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Ideogrammi e miniature delle carte da gioco nel continente asiatico

Mentre, come vi abbiamo raccontato, l’Europa scopriva le carte da gioco, ne modificava semi e disegni, inventava sempre nuovi modi per divertirsi con questo pratico supporto, cosa succedeva dall’altra parte del mondo, nella terra natia tanto della carta quanto delle carte da gioco?

Dall’epoca della loro invenzione, sembrerebbe che in Cina le carte abbiano subito ben poche variazioni: pur nell’incredibile varietà di mazzi, spesso differenziati a livello regionale, la forma di questi ludici foglietti sembra essere rimasta quella delle origini, rettangolare ma molto più stretta e allungata di quella degli esemplari europei cui siamo abituati. Questa sottigliezza potrebbe ricondursi ai primi usi delle carte, ideate come variante più leggera e maneggevole delle tessere da domino, di cui peraltro condividono il nome pai (letteralmente, etichette, tessere, targhette), o adoperate come carta moneta. Certamente, la loro forma si adatta alle esigenze dei giocatori, essendo la maggior parte dei mazzi composti da più di 100 carte, di cui molte tenute in mano contemporaneamente.

Carte da Domino “Double Happiness” (Doppia Felicità), su ciascuna carta si trovano rappresentazioni simboliche delle benedizioni della vita [ph. The World of Playing Cards].

Le carte da domino sono fino a oggi particolarmente diffuse in tutta la Cina, raccolte nel mazzo Sap Ng Wu Pai (Carte dei Quindici Laghi), composto da 84 carte che riportano i punti rossi e neri numerati da 1 a 6 di un set da domino cinese. Il nome del mazzo sembrerebbe derivare da un errore di trascrizione legato all’uso delle carte da gioco da parte quasi esclusivamente delle classi più povere: sulla carta da quindici punti si trova infatti l’ideogramma 湖 (lago, appunto), simile tanto nel suono (wu o hu) quanto nella forma all’ideogramma usato in mandarino per indicare la parola “punto”.

Nel centro delle carte, a dividerne le due metà, ci sono delle piccole decorazioni, diverse per ciascuna combinazione di punti, che si ritrovano ingigantite nella variante del Sichuan. In questa regione sudoccidentale della Cina troviamo infatti il mazzo Chuan Pai (Carte dei Fiumi, dal nome della regione), composto da 84 carte di dimensioni doppie rispetto alle Sap Ng Wu, in cui sono rappresentati personaggi di romanzi o opere teatrali, tra cui gettonatissimo è il ciclo di racconti del XIV secolo Shui-hu Chuan (Il margine dell’acqua). Originario sempre del Sichuan è il mazzo Zi Pai (Carte a Ideogrammi), formato da 80 carte con soggetti numerici indicati con ideogrammi neri (ideogrammi ordinari) o rossi (ideogrammi ufficiali).

Carte da Domino con rappresentazioni di personaggi de “Il margine dell’acqua” [ph. The World of Playing Cards],

L’utilizzo come carta moneta è più facilmente riconducibile alle Gun Pai (Carte a Bacchetta), primo stile riconosciuto di carte a semi monetari, a cui si ispirano i mazzi europei. Tradizionalmente, queste carte presentano tre semi: Wen (Denari, simboleggiati dalla tipica moneta forata cinese), Suo (Stringhe, inteso come fila di 100 monete) e Wan (Miriadi, in cui si ritrovano stilizzazioni de Il margine dell’acqua); a questi, in alcune varianti si aggiungono carte speciali, chiamate Vecchio Mille, Fiore Rosso e Fiore Bianco, che si ritrovano nei mazzi di Ceki in Malesia e Singapore e di Pai Tai in Thailandia, probabilmente diffusi proprio da migranti di origine cinese.

L’introduzione di un quarto seme, così come in uso in Europa, si trova già nella tradizione asiatica del Lat Chi, conservato dalle comunità Hakka della Cina meridionale, che utilizzano i semi Sip (Raccogliere), Gon (Infilare), Sop (Stringa) e Ten (Filo). Singolare è il fatto che nello stile Hakka le carte di valore 2 hanno un simbolo simile al Picche europeo, in cui è scritto un ideogramma che ne indica il seme. Entrambi gli usi si ritrovano in Vietnam, nel mazzo a tre semi da Tô Tom (Scodella di Gamberi) e in quello a quattro semi da Bãt; ambedue i mazzi contengono alcune carte speciali: Ông-Lão (l’anziano), Không-Thang (Zero Stringhe) e Chi-Chi (Mezza Moneta).

