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Mongol Rally: Bergamo – Ulan Bator in Panda

“Non fate il Mongol Rally, diventerete dipendenti dall’avventura e dalla libertà” si legge sul sito del Mongol Rally , il rocambolesco rally di beneficenza che ogni anno spinge centinaia di automobili, con una cilindrata rigorosamente non superiore a 1000, ad attraversare l’Asia per giungere a Ulan Bator, capitale della Mongolia. Un viaggio complicato e affascinante fra paesaggi incredibili e in condizioni estreme,come quello affrontato nel 2012 dai ragazzi bergamaschi del team Bergamatti.

Diego Pagnoncelli, classe 1986, mi confessa di aver nutrito il sogno del viaggio per molti anni, prima di organizzare effettivamente la partenza per Ulan Bator. «Quando finisco l’università si parte!» si era detto, e così è stato. Trovare dei compagni di viaggio non è stato difficile, tanto che il team era composto da cinque persone e due automobili, o meglio, due instancabili Fiat Panda messe a punto per l’impresa dai ragazzi con un budget irrisorio e tanta fantasia. «Ci siamo costruiti lo snorkel, il tubo per prendere l’aria da sopra quando si guadano i torrenti, con un tubo da elettricista e un vaso comprato al negozio dei cinesi» mi racconta divertito Diego.

Dopo un anno di preparazione e ottenuti tutti i visti il team è pronto per partire. Il percorso scelto per raggiungere la meta finale è quello che prevedeva di passare per Kazakistan, Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan. Tuttavia gli imprevisti non sono mancati e un paio di giorni prima di arrivare in Tagikistan la squadra è costretta a cambiare itinerario, evitando il Paese a causa di scontri a fuoco sul confine con l’Afghanistan. Nonostante il cambio di programma e gli inevitabili problemi che le non-strade dissestate percorse hanno causato alle impavide Panda, sempre risolti grazie anche alle ingegnose e fantasiose soluzioni dei meccanici locali, Diego e i suoi giungono a destinazione.

Le fotografie che i Bergamatti hanno voluto condividere con Pequod raccontano di tutta questa avventura, estrema, emozionante e divertente, e soprattutto ci guidano fra paesaggi che difficilmente si possono descrivere a parole. «Abbiamo attraversato l’Ucraina, il granaio d’Europa, coi suoi campi coltivati sconfinati, di girasoli e frumento, una cosa incredibile» ci racconta Diego con entusiasmo. Dal verde delle coltivazioni il viaggio ha condotto poi i ragazzi in Uzbekistan, terra calda e desertica, attraversando quello che un tempo era il lago d’Aral e che oggi è completamente asciutto. «È il paesaggio più spettrale che io abbia mai visto: ti rendi proprio conto di essere sul fondo di un mare» mi spiega Diego, raccontandoci delle barche arenate nella sabbia, delle conchiglie e del sale, tanto sale, che caratterizza questo paesaggio.

Dal deserto si passa poi al verde delle valli del Kirghizistan, dove ci sono montagne altissime. «Siamo arrivati a guidare anche a 3800 metri» ricorda Diego. Poi la Mongolia, coi suoi altipiani e le sue valli a ben 1800 metri di altitudine e dove a luglio hanno incontrato la neve. Paesaggi infiniti e senza tempo, percorsi quasi sempre offroad. «Le prime strade asfaltate dopo più di duemila kilometri le abbiamo incontrate a poche centinaia di kilometri da Ulan Bator» mi dice Diego con un filo di nostalgia.

Con un pizzico di invidia e ammirazione, rimane poco da aggiungere a questo racconto, se non le immagini, vero tesoro di questa spedizione estrema.

Ringraziamo di cuore Diego e tutti i Bergamatti per il racconto e per averci concesso le loro fotografie.

Partenza dal Comune di Bergamo

 

Ritrovo delle Panda al Festival of Slow, punto di partenza del Mongol Rally

 

Team BergaMatti davanti alla Statua della Madre Patria a Kiev, Ucraina
Ucraina
Ucraina
Ucraina

 

Uzbekistan
Navi arenate nell’ex lago d’Aral, Uzbekistan
Ichon-Qala (città vecchia) di Khiva, Uzbekistan
Uzbekistan

 

Kirghizistan
Kirghizistan
Kirghizistan
Kirghizistan
Kirghizistan
Mongolia
Mongolia
Mongolia
Mongolia
Mongolia
Mongolia
Mongolia
Ulan Bator, Mongolia

 

Finish Line del Mongol Rally

3,2,1…IGNITION! I razzi-sonda di Skyward Experimental Rocketry

Spingersi oltre l’estremo? Quo neque aquilae audent, risponderebbe uno Skywarder.

