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Art Brut, arte di tutti e creata da tutti

Negli anni Sessanta prende piede il termine Underground per definire un movimento culturale e artistico, nato nel secondo dopoguerra in risposta alla società di consumi che si andava delineando, movimento che con forza, talvolta esagerata, si oppone al mainstream, alla cultura tradizionale e ufficiale, alle mode predominanti, e decide di utilizzare strumenti di comunicazione ed espressione alternativi, insoliti e anticonvenzionali, facendo propria l’idea della controcultura, ossia di una filosofia di vita contraria all’establishment dominato dal denaro e dal successo.

È così che esplodono l’arte, l’editoria, la musica, la letteratura e il cinema underground, mossi da un senso di ribellione, di protesta, dal bisogno di volersi esprimere liberamente senza regole, al limite del buon costume e della buona educazione con una nota di trasgressività mista a chiara e fredda provocazione.

Questa cultura sotterranea risponde a un bisogno umano e sociale: è la risposta di una generazione (e di generazioni) alla ricerca di un’area di appartenenza e di un’identità allargata e condivisa in cui potersi riconoscere per sentirsi partecipi della storia.

 

 

Il Graffitismo e l’Aerosol Art di Jean-Michel Basquiat e di Keith Haring, la cultura hip-hop, il fumettismo, la Street Art di Banksy, Blue, Ericailcane, JR sono alcuni dei tasselli che compongono le infinite sfaccettature dell’arte underground; un’arte che si fonda sul principio per cui chiunque è e può essere un artista in quanto l’arte è di tutti e creata da tutti.

Questo stesso principio era stato espresso nel 1945 da Jean Dubuffet con l’Art Brut, un’arte che opera fuori dagli schemi e al di fuori di ogni tipo di istituzione culturale ed economica e che trova la sua espressione autentica nella necessità di raccontare se stessi e il mondo nella più totale libertà, ignorando i linguaggi ufficiali dell’arte e della critica. Dubuffet era attratto dall’arte dei bambini, degli alienati e di tutti coloro il cui istinto creativo non era imbrogliato dalle norme della ragione. Guardava infatti tanto alla pittura infantile e primitiva di Paul Klee, quanto al pensiero antirazionalista di Jean Jacques Rousseau e al mondo dell’inconscio portato a galla dai surrealisti.

«Non soltanto ci rifiutiamo di portare rispetto unicamente all’arte culturale e a considerare inferiori le opere che sono presentate in questa mostra, perché anzi noi riteniamo che queste ultime, frutto della solitudine e di un puro e autentico impulso creativo (ove non interferiscano aneliti di competizione, di applauso e di promozione sociale), sono più preziose di ciò che producono gli artisti professionisti» scrisse Dubuffet in merito alla mostra che nel 1967 organizzò a Parigi al Musée des Arts Décoratifs.

Vennero esposte numerose opere di circa 135 “artisti” di Art Brut, “artisti” che erano malati di mente, vecchi, proletari, eremiti, pittori autodidatti che usavano metodi anticonvenzionali e lontani dal mondo accademico per creare quadri, sculture e composizioni.

 

Jean Dubuffet, Theatre De Memoire, 1977

 

 

L’Art Brut e Jean Dubuffet diedero in tal modo inizio non solo a un nuovo modo di fare e concepire l’arte, ma contribuirono ad aprire la strada all’arte terapia, un interessante e delicato strumento non verbale grazie a cui si può esprimere il proprio mondo interiore.

Questa tecnica ha due distinti pubblici a cui riferirsi: uno più generico in cui chiunque, dal pittore autodidatta all’appassionato d’arte, dalla casalinga al manager può rientrare; questo target durante il laboratorio viene chiamato a esprimersi in totale libertà, a elaborare creativamente le proprie emozioni con l’ulteriore scopo di eliminare ansia, stress e conflitti.