A sinistra, un mazzo di carte Ceki della Malesia; a destra, un mazzo di carte in stile Hakka.

Un mazzo che dalla Cina ha avuto particolare diffusione in Asia, soprattutto in Vietnam e Thailandia, è quello delle Carte a Quattro Colori (Si Se Pai, in cinese; Bai Tu Sac, in vietnamita; Pai Jîn Sì Sì, in tailandese), usato per un gioco simile al Mah Jong e nel gioco d’azzardo Ju Jiuu (Nove Carri), da cui deriverebbe il Baccarat.

Lo stesso Mah Jong, giocato in Cina con un mazzo da 144 carte, di cui a quelle divise nei tre semi e numerate da 1 a 9 si aggiungono tre Draghi, quattro Venti, quattro Stagioni e quattro Fiori, è tra i giochi d’azzardo più diffusi nel Paese ed esportato in Malesia e Singapore, dove sono state introdotte quattro carte utilizzate come Jolly (Gallo, Gatto, Topo e Centopiedi).

Ancora in Thailandia si trovano le Pai Pong Jîn (Carte Cinesi Sontuose), che riproducono le carte a scacchi cinesi Ju Ma Pao (Carro, Cavallo, Cannone): divise in due colori, rosso e nero, corrispondono ai membri di un esercito, indicati per lo più attraverso ideogrammi, talvolta in piccole figure collocate al centro della singola carta.

Mazzo di Carte a Quattro Colori [ph. 台灣四色牌 by Wikimedia Commons CC BY-SA 3.0].

Versione particolarmente originale delle carte da gioco è quella che si trova in India, nelle carte di forma circolare Ganjifa. Nonostante le profonde differenze, sembra che anche le carte da gioco indiane derivino da quelle a semi monetari della Cina, mediate dall’influenza persiana, come sembrerebbe indicare una plausibile ricostruzione etimologica del loro nome, nato dalla fusione del vocabolo indiano ganji (tesoro) con l’espressione cinese chi pai (carte da gioco). Particolarmente diffuse durante l’Impero Moghul, alcuni precedenti potrebbe risalire al gioco Kridapatram (Stracci dipinti da gioco), di cui preservano materiale e forma: fino a oggi, infatti, i mazzi Ganjifa sono prodotti artigianalmente sovrapponendo vari strati di stoffa inamidata, poi ricoperta di pasta di gesso e dipinta.

Il numero di carte per ogni seme, che prevede 10 carte numerate e due figure, è stabile, mentre vastissimo è il variare del numero di semi, così come l’assortimento dei disegni rappresentati: lo stile Mughal Ganjifa, simile all’originale persiano, prevede 96 carte divise in 8 semi, le cui figure corrispondono solitamente allo Shah (Re) e al Wazîr (Ministro), ma nei mazzi prodotti a Orissa sono sostituiti da personaggi religiosi o mitologici; un simile rimando si trova nello stile Dasâvatâra (Dieci Incarnazioni), i cui mazzi sono appunto suddivisi in 10 semi riferiti alle diverse incarnazioni del dio Vishnu. Variazioni di questo tipo si ritrovano anche nei mazzi Rashi Ganjifa, in cui i 12 semi corrispondono ai segni zodiacali, e Navagraha Ganjifa, ossia dei Nove Pianeti, che includono alcuni satelliti e due fasi lunari. Un caso del tutto singolare sono invece gli stili ibridi, probabilmente diffusisi in seguito all’apertura delle rotte commerciali con l’Europa: pur conservando la forma rotonda e lo stile grafico indiano, alcuni mazzi utilizzano i semi francesi o, più raramente, quelli spagnoli.

Dieci carte da un mazzo di Dasâvatâra Ganjifa.