Dalla branca più operativa e appassionata del Politecnico di Milano nasce nel 2012 Skyward Experimental Rocketry, associazione attiva in seno al Politecnico, nata con l’ambizioso proposito di realizzare razzi-sonda sperimentali di piccola e media taglia. Un progetto in fieri di notevole complessità che si implementa grazie al lavoro di un team i cui membri provengono dai più disparati settori dell’ingegneria. É proprio il contesto composito l’anima su cui si fonda la buona riuscita del grandioso progetto e ciò che lo rende un’incredibile occasione di crescita per ciascuno dei suoi componenti.

Scopo ultimo quello di lanciare nell’atmosfera un razzo-sonda supersonico bi-stadio, raggiungendo una quota minima di 30.000 metri d’altezza, stabilendo così uno storico primato in ambito studentesco. I sogni nel cassetto sarebbero anche più ambiziosi, ma per ora è meglio procedere per gradi.

lancio R I-X CT
Lancio di Rocksanne I-X

Pequod ha fatto un giro nel centro operativo di Skyward con l’attuale Presidente, Christian Di Lazzaro. Una stimolante chiacchierata ci ha permesso di conoscere più da vicino come questi ragazzi vivono con predilezione ed entusiasmo la missione.

Il Rocksanne Program è suddiviso in tre parti principali, ognuna delle quali propedeutica al buon esito della fase successiva. Il continuo perfezionamento delle tecnologie e l’analisi dei dati recuperati dai lanci precedenti rendono possibile un continuo approfondimento delle conoscenze da parte del team. Attraverso esperimenti scientifici, gallerie del vento, workshops, simulazioni computazionali e molto altro ancora, si arriva ad assemblare un missile sperimentale ad alte prestazioni interamente progettato e costruito dagli studenti. Questo fa del Politecnico l’unica realtà italiana con un progetto organico e strutturato di questo genere.

L'ogiva di Rocksanne I-X con il paracadute
L’ogiva di Rocksanne I-X con il paracadute

Dopo lo straordinario successo di Rocksanne I-X, il problema che preme maggiormente risolvere è quello di riuscire a trovare un’area test utile a collaudare i sottosistemi di Rocksanne II- X: « Sulla carta puoi anche costruire il missile perfetto ma poi la realtà è diversa» mi spiega Christian.

Una delle novità di Rocksanne II-X sarà il motore ibrido, per il quale il Presidente ha rivestito il ruolo di Project Manager. Nell’Hybrid Rocket Engine, infatti, l’ossidante liquido e il combustibile solido sono tenuti separati. Tramite la regolazione di una valvola i due elementi possono entrare in contatto, questo permette una migliore affidabilità ed un maggior controllo. Le suggestioni non finiscono qua. Il Cyrano Program mira alla costruzione di un drone che permetterà il lancio del razzo ad alta quota, dove l’aria è più rarefatta, garantendo una massimizzazione del risultato. Rimane molto articolato calcolare però i problemi di portanza del velivolo, cosa che rende ancor più necessaria un’area test al fine di acquisire le nozioni necessarie a mettere a punto il progetto.

Cyrano program
Modello per Cyrano Program

Un assiduo lavoro di ricerca e autoapprendimento in cui occorre tenere in considerazione tanti aspetti diversi: dal motore all’aerodinamica, dai materiali al sistema di recupero, dall’elettronica alla meccanica; i Dipartimenti si coadiuvano vicendevolmente e lavorano in sincronia, l’uno risolvendo le sollecitazioni e le occorrenze dei compagni.

Il panorama dei rockets in Europa è vario e molto animato. A questo si può aggiungere che i colleghi stranieri spesso hanno il beneficio di poter contare su ragguardevoli mezzi finanziari che permettono un più largo spettro di opportunità. Un esempio fra tutti: gli olandesi del DARE. Nel 2015 si sono promosse anche le basi per una competizione interazionale tra le diverse università. Le varie squadre, a tal proposito, sono state impegnate fino a poche settimane fa a determinare, tramite Skype, un complesso e particolareggiato regolamento che si tramuterà in sfida nel 2017.