L’altro pubblico, invece, ben più complesso e fragile, è quello dei servizi psichiatrici e per le disabilità, delle strutture per l’adolescenza, dei centri di riabilitazione, degli istituti penitenziari e dei centri diurni di ricovero per anziani. Un esempio a tal proposito è l’Atelier di pittura dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere, nato nel 1990 sotto la guida artistica di Silvana Crescini. I pazienti, ognuno col proprio tempo e spazio, dipingono tele, scrivono poche righe sull’opera, provando e successivamente imparando a esprimersi secondo il linguaggio non verbale dell’arte e a far emergere il proprio mondo interiore, i propri sentimenti e i propri pensieri.

Il laboratorio in tal modo si accresce di un valore terapeutico, riabilitativo, sociale e comunicativo grazie anche al continuo appoggio e sostegno di un’equipe di medici e psicologi con cui si collabora e si creano i programmi ad hoc. Di certo non è un lavoro semplice e rapido, bensì richiede tempo e fiducia non solo in se stessi, ma anche in colui o colei che guida l’atelier pittorico.

 

Le Fabuloserie a Dicy, Francia

 

Un collezionista che mostrò un certo interesse verso l’Art brut, tanto da dedicargli un museo, è l’architetto Alain Bourbannais, che realizzò “La Fabuloserie” a Dicy in Francia. Il museo nato nel 1983, contiene diverse opere d’arte realizzate da pastori, contadini, guardiani, persone comuni che, senza nessuna conoscenza accademica dell’arte e delle sue tecniche, crearono burattini, disegni, giostre, quadri, sculture ed “installazioni”.

Grazie anche a collezionisti come Bourbannais, l’Art Brut è riuscita a trovare un posto nella storia dell’arte, accrescendone il valore proprio del fare artistico e delle sue variegate possibilità di espressione. L’arte non è più un mondo per pochi e per addetti ai lavori, ma si fregia di una grande libertà, diventando così linguaggio di tutti, un medium creativo, istintivo e non verbale che chiunque può impiegare per esprimersi, parlare di sé e della propria relazione con il mondo.

Alla ricerca della fama dall’underground ai social network

È luogo comune dell’immaginario che ruota attorno alla cultura underground   l’idea che gli artisti che si sono inseriti all’interno di questo movimento siano stati sempre disinteressati all’entrare nelle schiere della cultura popolare, ufficiale e di successo: obiettivo delle loro opere era infatti proprio quello di schierarsi contro le regole che fino alla prima metà del Novecento avevano imbrigliato le diverse forme di produzione artistica, creando una rete semiclandestina di attività che opponessero resistenza alla massificazione della cultura che avanzava nelle società capitaliste.

I movimenti di questa controcultura, che dall’America degli anni ’50 si diffuse presto nel resto del mondo, sembrano impensabili da riprodurre oggi. Non solo molte delle rivendicazioni portate avanti dalla cultura underground e spesso scontratesi con processi per indecenza, oscenità e malcostume, sono oggi comunemente accette a buona parte delle società occidentali; ancora più complessa sembra l’idea di una clandestinità e una segretezza del lavoro degli artisti attuali, facilmente esposti tramite la rete dei social network.

Ma quanta distanza di fatto si trova tra le personalità di spicco della controcultura e la vanità sovraesposta nell’era dei selfie? Quanto dell’attuale attitudine a innalzare a icone certe figure passate e moderne è possibile ritrovare nei modi della cultura underground?

 

Locandina promozionale di Gioventù Bruciata, diretto da Nicholas Ray nel 1955.[/

Sebbene la spontaneità fu alla base tanto dell’esistenza quanto delle produzioni degli artisti underground, è lampante che anche il loro stile di vita, improntato a ogni tipo di eccesso, divenne presto un must generazionale, coronato dal successo della pellicola Gioventù bruciata, che nel 1955 promuoveva l’immagine dei “belli e dannati”.

Un’immagine che conserverà il suo fascino negli animi adolescenti delle generazioni successive e che sarà alla base del successo di una consistente fetta di industria cinematografica, non da ultimo quella che, favorita dall’avvento della moda hipster ( che non a caso prende nome dal gergo dei giovani beat, che così chiamavano negli anni ‘50 gli appassionati di jazz e bebop) ha in tempi recenti ripreso questo filone in veste biografica, contribuendo alla recente mitizzazione di alcuni dei protagonisti della controcultura: da Urlo di Epstein e Friedman, che nel 2010 racconta la vita del poeta ebreo e omosessuale Allen Ginsberg; a Boom for Real: L’adolescenza di Jean-Michel Basquiat di Sara Driver, uscito lo scorso anno incassando 22,5 mila dollari.