In copertina: Mazzo di carte Ganjifa di Odissa [ph. Subhashish Panigrahi by Wikimedia Commons CC BY-SA 4.0]

Due consigli più uno su qualche posto da visitare spendendo poco

Si dice che i soldi meglio spesi sono quelli spesi per viaggiare e certo è innegabile che l’esperienza della scoperta di nuove terre sia un piacere impagabile; tuttavia, conciliare risorse economiche e itinerari non sempre è facile.

Pequod ha chiesto qualche suggerimento a chi del viaggio a fatto il proprio stile di vita: con l’aiuto di Elisa e Michelangelo, travel blogger di professione, vi raccontiamo di qualche meta che, forse, potrebbe fare al caso vostro.

«Qualcuno ci definisce nomadi digitali, noi crediamo semplicemente di essere persone che amano i viaggi alla follia e che non vogliono ridurli a poche settimane all’anno – mi spiega Michelangelo – per questo abbiamo fatto in modo di organizzare la nostra vita per viaggiare il più possibile, diciamo 365 giorni all’anno.

Lavoriamo da remoto: ci occupiamo di digital marketing, e lo facciamo da ovunque nel mondo. Non abbiamo bisogno di un ufficio, l’ufficio ci segue ovunque. Il nostro sito, 2backpack, sta diventando un vero e proprio lavoro; nel frattempo abbiamo un sacco di clienti che provengono da ogni parte d’Italia che gestiamo mentre siamo in giro per il mondo».

Alla domanda su quali siano i posti migliori e quali quelli peggiori in cui sono stati, Michelangelo non ha dubbi: «Io da sempre amo l’India, è una passione viscerale che trascende le difficoltà innegabili a cui il paese ti costringe; Elisa, invece, ultimamente si è innamorata perdutamente dell’Albania. I peggiori? No, non ne esistono. Ogni luogo ha un suo perché, per uno o più motivi».

L’India è un ottimo esempio di Paese da visitare spendendo poco: città come Mumbai, Calcutta o Nuova Delhi e monumenti come il Taj Mahal o il Tempio D’Oro, per fare degli esempi, sono solo alcuni dei motivi che dovrebbero spingervi a visitarla. Elisa e Michelangelo, sul loro sito, offrono qualche riferimento pratico sulle spese: «L’India è un paese molto economico. Si paga in rupie: il valore della rupia si aggira intorno agli 0,013 euro. Vale a dire che 70-75 rupie equivalgono a un euro. Una camera doppia in albergo economico (con standard decisamente indiani) vi costerà tra i 7 e i 10 euro (alcuni stati son più economici di altri), che arrivano a 14-18 euro se volete l’aria condizionata. Ovviamente potete salire di prezzo, e quindi qualità, quanto volete, arrivando a spendere anche diverse centinaia di euro a notte. Mangiare per strada o in un ristorantino alla buona vi costerà 1-2 euro a testa. Una cena di livello leggermente superiore si aggira sui 3-4 euro, al massimo. I trasporti costano pochissimo: nelle città più grandi il biglietto per gli autobus urbani costa circa 15-20 centesimi di euro. Per spostarvi di città in città spenderete sui 2 euro per circa due ore di viaggio».

Il Paese, però, e questo lo spiegano bene anche Elisa e Michelangelo su 2backpack, presenta problemi non di poco conto, come la scarsa igiene e il rischio di incorrere in malattie pericolose. «Vista la grandezza del Paese anche il livello di servizi cambia di zona in zona: il nord e la zona orientale sono più povere e quindi un po’ più impegnative, mentre il sud si sta sviluppando molto grazie alle aziende di IT che ne stanno colonizzando le città principali», viene spiegato sempre sul sito.

Restando in Asia, un altro Paese da visitare spendendo poco è sicuramente la Thailandia. «Ovunque si legge che negli ultimi dieci anni il turismo di massa ha influito sui prezzi che nel Paese si sarebbero alzati vertiginosamente. Non è vero. O meglio, lo è solo nelle mete turistiche, le isole più conosciute. Provate ad andare in regioni tipo l’Isaan (la Thailandia del nord-est, ndr) e vi accorgerete che i prezzi sono davvero bassissimi e il livello medio di alberghi, ristoranti, trasporti pubblici è davvero elevato. Servizi ottimi, a prezzi bassi. Un rapporto qualità prezzo del genere è raro.

