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Da truccabimbi e babydance al teatro-gioco. Diritto al gioco guidato?

Nel novembre di 27 anni fa, l’ONU approvava la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, riconoscendo a tutti i bambini del mondo il DIRITTO AL GIOCO. Dal testo della Convenzione:

Art. 31

  1. Gli Stati parti riconoscono al fanciullo il diritto al riposo e al tempo libero, a dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età e a partecipare liberamente alla vita culturale ed artistica.

  2. Gli Stati parti rispettano e favoriscono il diritto del fanciullo di partecipare pienamente alla vita culturale e artistica e incoraggiano l’organizzazione, in condizioni di uguaglianza, di mezzi appropriati di divertimento e di attività ricreative, artistiche e culturali.

In vent’anni sempre più attenzione si è rivolta al fanciullo e al suo tempo libero, la cui organizzazione è pensata oggi come fondamentale nella formazione educativa dei bambini. Di pari passo  si è vista una crescita esponenziale di associazioni, onlus e progetti indirizzati in questo senso e pronti alla collaborazione con gli enti scolastici. Ciò ha probabilmente dato una spinta propulsiva al riconoscimento di figure “nuove” all’interno delle scuole e delle stesse associazioni: l’animatore specializzato, lo psicomotricista, i tirocinanti di Scienze dell’Educazione, gli attori professionisti che portano avanti attività teatrali per l’infanzia e la gioventù.

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Uno strato sociale che oggi sembra essere indispensabile nella dimensione formativa, che vuole l’interazione di soggetti educativi diversificati. Numerosissime sono le associazioni dedicate all’infanzia; nel territorio bergamasco, ad esempio, Airone Associazione dal 2003 propone attività atte alla stimolazione creativa della crescita educativa dei fanciulli: dai progetti scolastici artistico-motori, ai Centri Ricreativi Diurni (estivi e invernali); dalle attività extrascolastiche con laboratori riguardanti le arti, ai progetti di assistenza e terapia. Un approccio educativo, creativo e ricreativo è quello che si tenta di seguire in questi progetti: istituzionalizzazione del gioco?

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L’associazione propone inoltre attività legate alla figura della babysitter e dell’ animatore specializzato, di quelli che animano le feste dei bambini di oggi. Svaghi come il truccabimbi, “sculture di palloncini”, ma anche le feste a tema con tanto di spettacolino teatrale, giochi musicali di gruppo e babydance. Tutti elementi ormai considerati essenziali per una qualunque festa che preveda uno spazio dedicato ai bambini.

Si parla in questi casi di gioco “guidato”: una tipologia di gioco in cui è la figura dell’adulto a proporre e guidare determinate attività, che abbiano degli obbiettivi specifici e/o pensati, studiati e legati al contesto in cui vengono svolti. Giochi apprezzati molto da insegnati, educatori e genitori, che riescono così più facilmente a gestire e orientare il tempo libero dei più piccoli; forse meno amati dai bambini, che chiedono spazi di gioco libero.

Il gioco guidato, che spesso si fonde con attività di tipo ludico-artistico, trova spazio nel mondo dell’arte, della musica, della danza e del teatro. L’educazione all’arte viene trasmessa sotto forma di percorsi guidati e specializzati. Sempre nel contesto bergamasco troviamo due esempi di questo tipo di progetti: Pandemonium Teatro e Erbamil.

Scuola di teatro comico sperimentale nata negli anni ’80, Erbamil dona un ampissimo spazio nelle sue energie al mondo dell’infanzia: percorsi ad hoc vengono proposti in relazione alla stimolazione della creatività, alla partecipazione e al divertimento, all’educazione all’ascolto e alla creazione di un piccolo e proprio lessico affettivo.

Pandemonium, Teatro d’arte contemporanea per le nuove generazioni, declama la propria attenzione per il mondo dell’infanzia già nella definizione che dà di sé. Le produzioni della compagnia e le rassegne proposte sono tutte rivolte a un piccolo pubblico che trova nel gioco del teatro un forte canale di educazione alla sensibilità.

Oggi si parla molto di educazione, obiettivi, attività, stimoli e orientamenti; si parla poco di libertà e spontaneità, di spazio lasciato alla creatività che proviene dal basso di quelle testoline esagitate. Al di là di come cambino le generazioni e i modelli educativi, io ripenso con nostalgia al pavimento che diventava un mare di lava e al “facciamo che io ero una principessa”.