 

Locandine di Howl (in italiano Urlo) diretto da Rob Epstein e Jeffrey Friedman nel 2010 e Boom for Real. L’adolescenza di Jean-Michel Basquiat diretto da Sara Driver nel 2017.

 

Un’attenzione che più che focalizzarsi sulle opere, sembra rispecchiare quel desiderio un po’ morboso, tipico della condivisione social, di entrare nella quotidianità delle persone, in questo caso artisti dediti a vite fuori dagli schemi, spesso caratterizzate dal massiccio consumo di alcol e droghe.

Un’attenzione che in alcuni casi arriva alla falsificazione, come è successo a Vivian Maier, protagonista nel 2013 dell’opera di Siskel e Maloof: Alla ricerca di Vivian Maier. Dopo aver ritrovato stampe e negativi in un magazzino acquistato all’asta, Maloof si dedicò infatti alla creazione di un’immagine della Maier come di una bambinaia misantropa, segretamente dotata di un’innata capacità di anticipare la street photography. Per ottenere questo effetto avanguardistico, lo scopritore si dedicò alla selezione e alla stampa di quei negativi che potevano rispettare l’ideale estetico che si voleva proporre, ma che forse l’autrice non avrebbe apprezzato: si sa, ad esempio, che la Maier riquadrava tutte le fotografie che stampava per rispettare il formato rettangolare della carta, mentre a noi sono per lo più offerte stampe a pieno negativo. L’artista stessa, del resto, pare aver avuto presentimento del destino della sua opera, quando spiegò a un datore di lavoro che «se non avesse tenuto nascoste le sue fotografie, qualcuno le avrebbe rubate o usate male».

Se possiamo ipotizzare che la fotografa della Chicago degli anni ’50 e ’60 non avrebbe probabilmente apprezzato i metodi e l’estetica dell’era dei social, non possiamo sostenere con la stessa certezza che gli artisti underground a lei contemporanei avrebbero avuto la stessa opinione. Né è così facile convincersi che sia stata la rete informatica a distruggere i canoni della cultura alternativa: se infatti l’obiettivo era liberarsi da schemi preimpostati, ottenere libertà espressiva e trovare lo spunto narrativo nella vita quotidiana e in quella dei bassifondi, allora i social network possono essere considerati un mezzo e non un ostacolo alla controcultura, a patto certo di dedicarsi non alla mitizzazione del passato, ma a una nuova spontaneità artistica.

 

Copertina del DVD di Alla ricerca di Vivian Maier di John Maloof e Charlie Siskel del 1013 e un’opera della fotografa.

 

Del resto, al giorno d’oggi moltissimi artisti underground utilizzano i social network come principale canale di comunicazione; esempio eclatante sono gli street writers, che spesso tutelati dalla garanzia di anonimato offerta dalla rete informatica, riescono a dare risalto e rivendicare come proprie le opere con cui colorano le vie cittadine. Le piattaforme informatiche diventano così vetrine e musei, raddoppiando lo spazio urbano e offrendo un nuovo palcoscenico a quell’arte che rifiuta la propria canonizzazione e mercificazione. Proprio il fattore economico diventa così elemento critico nel rapporto, in origine di aperta opposizione, tra gli artisti che si riconoscono come underground e la realtà del mainstream: il diritto a fruire l’arte diventa pubblico e gratuito; di contro un campanello d’allarme suona a ricordare che quello di artista è pur sempre un lavoro e va pagato.

