomento, magari aperto anche a prospettive extra-europee. Infine, dopo aver formato i formatori e aver realizzato il Training Toolkit, la formazione va messa in pratica a livello locale con le National Trainings, che richiedono nuovi sforzi di progettazione a livello nazionale ed europeo. Tra i nostri obiettivi finali c’è la presentazione di una relazione alla Commissione per promuovere il tema dell’omotransfobia all’interno del prossimo Piano Europeo sullo Sport. La lotta all’omotransfobia nello sport, ad esempio, interessa anche le donne eterosessuali, spesso “accusate” di essere lesbiche perché fanno sport: è un passo avanti rispetto alla semplice idea della “presenza” delle donne nello sport.

Scritto da Michele.

Immagine di copertina: Profilo Facebook di Outsport.

Fonte: Il Grande Colibrì

CILD Names Wajahat Abbas Kazmi Activist of the Year

As promotor of the “Allah Loves Equality” campaign, Italian-Pakistani film director Wajahat Abbas Kazmi traveled to Pakistan in November, along with fellow activist and member of Il Grande Colibrì association, Elena De Piccoli, to film a documentary that will be entitled like the campaign. The film will finally raise up the voices of gay, lesbian and transsexual people in Pakistan.

Defending Human Rights

Kazmi, who is also an activist with Amnesty International, returned from his recent trip to find a pleasant surprise. He was named Young Activist of the Year from the Italian Coalition for Freedom and Rights (CILD). The award is given to individuals who distinguish themselves in the promotion and protection of civil liberties, human rights and democratic principles in Italy. The director received the award Friday December 15 at 5pm during a ceremony at the “Biblioteca interculturale Cittadini del mondo” in Rome.

In addition to Kazmi, others will be awarded for human rights work in different fields, including: Swimmers Manila Flamini and Giorgio Minisini, former footballer Damiano Tommasi, Manlio Milani, the “Giulio siamo noi” Twitter account (set up following Giulio Regeni’s murder), lawyer Fabio Anselmo (in the forefront of trials for people who have died due to police brutality), recently deceased journalist Alessandro Leogrande, and public employee Franco Lorenzoni, who launched a campaign to approve the “ius soli” citizenship law for foreigners born in Italy.

“We are very pleased with the award given to Wajahat,” who is also one of the founders of association, said Il Grande Colibrì president Pier Cesare Notaro. “The ‘Allah Loves Equality’ campaign has been a great success from many standpoints. Many people have expressed interest, we have raised awareness in order to fight prejudice, and we’ve been able to support the making of a very important documentary film. None of this would have been possible without Wajahat’s courage and commitment, as well as that of other activists in our association. This award is an important milestone on the road to promote acceptance of LGBTQIA Muslims that started over 6 years ago in a climate of generalized skepticism and often open hostility.”

Wajahat Abbas Kazmi durante il Pride di Roma.

Kazmi’s Own Words

“I am very pleased with this award, even though I do believe that may other people deserve it as much or even more than me,” Wajahat Abbas Kazmi said. “It was great to be welcomed back to Italy with this award.” The director then spoke briefly about the four weeks he spent filming and gathering large amounts of material for the documentary, which now must be sifted through and edited. “My trip to Pakistan was exciting and we connected with a lot of activists and other people.”

“I think we have a lot to learn from these people”, Kazmi went on to say. “The vast majority told us that they do not want to leave their country because ‘if we leave this country, who will be here to bring change?’ We met people in Pakistan who were much more courageous in coming out than immigrants and second generation immigrants living in Europe – even though in Europe they experience less discrimination and do not risk their life at the hand of intolerant people who consider being gay to be a form of blasphemy.”

Documentary in Progress

Filming was aided by Kazmi and De Piccoli’s meticulous preparation and their network of contacts and friends who helped the small troupe optimize their time. “But we did have some difficult moments” the two activists explained. They found themselves in the middle of Islamic protestors demanding the resignation of Zahid Hamid, the Minister of Justice, who then started yelling at a transgender activist [Dawn]. “We were literally just a few feet from the protestors who were launching verbal attacks of blasphemy. Then checkpoints were set up at every road out of the city, but luckily the Minister’s resignation a few days later calmed things down.”

In the following days, we will be talking more about the progress in working on the “Allah Loves Equality. Can you be Gay and Muslim?” documentary. We would like to thank all those who have contributed to our crowdfunding so far. We would also like to remind you that contributions are open until the end of year on the Produzioni dal basso website. The minimum fundraising goal has been reached, but there are a lot of expenses and the post-production work has additional costs. So, if you have a bit of money left from holiday shopping, you know how to use it!

Article written by Michele. Translation by Peter Luntz.

Cover Image: LGBT Rainbow Flag, © 2008 Ludovic Berton (Wikimedia Commons).

Fonte: Il Grande Colibrì

Parker Solar Probe: un viaggio verso il Sole

Sicuramente, il 2018 sarà un anno importante per la scienza. Già il 2017 ha anticipato ciò che ci si attende dai periodi a venire: si pensi, ad esempio, al premio Nobel per la fisica assegnato ad ottobre per l’osservazione delle onde gravitazionali condotta dal rilevatore LIGO. Sono state così poste le basi per la nascita di una nuova astronomia, che si fonda sulla misura delle onde gravitazionali invece che su quella dei fotoni, permettendo la “visione” di oggetti estremi come buchi neri e altri corpi massicci.

Per quanto riguarda l’osservazione spaziale nel 2018, invece, tra le tante missioni in programma, una menzione particolare va fatta per la Parker Solar Probe della Nasa.

Nata come Solar Probe Mission, l’attuale nome è stato assegnato nel maggio del 2017 in onore del fisico Eugene Parker, che nel 1958 pubblicò un articolo sull’Astrophysical Journal chiamato “Dynamics of the interplanetary gas and magnetic fields”. Parker, grazie ad osservazioni fatte precedentemente da Ludwig Briemann sulla coda delle comete e da Sydney Chapman sullo strato più esterno della superficie solare – la corona – scoprì che quest’ultima espelle del plasma ad alta velocità. Questo fenomeno oggi viene comunemente chiamato vento solare. E’ proprio questo uno degli eventi della meteorologia spaziale che la Parker Solar Probe andrà a monitorare. L’obiettivo della missione è infatti quello di raccogliere un insieme di misurazioni e immagini volte a migliorare la comprensione attuale della corona e dell’origine del vento solare. In particolare si cercherà di capire come calore ed energia si diffondano attraverso la corona e quale è la causa dell’accelerazione del vento solare, cosa che la teoria elaborata da Parker non abbraccia.

Ricostruzione grafica della sonda Solar Probe Plus che si avvicina al Sole (Fonte: Nasa).

La data di lancio è prevista tra il 31 luglio e il 9 agosto 2018, dal Kennedy Space Centre in Florida e il carico sarà trasportato dal lanciatore Delta IV-Heavy. Lo scopo della missione è avvicinarsi, sfruttando la gravità di Venere, come mai prima d’ora al Sole: circa 6 milioni di chilometri dalla sua superficie, una distanza sette volte inferiore a quella di qualsiasi altra sonda spaziale.

È facile immaginare quanto le condizioni in prossimità del Sole siano estreme. Come annunciato dalla Nasa, la sonda arriverà talmente vicino da osservare la velocità del vento solare cambiare da subsonica a supersonica e attraverserà la regione in cui si liberano particelle ad alta energia che viaggiano verso la Terra. Lo schermo protettivo della sonda è in materiale composito in matrice grafitica rinforzato da fibre di carbonio (detto RCC o Reinforced carbon-carbon), che le permetterà, nel punto di massima vicinanza con il Sole, di resistere a temperature di circa 1377 °C. La strumentazione sarà quindi concentrata nella parte centrale protetta dallo scudo, per massimizzare la copertura dalle radiazioni dirette provenienti dal Sole.

L’importanza di questa missione risiede nel significato, anche e soprattutto quotidiano, che il Sole riveste per la vita sulla Terra. Data la sua vicinanza, studiare il Sole è più facile rispetto ad altre stelle lontane anni-luce, per cui, più lo si conosce, più si impara riguardo le stelle disperse in tutto l’universo. Inoltre, come è facile intuire, il Sole è fonte di luce e calore per la Terra, quindi studiarlo vuol dire conoscere come la vita sul nostro pianeta si sia sviluppata.