Pedagogie d’altri continenti

«In metro, un bimbo di una ventina di mesi stava seduto sulle gambe della mamma e teneva in mano un gioco di gomma: si divertiva a gettarlo in terra, ridendo per il rumore prodotto, e il papà a ogni tonfo si abbassava a raccoglierlo. In un movimento monotono la scena continuava a ripetersi, il gioco cadeva e il papà si abbassava, ma a nessuno veniva in mente di innervosirsi e sgridare il bambino», un amico di rientro dal Giappone mi racconta di quest’episodio per spiegarmi la libertà totale di cui godono i bambini nel Paese del Sol Levante. Nell’immaginario occidentale, i piccoli giapponesi crescono addestrati fin dall’infanzia a essere parte di una società operosa e produttiva, alle cui regole è imposto sottostare acriticamente; in realtà, in età prescolastica il modello educativo giapponese è tra i più lassisti e liberali del mondo. Ne Il crisantemo e la spada, Ruth Benedict dà un’immagine grafica di questo modello educativo: l’arco di vita dei Giapponesi segue una curva ad U (contrapposta al modello americano che ha forma Ո), «in cui i massimi di libertà e di indulgenza sono riservati ai bambini e ai vecchi, mentre le limitazioni all’autodeterminazione individuale aumentano lentamente dopo la fanciullezza per raggiungere il punto più basso della curva nel periodo che immediatamente precede e segue il matrimonio».

L’educazione degli infanti avviene quasi totalmente per mezzo di provocazioni psicologiche, di cui la Benedict offre interessanti esempi: «quando un altro pic­cino viene a far visita, la madre in presenza del proprio bambino, si mette a vezzeggiare il piccolo ospite e dice: “Ho intenzione di adottare questo bambino; desidero proprio un bambino così carino e così bravo. Tu invece non ti comporti come dovresti per la tua età” […] oppure la madre dice al bambino: “Tuo padre mi piace più di te: lui sì che è un uomo come si deve”». In questo modo si ottiene il risultato di far sorgere nel giapponese adul­to quel timore del ridicolo e della condanna sociale che è un elemento così tipico della sua mentalità e che trova il suo fondamento nel kimochi-fugi, che Azuma definisce come «la tendenza a dare importanza ai sentimenti degli altri, o a tentare di simpatizzare con i sentimenti degli altri e di percepire le loro intenzioni».

Sempre grazie a questa filosofia, i bambini sono educati a essere membri di una società imperniata sul gruppo, di cui presto dovranno imparare le gerarchizzazioni, riflesse per la loro importanza nel linguaggio quotidiano: le espressioni “fratello” e “sorella” esistono, infatti, in Giappone solo accompagnati da riferimenti all’età, ossia come ani (fratello maggiore) o otōto (fratello minore), ane (sorella maggiore) o imōto (sorella minore).

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Questa gerarchizzazione, data dall’ordine di nascita, che attribuisce un vero e proprio potere, una vera e propria autorità, mi ricorda in qualche modo quello che in Senegal ho osservato essere l’ordine che naturalmente si costituisce all’interno delle famiglie. In tutta l’Africa, l’età è motivo di vanto e la persona anziana considerata più saggia dei successori; questo principio è tanto radicato da diventare significativo anche tra individui della stessa generazione, soprattutto in età infantile, quando ancora non subentrano titoli acquisiti e meriti, a mutare la piramide voluta dalla cronologia di nascita.

Come in Giappone, in Senegal il bambino sotto i tre/quattro anni sembra in qualche modo escluso dalle interazioni sociali, quindi esonerato dalle norme che le regolano: trascorre gran parte del tempo fasciato sulla schiena della madre, viene preso in braccio ogni volta che piange, mangia e dorme quando decide. Crescendo invece, l’infante è tenuto a obbedire a qualsiasi richiesta l’adulto ponga e a rispettarne le regole, ma gode, a differenza dei giapponesi, di totale autonomia nella gestione del tempo libero, anche grazie alla presenza di una comunità priva di pericoli e coinvolta nell’educazione; è tipico veder correre per i vicoli tra le case dei quartieri di Dakar gruppi di bambini che liberamente giocano, entrano ed escono dai cortili, litigano, fanno pace e stabiliscono gerarchie entro le loro microsocietà. Totalmente differente è però l’approccio dei genitori all’educazione scolastica; un’altra similitudine emerge tra Senegal e Giappone: fin dai primissimi anni d’istruzione, fondamentale è il successo scolastico, che viene misurato attraverso una vera e propria classifica di confronto tra compagni di classe. In entrambi i paesi, inoltre, la distinzione tra periodo scolastico e vacanze è molto meno netta di ciò cui sono abituati gli studenti europei: sull’isola asiatica il periodo festivo è impegnato tra club sportivi, attività extrascolastiche e servizi volontari per i comuni; i bambini senegalesi trascorrono invece buona parte delle mattinate estive nelle scuole coraniche, dove imparano il testo sacro attraverso forme di educazione rigide, che non escludono la punizione corporale. Quest’attitudine all’obbedienza prende periodicamente forma rituale nelle cinque preghiere comandate, quando il richiamo del muezzin fa correre le bimbe a coprirsi il capo e i bambini a prendere i tappeti da stendere in direzione della Mecca, senza che gli adulti intervengano a sollecitare.