È probabilmente proprio per evidenziare queste innumerevoli contraddizioni interne al mondo dell’arte che la scorsa settimana all’Asta di Sotheby’s si è assistito alla performance autodistruttiva di Banksy, che tramite un tagliacarte inserito nella cornice, ha ridotto in strisce la stampa Girl with Balloon, appena venduta per un milione di sterline. Nonostante le precauzioni dell’artista siano state tutte indirizzate a vanificare la vendita all’asta della sua opera, gli ingranaggi del sistema dell’economia di mercato non sembrano essersi bloccati: delle 600 copie originali dell’opera, 598 mantengono il loro valore originale (attorno le 40 mila sterline), mentre quella tagliuzzata, dal cui pagamento l’acquirente non è retrocesso, pare aver ora raddoppiato il valore di mercato raggiunto in sede d’asta. Unica copia a perdere valore economico (sceso a 1 sterlina) è quella di un anonimo che, convinto di poter accrescere il valore della stampa in suo possesso, ha operato gli stessi tagli visti nel video di Sotheby’s, guadagnandosi un’accusa di vandalismo mossa dalla casa d’aste stessa.

In contemporanea, anche grazie alla pubblicazione di Banksy stesso del video che spiega i meccanismi inseriti nella cornice della stampa sul suo profilo instagram, canale preferenziale dell’autore, il successo dell’artista continua la sua ascesa e sempre più libri e mostre si concentrano su questo autore; sarà forse un caso, ma proprio Girl with Balloon è l’opera rappresentata sulla locandina di The Art of BANKSY. A VISUAL PROTEST, personale non autorizzata dall’artista, che dal 21 Novembre sarà in mostra al MUDEC di Milano.

 

Banksy, Girl with Balloon, sul muro di Londa, South Bank, dove apparve nel 2002, accanto alla scritta “THERE IS ALWAYS HOPE” (C’è sempre speranza).

 

In copertina: Basquiat, Notary, 1983. Acrilico, pittura a olio e collage di carta su tela montata su supporti in legno. Collezione Famiglia Schorr; in prestito a lungo termine al Princeton University Art Museum.

Il mockumentary: finzione, realtà e ancora finzione

Mock: dall’inglese, “prendere in giro”.
Giocare con il cinema, alternare realtà e finzione, spingere lo spettatore a credere in quello che vede, lasciare che si immerga in quello che si trova di fronte per disvelare (in alcuni casi) l’artificio soltanto alla fine.

Una mistificazione che negli anni si è prestata a vari intenti, che ha interessato registi di fiction e documentaristi, per trovare grande fortuna all’interno del genere horror, teso a conquistarsi la fiducia dello spettatore calandolo in un “come se” che gli permette di accogliere stati di (ir)realtà altrimenti difficilmente accettabili.

Prodotto dalla BBC nel 1965 e vincitore di un Premio Oscar al Miglior Documentario (!), The War Game viene spesso considerato il primo mockumentary della storia. Nell’opera forse più nota tra i tanti lavori politici e sperimentali di Peter Watkins, lo spettatore è convinto di trovarsi immerso nelle cronache di uno scenario post-apocalittico, a seguito di una guerra mondiale.

A cavallo tra gli anni ‘20 e gli anni ‘30, l’ebreo americano Leonard Zelig fa parlare di sé per la sua capacità di assumere fattezze e comportamenti simili a chiunque gli stia accanto. Un viaggio che si snoda tra le metamorfosi di un uomo che si trasforma in trombettista jazz, campione di baseball o obeso, indiano o cinese. Attraverso le mille storie del suo uomo-camaleonte, nella pellicola Zelig del 1983, una parodia di un documentario dei primi del Novecento, Woody Allen racconta, con il suo immancabile spirito tragicomico, la capacità di omologazione e conformismo del comune cittadino nei confronti del sistema.

Dark Side of The Moon prende invece di mira la teoria del complotto, instaurando quindi un paradossale meccanismo di (falso) documentario per accreditare – e, quindi, a screditare – le tesi secondo cui l’allunaggio dell’Apollo 11 nel 1969 non sia mai avvenuto.
Buzz Aldrin, Kissinger e Rumsfeld, tra gli altri, partecipano all’operazione mettendo i loro volti e le loro testimonianze sostenendo la visione di Stanley Kubrick come orchestratore – e marionetta, al tempo stesso – di una macchinazione propagandistica.