Non resta che sostenere Skyward e magari fare un giro a trovarli, per sentirci anche noi lassù, dove non osano le aquile.

Aconcagua ’98: una spedizione alla conquista della sentinella di pietra

Partiva il 3 gennaio 1998 la spedizione alpinistica guidata da Marcello Cominetti alla conquista dell’Aconcagua, nella cordigliera andina. Mino Alberti è il nostro protagonista e narratore: nel suo diario ha raccolto le sensazioni provate in quella scalata di 7012 m, intrapresa dal versante nord-ovest, al confine tra Cile e Argentina. L’attenzione per gli orari, il cibo, le ore di sonno e lo stato psicofisico sono gli elementi dominanti del diario, che contribuiscono a rendere l’idea dello sforzo fisico in una spedizione a così alta quota, al di là della volontà personale.

Attraversata la frontiera a Mendoza, «per non farci aprire tutti i borsoni, paghiamo 50 dollari alla dogana e arriviamo a Puente del Inca: si vede l’Aconcagua. Alloggiamo a l’Hosteria dove preparo il materiale da portare e decido cosa resta». Una situazione di tensione in cui Mino si dice entusiasta e al contempo preoccupato: al rifugio arrivano due alpinisti sud coreani con la pelle bruciata dal sole, stremati dalla vetta e terrorizzati dal fatto che da tre giorni non vedono il loro compagno di spedizione.

HosteriaDeMendoza
Hosteria De Mendoza

Il quarto giorno si parte a piedi, zaino in spalla verso la località Confluencia a 3500 m di quota, con un dislivello di 750 m da affrontare in un solo giorno: il gruppo inizia a sgretolarsi. «Mi viene mal di testa, montiamo le tende e peggiora. Arriva l’ora di cena e provo a mangiare riso con carne e finalmente scompare. La compagnia ritorna compatta e incontriamo un altro italiano che ci racconta di due suoi compagni ricoverati a Mendoza: uno con le dita congelate e l’altro con il viso sfregiato dal vento! Buona notte».

L’obbiettivo successivo è Plaza de Mulas a 4230 m, il campo base: una tappa molto lunga, di circa 28 km, in cui più volte si deve attraversare il Rio Honcomes. Dopo un dislivello di circa 700 m, gli alpinisti montano le tende e riprendono fiato. «Adesso, steso, ricomincia il mal di testa, un incubo. La testa mi scoppia, mi muovo a carponi; mi sforzo e bevo un tè, mangio del pane. Arrivo a fatica alla tenda, riesco a dormire giusto un’ora: sono rinato».

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Paza De Mulas – 4230 m

Dopo un paio di giorni di acclimatamento, si parte per Nido de Condores a 5385 m. «Si sale lentamente e dopo due ore comincio a perdere le forze, dopo dieci passi mi devo sempre fermare. Sono l’ultimo. Arrivo a fatica a Plaza de Canada a 4900m, Renzo mi è venuto incontro e mi ha portato lo zaino. Sistemiamo il materiale e scendiamo al campo: sono distrutto e demoralizzato. Dov’è tutto il mio allenamento? Con grande sforzo vado a lavarmi (bidè tra i ghiacci!) e per tornare alla tenda devo fare una sosta». Nel frattempo arriva al campo la squadra dei soccorsi con il corpo del sud coreano disperso; ci sono i suoi compagni e lo lasciano disteso sulla neve per i rituali tradizionali.

La mattina, nonostante tutto, Mino è di buon umore: si preparano per partire verso Cambio de Pendente, dove han lasciato il materiale il giorno prima. Una volta arrivati vengono distribuiti i carichi e si fa un ultimo sforzo per arrivare a Nido de Condores. C’è tanta neve e tanto vento: occorre rinforzare di più le tende costruendo dei muretti di pietra. C’è entusiasmo anche se si inizia a soffrire l’altitudine. Dal diario di Mino: «Ora ho mal di testa sempre, anche di giorno. La nostra tenda fa anche da cucina: ci ho messo due ore per far bollire dell’acqua per il tè».