Come contenere i costi? Fermatevi molto tempo in ogni singola tappa. Non cambiate ogni giorno, non ne vale la pena: non fatevi prendere dalla bulimia di vedere, vedere, vedere. Vivete un paese e una città. Spenderete meno e ve la godrete di più», mi spiega sempre Michelangelo. Per fare alcuni esempi concreti, facendo alcune ricerche su internet, possiamo trovare camere molto belle a poche decine di euro per notte. E se si è fortunati, qualcosa si trova anche a Bangkok, magari anche in centro. Lo stesso discorso vale anche per il cibo: lo street food è ovunque e a prezzi davvero bassissimi; quindi, perché non provarlo?

Qualche suggerimento anche per chi non volesse volare dall’altra parte del mondo, ma restare vicino casa: l’Europa ci offre infatti innumerevoli esempi di città che, almeno una volta nella vita, vale la pena visitare; tra queste Amsterdam. La città non è propriamente economica, ma con qualche piccolo accorgimento, anche chi vuole spendere poco potrà godersela. A questo proposito Michelangelo mi dà qualche consiglio «Se non potete permettervi di andare in vacanza in un posto provate ad andarci per lavorare o a fare qualcosa di simile. Siti come Workaway, per esempio, danno la possibilità di lavorare part-time in cambio di vitto e alloggio. Anche l’house sitting può essere un’ottima idea: dovrete prendervi cura di una casa (e di animali e piante) quando i proprietari sono fuori per vacanza o lavoro. E in questa casa potrete dormirci gratuitamente».

Per quanto riguarda Amsterdam, prima di tutto, bisogna dire che, se si vuole spendere poco, l’ostello è d’obbligo e se proprio si vuole cercare il risparmio più assoluto, bisogna optare per delle stanze condivise. Poi, come suggerisce il sito viviamsterdam: «Se parlate bene inglese, tour gratuiti sono uno dei modi migliori per esplorare Amsterdam senza alleggerire troppo il portafoglio. Generalmente durano circa tre ore e sono offerti da esperte guide locali che amano condurvi attraverso luoghi emblematici semplicemente in cambio di una mancia». E per il mangiare? Anche in Olanda ci viene in aiuto lo street food con le sue immancabili patatine fritte servite in tutte le salse (letteralmente), o gli innumerevoli dolci che, per chi visita Amsterdam, è quasi un obbligo assaggiare. Anche per quanto riguarda la mobilità Amsterdam è assolutamente all’avanguardia: per chi non avesse voglia di spostarsi con i mezzi pubblici, sono quasi sicuro che, ovunque voi alloggiate, ci sarà un bike sharing dietro l’angolo dove, a prezzi più o meno contenuti, potrete noleggiare una bici e girare la città in lungo e in largo. Tanto le piste ciclabili non mancano di certo, fidatevi.

Fotografie dal sito 2backpack

Il viaggio superato. Calabria e India in due fughe “all’altro millennio”

Il battesimo del volo lo presi ch’ero bimbo, a 5 anni, nell’Agosto del ’95.
Per quel che i miei ricordano dovette essere anche il primo reale viaggio dopo il mio “arrivo”.
Al tempo la trama era quella di un’Orio al Serio che timidamente si approcciava alla scena aeroportuale nostrana, di tratte aeree low cost comparse sporadicamente solo oltreoceano e in nord Europa e assolutamente nessun cenno di velivoli RyanAir sopra i cieli italiani.
Così, l’esordio di questa “gita” fu: Milano Linate- Lamezia Terme.
200.000 lire a capo per la traversata del paese. Erano bei soldi all’epoca!

Il primo computer, a casa, lo vidi non prima dei 12 anni; perciò, senza ausilio di scatole onniscienti (per altro la linea internet approdò in Italia soltanto nella seconda metà degli ’80 e ancora pochissimi erano i fruitori del world wide web), il babbo organizzò il soggiorno a Vibo Valentia con l’appoggio di quell’entità capace ch’era l’agenzia turistica.
Non si parlava pressoché mai di “Online”; di conseguenza l’agenzia di viaggi operava esclusivamente in un luogo fisico, uno spazio contenitore che tutto offriva in soluzione alla smania organizzativa di itinerari e permanenze, elargendo depliant e guide turistiche per ogni angolo del globo.