Dark side of the moon

Nel 2008, Joachin Phoenix annuncia di voler abbandonare la carriera di attore per intraprendere quella di rapper. Casey Affleck, al suo primo lavoro da regista, decide di girare un film sul suo cambiamento, mentre Joachin sta al gioco e indossa i panni di un novello artista hip-hop che sceglie di sparire dalle scene, maturando la decisione di non presentarsi nemmeno alla conferenza stampa in programma al Festival di Venezia che anticipa l’anteprima mondiale dell’opera. Sarà vero? Definito dallo stesso Affleck una “performance art”, I’m Still Here è la surreale biografia in fieri di una figura decisamente sopra le righe e, insieme, il grottesco ritratto dello star system e della sua (s)mitizzazione.
Una grande truffa che non si è esaurita al termine della proiezione ma è stata sconfessata dal regista e da Phoenix soltanto poche settimane dopo l’anteprima in laguna.

Il confine tra documentario e finzione, tra illusione e realtà, finisce a volte per non smascherarsi affatto. Exit Through the Gift Shop (in copertina), documentario del 2010 attribuito a Banksy, è un’osservazione sulla figura dell’artista contemporaneo e sulla mercificazione delle sue creazioni. Una riflessione sull’autenticità che non si consuma con i titoli di coda o le conferenze stampa, opera di una figura senza volto nei confronti della quale lo spettatore, ancora oggi, è destinato a continuare a chiedersi se dietro la macchina da presa del “documentario su un uomo che voleva fare un documentario su di me” si nasconda davvero l’artista che fa dell’ubiquità invisibile uno dei suoi punti di forza.

Leonardo Lussana: I due volti dell’arte

Nel corso delle epoche la definizione di arte si è modificata e ampliata tante volte, grazie a nuove visioni artistiche e l’utilizzo di nuovi stili, potremmo dire che quella che racchiude tutto questo è questa: “Qualsiasi forma di attività dell’uomo come riprova o esaltazione del suo talento inventivo e della sua capacità espressiva”.

Oggi noi di Pequod parleremo di questo e altro con Leonardo Lussana in arte Leù, giovane artista con la doppia anima: Dottore in Beni culturali e Storia e critica dell’arte e writer; qualcuno direbbe che sono due cose completamente diverse, il fuoco e l’acqua, invece Leù non si identifica con una o con l’altra perché come lui stesso afferma: «Sono entrambe parti che compongo il mio io, come il mio lavoro, le mie altre passioni le mie qualità e i miei difetti.».

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Leù ha iniziato a dipingere graffiti una decina di anni fa; ci racconta: «I motivi che mi hanno spinto a cominciare sono diversi e, alcuni, rispecchiano quei classici stereotipi che la stampa e l’opinione comune sono soliti indicare come tratti caratteristici dei giovani della nostra generazione: al primo posto metto la mia passione per tutto quel che riguarda la pittura e il disegno, a seguire, la fascinazione per i murales che vedevo tutti i giorni lungo la strada andando e tornando da scuola, la ricerca di emozioni diverse nella vita di tutti i giorni, la volontà di dire al mondo: “ehi, guarda che ci sono anche io” e anche un sentimento di rifiuto verso tutto quello che fa la maggior parte della gente. »

Il suo primo graffito l’ha realizzato in un sottopasso: «Non avevo bene chiaro quello che stavo facendo, non avevo nemmeno preparato una bozza, fu una cosa spontanea e il risultato fu più simile ad un occhio di bue che a un pezzo vero e proprio (il mio nome in lettere bianche decorate da pois gialli), insomma, citando Fantozzi, “una cagata pazzesca”».

Lui non si considera affatto un artista, «ma uno che si diverte come un bambino a cui danno i pennarelli e gli dicono di disegnare ciò che vuole. Detto questo posso dire che cerco di trasmettere sul muro le mie sensazioni e i miei stati d’animo, ad esempio cerco di inserire un cielo con delle nuvole nelle mie composizioni: mi soffermo spesso ad ammirare il cielo, che sia nuvoloso, sereno, di notte o di giorno mi restituisce sempre un senso di pace e tranquillità.