Immagine dei flussi di vento solare nello spazio e della sonda Solar Wind della Nasa (NASA Goddard Space Flight Center/Flickr/CC BY 2.0)

Infine, perché studiare il vento solare? Esso è un flusso di particelle cariche generato dall’espansione della corona che entra in contatto con il campo magnetico terrestre. Variazioni e disturbi nella pressione dinamica del vento solare possono quindi perturbare la magnetosfera creando effetti altamente dannosi come il danneggiamento e l’accorciamento dell’aspettativa di vita dei satelliti o l’interferenza con i sistemi di bordo. Quindi, fa sapere ancora la Nasa, conoscere le cause che provocano tali effetti servirà per proteggere i satelliti da cui dipendiamo.

Insomma, nonostante gli incredibili successi già raggiunti, l’era spaziale, per dirla con le parole di Ernst Stuhlinger, è solo all’inizio, e ciò che il suo futuro riserva può essere contemplato con sempre rinnovata fiducia.

In copertina: un lungo filamento di materia solare che galleggiava nella corona solare erutta nello spazio, 31 agosto 2012 (NASA Goddard Space Flight Center/Flickr/CC BY 2.0)

Nuovo sistema elettorale e vecchi dubbi: cosa cambia (o non cambia) col Rosatellum bis?

Il Parlamento è stato sciolto e si voterà il 4 marzo 2018. Ma con quale legge elettorale? Il cosiddetto Rosatellum bis, la legge elettorale promossa da Ettore Rosato, capogruppo PD alla Camera dei Deputati, e approvata definitivamente lo scorso ottobre, è un sistema misto, in cui il 36% dei seggi viene assegnato con sistema maggioritario (in ogni collegio gareggiano un candidato per ogni partito e vince chi tra loro prende anche solo un voto in più) e il 64% con sistema proporzionale (in ogni collegio ciascun partito presenterà un listino composto da due a quattro candidati, che si scontreranno con i listini degli altri partiti). Il “bis” associato al nome del sistema elettorale deriva dal fatto che precedentemente lo stesso Rosato aveva proposto un sistema anch’esso misto (50% maggioritario e 50% proporzionale), detto appunto Rosatellum, che però era naufragato sul nascere.

Come nel precedente sistema Mattarellum, la legge elettorale che fu in vigore dal 1993 al 2005, e nella successiva legge Calderoli (conosciuta come Porcellum, in vigore dal 2005 al 2014), anche nel Rosatellum bis rimane in vigore una rilevante distinzione tra il metodo di elezione dei deputati e quello dei senatori. L’articolo 57 della Costituzione, infatti, impone l’elezione dei senatori su base regionale, mentre l’assegnazione dei seggi della Camera rimane effettuata su base nazionale. Viene così di fatto lasciata intatta la dicotomia tra i due sistemi, che in passato aveva creato governi con “maggioranze zoppe”, ossia esecutivi che potevano non avere una maggioranza in una delle due camere, limitando in questo modo la governabilità del paese.

Quanto allo sbarramento, perché un partito possa entrare in Parlamento, il Rosatellum bis prevede una soglia minima del 3% su base nazionale sia al Senato che alla Camera. In aggiunta è però prevista anche una soglia minima del 10% per le coalizioni di partiti, all’interno delle quali almeno una lista dovrà superare il 3%. Per ciò che attiene la parte proporzionale di questo sistema elettorale è bene sottolineare la presenza delle cosiddette liste bloccate, cioè nelle quali saranno i partiti a nominare la maggior parte dei candidati. Questa è una scelta che per alcuni costituzionalisti sarebbe in contrasto con le indicazioni  della sentenza n. 1 del 2014 della Corte Costituzionale, che bocciò i listini bloccati dell’allora Porcellum, poiché non garantivano la possibilità, da parte dell’elettore, di poter scegliere chi votare esprimendo la propria libera preferenza.

Gli italiani saraano chiamati alle urne il 4 mrzo 2018 (Niccolò Caranti/CC BY-SA 2.0).

Dopo la parentesi del cosiddetto Italicum – bocciato dal referendum costituzionale l’anno passato – che premiava le singole liste, tornano inoltre in auge le coalizioni, con le quali i partiti potranno raggrupparsi per sostenersi a vicenda, avendo però la possibilità di scioglierle dopo le elezioni. Ciò potrebbe minare non poco la certezza del voto e la conseguente ricerca di una maggioranza stabile.

Altra novità interessante, anche per le conseguenze politiche, sarà che il voto verrà espresso su una sola scheda (e non con una scheda per la parte proporzionale ed un’altra per quella maggioritaria come prima) senza possibilità di voto disgiunto. Non si potrà cioè votare il candidato dei “Bianchi” presente nella parte maggioritaria e poi scegliere, nella parte proporzionale, il partito dei “Neri”.  Ciò di fatto toglierà agli elettori la libertà di scegliere un partito separatamente da un candidato, obbligandoli a scegliere un abbinamento fisso.

Ma quali saranno le ripercussioni sui partiti dopo le elezioni col nuovo sistema? Le larghe intese potrebbero essere l’unica speranza per un governo stabile, ma secondo le stime dei ricercatori dell’Istituto Carlo Cattaneo, anche con questo sistema nessun partito o coalizione riuscirà a ottenere la maggioranza assoluta alla Camera. Per il Partito Democratico, che ha fortemente voluto questa legge, il saldo sarebbe in ogni caso negativo poiché, nonostante possa guadagnare 20 seggi, rispetto alle scorse elezioni sarebbe comunque prevista una riduzione di ben oltre 100 seggi. Al contrario, il Movimento 5 Stelle risulterebbe perdere 24 seggi, ma ne otterrebbe in ogni caso circa 60 in più rispetto alle elezioni del 2013. Sfonda invece la destra con la Lega, che passerebbe dagli attuali 20 seggi a 89, e anche Fratelli d’Italia raddoppierebbe, passando da 10 a 20 seggi. In questa maniera la coalizione di centrodestra supererebbe il Movimento 5 Stelle e il PD.Gli altri partiti della sinistra, nel caso si presentassero uniti, otterrebbero invece poco più di 20 seggi. I piccoli partiti risulteranno quindi fondamentali soprattutto dopo le elezioni, nel caso, molto probabile, in cui le compagini che formano le coalizioni dovessero cambiare. Al Senato è infatti prevedibile un distacco minimo in numero di seggi tra i primi due partecipanti al voto, cosa che farebbe dei piccoli partiti i proverbiali aghi della bilancia in grado di spostare gli equilibri della maggioranza.

Una buona legge elettorale dovrebbe cercare di conciliare due aspetti fondamentali della vita politica di un paese: governabilità e principio di rappresentanza. Il Rosatellum bis, come le precedenti leggi elettorali, segue la bandiera della governabilità a tutti i costi (senza comunque raggiungerla), tralasciando nuovamente il legame, che dovrebbe essere più forte possibile, tra gli eletti e i loro elettori. E’ infatti la contiguità tra il rappresentante e il suo bacino elettorale di riferimento ad generare nel primo quel senso di responsabilità, quella spinta positiva a compiere il proprio operato con disciplina e onore, come recita l’art. 54 della nostra Costituzione, che dovrebbe guidare il mondo della politica. Ad ogni modo, attendiamo fiduciosi di essere smentiti dai fatti.

 

In copertina: foto di Agenziami (Flickr/CC BY-SA 2.0)

Ti affido la mia vita: il rapporto medico – paziente

Fidarsi di qualcuno non è quasi mai un processo semplice e istantaneo: nella maggior parte dei casi ci vogliono parecchio tempo ed intesa per lasciarsi andare ed affidarsi, gradualmente, a una persona. Come reagiremmo quindi se ad un tratto ci trovassimo a non avere scelta, se la fiducia diventasse improvvisamente un bisogno immediato ed essenziale verso la persona da cui dipende, letteralmente, la nostra sopravvivenza? Persona che a malapena conosciamo, ma che sta per operarci?