Certo, io ero solo un marmocchio prima del nuovo millennio e poco ricordo del nostro peregrinare estivo; tanto meno delle strategie organizzative che permettevano la buona riuscita del viaggio.
Inoltre, per i miei (da giovani) le spedizioni lontane erano assai sporadiche. All’epoca erano poche le famiglie che si permettevano viaggi extracontinentali, mentre i più preferivano le vicine coste del belpaese.

Volo Alitalia

Assai più esaustivo l’episodio indiano di Bobo, incallito (ex)amante dell’Asia meridionale incontrato sui colli della Maremma. Ragazzo, nell’81, parte per quello che si rivelerà essere il viaggio più duraturo nel suo bagaglio d’esperienze.
Ha indicativamente un concetto vasto di meta (India e dintorni, per l’appunto), un visto di 6 mesi, qualche bottiglia di whisky (poi capirete perché mai) e un biglietto sola andata per Nuova Delhi reperito tramite una delle suddette agenzie: viaggio e avventura risultavano spesso sinonimici.
Nel Nord del paese le giornate si spendono tra l’esplorazione, la ricerca di ospitalità o alloggio e gli spostamenti. Spostamenti tramite mezzi pubblici locali o -tadadadam- Autostop!

Obbligo di aprire una parentesi su questa pratica universalmente riconosciuta come hitchhiking (letteralmente: lunga escursione fatta a tratti).
In particolar modo negli anni 70, per ristrettezze economiche, ambientalismo (pare…) e ricerca d’avventura, la gioventù (e non solo) tendeva a optare per questo canale di trasporto facendo volentieri buon viso all’espansione notevole delle tempistiche di “crociera”.
Già dalla seconda metà degli ’80 però, con l’aumento del tenore di vita e la conseguente diffusione dell’automobile, il pollice alzato si ammoscia cadendo in uno stato di stasi.
All’avvento del nuovo millennio è addirittura una pratica osteggiata, diffondendosi i timori per i rischi legati allo salire su automobili sconosciute.
Solo oggi un parente stretto dell’autostop sembra tornare alla ribalta, proprio grazie allo sviluppo della rete di una realtà virtuale, che ne permette forma organizzata: BlaBlaCar e simili. Il “nipote” s’è fatto anche furbo e prevede solitamente un esiguo contributo economico da parte del passeggero. Ricomparsa di ristrettezze?

Tornando all’India: dal Rajasthan alla città di Patna dove, mediante dritte giunte per passaparola, Bobo sa di poter racimolare la quota necessaria del biglietto aereo per Kathmandu (Nepal) rivendendo a ottimo prezzo il whisky portatosi dall’Italia. (Questa mi è particolarmente piaciuta).

A questo punto noi infileremmo un what’suppino o una chiamata alla famiglia lasciata dall’altra parte del mondo però… incredibile! Fino a 20 anni fa non solo Internet non era diffuso ma pure il telefono portatile era in una sacca amniotica!
Mantenere contatti con casa, in generale, era tanto raro quanto più s’era lontani; ecco che il ruolo della cartolina si rivelava essere molto più sensibile ed essenziale di quello attribuitole oggi.
All’alba del 2000 ancora il mondo non era attraversato da onde wi-fi che permettessero di acchiappare conversazioni nell’aere; per avvisare casa era ancora necessario collegarsi alla rete telefonica, che si affacciava ad alcuni angoli di strada nella forma di cabine pubbliche. Oggi queste hanno l’aura dell’archeologico residuo di un passato recente.