CambioDePendente5300m
Mino Alberti, secondo da sinistra con gli amici esploratori a Cambio De Pendente – 5300 m

La mattina del decimo giorno si parte per il rifugio Berlin a 5930 m, ultima tappa prima di raggiungere la vetta. «C’è sempre più vento. Avanzo a fatica, non sento più le mani e mi chiedo chi me l’ha fatto fare. Ci sono dei colori stupendi ma scattare qualche foto è impossibile. Vediamo il tratto finale della vetta. Marcello torna verso di noi e ci dice che non è il caso di continuare: c’è troppo vento e siamo a rischio di caduta e di congelamento. Si torna indietro». Smontano a fatica le tende; durante la noiosa e penosa discesa, Mino è affranto, triste e arrabbiato. A Plaza de Mulas ritrova gli amici alpinisti, telefona a casa e finalmente riesce a dormire.

Lavati, sbarbati e curati ripartono per Mendoza e da lì verso casa: «Ogni tanto penso all’Acongagua, la sentinella di pietra: sono tra l’arrabbiato e il soddisfatto».

Storie al limite, letteratura e avventura da Jules Verne a William Gibson

«Ascolta: i tuoi libri sono innocui, mentre li leggi tu diventi Tarzan o Robison Crusoe…»
«Ma è per questo che mi piace leggerli!»
«Già, ma quando hai finito ritorni a essere un bambino.»
«E allora? Non capisco…»
«Senti: sei mai stato il capitano Nemo, intrappolato nel tuo sottomarino, mentre la piovra ti sta attaccando?»
«Sì.»
«E non tremavi all’idea di non farcela?»
«Mmm… È solo un racconto…»
«Esattamente quello che dicevo io: i libri che leggi tu sono innocui.»

Con questo dialogo Wolfgang Petersen nel 1984 dava avvio all’avventura del suo film, ispirato al libro di Michael Ende, La Storia Infinita. Il tremolio nella voce di Bastian, il giovane protagonista, mentre si finge troppo impavido per intimorirsi di fronte ad un racconto, è il primo segnale della smentita di quanto nel dialogo si vorrebbe provare, nonché la tesi che scrittore e regista sostengono attraverso la loro opera: i libri sono tutt’altro che innocui.
Nel film si racconta la difficoltà di entrare nell’età adulta, dal punto di vista di un ragazzino che è diviso tra la propria personalità, caratterizzata da una fantasia sconfinata, e il dettame sociale di dare rilevanza solo a quanto si afferma come realisticamente tangibile. Il protagonista dovrà entrare fisicamente nel mondo di Fantàsia per capire lo stretto legame che lega immaginazione e realtà; emblematizzato nel suo grido: «Darò ascolto ai miei sogni!».

"La Storia Infinita"
“La Storia Infinita”

Bastian è un impavido lettore e un collezionista di romanzi d’avventura: vanta una libreria di 186 volumi dei più disparati autori. Tra i primi citati quelli di Daniel Defoe, che apre un genere letterario che avrà sviluppi impensabili: con le peregrinazioni per mare di Crusoe e le descrizioni di isole ignote, da un lato si inserisce nella tradizione che da Omero al Medioevo veicola, mediante il racconto epico, principi morali e culturali; dall’altro dà voce alla voglia d’esplorazione che caratterizza il XVII secolo. Lo stretto legame tra la sua opera e lo spirito dell’epoca in cui vive è evidente: Defoe e con lui gli autori che si inseriranno nel genere, da Stevenson a Salgari, esprimono i sogni di una società in cui l’uomo si riscopre viaggiatore e avventuriero. Missionari ed esploratori partono alla ricerca di terre lontane, e gli scrittori suggeriscono loro sempre nuove mete.
Alla fine dell’ ‘800 il mondo è ormai discoperto all’uomo occidentale, ma la fantasia dei romanzieri non si è esaurita. È in questi anni che nasce Jules Verne, colui che verrà considerato il padre della fantascienza. Non è un caso che tra le sue prime pubblicazioni ci sia la ricostruzione del viaggio di Cristoforo Colombo; più che la verità descrittiva, all’autore stanno a cuore le potenzialità dell’intelletto umano. Scienza e romanzo sembrano, attraverso l’opera di Verne, procedere di pari passo: dalle scoperte in aerostatica e aeronautica applicate in Cinque settimane in pallone e Il giro del mondo in 80 giorni, alle immersioni subacquee di Ventimila leghe sotto i mari; dalle congetture pseudoscientifiche di Viaggio al centro della Terra ai viaggi spaziali Dalla Terra alla Luna e Attorno alla Luna.