Ogni anno sono circa 230 milioni le persone che, in tutto il mondo, vengono sottoposte a interventi chirurgici e si trovano perciò, senza volerlo, nella condizione di dover riporre la loro fiducia interamente nelle mani di un medico per poter guarire. E si parla di fiducia cieca, considerando le varie implicazioni post-operatorie che spesso si verificano. Tra tutti questi pazienti, 4 milioni di essi sono italiani. Emanuela, 24 anni, dottoranda, anche se ora non vive più in Italia, è stata una di loro quando, qualche anno fa, ha dovuto subire un trapianto. Perciò le abbiamo fatto qualche domanda sul suo rapporto di fiducia con il medico a cui si è affidata.

 

Raccontaci il tuo rapporto con il medico in cui hai riposto la tua fiducia: in che situazione ti trovavi, come l’hai conosciuto, per quanto tempo hai avuto a che fare con lui?

Ho conosciuto il medico in cui ho riposto la mia fiducia 8 anni fa, quasi 9, perché mi era stata diagnosticata una forma leucemica. Il tipo di rapporto? Beh, data l’età che avevo all’epoca, non è stato il classico rapporto medico-paziente che si stabilisce tra adulti, ma è stato sicuramente più informale. Nonostante il mio problema di salute credo che i toni fossero comunque abbastanza rilassati. Tuttora ho a che fare con lui, in maniera sporadica perché ho una visita di controllo una volta all’anno, ma per 4-5 anni il rapporto è stato più frequente e lo vedevo tutti i giorni. Era come se ci vedessimo solo perché dovevamo discutere di questa storia. Io in un certo senso mi interessavo poco della situazione in termini medici, perché era più grande di me e non potevo gestirla.

Quali sentimenti hai provato?

Inizialmente non ho provato paura perché, ripeto, era una cosa più grande di me ed ero più che altro incosciente. Quando ero in ospedale e dovevo fare il trapianto, invece, sì che sentivo il dolore, e tra me e me dicevo “ok, è una brutta malattia, fa male, ho paura!”. In parte ho provato rassegnazione, perché dovevo restare in camera sterile ed ero sottoposta a regole ferree. D’altra parte però avevo molta voglia di uscire da lì e quindi non potevo permettermi di rassegnarmi del tutto. La vera paura comunque è venuta dopo il trapianto, perché è quello il momento dove subentrano tutti quei meccanismi che non puoi controllare e pensi “sono fragile, da un momento all’altro potrei stare male o morire, non riesco a controllare la mia vita”. Il mio medico, tuttavia, ha avuto la capacità di darmi la fiducia necessaria ad affrontare la malattia e anche le sue conseguenze.

Quando hai realizzato che ti stavi affidando completamente ad un’altra persona, come ti sei sentita? Spaventata?

Sì, sicuramente, anche perché nel momento in cui stai male non hai il controllo del tuo corpo e quindi speri che il medico sappia cosa fare e ti ci affidi. In questo caso, a maggior ragione non avevo capacità di scelta.

 

Ma il fatto di fidarti totalmente non ti lega un po’ a una persona?

Il tempo di legare con un medico è spesso ristretto, ma nel mio caso tra diagnosi e trapianto erano passati due anni e quindi abbiamo avuto modo di instaurare un rapporto. Essendo lui un tipo molto alla mano, rilassato, tranquillo e scherzoso, è stato abbastanza facile: lavora in pediatria, quindi deve cercare di essere così. Il suo tipo di approccio mi ha facilitato la cosa, anche se forse in un ambiente diverso sarebbe stato più distaccato: l’età del paziente probabilmente condiziona un po’ il medico. Ad esempio, ora, alle visite di controllo, con un occhio più critico e adulto mi accorgo che soffre come medico, non so se perché lavora in pediatria o in generale. Secondo me è bravo nel rapporto medico-paziente, perché riesce a interagire sia con i genitori del bambino malato sia col bambino stesso, ma non in maniera puerile: tratta i più piccoli come dovrebbero essere trattati. È dolce e sa dare conforto anche ai genitori.

 

Quindi gli sei grata, in un certo senso gli vuoi bene?

Quando vado a fare il controllo, anche se sono in day hospital vado sempre a trovarlo, lui ride e scherza con me e mi dice sempre: “Ah, mai sei ancora qua?”. Gli voglio un bene dell’anima, oggi come allora, forse adesso anche di più, perché sono meno una “paziente” e riesco a guardarlo con occhi diversi. Capisco quando sta male o è a disagio, c’è una sorta di empatia. So quando scherzare e quando contenermi, perché magari ha appena dato una brutta notizia a qualcuno. Vorrei anche consolarlo, ma non so come fare, perché, per quanto ci sia una sorta di amicizia, sento che non posso, è pur sempre il mio medico. Quindi sì, si crea anche un rapporto di amicizia col medico, oltre che di fiducia. Certo, non il livello di intimità che hai con i tuoi grandi amici, ma i toni possono essere rilassati e confidenziali.

Se dopo quest’esperienza dovessi spiegare che cos’è la fiducia, come la descriveresti?

In generale mi sono sempre fidata molto delle persone, anche se so di avere un carattere difficile. Questa esperienza ha cambiato un po’ il mio rapporto con la fiducia, perché mi fido e mi lascio andare con più facilità. Descrivere la fiducia? Beh, penso che sia l’affidarsi completamente a un’altra persona senza che questa ti chieda niente in cambio, probabilmente. Aspettarsi comunque di avere il 100% da questa persona, nonostante a volte si resti delusi. Questo magari accade solo perché ci sono diversi parametri che determinano un 100% e non sono uguali per tutti. Ne vale sempre la pena, però: qualcosa si impara, qualcosa si ottiene. Nel mio caso sono stata molto fortunata.

Ti amo 3000 km lontano, ovvero le relazioni a distanza

«Pronto, mi senti? …ehi?! Mi senti??». Questo è il preludio delle conversazioni che talvolta avvengono tra due compagni che non condividono la stessa città. Avere una relazione a distanza è comune di questi giorni, soprattutto per i giovani tra i 20 e i 35 anni che si spostano per studio o lavoro. Nell’ultimo decennio sono raddoppiati i numeri dei programmi volti a promuovere la mobilità giovanile all’estero. Ad esempio, i programmi finanziati dalla Commissione Europea per il progetto Erasmus+ al quale possono accedere studenti universitari, neolaureati e dottorandi. Ma non serve star conseguendo una laurea oppure essere già in possesso di tale titolo: il Servizio Civile Nazionale è destinato alla mobilità nazionale e internazionale. Come fare dunque a far coincidere le necessità lavorative e/o personali con il rapporto di coppia?

Fino a poco tempo fa venivano considerate relazioni impossibili, destinate al naufragio, se non alla perdita di fiducia verso il partner. Dagli Stati Uniti all’Inghilterra, fino ad arrivare in Italia, quello delle coppie a distanza è un vero e proprio fenomeno che riguarda milioni di persone che vivono in luoghi distanti l’uno dall’altra. Una circostanza che, secondo i dati Istat, coinvolge circa l’8% degli italiani, ovvero quasi 4 milioni di persone. Merito anche delle nuove tecnologie, quali video- chiamate in Skype, in Whatsapp e altre piattaforme che aiutano le persone a sentirsi emotivamente vicini. Pequod ha incontrato due giovani coppie che per un motivo e per l’altro vivono il loro amore a distanza. Qui le loro storie.

«Io e il mio ragazzo ci siamo conosciuti in università a Venezia», mi racconta Giulia, 28 anni, «dove mi ero trasferita per i miei studi, ma abbiamo iniziato a frequentarci durante un periodo di studio all’estero. Nel periodo universitario ci vedevamo quasi ogni giorno […] Una volta conclusa l’università, a inizio 2014, io sono tornata nella bergamasca per lavoro, mentre il mio ragazzo è rimasto in Veneto e la nostra è quindi diventata una relazione a distanza a tutti gli effetti.» Giulia mi racconta anche come «Whatsapp permette di condividere velocemente foto, pensieri, momenti della giornata con l’altro quando si ha un attimo libero. In questo modo ci teniamo aggiornati a vicenda sulle nostre giornate o magari ci mandiamo degli articoli che leggiamo e poi commentiamo insieme. Ci sentiamo inoltre due sere a settimana circa per telefono. Quello che conta di più, però, anche in una relazione a distanza, è trovare il modo di vedersi». Lei e il suo ragazzo Lucio, 29 anni, si vedono difatti ogni fine settimana, magari alternandosi negli spostamenti, ma sempre usufruendo di servizi economici quali BlaBlaCar «che ormai è diventato una costante dei nostri weekend. Permette spostamenti più veloci e orari molto più flessibili rispetto a soluzioni come Flixbus o il treno, e quindi ci consente di passare più tempo l’uno accanto all’altra senza dover spendere una fortuna ogni mese». Per Giulia, però, lo spostamento non è mai stato un problema, essendo un’amante dei viaggi. Tanto che, approffittando dell’origine veneta di Lucio, non perde occasione per esplorare angoli sconosciuti in Veneto o riscoprire luoghi nella sua regione lombarda.