Rientrando dalla divagazione: giusto il tempo necessario a perlustrare il nuovo stato ospite e via per il trekking sull’Himalaya. Nessuna guida per Bobo, perlomeno in carne e ossa: solo un minuscolo Lonely Planet, testo sacro e perenne compagno del viaggiatore, unica fonte d’informazioni oltre il sopracitato passaparola.
Il salvifico dispensario accompagnava chiunque in ogni tipologia di viaggio: lo trovavi in mano alla madre milanese in visita con famiglia a Firenze come in saccoccia al fricchettone danese volutamente “perdutosi” in Guatemala.
E allora, spaziando, rivedo paragrafi nella memoria dove sul cruscotto della Opel Kadett attende, spiegazzata, la tanto fedele quanto criptica mappa stradale. Quel leggendario menomato tomtom cartaceo che, combinato alla segnaletica per la via, era la fonte primaria d’orientamento.
E mi fa sorridere pensare che meno di una ventina d’anni fa, spesso, si sbagliava ancora strada; ci si affidava alla capacità (e all’azzardo) di decifrare un disegno intricato di colori, parole e linee e si sbagliava strada.
Non è che fosse piacevole in sé: ci scappava anche qualche moccolo, ma ti lasciava quella sensazione di avere una compartecipazione col tempo, che il tuo andare era anche uno smarrirsi e ritrovare, rispecchiando la romantica insicurezza che ci muove.

Telefono Sirio – Gratuitamente distribuito dalla SIP nelle case degli italiani tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000

In una fuga come quella di Bobo certamente vi era una dose di “spartanità” in più rispetto a una vacanza canonica di allora ma c’è da considerare che milioni di giovani optavano per viaggi similari; ne concentravano le caratteristiche, esasperandole. Scandagliavano l’adattabilità coi pochi agi e mezzi disponibili. Pochissima stabilità, la costante dell’imprevedibile.

Per tornare a Vibo Valentia e a una manciata di estati successive la situazione fu molto meno audace; ma mappe stradali, cabine telefoniche e sorprese erano nella quotidianità dello spostarsi.

Rimugini una volta ancora su quanto cambi tutto nel tempo, in miriadi di ambiti delle nostre vite.
Viene naturale guardar su.
Stelle.
Altrove nel trascorso, in cammino, erano loro le guide.

Banned things around the world

The subject of Prohibitionism in the United States has a retro flavour, it reminds us of wooden counters, thick velvet curtains and moonshine. It is hard to imagine living in such a situation today, but even if the atmosphere in the US has since changed, there is still a great number of officially banned items around the world, some of which are at first glance less threatening than alcohol…

 

Blue Jeans

North Korea has a long tradition of prohibition. It comes as no surprise that Kim Jong-un’s government has banned blue jeans from the country. Black jeans are fine, but blue denim is seen as a symbol of Western culture and American imperialism and is thus forbidden.

 

 

Lonely Planet

How can something as innocent as a guidebook represent a threat to the world’s second largest economy? Lonely planet guides are apparently a big deal for the Chinese government, which banned them in the country over objectionable content. Surprisingly, the reason for the ban is not the way the Chinese guide treats controversial historical events like the Cultural Revolution or the Tiananmen Square protests, but Lonely Planet’s representation of Tibet and China as two separate countries.

 

 

Chewing Gum

Back in the eighties Singaporean authorities started to consider a ban on importing chewing gum in the country, as spent gum stuck on pavements and stairways, elevator buttons and public bus seats and was difficult to remove. The official ban came in 1992, after vandals had begun sticking gum on the door sensors of public transportation, causing problems to train services. Forget about buying chewing gum during your stay in Singapore…but if you take some from home officers may let you go as long as you are a tourist – and you don’t chew too hard!

 

 

Kinder Eggs

Children love them for the sweet milk chocolate and for the little surprises they contain, but in the United States they can’t experience the thrill of unwrapping the chocolate egg and discover its present: the tiny parts that compose the surprise can easily be swallowed and are thus considered dangerous in the country. Some people have even been caught trying to smuggle Kinder Eggs from Canada to the US and were arrested.

 

 

Ovaltine

What could be more innocent than adding some Ovaltine to your milk for breakfast? According to the Danish government, products enriched with vitamins, including Ovaltine, are not necessary if you eat properly. It is probably to encourage a healthier lifestyle and a balanced diet that Denmark banned these products over ten years ago.

 

Foie Gras

Fancy is no longer fancy, at least in India. After the London protests of an animal rights groups against the cruelty entailed in its production, India became the first country to ban the import of  foie gras. Countries like Germany, England and Israel have prohibited its production, but it is currently only in India that this fancy delicacy is banned.