Le riflessioni pedagogiche sul bambino come adulto, che tanto hanno caratterizzato l’Europa tra ‘800 e ‘900, sembrano aver appena sfiorato la cultura senegalese, in cui i rapporti tra adulti e bambini sono regolati dalla mera interiorizzazione di una gerarchia, che giustifica l’autorevolezza dei primi sui secondi. Di quest’ordine i bambini non soffrono, perché hanno autonoma gestione del tempo non impiegato in attività necessarie. Diverso è il caso dei bambini di strada, numerosissimi a Dakar, che trascorrono gran parte del tempo elemosinando e chiedendo gli avanzi di cibo nelle case, per poi rientrare nella scuola dove l’imam impartirà la lezione coranica; o ancora dei bambini che sui marciapiedi lavorano con le madri, vendendo acqua, frutta di stagione, piccoli dolcetti. Nessuna legge vieta il lavoro minorile né impone un’istruzione obbligatoria, benché a Dakar si trovino moltissime scuole pubbliche.

Alla base delle numerose similitudini tra i due paesi, geograficamente tanto distanti tra loro, sta il comune denominatore di un’idea di società come di una comunità coesa, i cui membri interagiscono collaborativamente tra loro, a formare una sorta di estensione dell’ambito domestico, che si esprime nella creazione di gruppi all’interno della società giapponese e nell’idea del social living senegalese. Caratteristica di entrambi i popoli è il rispetto sempre dovuto all’infante, aldilà dell’estensione della possibilità di rivolgergli richieste. Nel bambino, infatti, entrambe le culture vedono un riflesso dell’adulto che sarà in futuro; entrambe le culture hanno considerazione dell’individuo che racchiude in potenza e che sarà un giorno il punto di riferimento dei genitori che oggi si occupano della sua educazione.

In primis, nel bambino, Giapponesi e Senegalesi vedono la speranza di una continuità nel tempo della stirpe famigliare.

I libri per ragazzi spiegati agli adulti

Per parlare di letteratura per bambini e ragazzi è necessario, prima, sfatare almeno un paio di falsi miti.
Anzitutto, se pensate che i libri tra le mani di bambini e ragazzi siano solo quelli elencati nelle  odiate letture obbligate durante le vacanze di Natale, i numeri del mercato editoriale vi smentiranno. I lettori più avidi di libri extrascolastici si contano tra i bambini dai 2 ai 5 anni (63,3%) e gli adolescenti tra i 15 e 17 anni (53,9%), contro una media del 42% estesa a tutta la popolazione italiana. Non a caso, quindi, i titoli per bambini e ragazzi contribuiscono alla crescita del mercato editoriale italiano, costituendo il 17,4 % del fatturato totale e il 22,9 % delle copie vendute.
Ma a comprare i libri sono gli adulti, e qui arriviamo al secondo, forse più grande pregiudizio sulla letteratura per ragazzi.
Alcuni pensano si tratti di letture “facili”, storie semplificate in una scrittura semplice. Sono quegli adulti che hanno dimenticato di essere stati bambini, parafrasando Il Piccolo Principe, e i cambiamenti che hanno segnato la loro crescita. «Ma le domande che ci poniamo da ragazzi ci inseguono per tutta la vita».
Sarà per questo che per Mara Pace, giornalista, redattrice e traduttrice, il legame con il mondo della letteratura per l’infanzia non si è mai spezzato.
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Le prime esperienze al Giornale di Brescia, poi una laurea in Scienze della comunicazione, un master in Editoria e lo stage diventato lavoro presso il Corriere.it. Oggi, le attività di ufficio stampa in CAST Alimenti, importante scuola di cucina; le grandi traduzioni per la casa editrice Rizzoli; le collaborazioni con Il Castoro, Editoriale Scienza, la rivista Io e il mio bambino e soprattutto con Andersen, mensile di letteratura e illustrazione per il mondo dell’infanzia, «il fil rouge, la costante del mio percorso».
Nella rivista, Mara si occupa di recensioni e interviste, ma anche del blog Premio Andersen, lo spazio che ogni lunedì La Stampa.it dedica a vecchi e nuovi libri per ragazzi, e del progetto Leggevo che ero, raccolta di fotografie scattate a ogni autore intervistato con “il” libro d’infanzia. Sì, perché ognuno di noi ha un libro che porta nel cuore fin da bambino, che ci ha guidati verso le letture “consapevoli”, scelte per curiosità e passione.
Quello di Mara è Le streghe di Roald Dahl, autore cult di un’intera generazione di futuri editor, librai e scrittori per ragazzi (per i più giovani, l’autore de La fabbrica di cioccolato).
È da questo libro che parte la sua passione per la letteratura d’infanzia, ed è da qui che partiamo.
Fotografia di Mara Pace per la rivista “Andersen”.
A quando risale la tua riscoperta della letteratura per l’infanzia?