Lucio pone invece l’attenzione su cosa significhi per lui vivere in un’altra città e regione: «Una relazione a distanza è una relazione che non puoi dare per scontata. Non è un rapporto di routine, entrambi i membri si devono impegnare e attivare per poter raggiungere l’altro. Qualcosa che se il sentimento non fosse sempre forte, in pochi sarebbero disposti ad affrontare». Cosa significa dunque vivere lontani? Separarsi per brevi o lunghi periodi influenza la relazione? Giulia si prende un po’ di tempo per rispodermi: «Credo che la questione più spinosa per una coppia a distanza sia quella della fiducia, soprattutto nei primi tempi. Non vivendo la quotidianità dell’altra persona devi fidarti al 100%, altrimenti si vive male la relazione e alla lunga il rapporto non può sopravvivere. Nel nostro caso devo dire che su questo punto non abbiamo mai avuto grossi problemi, siamo entrambi convinti che perché il rapporto funzioni entrambi dobbiamo godere della fiducia e del sostegno dell’altro». Lucio conferma la visione della compagna Giulia: in questo tipo di rapporti «la routine diventa dover cercare di organizzarsi per il prossimo viaggio, e litigare con Trenitalia, o il traffico in autostrada. Riuscire a vedersi è un dispendio non indifferente di energie, soldi e, soprattutto, tempo, che però viene ripagato dal passare anche solo un breve weekend con la propria compagna».

“Ulisse e le sirene”, II secolo d.C., mosaico pavimentale romano al Museo del Bardo a Tunisi.

Amore e compromessi sembrano dunque le chiavi per far continuare un rapporto, suggerimenti applicabili a qualsiasi tipo di relazione, vicinissima o distante che sia. Tuttavia, la natura della relazione tra due persone è inevitabilmente modellata dallo scontro. Due persone, sconosciute, che iniziano a condividere la propria intimità. Anche nelle relazioni più promettenti le scintille di passione iniziale possono talvolta trasformarsi in incomprensioni e litigi. Tutto nella logica e conseguente evoluzione di un rapporto, diffidate da coloro che si chiamano amore e non ammettono mai tensioni! «Quando ci capita di litigare, personalmente preferisco risolvere la questione faccia a faccia quando ci vediamo, perché per telefono si creano più malintesi. All’inizio della nostra storia, dopo che sono rientrata dal trimestre di studio all’estero, lui è rimasto lì per un altro mese circa ed è stato molto difficile. All’epoca non lo sapevo, ma Lucio non è certo un chiacchierone al telefono e le sue risposte monosillabiche alle mie domande entusiaste erano abbastanza frustranti per me, tanto che avevo iniziato a credere che lui non fosse così interessato alla nostra relazione. A un certo punto, infastidita, avevo deciso di smettere anch’io di parlare, con il risultato che le nostre conversazioni erano costellate di silenzi lunghissimi. Se qualcuno ci avesse sentiti avrebbe pensato che eravamo pazzi: una in Italia, l’altro dall’altro capo del mondo al telefono per interi minuti senza parlare! Non appena è tornato e ci siamo rivisti faccia a faccia, invece, le cose sono cambiate e ci siamo chiariti».

Alcuni rapporti a distanza superano i confini nazionali. Alessandra, 28 anni, vive da pochi mesi a Londra, mentre il suo compagno Andrea (40 anni) è rimasto in Italia, separati da impegni di formazione e due crescite professionali differenti. «La nostra relazione è iniziata poco prima che io partissi per il Regno Unito. Sapevamo entrambi a quello che stavamo andando incontro, ma ciò nonostante l’attrazione mentale e fisica era troppo forte per lasciar perdere», mi confida Alessandra. «Forse per incoscienza, forse per passione, abbiamo continuato a conoscerci attraverso le chiamate e videochiamate, facendo sempre attenzione a non creare incomprensioni tra noi due. Quando non puoi vivere il contatto fisico giornalmente, è complicato superare i momenti di difficoltà. Certe volte basta solo uno sguardo, un bacio… o anche solo una carezza per comunicarsi certe sensazioni. Attraverso il cellulare, invece, tutto è delegato alla parola. E certe volte parlare stanca». Andrea è sinceramente d’accordo con Alessandra sulla mancanza di avere ogni giorno un contatto fisico con la compagna. Sebbene Alessandra e Andrea sembrano condividere i pensieri di Giulia e Lucio, soprattutto per quanto riguarda il continuo investimento di tempo ed energia, Andrea desidera tuttavia aggiungere che nelle relazioni a distanza, soprattutto se appena nate, è sempre tutto un inizio: «Ogni volta sembra di ricominciare la nostra relazione. Spesso capita che al nostro primo incontro dopo mesi si debba concedere a entrambi del tempo per tornare alla consueta complicità».

Articolo scritto con il contributo di Lucia Ghezzi.

Fiducia è l’arte dei ciechi. L’incontro con i beni culturali secondo inChiostro

Proviamo a chiudere gli occhi e a muoverci nello spazio. La prima cosa che accadrà, sarà di incontrare un qualche ostacolo sul nostro percorso, un tavolo, una sedia, un divano, sbatterci contro ed inciampare. Con questo seppur semplice esperimento si può capire quanto senza la vista possa essere differente e complesso conoscere e interagire con il mondo. D’altronde gli occhi consentono una modalità estremamente facile ed immediata per conoscere, rapportarsi con gli altri e con l’ambiente circostante. Non tutti gli esseri umani, però, sono uguali. Qualcuno di noi non possiede tutti i sensi della percezione: qualcuno non sente gli odori, qualcuno è sordo, qualcun altro è cieco. Queste situazioni di deficit sensoriale comportano un diverso approccio nella comprensione e nel modo di confrontarsi con il mondo e con le altre persone.

La cecità e l’ipovisione sono fenomeni molto diffusi soprattutto in relazione alle malattie degenerative e all’invecchiamento della popolazione. Ma la mancanza totale o parziale della vista può permettere uno sviluppo facilitato del pensiero e della memoria, inoltre obbliga ad acuire gli altri sensi percettivi, anche quelli poco utilizzati dai vedenti come l’olfatto e il tatto (ricordandoci che quest’ultimo non è proprio solo delle mani, ma concerne tutto quanto il corpo). Se provate a parlare con un cieco, noterete con quale intensità ricordi fatti e persone: la sua capacità sensoriale ed esperienziale è diversa, amplifica l’attivazione delle percezioni e una modalità partecipativa della conoscenza.

La cecità, però, porta con sé un fondamentale problema motorio e spaziale. Spostarsi in una città o in casa propria, andare a fare la spesa, recarsi al lavoro potrebbe diventare un ostacolo quotidiano se non si facesse un buon uso della fiducia. Fiducia in se stessi e negli altri, siano essi persone o animali, che aiutano il non vedente a svolgere azioni ordinarie e quotidiane. Per i non vedenti e gli ipovedenti la fiducia è fattore imprescindibile per la conoscenza della realtà.