Daniel Defoe e Jules Verne, pionieri della letteratura di viaggio e d'avventura
Daniel Defoe e Jules Verne, dalla letteratura d’avventura alla fantascienza

Il cammino che l’evoluzione sociale e la letteratura d’avventura, realistica prima e poi fantascientifica, hanno intrapreso, vedrà sempre i due fronti procedere in parallelo. Nei primi anni del Novecento, gli scrittori si guardano allo spazio, sulla possibilità aperta dalle novità tecnologiche di esplorare nuovi mondi e conoscere intelligenze aliene; altrettanto affascinanti sono le ricerche verso la formazione di un’intelligenza artificiale: in seno al genere fantascientifico si forma Karel Čapek, padre del termine robot, apparso per la prima volta nel suo Rossumovi univerzální roboti (I robot universali di Rossum) e derivato dalla parola ceca robota, schiavitù.
Negli anni ’60 e ’70 gli hippies cercano la strada per abbattere i muri della comunicazione psichica e Timothy Leary analizza gli effetti degli stupefacenti sintetici; gli scrittori si spostano verso una scrittura surrealista, concentrata su psicologia e visioni psichiche, portavoce dello sdoganamento di tematiche come il sesso, la fede religiosa, il pacifismo. Negli anni ’80, tanto la ricerca scientifico-tecnologica quanto la letteratura fantascientifica si concentrano sulle telecomunicazioni; all’entusiasmo per la rapidità di connessione mondiale, si accompagnano timori e denunce: i futuri distopici di William Gibson ad esempio sollevano paure e diffidenze che si riflettono nelle titubanze di ordine morale all’origine del conflitto tra scienza e società. Un onflitto che si protrae fino ad oggi.

Extreme cities

Easy is not always fun. Sometimes warm weather, nice nature and readily available facilities can feel too ordinary to give us the thrill we need to feel alive. That’s probably why extreme and wild places have recently acquired a whole new charm in the eyes of travellers. We’re not talking gap years in South Asia, nor working in Australian farms for a few months; hitchhiking in the Alps would hardly qualify, and we can all agree that weekend camping is far from extreme. What we mean by “extreme places” is truly unwelcoming territories: cities located in hard-to-reach regions or in areas where day to day life is an actual challenge. Enjoy Pequod’s unpleasant journey through the most extreme cities on Earth.

The northernmost

It comes as no surprise that the northernmost cities in the world are located in countries such as Norway, Greenland, Canada, Russia and Alaska. At 817 kilometres from the North Pole, the Canadian locality of Alert is the farthest north permanently inhabited place in the world. The town has no permanent dwellers but it’s a destination frequented by researchers and scientific personnel all-year-round. Like other places located north of the Arctic Circle, Alert offers in fact a unique opportunity to study climatic and meteorological phenomena.

Alert, Canada
Alert, Canada

Ranked the 10th northernmost city in the world, Dikson is the Russian port situated farthest north. Unlike Alert, the locality has a permanent population which was estimated at 676 inhabitants by the 2010 census. Pupils in Dikson attend the northernmost school in the world and the town has even a hotel. Forget about tourism though, as Dikson is one of the Russian forty-four closed cities (named ZATO in Russian) where access requires specific authorization and is generally forbidden.

Speaking of extreme cities, two other Russian cities must be mentioned: besides being situated extremely north, Norilsk and Nikel hold another extreme record as the most polluted places in the country. The reason for this infelicitous record is their massive industrial activity, almost entirely revolving around nickel smelting. The city of Nikel produces almost 10% of nickel globally and even its name testifies to this activity.

Norilsk, North Siberia, Russian Federation
Norilsk, North Siberia, Russian Federation

The southernmost

From one pole to the other: to find the southernmost cities in the world we need to go to Southern America, namely Argentina and Chile. Two cities claim to be the world’s city farthest south: Ushuaia in Argentina and Puerto Williams in Chile.

Puerto Williams is officially recognised as the southernmost city on Earth and is located on Navarino island, facing the Beagle Channel. Due to its strategic position, the city is an important centre for scientific research linked to Antarctica.

Ushuaia is located on the shores of the Beagle Channel too, all the way down in Tierra del Fuego, Patagonia. The unique combination of sea, mountains, glaciers, lakes and forests makes the end of the world a beautiful place. But before you get too comfortable remember that Antarctica, the coldest place on earth, is just a few days away by boat.