«Lavoravo al Giornale di Brescia. Un giorno mi hanno affidato la recensione di un libro per ragazzi di cui nessuno si voleva occupare. Io ero entusiasta, mi sono ricordata esattamente le emozioni che avevo provato da bambina. Sono stata una grandissima lettrice, amavo i libri, perciò ho dei ricordi molto forti. Ricordo quando ho comprato Le streghe, quanto mi era piaciuto, e il fatto di tornare in libreria e in biblioteca per cercare “lo stesso libro”. Una ricerca perenne di quell’entusiasmo che ti ha dato un libro e che cerchi tutta la vita. E così, quando ho incontrato di nuovo i libri per ragazzi, mi sono chiesta: ci sono ancora le collane che piacevano tanto a me da bambina? Che cosa è uscito nel frattempo? Era rinato l’amore per questo mondo affascinante e vastissimo. E ho scoperto la passione per l’illustrazione e il fumetto».

L’illustrazione è molto importante nel libro per ragazzi…

«Il rapporto parola-immagine è fondamentale e ci tengo a precisare che le immagini non servono a sostituire le parole! Possono semplificarle, ma a volte le complicano, danno dei contenuti aggiuntivi alla parola. I libri senza parole, i silent books, talvolta sono più difficili da leggere di un libro con le parole. Sono libri che abituano a leggere le immagini, fondamentale in un mondo in cui siamo quasi più bombardati da immagini che da parole. Per questo apprezzo quando l’immagine e il testo non raccontano la stessa cosa, ma riescono ad essere complementari, a volte anche discordanti, e quindi creano qualcosa insieme».

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I libri possono essere un gioco per i bambini?

«Questa domanda mi fa pensare ai libri de La Coccinella, famosi in tutto il mondo, che puntano sulla varietà di forme e idee cartotecniche. Il libro per la prima infanzia spesso è materico e il bambino gioca con le sue superfici. Sì, il libro è un gioco, ma è anche altro: la prima lettura nell’infanzia è affidata ad altri, agli adulti, perciò il libro diventa un oggetto attraverso cui passa il rapporto d’amore con la mamma, il papà, anche la maestra d’asilo. Che un adulto legga una storia è un gesto importante, che va al di là della storia letta e tocca l’affettività. Fino ai 5 anni, la lettura è a due: per un bambino è sentirsi raccontare una storia da qualcun altro. Per questo gli albi illustrati non parlano solo ai bambini, ma anche all’adulto al suo fianco, e i più belli emozionano entrambi».

Che cosa può trovare di interessante un adulto nei libri per bambini e ragazzi?

«Ci trovi un’umanità incredibile. Ci sono libri per adulti molto profondi, che scavano e scavano, e a volte trovi una profondità unica nella leggerezza dello sguardo bambino. Se pensi alla letteratura per bambini fino ai 12-13 anni, guardi il mondo da un punto di vista più basso. Ci trovo qualcosa di filosofico nell’abbassare lo sguardo, che a volte significa alzarlo: devi essere all’altezza di un bambino, non abbassarti al suo livello. Ricordiamoci che i bambini stanno una spanna sopra di noi perché hanno uno sguardo diverso sul mondo».