In merito a questa condizione umana Daniele Del Giudice scrisse nel 1988 un breve romanzo, Nel Museo di Reims, in cui con grande maestria di linguaggio racconta la giornata di Barnaba, un giovane ex ufficiale della Marina che pian piano perde la vista. Ormai le immagini per lui si confondono in «un’opacità indistinta e chiara», una sensazione che sta diventando quasi tattile. Barnaba decide di sfruttare il tempo che gli rimane per fissare nella memoria alcuni capolavori dell’arte e per questo si trova nel Museo di Reims tra le tele di Camille Corot, Théodore Géricault, Eugène Delacroix e Jacques-Louis David. Durante la visita fa la sua comparsa Anne, che con pazienza e attenzione descrive le opere presenti nelle sale, mostrandosi però talvolta poco precisa ed elusiva. Sembra inventare dettagli, e se deve dire che un vestito è giallo, non dice che è dello stesso colore di un limone o di un girasole, ma è «giallo come l’amore legittimo, o l’adulterio che lo rompe», utilizzando parole simili a quelle del pittore cieco John Bramblitt, che definisce «il nero un colore liscio e fluido, il bianco denso e corposo e le tonalità di mezzo derivano dalla combinazione delle varie densità». Le parole della giovane Anne, come quelle di Bramblitt, arricchiscono le opere di significati e particolari olfattivi ed uditivi, risvegliando poco a poco l’immaginazione di Barnaba e del lettore. Questo piccolo libro ci fa assaporare  tutta la bellezza dell’arte e dei suoi capolavori, facendoci riflettere su quanto sia importante l’accessibilità ai beni culturali.

L’associazione culturale inChiostro.Itinerari e incontri d’arte di San Paolo d’Argon (BG) si occupa di promuovere e valorizzare il patrimonio culturale locale. Come spiega il presidente Marco Ceccherini, «insieme a un gruppo di persone animate dalla passione per l’arte e dal desiderio di condividere la bellezza del proprio territorio, abbiamo iniziato circa due anni fa un percorso di promozione che punta alla conoscenza di questi meravigliosi luoghi d’arte, alla loro tutela e valorizzazione, anche attraverso le modalità di un rinnovato turismo culturale, che utilizza i nuovi sistemi di comunicazione e competenze specifiche nell’arte. Noi crediamo fortemente nel valore del patrimonio culturale locale e pertanto siamo promotori ed ideatori di particolari progetti attraverso visite guidate, degustazioni culturali, la realizzazione e l’accompagnamento di itinerari tematici ad hoc, l’organizzazione di incontri e progetti interdisciplinari finalizzati alla valorizzazione».

Proprio partendo dalla necessità di rendere i beni culturali del territorio accessibili a tutti, inChiostro ha iniziato a sviluppare uno strumento multimediale, un’applicazione che con file audio-visivi di carattere storico-artistico e la loro condivisione tramite social network permette anche ai non vedenti e agli ipovedenti di conoscere e scoprire i beni culturali del territorio.

Un progetto che vuole dare la possibilità a tutti i target di pubblico di ammirare e “vedere” il patrimonio che custodiscono chiese, chiostri e monasteri, presenti sul territorio bergamasco. Grazie anche ai finanziamenti della Regione Lombardia, l’associazione inChiostro. itinerari e incontri d’arte è riuscita ad avviare questo progetto che ad oggi coinvolge l’antica abbazia benedettina di San Paolo d’Argon, i chiostri, la chiesa adiacente e le chiese di Santa Maria in Argon, di San Lorenzo, di San Pietro delle Passere, di San Cassiano e di San Vincenzo della Torre tra San Paolo d’Argon e Trescore Balneario, per un totale di ben sette architetture.

Marco Ceccherini durante l’intervista spiega che il loro obiettivo non termina qui, anzi, l’associazione si pone un arduo compito: coinvolgere altri edifici religiosi che si trovano nei comuni vicini a San Paolo d’Argon, per continuare a rendere accessibile il patrimonio storico-culturale a tutti coloro che non possono fisicamente goderne. Inoltre, aggiunge, «dal 20 al 22 aprile 2018 verrà organizzata una rassegna di conferenze ed eventi per portare all’attenzione del pubblico la questione dell’accessibilità dei beni culturali con seminari, dibattiti e diverse iniziative collaterali come itinerari e degustazioni sensoriali tra Bergamo e provincia». Per il primo giorno è previsto un convegno dedicato agli operatori culturali e museali con relatori provenienti da tutta Italia, che parleranno di questo tema e di eventuali possibili strategie per risolverlo. I giorni successivi saranno ricchi di eventi culturali e incontri, senza tralasciare la possibilità di seguire anche percorsi sensoriali.

Per comprendere quanto la vista sia importante anche per la conoscenza delle bellezze artistiche, si potrebbe fare ancora un piccolo esperimento. Provate ad entrare in un museo, come Barnaba, chiudete gli occhi e fatevi accompagnare da qualcuno nel percorso espositivo, che avrà l’ulteriore compito di descrivere e spiegare le opere presenti al suo interno. Quando aprirete gli occhi alla fine del percorso, sarà quasi sconcertante vedere quei dipinti e quelle sculture che poco prima erano stati descritti, e si constaterà che l’immaginazione e la fantasia creativa del nostro cervello sono affascinanti, riuscendo in modo straordinario a sopperire, senza problemi, alla mancanza della vista. Ci si troverà davanti un’altra esposizione. È un’esperienza che tutti i vedenti dovrebbero fare per capire quanto la vista spesso pregiudichi e talvolta freni l’immaginazione e la capacità di pensiero.

Come è scritto nel Codice Mondiale di Etica del Turismo, «la possibilità di accedere direttamente e personalmente alla scoperta e al godimento delle bellezze del pianeta rappresenta un diritto di cui tutti gli abitanti del mondo devono usufruire in modo paritario». Pertanto è necessario parlarne e proporre soluzioni per consentire a chiunque una pari accessibilità del patrimonio culturale.

Ph. Credits: InChiostro.Itinerari e incontri d’arte. In copertina: chiostro dell’Abbazia di S. Paolo D’Argon (BG).

Come è cambiato l’online dating negli anni: non solo Tinder

Le relazioni umane si sono evolute molto nel corso degli anni. Ai tempi dei nostri nonni ci si incontrava dal panettiere, in balera, in chiesa, ci si piaceva, si usciva per un po’ e si passava una vita insieme. C’erano sicuramente più pressioni sociali, ma certamente conoscere qualcuno che ti piaceva era molto semplice. Poi è arrivato internet, che avrebbe cambiato il mondo degli appuntamenti in modi che neanche Ray Bradbury avrebbe potuto prevedere.

Inizialmente, nei primi anni 2000, c’erano le chat, grazie alle quali si poteva parlare con chiunque fosse connesso nella propria “stanza”. Hanno poi iniziato a nascere molti dating site diversi, che però erano visti con grande diffidenza: era molto comune a quei tempi imbattersi in uomini adulti in cerca di ragazze giovani da adescare e convincere a fare sesso con loro. All’inizio degli anni Duemila era molto diffusa l’idea che su internet si incontrassero solo pedofili, uomini sposati in cerca di un tradimento fugace e ragazze che si prostituivano.

Io ho iniziato a bazzicare le chat molto giovane e, come tante adolescenti, ho dovuto schivare complimenti e richieste insistenti da parte di uomini più vecchi, nonostante il mio nickname fosse ispirato ad una canzone dei Muse e io fossi lì solo per parlare di musica e  scambiare canzoni.

Secondo il libro Modern Romance di Aziz Ansari, il 35% degli Americani in una relazione tra il 2008 e il 2012 ha dichiarato di avere conosciuto il proprio partner su internet. Nel 2008, quando avevo 21 anni, mi sono iscritta a Match.com, il più famoso sito di appuntamenti all’epoca. Avevo visto alcune pubblicità ed ero molto curiosa di vedere che genere di persone potessero frequentare il sito. Ho messo due foto del viso, scritto che facevo l’università, spento il computer e, quando l’ho riacceso il giorno dopo, ho trovato una cinquantina di email. Erano tutte di uomini dai dieci ai venti anni più vecchi di me che volevano incontrarmi. Dopo una settimana mi sono cancellata, perché venivo bombardata di email ogni cinque minuti, alcune di uomini molto insistenti. La mia esperienza con il sito è stata decisamente negativa. Pensavo di trovare qualcuno con cui fare due chiacchiere e magari uscire a bere un caffè, e ho trovato invece messaggi espliciti. Anni dopo, interessandomi di più al fenomeno, avrei capito che una ragazza giovane su un sito di appuntamenti attirerà sempre un’attenzione spropositata e che per molte persone una ragazza su un sito di appuntamenti non è meritevole di alcun tipo di rispetto o approcci misurati.