 

 

Video game consoles

Wiis, PlayStations and Xboxes are produced in China, which is also the country where  their selling and use has been banned since 2000. Ironic, isn’t it? The government thought that this prohibition would prevent Chinese youth from wasting their time. The fun thing is that soon after the ban was announced, computer gaming became very popular and people started to spend a lot of time in front of their screens nonetheless.

 

 

 

Cover Photo by Russell Lee [Public domain], via Wikimedia Commons

5 Random Christmas dishes and drinks: enjoy your meal!

One of the most important religious events in the world, Christmas is celebrated in several countries and cultures with rituals featuring lights, presents and acts of kindness. For many of us the happiness brought by Christmas is linked to food and drinks, elements that vary significantly in different places. With a list spanning the five continents, Pequod suggests a number of dishes that you can serve and enjoy for an international dinner that honours traditions and impresses grandmothers. We present you with the most delicious Christmas recipes to be found around the world, starting with my favourite country, whose wonderful tastes can’t possibly leave you unsatisfied.

1. Romania and “the slaughter of the pig”

Romanian Christmas traditions vary from region to region, but one is celebrated in the whole country: today (20 December) is St. Ignatius, when the Romanians sacrifice the animals whose meat will be the ingredient of one of the main dishes eaten during the 12-day holiday. According to traditional belief, the pig-slaughtering tradition that characterises the day of St. Ignatius, popularly named Ignat, symbolises the sacrifice of the deity who dies and is resurrected. The European Union decided to allow Romania to slaughter the animals using a knife rather than the standard pain-free procedures required by EU regulations.

After the preparations of pork sausage, tobā or samale, Romanians have Cozonac as dessert, a sort of Romanian equivalent of Panettone.

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2. India: Allahabadi cake for Christmas!

As most of you probably know, Christmas is not a major religious celebration in India but rather a small and quiet recurrence celebrated by the Christian community of the country (about 2,3% of the total population) originally from India’s smallest state, Goa. Here, the traditional Christmas tree has also been adapted to the place: a banana or mango tree is used to decorate homes!

The Indian Christmas menu includes several sweets and a wide range of fruits, such as dodol: a toffee based sweet with coconut and cashew. Cakes are very popular, in particular Allahabadi cake, a traditional rum fruitcake that takes its name from the city of Allahabadi, and which is stuffed with jam, nuts and the fabulous ginger… a sort of Asian variant of the British Christmas cake.

3. Merry Christmas in Hong Kong

Difficult to believe, but Hong Kong has one of the most lively Christmas celebrations in the world, featuring a two-day public holiday, spectacles by the Hong Kong Ballet and a WinterFest, which includes a variety of special events, promotions and light and laser shows. Hong Kong has around 63 Michelin-starred restaurants that offer special Christmas dinners from 22nd December until Christmas day. The main recipes are roasted turkey and chicken, whereas the dessert is usually gingerbread.

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4. Mexico, between tamales and pozole

The preparation of tamales is a proper ritual that keeps Mexican women busy for a whole day: tamales are stuffed rolls of corn flour covered by a leaf of corn. Usually meat, cheese or beans with the traditional spicy sauce and guacamole stuff them. Mexicans also take a lot of time to prepare pozole, the Christmas soup that possess all the traditional ingredients of Mexican cousin: corn, tomato jitomate – or chilli peppers, onions and, of course, meat. When you finish cooking the soup, you should serve the dish with lettuce and fresh onion.

As for traditional drinks, what cold be better than a little shot of tequila? For those who are not keen on alcohol – or would like a break from it – the Champurrado, a sort of Mexican hot chocolate, offers a good alternative: it is usually drunk while eating the tamales!

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5. Crazy about Christmas: welcome in the UK!

Britons possess a particular and deep fondness for Christmas! Already in the middle of October, the largest cities of the country start to beautify their buildings and squares with Christmas trees, lights and music, while the restaurants ask their customers to book Christmas dinner well in advance.

In the UK families celebrate the event together, opening presents and enjoying the traditional meal, usually eaten at lunchtime or in the early afternoon on Christmas Day. It normally consists of roast turkey and vegetables with ‘all the trimmings’ which means vegetables like carrots and peas, various stuffing and sometimes bacon and sausages, often served with cranberry sauce and bread sauce. As for dessert, Christmas cake is the most popular, but Christmas Pudding is also very appreciated!