Una caratteristica trasversale che unisce la letteratura per ragazzi a tutta la letteratura?
«Ti insegnano a pensare, a guardare il mondo con i tuoi occhi e a ragionare con la tua testa. Il libro bello, qualsiasi libro, ti lascia con un senso di inquietudine, una domanda aperta, la voglia di vivere e di riflettere sul mondo. Con un punto interrogativo che ti emoziona e ti scuote. E questo nella mia esperienza lo fa più spesso il libro per ragazzi più che il libro per adulti».
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Per concludere, Mara Pace ci lascia con alcuni riferimenti per approfondire: buona lettura!

We are receiving the right education, aren’t we?

Education represents a crucial element of our societies, becoming increasingly important as more and more people pursue the educational path to secure better job opportunities. Considering this, a question arises naturally: is the type of education we are currently receiving providing the strongest boost to our cognitive capabilities and intellectual growth? If this weren’t the case, what would be other possible options in terms of educational methods?

A process of teaching, training and learning especially in schools or colleges, to improve knowledge and develop skills: this is the definition of education that can be found in the Oxford Dictionary. Is education a mere process of teaching and learning, solely aimed at making students acquire and develop new skills? How multifaceted could the education we receive nowadays be? In order to answer these questions, it is important to understand how the Western education system has developed and how it is structured, but also if there are alternative options to the standard one.

As Sir Ken Robinson underlines in his speech regarding the current education system, its paradigmatic structure was conceived during the Enlightenment and subsequently developed in the socio-economic context of the industrial revolution. A more accurate analysis of the present educational model shows its flaws, both in terms of promoting motivation and of its potential benefits.

RSA Animate – Sir Ken Robinson – Changing Education Paradigms / Website: http://www.thersa.org/events/rsaanimate

What appears clear from Sir Ken Robinson’s point of view is that modern education is more likely to deaden creativity and curiosity than stimulate them. In his quest to identify the weak spots of the Western education system, he points out that standardised tests do not encompass all the different cognitive aptitudes of pupils. As a result, individual skills are minimised and most of the time not understood.

Maria Montessori, who developed an alternative education method at the beginning of the XX century, recognised pupils’ aptitudes and categorised them in universal innate tendencies, such as  communication, exploration, orientation, order, activity, manipulation, perfection, abstraction, work, repetition, and exactness. According to the Montessori method, these cognitive tendencies must be stimulated and equally developed through the process of personal and educational growth. The crucial aspect of this educational method is represented by the different stages identified in the learning process: four in total, they differ between specific age groups such as birth to six, six to twelve, late twelve to eighteen, and eighteen to twenty-four. The leitmotiv of this educational development method is that of embracing the child’s growth from a multifaceted perspective, so that children can develop on multiple levels, including the social, cognitive, emotional, and physical ones.

Child's hand using Montessori counting materials - Photo by Tacher School Milton - License CC BY SA 3.0
Child’s hand using Montessori counting materials / Photo by Tacher School Milton / Source: Tacher Students Using Montessori Materials / Some rights reserved / License: CC BY SA 3.0

Another alternative educational approach is offered by Waldorf schools, better known as Steiner education. This type of didactic method was developed by Rudolf Steiner in the first decade of the XX century. The core of his model is characterised by an approach different to those of most standard educational methods. As a matter of fact, he identified three important stages during the intellectual growth of pupils: early childhood education (aged two to six), elementary education (aged seven to fourteen), and secondary education (aged fourteen to eighteen). Each stage deserves a dedicated approach: in the early childhood period particular importance is given to practical activities and creative play, in the period of elementary education emphasis is put on developing the artistic and social side of the pupil, while during the secondary education stage the student focusses on strengthening critical reasoning and empathic understanding.

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Anne / reuse not allowed

Anne, who is studying nursing at Avans, in The Netherlands, attended the Waldorf school in Breda from the age of four until the age of twelve. She confirms that during the kinder-garden period practical activities were the essence of her days, ranging from building objects, playing outside, learning to carry out various tasks and singing while baking bread once a week: she still recalls the scent of baked bread around the hallways. The first day of primary school a particular celebration was organised to welcome kinder-garden pupils into the new educational phase: Anne states that this type of initiation made a big impression on a little child and helped future students feel welcome. When Anne started secondary school she noticed that the Steiner method, which emphasises independence, was less pronounced, probably because of the government requirements set for secondary education on the national scale. However, the activities peculiar to this type of education were still present: for instance the first two hours of every morning were dedicated to lessons of subjects ranging from physics to literature, architecture, poetry and mathematics for a period of three weeks. These lessons were characterised by an in-depth approach and exploration of the subject discussed. According to Anne, another distinctive feature of the Waldorf School was that she never felt the pressure of taking tests and exams: she describes it as an idyllic phase of personal and intellectual growth.