Per anni, i dating site sono stati così: i ragazzi dovevano pagare un abbonamento mensile, mentre le ragazze si potevano iscrivere gratis, con la conseguenza che venivano subissate di molti messaggi al giorno da uomini che speravano di sfruttare al meglio il loro abbonamento. Non c’era modo di impedire che determinate persone vedessero il tuo profilo, e ci si sentiva come delle prede con poca possibilità di scegliere con chi parlare.

“Find me on Tinder”, Roma, 2016 (foto di Denis Bocquet/CC BY 2.0)

Nel 2012 nasce Tinder e il mondo delle relazioni online cambia in modo sorprendente. Tinder, fondata da sei amici, tra i quali c’è solo una donna, nasce da un’idea molto semplice: semplificare il dating online e collegarlo a Facebook. Sean Rad, uno dei fondatori, ha dichiarato che il sito andava a colmare un vuoto finora presente nelle altre piattaforme: la possibilità di interagire con persone che già conosciamo, non solo con sconosciuti, e nel nostro raggio d’azione. Non è infatti possibile iscriversi a Tinder senza un account Facebook, rendendo molto probabile incontrare qualcuno che fa già parte della propria vita mentre si fa swipe tra le varie persone che compaiono. Tinder, infatti, propone sia persone che sono propri amici su Facebook, sia amici in comune con una determinata persona, rendendo molto frequenti le conversazioni al bar come: “Ti ricordi Marco, il nostro compagno delle medie? L’ho visto su Tinder ieri, aveva un cagnolino molto carino nelle foto”. Essendo basato sulla geolocalizzazione, inoltre, ovunque si vada l’app mostrerà solo i profili di persone ad una vicinanza chilometrica scelta dall’utente.

Un’altra novità di Tinder è il fatto che le ragazze devono fare almeno una piccola mossa: sono loro a decidere che profili interessano e a quale ragazzi mettere like. Un uomo non ha modo di contattare una donna a meno che entrambi non abbiano apprezzato le foto e il profilo l’uno dell’altro. O almeno, sarebbe bello se fosse così. A diverse ragazze, me compresa, è capitato di essere rintracciate su Facebook o Instagram da ragazzi per i quali non avevano espresso alcuna preferenza. Generalmente, però, limitando il più possibile le informazioni personali questo non succede.

Conosco moltissime persone che vivono fuori dall’Italia che usano Tinder e sentire la frase “Questo sabato ho un appuntamento con un Tinder” sia da amici che da amiche è diventato molto comune. Ci sono persone che hanno un appuntamento a settimana da anni, altre che si sono conosciute così e poi si sono sposate. Lo stigma verso gli appuntamenti nati online è progressivamente calato in tutto il mondo occidentale. Ma in Italia? Qui è un pochino diverso rispetto ad altri paesi europei o all’America, perché abbiamo ancora una mentalità un po’ arretrata e diffidente nei confronti della tecnologia e delle “persone cattive” che si nascondono dietro gli schermi. Tinder, tuttavia, almeno nelle grandi città ha un successo discreto, anche se, come ci informa questo articolo di maggio di quest’anno, risulta essere il social network più abbandonato d’Italia: 3 persone su 10 si cancellano dopo averlo scaricato.

Whitney Wolfe, fondatrice e amministratore delegato di Bumble (foto di Noam Galai/Getty Images for TechCrunch/CC BY 2.0)

Ma è un’altra l’app che ha un successo straordinario in America e in Inghilterra ed è praticamente sconosciuta in Italia, ed è questo che attesta veramente la difficoltà italiana ad uscire dagli schemi tradizionali del dating. Si chiama Bumble e, sorpresa sorpresa, è stata creata da Whitely Wolfe, una delle fondatrici di Tinder. Dopo avere litigato con gli altri per il marcato sessimo presente nell’ufficio di Tinder, ha voluto creare un’app in cui le donne fossero veramente protagoniste. Bumble si basa sullo stesso concetto di Tinder: scorri le foto e scegli a chi mettere like consultando i profili con il tuo smartphone. Ma se c’è una compatibilità con una persona che le piace, la donna deve necessariamente scrivere per prima. Whitney Wolfe vuole spingere le ragazze a fare la prima mossa, rassicurandole che la novità del dating è anche questa: non essere più prede. Nonostante venti milioni di persone usino Bumble già in tutto il mondo e l’app sia scaricabile anche in Italia, nel nostro Paese non la usa nessuno. Non siamo forse ancora pronti per un’app in cui le donne hanno più potere?

 

In copertina:  foto di Mayberry Health and Home (CC BY 2.0).

La pornografia etica: il caso di Erika Lust

Il mercato della pornografia è stato tra i drivers più importanti nello sviluppo di Internet. Genera introiti per circa 100 miliardi di dollari l’anno, conta su decine di milioni di utenti, ed è in costante espansione nonostante la crisi di questi anni.

Esiste oggi anche una nuova forma di pornografia che va oltre la funzione primaria dell’intrattenimento per adulti, dando spazio e anzi importanza alla cultura dei suoi protagonisti: il porno etico. Il concetto di Etica se non è accompagnato dall’azione e dall’aggettivo che la qualifica (etica protestante, etica vegana, etica morale ecc. ecc.) è molto vago in quanto il comportamento per il raggiungimento di un fine buono, bello e giusto è insito in chi pratica tale eventualità. Per questo esiste anche un’etica del ladro, un’etica dell’assassino e un’etica del satanista che trova buono, bello e giusto quello che fa.

La pornografia web, grazie a siti internet come YouPorn e PornHub, si è conquistata l’80% della popolazione mondiale dei porno-fruitori (percentuale estrapolata dal convegno ‘Sex and relationship’, aprile 2017, Ian kerner, ‘Living in a pornified world’). Il 20% rimasto si è dato alla pornografia etica.
Da circa 20 anni la regista incontrastata di questo genere è stata Erika Lust, che si è fatta conoscere con una serie di pellicole chiamate Xconfessions (NSFW), basate sulla messa in scena delle fantasie degli spettatori. Evitando di soffermarsi sulle scene hardcore, sembra quasi di avere di fronte un qualsiasi film indipendente, girato e recitato splendidamente. Erika Lust è un’esponente del porno femminista, un movimento che ha preso piede in Spagna e si è poi trasferito a Los Angeles ed è la più valida controprova esistente alle fantasiose illazioni che il porno sia un genere cinematografico di serie xxx.
I suoi sono film porno a tutti gli effetti. Importante differenza è la forte attenzione per i dettagli, soprattutto nella sceneggiatura. Erika, di origine svedese, ha fondato la casa di produzione Lust Film, ha diretto tre lungometraggi e diversi corti il cui sottotesto è abbastanza chiaro: moltissime donne in segreto sono consumatrici di pornografia; non ha senso ignorarle continuando a produrre film rivolti solo al pubblico maschile.

La posizione pornoetica di Erika Lust (la nuova posizione del Kamasutra) si traduce nell’offerta di un prodotto che mancava nel mercato e di cui diverse persone, attratte dall’erotismo esplicito, ma che aborrivano il porno, sentivano il bisogno. L’etica in questo caso sta nell’aver prodotto film di qualitàsenza offendere il corpo della donna nella sua mercificazione, nel pagare in maniera dignitosa gli attori che sono rigorosamente consenzienti e contenti di fare questo lavoro, o meglio come lo definiscono loro: una missione.

Per definire etica una produzione: Si conosce il nome del regista o del produttore? Sono indicati in modo visibile? Se no, vuol dire che si vergognano del loro lavoro.
Molte attrici e molti attori risultano invischiati nel mondo del porno per il denaro. È un rischio, perché è molto difficile uscirne e si resta sotto ricatto. Un produttore onesto deve avvertire chiunque voglia intraprendere questa carriera, e segnalare che è una scelta che li inseguirà per tutta la vita. Anche quando avranno smesso e saranno manager di aziende importanti, ci sarà sempre qualcuno che tirerà fuori vecchi filmati. Per cui, bisogna essere davvero convinti.