Al di là dei soggetti in sé, che sono per lo più animali, un altro elemento ricorrente sono le forme geometriche di diversi colori che si affollano sullo sfondo o entrano in relazione con tutto il resto, le dipingo un po’ per scelta estetica un po’ perché potrei paragonarli ai mille pensieri che mi affollano la testa. Per quanto riguarda l’ispirazione direi che è la mia fantasia la componente più importante, anche se a volte inizia tutto dalla frase di una canzone o dalle sensazioni negative o positive che mi lasciano le persone che incontro e conosco.»

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“Che cos’è l’Arte?” secondo lui è la classica domanda da un milione di dollari: «Sotto la parola arte si possono elencare tutte quelle “cose” realizzate dall’uomo, materiali e non, in grado di emozionare e affascinare dal punto di vista estetico, mi rendo conto che è una definizione un po’ generalizzata ma al giorno d’oggi questo campo è talmente vasto che è difficile trovare delle parole che riescano a comprendere tutto senza cadere in contraddizione. Credo quindi che i graffiti e la street art possano rientrare nella definizione di arte, anche chi opera nell’illegalità può tranquillamente aver creato un qualcosa che possa essere chiamato arte e non sto parlando solo di Banksy o degli altri più quotati ma di chiunque, ovviamente bisogna poi valutare caso per caso, come per tutto il resto d’altronde.»

Attualmente la sua attività procede bene e riesce a dipingere in media una volta a settimana. «Non è molto, c’è gente che fa molto più di me, ma io non mi identifico come writer, anche perché non scrivo lettere ma mi concentro esclusivamente su soggetti figurativi; è solamente una parte di me che coltivo con passione.»

Le sue prospettive del futuro è quella di migliorarsi sempre e di crescere continuamente: «La vedo un po’ come la teoria dell’evoluzione: chi sa stare al passo coi tempi va avanti. Non sono mai pienamente soddisfatto di quello che faccio, mi lascia sempre un po’ di delusione, penso anche di essere molto critico nei miei confronti ma allo stesso tempo credo che sia la condizione necessaria per correggere i propri errori. »

Le difficoltà ci sono e sono « i limiti tecnici che magari non ti consentono di fare ciò che vorresti e la disponibilità di spazi liberi dove poter dipingere; mi sto dedicando quasi esclusivamente alla parte legale dei graffiti: commissioni di privati e dei comuni, hall of fame ecc… E un ostacolo caratteristico di questo lato della medaglia sono le imposizioni di chi ti chiede di fare il disegno, ad esempio il tema scelto piuttosto che i soggetti da rappresentare, a volte li considero un po’ castranti e noiosi. »

 

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Brick Lane e la Street Art

Brick Lane un quartiere dell’East end londinese, immediatamente a ridosso della City, nella sua storia ha subito continui cambiamenti dovuti ai costanti flussi migratori che hanno disegnato la nota multietnica che lo contraddistingue. Il tutto inizia con gli Ugonotti nel seicento per poi passare attraverso irlandesi, ebrei ed arrivare ad accogliere le popolazioni mediorientali provenienti principalmente dall’est Bengala, che ne caratterizzano la conformazione attuale.

Oggi l’evoluzione di quest’area ha fatto si che diventasse uno degli angoli più emblematici per le nuove tendenze londinesi, tra caffetterie per hipster, mercatini vintage e concept store alla moda si trovano le pareti di mattoncini colorate e riempite di graffiti da street artists provenienti da tutto il mondo.

Si possono ammirare graffiti di artisti giovani come Borondo e il collettivo “l.i.f.e. Collective”, artisti anonimi che firmano con solo il loro lavoro, per passare ad artisti navigati come Paul “Don” Smith apprezzato anche dal celeberrimo Banksy (anche lui  “esposto” su questi muri).

Non si può camminare senza farsi travolgere dai colori brillanti e le immagini che cercano di venire fuori dalle pareti, lasciando spesso una sensazione di sconosciuta meraviglia.

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