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Arte da mangiare

Parlando di estetica e cibo, impossibile non citare il cake design!

Negli ultimi anni abbiamo assistito a un’incredibile ascesa di questa pratica culinaria, attraverso cui realizzare torte dalle forme più incredibili e disparate, ricoprendo il pandispagna con pasta zucchero colorata e modellata. Dai programmi televisivi, ai corsi privati, fino agli innumerevoli tutorial di youtube, la moda del cake design è entrata nelle nostre case e nei nostri palati.

Pequod è andato a casa di un’appassionata di cucina che per qualche tempo si è cimentata in quest’arte, scoperta nella Francia del ‘500 e diventata negli anni 2000 il punto di forza di moltissimi pasticceri, soprattutto d’oltreoceano, ma anche europei.

Paola, la nostra ospite, ci ha regalato qualche scatto delle sue creazioni!

Ma cosa si nasconde sotto quei veli di pasta zucchero?

Abbiamo chiesto a Paola di mostrarci i passaggi necessari per la realizzazione di alcuni suoi dolci.

Tutta questa fatica per la realizzazione di splendidi dettagli, ma quanto poi si gusta di queste torte?

«La torta vera e propria – risponde Paola – rimane sotto la pasta zucchero, che per quanto buona possa essere, risulta sempre troppo dolce per essere mangiata in grandi quantità. Ci si può comunque sbizzarrire sul gusto da dare al pandispagna e alle creme che vi si possono spalmare; oltre alla possibilità di inserire frutta, canditi, cioccolato, croccante… e tutto ciò che la fantasia vi suggerisce!

Uno dei modi in cui io preferisco usare la pasta zucchero è per piccole decorazioni su torte semplici e tradizionali, come la mimosa».

Quando le chiediamo di mostrarci la sua torta preferita, Paola però non indica le decoratissime torte che ci ha mostrato, bensì esibisce la fotografia di una splendida crostata di frutta di stagione!

 

La casa è il vostro corpo più grande

La casa è il vostro corpo più grande. Vive nel sole e si addormenta nella quiete della notte; e non è senza sogni.

Kahlil Gibran

Accade, entrando in casa d’altri, di sentirsi partecipi di sfumature della personalità del nostro ospite mai incontrate prima; così come accade, aprendo la porta della propria casa, di accogliere l’altro in ambiti di noi stessi prima celati, i più personali e fragili. Gli ambienti in cui viviamo diventano spesso tele su cui dipingere il proprio autoritratto e in cui riconoscersi, su cui autoproclamare noi stessi.
Ma quando l’immagine di noi stessi è un riflesso incerto, cosa succede ai nostri muri, alle nostre stanze?
Entrando nelle case di chi ha votato la propria vita a una sostanza esterna a sé, vittime di dipendenze cui dedicano tutti i propri sforzi, si è investiti da una sensazione forte di contraddizione: accumulo e vuoto. Ammassi di soprammobili, riviste, indumenti, dischi, documenti, immondizia, stoviglie, libri sullo sfondo di muri che si sgretolano mangiati dalla muffa, armadi che crollano e si svuotano, porte che si scardinano. Uguali i loro occhi: pieni di vita, passato, ricordi; pieni soprattutto di vuoti, mancanze, perdite.

Boccaleone – Il travaglio dell’Ex Convento delle Clarisse

Fotoreportage di Francesca Gabbiadini e Sara Ravasio

Siamo nel cuore di Boccaleone, quartiere periferico di Bergamo, area degradata sotto il viadotto della circonvallazione.

Camminando in quest’area, che in passato ha visto la realizzazione di diverse opere strategiche per la viabilità cittadina, ci si imbatte in un gigantesco stabile abbandonato e fatiscente. L’edificio, noto come ex convento delle Clarisse, ha una storia alquanto travagliata: vede la luce nel 1847 grazie a suor Maria Chiara Poloni, fino al 1964, anno in cui viene traslocato in un nuovo stabile costruito ad hoc in via Lunga. Da quella data in poi il chiostro e le stanze si trasformano prima in deposito della Rodeschini, un’azienda leader nella distribuzione all’ingrosso, e più tardi in un ristorante, fino a vedere il completo abbandono all’incirca all’inizio degli anni Novanta.

Nel 2006 l’immobiliare <<Abitare 2006 srl>> fa partire un progetto di costruzione di trentacinque appartamenti, due negozi e una sala civica. I lavori, affidati alla milanese <<Futura srl>>, iniziano il 12 settembre ma finiscono esattamente due anni dopo per mancanza di fondi. Nel 2010 l’impresa fallisce e lascia il convento al rifugio disperato di senzatetto e tossicodipendenti.