Non esiste soltanto l’evoluzione dell’industria della pornografia, ma anche la sua presa di coscienza e produzione di cultura e significati. Quindi, se la nostra società non può più fare a meno del porno, di una cosa siamo sicuri: la saturazione della castroneria maschile a fondo perduto prima o poi doveva fare i conti con la noia e la stupidità del porno fallocentrico. Ancora una volta l’etica della Vagina ha avuto la meglio.

Articolo scritto da Susanna Basile.

Fonte: Io sono minoranza.

LuganoPhotoDays 2017, in mostra la terribile bellezza dei disastri ambientali

Quest’anno la città di Lugano dedica il festival di fotografia LuganoPhotoDays, ideato da Marco Cortesi, a una tematica di grande attualità: i cambiamenti climatici e l’ambiente sono il soggetto della mostra EverydayClimateChange, a cura di Photo Op in collaborazione con James Whitlow Delano e Matilde Gattoni. La mostra nasce da un’idea del fotografo americano Delano, che crea il feed di Instragram e l’hashtag #everyday, ben presto replicato da fotografi e fotoreporter, contribuendo alla diffusione delle immagini e creando il collettivo EverydayClimateChange.

Il progetto nasce così per sollecitare la comunità dei social sull’emergenza ambientale, trasformandosi solo successivamente in una mostra itinerante che a Lugano espone la più ampia selezione di fotografie. Nello spazio dell’Ex Macello, bianco, ampio e privo di barriere architettoniche, trovano straordinaria forza visiva le 120 immagini realizzate da 30 fotografi internazionali, che raccontano con innegabile verità ciò che sta accadendo nel pianeta.

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Daysi Gilardini, Riflessi ghiacciati

Il surriscaldamento del globo, il cambiamento delle stagioni, l’aumento del livello dei mari, lo scioglimento dei ghiacciai e l’intensificarsi dei disastri ambientali mostrati in bianco e nero e a colori, nella loro terribile bellezza, come in Gli effetti dell’erosione sulle rive del fiume Meghna (Bangladesh 2015) di Paolo Patrizi e Livelli di acqua estremamente bassa sul rio Negro mentre la siccità colpisce la città di Manaus (Brasile 2010) di Rodrigo Baleia. A questi si aggiungono i disastri causati dall’intervento dell’uomo come in Un pozzo della Shell in fiamme (Nigeria 2006) di Franck Vogel e Veduta aerea di operazioni di estrazione del bitume nella cosiddetta Alberta Tar Sands (Canada 2013) di Luc Forsyth.

Le immagini di Matilde Gattoni rientrano invece nella sezione Open Rage, dedicata alla devastazione paesaggistica e naturale del litorale dell’Africa Occidentale, con gravi ripercussioni sulle comunità locali. L’oceano lentamente aumenta il suo livello, erodendo 36 m l’anno ed inglobando spiagge e paesi i 7000 km di costa che uniscono la Mauritania al Camerun. Lo stesso fenomeno si verifica a Rubjerg Knudee, in Danimarca, dove il litorale viene costantemente sbriciolato dal Mare del Nord (1,5 m all’anno), mentre una duna mobile si sposta di 9 m ogni anno.

Se il mare s’innalza incorporando la costa, anche il deserto inizia ad avanzare sensibilmente nel Sahara, in California e in Cina nord-occidentale, come si vede nella fotografia Un uomo tra le dune di sabbia nel resort di Shapotou-Tengger vicino alla città di Zhongwei (Cina 2009) di Sean Gallagher. La desertificazione è una minaccia per almeno il 40% delle terre emerse del pianeta: si stima che ogni anno 12 milioni di ettari di terra fertile si trasforma in deserto. L’aumentare di queste aree, che vediamo in Amina Suleiman tra le carcasse del suo bestiame, morto a causa della siccità (Somalia centrale 2017) di Georgina Goodwin e Una famiglia Tuareg (Niger 2006) della Gattoni, causerà gravi siccità che, si stima, il 2030 costringerà 700 milioni di persone a migrare.

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Georgina Goodman, Amina Suleiman tra le carcasse del suo bestiame morto a causa della siccità

In mostra anche una sezione dedicata alla fotografa ticinese Daysi Gilardini, che offre uno spunto toccante sull’estrema bellezza di un ecosistema che deve scontrarsi con l’incremento smisurato della temperatura terrestre. L’Antartide e l’Artico sono i soggetti di Meraviglie polari: fotografie dagli estremi del mondo, fotografie di paesaggi incantevoli, dove vivere significa sopravvivere, mentre ghiacciai e iceberg continuano a sciogliersi.

Le 120 fotografie in mostra indagano con nudo realismo l’emergenza ambientale, diffusa in tutte le zone del mondo, che non può più essere definita “un problema di altri”, perché, come afferma Delano, «It’s not just happening there, but here, here and here». Uragani, inondazioni e periodi di siccità interessano tutti noi e le immagini di questa natura così dirompente stimolano un senso di empatia e la ricerca di possibili soluzioni, dall’uso di energie rinnovabili all’introduzione di piante di mangrovie per fermare l’avanzare del mare.

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Paolo Verzone, Resti di strutture minerarie

L’emergenza ambientale è diventata argomento di pubblico dominio solo negli ultimi tempi. Se negli anni Cinquanta con l’americano Roger Revelle e il ricercatore Charles Keeling si iniziò a misurare il biossido di carbonio atmosferico, bisogna aspettare gli anni Ottanta-Novanta per registrare l’esatta quantità di CO₂ e per pensare alla correlazione tra incremento delle temperature e cambiamenti climatici. Solo in seguito, con la redazione del Protocollo di Kyoto (1997) e la Conferenza di Parigi (2015), l’emergenza climatica arriva sul piano internazionale.

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Daysi Gilardini, Pinguini sulla spiaggia

Anche l’arte ha cercato di rispondere: già nell’Ottocento pittori inglesi come Camille Corot, stendendo macchie di colore con pennellate dense, dipinsero una natura che in pochi anni sarebbe stata spazzata via dall’industrializzazione. È nel Novecento, però, che movimenti come la land art, l’environment art e la recycling art, diverse ramificazioni di quella che oggi possiamo chiamare Arte ambientale, esplorano il legame tra arte, natura e impegno sociale. Artisti come Mary Miss, Helen Mayer Harrison, Newton Harrison, Aviva Rahmani e Jane McMahan denunciano il rapporto conflittuale uomo-natura, tentando di risanare tale complicata relazione.

In La grande cecità, il cambiamento climatico e l’impensabile, lo scrittore e antropologo Amitav Ghosh scrive che la cultura contemporanea è incapace di narrare il dramma del riscaldamento globale, dando prova di un fallimento dell’immaginazione. Di certo l’arte deve ancora fare passi avanti per comunicare in modo più efficace e accessibile a tutti, ma ad oggi grazie al LuganoPhotoDays, ai collettivi EverydayClimateChange, Julye’s Bicycle e TippingPoint si creano sempre più spesso occasioni per parlare di emergenza climatica, un tema che riguarda e deve riguardare tutto noi.

In copertina: Vlad Sokhin, Ameria,11anni, della tribù Inupiat sulla riva dell’Oceanio Artico a Barrow (Alaska, Usa 2016). [particolare]

Il futuro in un batterio: Bioremediation

Riflettendo sul fenomeno dei cambiamenti climatici, l’inquinamento e più profondamente sul rapporto malato tra uomo e natura, sono andata alla scoperta di piccoli microrganismi terrestri: i batteri. Molto speciali sono quelli studiati da Lorenzo, microbiologo e dottorando in Microbiologia ambientale presso l’Università Statale di Milano. Affronteremo un caso interessantissimo di Bioremediation (Biorisanamento) ossia la riduzione del tasso di inquinamento dell’aria, delle acque e del suolo attraverso una tecnica che prevede l’utilizzo di sistemi biologici, come piante e microrganismi. Con questo sistema vengono eliminate le sostanze tossiche: i batteri le degradano e le convertono in sostanze innocue per l’uomo, come acqua e anidride carbonica.

L’eliminazione di sostanze inquinanti può dunque avvenire in modo naturale, con un basso impatto ambientale e con un costo molto contenuto, rispetto alle alternative tecniche tradizionali.