Beagle Channel, Ushuaia, Tierra del Fuego
Beagle Channel, Ushuaia, Tierra del Fuego

The most remote

A place can be considered extreme for the difficulties it takes to reach it, regardless of its latitude. Lack of streets and transport connections along with their significant distance from other inhabited areas have made the following places the most remote in the world.

17,000 feet above sea level, lost in the Peruvian Andes, La Rinconada is the highest city in the world. Reaching this mining shantytown takes days and significant effort, considering the risk of altitude sickness and the treacherous roads that can only be travelled by truck.

La Rinconada, Peru
La Rinconada, Peru

Speaking of remoteness, what comes to mind more readily are islands. In fact, what is considered the most remote inhabited place in the world is an archipelago, Tristan de Cunha, located 2,400 kilometres away from South Africa, which is the closest land to the islands. Discovered in 1506 by a Portuguese explorer, today Tristan is part of the British overseas territory of Saint Helena, Ascension and Tristan de Cunha and its capital is Edinburgh of the Seven Seas. Its population amounts to 267 people, but travel connections are made difficult by the absence of an air strip, courtesy of the islands’ rocky geography. As a consequence, the place can only be reached by occasional cargo vessels or deep sea fishing boats from South Africa. It shouldn’t come as a surprise then that one of the islands of the archipelago is named Inaccessible Island

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Cover picture: Village of Kulusuk, Greenland by Ville Miettinen (CCA 2.0 Wikimedia Commons)

Beata solitudo, sola beatitudo

Eremiti, anacoreti, solitari oppure misantropi… persone che se ne vanno, in parole semplici.

L’idea è affascinante, nella sua semplicità elementare: mollo tutto e vado a vivere da solo con me stesso e starò benissimo. Non salirò più su una metropolitana collassata di gente il lunedì mattina, uscirò finalmente dalla routine lavorativa e dai bilanci mensili, mi ribellerò al meccanismo del “nasci consuma produci crepa”, smetterò di incazzarmi per gli atteggiamenti degli altri e sarò in pace, in una sorta di perenne disintossicazione, come fa l’orso che passa l’intera vita con l’unico, sublime proposito di farsi gli affari suoi nei boschi.

Esistono tuttavia molte persone che operano un taglio radicale e, devo dire, il loro aspetto selvatico e irsuto, come da copione, e i loro visi segnati dal sole, identificano già da subito il loro status di fuggiaschi che non concedono più nulla nemmeno alla meticolosa cura del look che ci sembra tanto indispensabile.

 

La parola eremita deriva dal latino ĕrēmīta, latinizzazione del greco ἐρημίτης (erēmitēs), “del deserto”, perciò “abitante del deserto”, la cui sua storia si perde nella notte dei tempi.

Nella tradizione cristiana, per esempio, la figura dell’eremita assume un severissimo valore spirituale in quanto assolutamente votata a Dio, attraverso la penitenza, la preghiera  e uno stile di vita povero ed essenziale.

Nella Storia di monaci siri, scritta da Teodoreto, vescovo di Cirro nel 425 d.C., possiamo leggere una classificazione quasi antropologica di questi personaggi, distinti in “ipetri” o “reclusi”, ovvero coloro che, estremizzando il tema della casa e del riparo, sceglievano di vivere sempre all’aperto (e con sempre si intende in qualsiasi condizione climatica, al punto da venir completamente sepolti dopo tre giorni di nevicate, come il “grande Giacomo” che venne poi salvato da un provvidenziale “uomo comune” armato di pala), oppure tappati in qualche fetido buco, come il “meraviglioso Zenone” che si calò in una tomba per vivere il resto dei suoi giorni sulla nuda terra.

Alla categoria dei “reclusi” appartenevano anche coloro che decidevano di mortificare il movimento, come gli stiliti che sceglievano di vivere sopra alte colonne per essere più vicini a Dio, oppure gli stazionari, che invece si condannavano a vivere sempre in piedi, magari addirittura legandosi ad una catena di ferro, o gli anacoreti d’epoca medioevale, che si muravano letteralmente in microscopiche stanze affiancate ad una Chiesa e dotate di due feritoie, una per seguire le funzioni e l’altra per ricevere le offerte (minime) necessarie al sostentamento.

Teodoreto infatti ci racconta anche la dieta di questi eremiti: «lattughe, cicorie, prezzemolo e altre erbe siffatte», «quindici fichi secchi» per sette settimane, «ceci e fave bagnate con acqua», «una libbra di pane [300 g ca.] divisa in quattro parti e distribuita in quattro giorni».