Possiamo far cadere il nostro sguardo davanti l’ennesima “cattedrale nel deserto” che diventa luogo di dinamiche sociali problematiche, con il beneplacito di molti residenti che vedono in esso solo una zona franca, popolata da tossici, malfattori e malintenzionati e non come possibile luogo di recupero e socialità, sforzo invece messo in atto dalla realtà giovanile di Boccaleone Open Space che con tutte le loro forze sta cercando di salvare il quartiere tramite una rilettura urbanistica e azioni socio-culturali rigeneratrici.

Once upon a time in Rome | l’idilliaca Isola Tiberina

Un’isola, una Chiesa, un ospedale, due ponti e un intreccio di leggende. No, non è la nuova sceneggiatura di Tim Burton, ma l’Isola Tiberina, una piccola perla urbana di formazione alluvionale nel cuore pulsante di Roma.

Nota come Insula Tiberina, Isola dei Due Ponti – Ponte Cestio e Ponte Fabricio – Licaonia o semplicemente Insula, si erge maestosa tra le acque del Tevere. Lunga poco più di 300 metri e larga non più di 90, a conferirle il primo velo di mistero è la forma: leggenda vuole infatti che l’isola sorga sul relitto di un’imbarcazione sommersa, assumendone la tipica forma.

Addentrandosi in questa epopea romana si torna al 509 a.C., al tempo di Lucio Tarquinio Superbo (ultimo Re di Roma) vittima di una rivolta popolare che gettò nel fiume il deposito di grano del tiranno in quantità così abbondante da formare l’isoletta. Ma la più conosciuta resta quella legata al culto di Esculapio (Dio della medicina): la terribile pestilenza del 291 a.C., un serpente e un Tempio in suo onore sui resti del quale venne costruita la Chiesa di San Bartolomeo.

Le antiche tradizioni mediche non si sono estinte con il tempo, nel 1584 nacque l’ospedale “Fatebenefratelli” attivo tutt’ora.

Non sembra nemmeno di essere nella Capitale, il tempo è cristallizzato e se allenti la presa dei pensieri puoi sentirne la leggerezza che ti scorre tra le dita, storia dopo storia. Tanto piccola quanto ricca, dalla giusta prospettiva è possibile osservarla nella sua totalità, notarne i dettagli, un salvagente rosso, una terrazza, alberi in fiore come cornice di una perfetta cartolina.

La Nave di Pietra. Un piccolo forziere prezioso, una croce rossa da segnare sulla mappa.

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L’Aquila rinasce

Era il 6 Aprile del 2009, quando una forte scossa di terremoto ha in buona parte distrutto l’Aquila, capoluogo dell’Abruzzo.

Attualmente sono passati 7 anni da quel fatidico periodo e le condizioni non appaiono molto diverse.

Dall’autostrada che porta al Parco nazionale del Gran Sasso, in lontananza, si vedono numerose gru che emergono dal capoluogo, e ognuna di queste, per gli aquilani è simbolo di speranza, perché dimostrano l’avviamento delle ristrutturazioni e delle costruzioni dei palazzi in rovina. Percorrendo le strade del centro si distinguono sia gli stabili abbattuti dal terremoto, che ricordano le costruzioni colpite dai bombardamenti in tempo di guerra, sia gli edifici e le opere d’arte rimessi a nuovo.

Tra i vari edifici storici ristabiliti, in Piazza San Vito si trova il simbolo dell’Aquila: la “Fontana delle 99 cannelle”, costituita da 99 volti, dalla quale fuori la bocca esce uno zampillo d’acqua.

I soli esseri viventi presenti nelle vie deserte, sono gli operai che lavorano infaticabilmente nei cantieri, qualche raro abitante rimasto nella propria residenza e i cani randagi. La vita quotidiana della maggior parte degli sfollati continua poco fuori dal centro, nelle case prefabbricate e nei molti centri commerciali.

Anche se ci vorranno molti anni per completare i lavori, la pazienza agli aquilani non manca e nonostante il dolore provato, non mollano e guardano avanti, con la voglia di lottare per riacquistare la propria esistenza.

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La città in bilico

Istanbul è una città di confine? Questa è la domanda più difficile.