Lorenzo porta avanti uno studio sul SIN Caffaro, un’area situata intorno al comune di Brescia dell’azienda chimica Caffaro che diede il via alla sua attività nel 1906: produzione di soda caustica, fitofarmaci, pesticidi e, dal 1938, policlorobifenili (PCB – delle molecole chimiche di sintesi utilizzate per diversi scopi industriali, mi spiega Lorenzo), terminata poi nel 1984. Inoltre, la Caffaro ha utilizzato nel ciclo produttivo altri composti chimici tra cui il cloro, il mercurio, l’arsenico, il tetracloruro di carbonio.

Dopo la scoperta, tra gli anni ’70 e ’80, della tossicità delle suddette molecole PCB, del loro alto tasso inquinante per l’uomo e l’ambiente circostante, la produzione della Caffaro venne allora bloccata e resa illegale. «Il punto è che queste molecole non si degradano naturalmente e rimangono nel suolo e nei campi coltivati intorno all’area dell’industria. Aggiungi l’utilizzo inconsapevole dell’acqua contaminata per l’irrigazione di questi campi e arrivi alla diretta contaminazione del prodotto coltivato (il mais), quindi agli animali, quindi all’uomo» spiega Lorenzo.

Sotto sequestro, oltre all’area industriale, anche le aree agricole e quindi l’esproprio delle terre degli agricoltori.

«I metodi di bonifica tradizionale, di solito prevedono la rimozione della terra inquinata. Un procedimento che però non è realizzabile per aree così vaste, come quella della SIN Caffaro, sia per i costi e sia perché risulta fisicamente e praticamente difficile». Ed è proprio qui che arrivano in nostro aiuto i microbiologi come Lorenzo: «studiamo le comunità di batteri del suolo che sono in grado di degradare i policlorobifenili e da qui l’idea che sta alla base della mia ricerca. Essendo che le piante rilasciano, attraverso le radici, delle molecole che hanno una struttura chimica simile ai PCB, questi batteri sono in grado naturalmente di degradare e ricavare energia da queste molecole. Dal canto loro, le stesse molecole, essendo simili ai PCB inducono anche la degradazione dei PCB da parte dei batteri».

L’idea è che piantando con alcune specie di piante questi terreni, ne venga stimolata l’attività dei batteri e quindi la degradazione di questi composti chimici. In questo modo viene attivata la depurazione naturale del suolo.

Esistono diversi tipi di batteri con queste caratteristiche, mi spiega Lorenzo, come per esempio i batteri marini che vengono utilizzati per la bonifica dei versamenti di petrolio; altri sono in grado di sostenere e promuovere la crescita delle piante in condizione di stress (come l’aridità e la salinità del suolo). Altri studi dimostrano invece che esistono dei batteri che possono essere usati come biofertilizzante: colonizzando una pianta o solo le radici ne possono aumentare la resa (per esempio, adatti alle coltivazioni di verdure). Non sono, ovviamente, batteri patogeni ne per la pianta ne per l’uomo.

La Bioremediation diminuisce sia l’impatto ambientale delle operazioni di bonifica, sia l’impatto psicologico sulla popolazione delle aree interessate: quanto è più carino fidarsi di questi minuscoli esserini “mangia-inquinamento”, rispetto alle intricate tecnologie artificiali? Inoltre, l’utilizzo di questi microrganismi, aumenta la biodiversità dell’area in cui vengono inseriti, stimolando la crescita di nuovi microrganismi.

Micro-esserini per macro-soluzioni?

Una nuova sentinella per la Terra

Il 13 ottobre 2017 è stato spedito in orbita il razzo ospitante il satellite Sentinel 5P (la P sta per Precursor), il primo satellite dedicato allo studio dell’atmosfera del progetto Copernicus, un programma di osservazione satellitare della Terra lanciato e gestito nel 1998 dalla Commissione Europea e da un gruppo di agenzie spaziali. Copernicus è attualmente nella fase pre-operativa del servizio per il cambiamento climatico, alla quale seguirà,  prima della fine del 2018, una fase operativa, durante la quale fornirà dati per il monitoraggio e la previsione dei cambiamenti climatici, aiutando a sviluppare strategie adattative. Inoltre, consentirà l’accesso a indici climatici quali l’aumento della temperatura, l’innalzamento del livello del mare, lo scioglimento dei ghiacci e il riscaldamento degli oceani.

Il programma si basa su sei tipologie di satelliti, denominati Sentinel, ciascuno adibito a specifiche funzioni, quali la produzione di radar interferometrici, l’osservazione multi spettrale e l’analisi delle componenti atmosferiche. Il più recente, Sentinel 5P, lanciato per una missione di sette anni, ha lo scopo di monitorare la composizione chimica dell’atmosfera, in particolare la qualità dell’aria e la sua interazione con gas quali ozono, diossido di azoto, metano, ossido di carbonio e altri inquinanti. Lo strumento utilizzato è il Troposheric Monitoring Instrument (Tropomi), uno spettrometro che analizza la fascia dello spettro elettromagnetico associata alla radiazione termica, che comprende parte dei raggi UV, tutta la radiazione visibile e gli infrarossi (IR). In questa fascia si distinguono le radiazioni ad onde lunghe, tipiche dell’energia terrestre e di interesse per il sistema climatico, e radiazioni ad onde corte, associate alla radiazione solare. È in corrispondenza di queste frequenze che i telescopi IR possono esplorare lo spazio, e apparecchiature a microonde su satellite possono puntare verso la superficie terrestre.

Ricostruzione grafica del satellite Sentinel 5P (Fonte: ESA/ATG medialab/CC BY-NC 2.0).

Le radiazioni registrate dai satelliti sotto forma di onde elettromagnetiche sono alla base del riscaldamento globale: il Sole irraggia la Terra, che assorbirà parte dell’energia, e parte ne emetterà a sua volta. Eppure, rispetto al bilancio di questa energia, la Terra è di circa 33°C più calda, e ciò è un bene, perché altrimenti le temperature sarebbero inadatte alla vita. Questa differenza dipende dai gas serra presenti nell’atmosfera: la radiazione emessa dalla Terra verrà assorbita e in parte riemessa dalla atmosfera verso la Terra stessa, scaldandola così a sua volta, come fosse una coperta. La radiazione che invece fugge nello spazio dalla Terra è quella emessa dagli strati più alti dell’atmosfera. L’eccessiva concentrazione di gas serra nell’atmosfera porta dunque inevitabilmente al surriscaldamento terrestre.

Per associare il comportamento-serra ad un gas, bisogna basarsi ancora una volta su rilevazioni sulle lunghezze d’onda. Risale al 1970 il satellite IRIS della Nasa che misurava gli spettri infrarossi, e al 1996 il satellite IMG dell’Agenzia spaziale giapponese per rilevazioni simili. I risultati, confrontati per individuare variazioni nell’arco dei ventisei anni, hanno evidenziato una diminuzione delle radiazioni ad onde lunghe nello spazio associate allo spettro della CO2 (anidride carbonica) e del CH4 (metano). Le rilevazioni sono state poi ampliate da successivi satelliti come AIRS e AURA, lanciati dalla Nasa rispettivamente nel 2003 e 2004. Inoltre, anche rilevazioni dal basso hanno confermato l’attribuzione quantitativa dell’aumento della radiazione ad onde lunghe ai diversi gas serra.

E’ quindi di notevole importanza conoscere come influiscano i cambiamenti climatici, soprattutto in relazione al problema del riscaldamento globale. La temperatura media della Terra è aumentata di circa un grado Fahrenheit, circa 0.56°C, durante il Novecento. Potrebbe sembrare effettivamente poco, ma in realtà, fa sapere la Nasa, anche a piccole variazioni nella temperatura corrispondono incredibili cambiamenti. Basti pensare che alla fine dell’ultimo periodo glaciale, quando il Nord America era coperto da circa 900 metri di ghiaccio, le temperature medie erano solamente dai 5 ai 9 gradi più fredde che oggi. Il ruolo dei satelliti è dunque decisivo nella misura in cui forniscono grandi quantità di dati in relazione ad indici climatici e meteorologici: si pensi che Sentinel 5P avrà il compito di mappare, ogni giorno, la composizione dell’aria relativa all’intera superficie terrestre.