Fa un po’ ridere, sapete, leggere di questi  embrioni di monachesimo e credo che la maggioranza dei lettori moderni si divida tra il sorriso e l’incredulità verso certi comportamenti quasi caricaturali, dagli evidenti risvolti psicopatologici,  quasi questi eremiti fossero eternamente impegnati in una sorta di olimpiade della mortificazione.

Fa impressione notare come la disciplina ferocissima di questi masochisti ante litteram, sicuramente ingigantita dall’apologetica, gli imponesse di rivolgere contro se stessi l’intero disappunto di un mondo intero, sopprimendo i bisogni fondamentali dell’uomo, come il sonno, il movimento o la fame per avvicinarsi alla dimensione divina.

Una domanda, tuttavia, sorge spontanea: gli eremiti esistono ancora? Come fanno a vivere unicamente di loro stessi in questo mondo “social”, dove le transumanze polirelazionali sono quasi in un diktat e la digitalizzazione ci permette (o ci impone?) di comunicare in ogni momento ed in ogni luogo?

In una sua indagine il sociologo Isacco Turina, docente a Bologna, ne ha contati circa duecento solo in Italia, uomini e donne, età media cinquantasei anni.

Nel 2007 Sean Penn, nel suo film Into The Wild, ha portato sul grande schermo la storia di Chris McCandless, giovane americano disgustato dal mondo e intossicato dalla letteratura radicale di London, Thoreau e Tolstoj, pronto a raggiungere la desolata tundra inuit per liberarsi «dalla sicurezza, dal conformismo, dal tradizionalismo, tutte cose che sembrano assicurare la pace dello spirito, ma in realtà per l’animo avventuroso di un uomo non esiste nulla di più devastante di un futuro certo».

Trovò la morte dopo 112 giorni trascorsi dentro un autobus abbandonato nei boschi, a causa di alcune piante velenose di cui si era nutrito e di una certa arrogante presupponenza, annotando un preciso diario d’agonia tra le pagine dei suoi autori preferiti.

Il distacco di Chris fu radicale e totale, esattamente come il tragico epilogo della sua storia, ma attualmente, al mondo, esistono storie di romitaggio molto diverse dalla sua.

Parliamo per esempio di Gisbert Lippelt, ex ufficiale di marina che vive in una grotta nell’isola di Filicudi, nelle Eolie. Non credo che nel suo caso ci sia stata una vocazione mistica o un rifiuto verticale, ma soltanto la solida, tranquilla volontà di vivere una “low cost life” davanti ad un panorama mozzafiato. Gisbert si lava con l’acqua piovana e le foglie e ha un viso bellissimo, conosce gli abitanti ed è diventato un esperto dell’archeologia isolana.

C’è Mario Dumini, che vive in una grotta nelle campagne di Tivoli arredata con mobili recuperati dalla discarica. Si lava nel ruscello e trascorre le giornate in profonda meditazione, nutrendosi unicamente di ciò che la terra decide di donargli. Talvolta, quando la questura glielo permette, si reca a Roma per appendere in giro alcuni cartelli “di protesta” da lui personalmente inventati e scritti.

Sue Woodcock, invece, inglese delusa dal mondo moderno e dalla politica, si è ritirata in una casetta di pietra tra le colline dello Yorkshire, vivendo senza acqua né elettricità tra i suoi amici animali, in completa libertà.

 

Leggendo le varie storie, peraltro magistralmente raccontate dalle immagini di Carlo Bevilacqua nel suo progetto Into the silence, sembrerebbe quasi che queste esperienze di romitaggio moderno siano più spesso motivate da un sereno bisogno di solitudine e distacco da questo “nuovo” mondo roboante e velocissimo, piuttosto che dal misticismo o dalla spiritualità più fervente.

Tuttavia, noi “uomini e donne civilizzati”, consideriamo asociali tutti coloro che, pur garbatamente, rifiutano la modernità tanto faticosamente raggiunta per ritornare alla semplicità delle origini, quasi compiendo, secondo noi, una sorta di involuzione biologica.

Ma non è forse vero che una persona che si allontana da tutto e va a vivere sulla cima di una montagna diventa effettivamente più visibile di tutto l’anonimo marasma umano che popola le nostre rumorose metropoli?

 

 

Fotografie da Into the Silence di Carlo Bevilacqua

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