Photo by Cade Martin, Dawn Arlotta, USCDCP / Pixnio
Photo by Cade Martin, Dawn Arlotta, USCDCP / Pixnio

Alternative options in terms of education systems are available: the different methods discussed here seem to give more importance to aspects of children development that are sometimes neglected in the standard education system. Educational policy-makers should wonder whether intelligence and intellectual development can be standardised. This question hasn’t found a proper answer yet, however, it is important that the process of educating new students be able to seize individual potential and stimulate their interest and imagination.

Cover image by Wokandpix / Pixabay

Giocare è una cosa seria

Giocare è un diritto di tutti i bambini. Tuttavia, chi pensa che il gioco sia un’attività fine a se stessa non potrebbe avere più torto. Infatti, sulla convinzione che giocare costituisca un momento fondamentale dello sviluppo del bambino è fondata la psicomotricità, disciplina nata in Francia alla fine del XIX secolo ed approdata in Italia negli anni Sessanta. All’inizio gli esperti di questo particolare ambito legato alla formazione e allo sviluppo infantile si trovavano a dover sfidare le convinzioni dominanti e a dover mettere in discussione i modelli educativi. Oggi che la psicomotricità è largamente diffusa in tutta Italia e le sue aree di competenza si sono evolute, lo psicomotricista si trova comunque a dover combattere contro pregiudizi e titubanze. A fare il punto della situazione e a capire perché sia così importante conoscere la psicomotricità e soprattutto praticarla ci aiuta Elena Campagnoli, psicomotricista di Vimercate.

Ciao Elena, ci racconti di cosa ti occupi?

Ciao, sono psicomotricista, o terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva, e lavoro presso l’ospedale di Vimercate (MB) dove mi occupo di riabilitazione infantile e della diagnosi di disturbi vari, come i Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA). Dal 2015 inoltre collaboro con l’associazione Airone, con cui conduco progetti di monitoraggio alla crescita e coordino gruppi di psicomotricità educativa nella scuola dell’infanzia e primaria, oltre che negli asili nido, a partire dagli otto mesi.

Come spiegheresti la psicomotricità a chi non la conosce?

La psicomotricità è quella disciplina che supporta i processi evolutivi dell’infanzia, dando modo al bambino di mettersi in gioco e valorizzarsi integrando le sue componenti emotive, intellettive e corporee, attraverso l’azione e l’interazione, con gli altri e con lo spazio. Aldilà di questa definizione generale, ciò che è fondamentale chiarire è che la psicomotricità non è soltanto un’attività terapeutica, pensata per bambini affetti da disturbi di vario genere; la psicomotricità, e nella fattispecie quella educativa, è pensata per tutti ed offerta a chiunque si trovi in età prescolare e fino ai primi anni di scuola primaria. Certo, aiuta a risolvere i problemi ma è soprattutto un’attività di supporto allo sviluppo complessivo del bambino, nella sua vita assieme agli altri e come individuo con le proprie peculiarità e predisposizioni. Detto ciò, uno psicomotricista si occupa dunque di attività diverse, concepite sia per bambini con particolari problematiche fisiche, mentali e disabilità sia per bambini con un regolare sviluppo e senza problemi evidenti.

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Parliamo del gioco: perché è importante? A cosa serve? Esistono miti e convinzioni da sfatare sul gioco dei bambini?

Partirei da una convinzione da sfatare sul gioco che è intrinseca nella comune accezione de termine. Il termine “gioco” nel linguaggio comune infatti sminuisce il vero significato della parola, lo estrania dalla vita reale. Per noi psicomotricisti invece il gioco è un fenomeno esistenziale legato alla storia di ciascun bambino e parte imprescindibile del suo processo evolutivo. Giocare è un passo fondamentale per lo sviluppo del bambino, è un’attività di apertura verso il futuro, in libertà e senza giudizi. Il ramo della psicomotricità che lavora nelle scuole, con bambini “sani”, è quello della psicomotricità educativa; non a caso, “educare” significa proprio “tirare fuori”, far sì che i bambini riescano a far emergere le proprie capacità.