Agli occhi dell’ovvio, la risposta è sì: Istanbul è l’ultima città europa che si possa ancora considerare di confine, ovvero un limes tra due mentalità diverse e per certi versi inadeguate l’una all’altra. Istanbul con un piede in Europa, Istanbul ortodossa e bizantina; Istanbul con un piede in Asia, Istanbul dei minareti e del caffé turco.
Ma a ben vedere, il confine implica separazione, discrimine. Qua inizia la civiltà, mentre hic sunt leones. Questa separazione, a Istanbul, io non l’ho vista. È la sua stessa storia di città di scambio, pedaggi e mercanti a impedire che le parti, come in un composto chimico, si separino per decantazione.
Come scrive Orhan Pamuk, nel libro che gli è valso il premio Nobel, Istanbul è una città in bilico. Ciò significa che il confine, se c’è, è mobile e decidiamo noi dove collocarlo.
Andai nel luglio 2010, avevo in mente le immagini di Ara Güler, il fotografo che meglio di ogni altro è riuscito a catturare lo spirito della città negli anni ’50 e ’60, prima dell’ondata occidentale e della definitiva modernizzazione. Il suo meraviglioso bianco e nero si frapponeva tra i miei occhi e i colori sgargianti della realtà, deformava la mia visione, permeata da quel sentimento di gioiosa tristezza che in turco si chiama “hüzün.
Provai, senza grande successo, a scattare alcune foto della città seguendo l’esempio di Güler, con una Nikon del ’70 a rullino in bianco e nero. Questo spiega la bassa definizione delle immagini, che sono state scannerizzate per essere disponibili in digitale.
La galleria non ha alcuna pretesa di ordine o completezza. Si tratta di foto scattate da un amatore, non da un professionista dell’immagine.

Cay Bahcesi
Cihangir
Cihangir

Galata
Moschea
Minareto

Cimitero

Mar Nero
In copertina: il quartiere Eminönü

7:30 l’ora dell’abbandono: ex-cotonificio Cantoni di Saronno

Fotoreportage di Stefano Banfi, Lorenzo Caimi e Riccardo Schiavo

Correva l’anno 2002. Dopo 91 anni di onorata attività il cotonificio Cantoni ufficializzava la sua fine.

Gli immensi spazi della ditta vennero gradualmente abbandonati lasciando sporadiche tracce del passaggio della recente vita industriale. Registri di vendite, scrivanie, materiale tessile, manichini rimangono ancorati all’ormai ex-cotonificio quasi a ricordare a cosa furono adibiti quegli spazi.

E poi gli sterminati paesaggi lunari offerti dai vari capannoni, dove fanno capolino le colonne portanti e i fatiscenti neon che pendono dai soffitti. L’atmosfera è quella di un film horror di Romero, ti aspetti di essere assalito da inquietanti presenze ad ogni minimo rumore ma in realtà le uniche presenze son quelle dei piccioni che, numerosi, assediano i lucernari sfondati da cui filtra quel poco di luce presente. L’umidità la fa da padrona. Pozze che potrebbero esser facilmente scambiate per stagni costellano la pavimentazione dell’edificio. Qua e là spuntano, testarde ed insistenti, piante e felci verdi che cercano di dare un poco di colore alla monocromia grigio – muffa che caratterizza gli spazi.

Con i suoi cupi e tetri torrioni che svettano oltre il muro di cinta, la “ex – Cantoni” rappresenta quasi uno sberleffo, una provocazione, una sfida a chi trasforma e plasma il territorio sotto la dura regola di cemento e betoniera.

Complice l’immobilismo delle amministrazioni comunali che si sono avvicendate, i progetti per trasformare l’area dismessa in centri commerciali o palazzoni popolari sono stati, fortunatamente, sempre sventati. I caseggiati della vecchia fabbrica così resistono e persistono da 11 anni. Al loro interno sembra che il tempo si sia fermato. I calendari segnano ancora il 2002. I registri di vendita ammonticchiati sopra le scrivanie parlano di affari del medesimo anno. Tutti gli orologi ancora appesi segnano la medesima ora, le 7:30.

Le uniche cose in grado di mutare in questo piccolo mondo fermo a inizio anni 2000 sono l’umidità e la vegetazione che agendo in simbiosi conquistano ogni giorno piccoli pezzi dell’ex industria.

Dopo 11 anni di abbandono forse la testarda resistenza di questi caseggiati è destinata a finire. Secondo il nuovo Piano di Governo del Territorio difatti al loro posto sorgeranno case, giardini e parchi.

E così l’ex area industriale scomparirà senza lasciar traccia dietro di sé.

E il tempo, fermo alle 7:30 di un giorno di inizio millennio, forse anche lui, tornerà a correre.

 

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