Raccontaci come è strutturata l’attività psicomotoria nelle scuole.

Solitamente i percorsi nelle scuole durano al massimo sei mesi, durante i quali si devono far provare più cose possibili ai bambini, così che abbiamo spunti sufficienti per approfondire ciò che più si avvicina alle loro inclinazioni. Un percorso tipo è composto da dieci incontri: i primi due sono di conoscenza, servono ad instaurare un rapporto di fiducia nei confronti dello psicomotricista e lasciano ai bambini la possibilità di giocare liberamente con il materiale a loro disposizione. Si passa poi ad attività strutturate, per le quali il movimento costituisce sempre un elemento fondamentale. Ad esempio, si scandisce il ritmo con un tamburello per far muovere i bambini, insegnando loro a rispettare le pause, a riconoscere le parti del proprio corpo e del corpo degli altri, si preparano dei percorsi con schemi motori diversi, che prevedono di camminare all’indietro, strisciare, rotolare e altro ancora. Si dedica poi del tempo ad attività particolari con oggetti specifici, come costruire, travestirsi, giocare con la palla. Nel corso di questi incontri vigono delle regole che pian piano i bambini imparano a rispettare, dal rispetto dell’altro al rispetto dei tempi, dal coinvolgimento di tutti alla condivisione del materiale e degli spazi. Negli ultimi due incontri i bambini sono nuovamente lasciati liberi: questa è la fase di monitoraggio, in cui emergono le preferenze individuali e in cui si ha modo di verificare l’avvenuto sviluppo del bambino e l’acquisizione delle regole di comportamento e delle capacità di relazionarsi con rispetto verso gli altri.

Avendo a che fare con i bambini di oggi, quali ritieni che siano gli aspetti più difficili e cruciali nel crescere ed educare i bambini nel 2016?

Lavorando con i bambini si ha ovviamente a che fare con i genitori. Nella mia esperienza, ho osservato l’esistenza di due tipologie opposte di genitori: da una parte vi sono coloro che giustificano tutto quello che i loro figli fanno o dicono, prendendo alla leggera anche i comportamenti sbagliati; dall’altra ci sono genitori estremamente rigidi, che rimproverano i bambini con una tale severità e senza cercare un confronto da finire per spaventarli senza tuttavia insegnare loro una lezione. Più in generale, quella che ritengo essere una caratteristica comune alle famiglie di oggi è il fatto di essere complicate: oltre ai casi di separazione e divorzio, in cui tipicamente i genitori tendono a concedere tutto ai figli per il senso di colpa che provano, ci sono genitori super impegnati, non troppo giovani e quindi con meno energie, che spesso preferiscono lasciar correre per una questione di mancanza di tempo e semplificazione. I problemi frutto di una tale situazione sono molteplici: la mancanza di regole, l’incapacità di rispettare i tempi altrui e soprattutto di ascoltare qualsiasi adulto, dalla mamma alla maestra, con la conseguente difficoltà di apprendere. La psicomotricità si assume dunque l’obiettivo di educare al rispetto di se stessi e degli altri, si impegna a far passare ai più giovani il messaggio dell’esistenza di altri al di fuori di noi stessi e dell’importanza di vivere ascoltando ed assecondando anche le esigenze altrui.

Credi che in Italia la psicomotricità abbia lo spazio che si merita nella formazione dell’infanzia?

Benché nel nostro Paese esistano moltissimi centri privati che si occupano di psicomotricità educativa, essi ancora faticano a superare lo stigma che si tratti di un’attività esclusivamente ideata per bambini con problemi. Tuttavia, di recente l’interesse per la disciplina sta crescendo, spesso motivato dalla pura curiosità, dato che molte volte non si sa bene di cosa si tratti. Di conseguenza, le scuole che attuano progetti di questo tipo sono ancora troppo poche e nella maggior parte dei casi il tempo e i fondi concessi per queste attività sono troppo pochi. Ciò su cui noi psicomotricisti vogliamo insistere è l’importanza del gioco e di attività strutturate per tutti i bambini, sani e non, che oggi più che mai hanno bisogno di essere educati a sviluppare le loro potenzialità e a rispettare gli altri, le regole, gli spazi e i tempi di un mondo sempre più difficile.

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