Sovrappopolazione, il caso “informale” dell’India

«Overpopulation is really not overpopulation. It’s a question about poverty», questa l’opinione di Nicholas Eberstadt, demografo dell’American Enterprise Institute di Washington, ripresa dall’autorevole rivista Nature nella lista dei falsi miti della scienza vivi e vegeti tra i comuni mortali, in cui compare anche quello della crescita esponenziale della popolazione. Se per sovrappopolazione s’intende l’eccedenza della popolazione sui mezzi di sussistenza, secondo i dati non ci sarebbe da preoccuparsi: la popolazione umana non è cresciuta e non sta crescendo in modo smisurato e il tasso di produzione alimentare globale supera la crescita della popolazione. L’invito, ovviamente, è quello di spostare lo sguardo da scenari apocalittici futuribili a quei sistemi economici in cui sussistono disparità gravissime all’interno della popolazione, in cui i poveri sono sempre di più e più poveri.

Caso emblematico e contraddittorio è l’India: con una popolazione di circa 1,3 miliardi di abitanti, seconda solo a quella cinese (e ancora per poco: il numero è destinato a crescere fino a 1,7 miliardi nel 2050) e un Pil in aumento del 7,6 % nell’anno in corso, l’India è l’economia mondiale a più rapida crescita, stavolta superando la Cina (+ 6,8%).

All’India millenaria, affascinante e maestosa come i templi del Karnataka e del Kajuraho, si affianca l’immagine di un’India moderna, l’India degli splendori di Bollywood e di Bangalore, l’India come potenza economica emergente e rampante del Sud-est asiatico.

Nei suoi ritratti, però, rimane invariato lo scenario di una povertà estrema e diffusissima che ancora oggi affligge ampi strati della sua popolazione.

L’aumento demografico: la lotteria dei corpi

Dagli anni Settanta ad oggi, il governo centrale e quelli locali del Subcontinente hanno cercato di attuare delle strategie di contenimento delle nascite, soprattutto nelle zone rurali del Paese, dalle campagne di vasectomia forzata volute da Sanjay Gandhi alle più recenti sterilizzazioni di massa delle donne, operazioni più semplici e di gran lunga meno osteggiate rispetto a quelle maschili.

Probabilmente è per questi motivi che l’India ha continuato a preferire questi metodi a una campagna di informazione e sensibilizzazione sull’uso di contraccettivi, nonostante la crescita economica costante, nonostante il sistema sanitario carente.

In cambio? Pochi dollari, ma anche elettrodomestici, auto e perfino il porto d’armi.

Il prezzo? Dolori e complicazioni post-operatorie e, spesso, la morte.

L’aumento del Pil: il boom e il grande (settore) assente

Negli anni Novanta però i tassi di fertilità sono scesi significativamente, mentre l’aumento della popolazione in età lavorativa associato all’aumento del tasso di risparmio ha incoraggiato gli investitori esteri che, ricordando le esperienze delle economie emergenti del Sud-est asiatico e del dividendo demografico di cui hanno goduto quando i tassi di fertilità cominciarono a scendere, hanno contribuito alla grande espansione del settore manifatturiero.

A distanza di un ventennio, di fronte a una forza lavoro potenzialmente immensa (l’età media della popolazione è di 27 anni), il governo non è in grado di convertire la crescita del Pil in nuove opportunità di lavoro: dai 60 milioni di posti di lavoro creati nel quinquennio 2000-2005, quando la crescita era stabile sull’8-9%, si è passati ai poco più di 300 mila del 2015, rallentando drasticamente il passo.

L’anello debole dell’economia indiana è il settore manifatturiero, che contribuisce solo per il 17% del Pil, e più in generale l’industria, rappresentata in larga misura da piccole imprese con meno di 50 dipendenti, in cui manca il lavoro su macchinari moderni e, spesso, persino l’elettricità. Le ultime stime definiscono l’immagine paradossale di un Paese emergente che non è passato per la fase dell’industrializzazione, che incide solo con uno scarso 32% sul Pil.

Da dove deriva, allora, la ricchezza dell’India? Un buon 50% dal settore terziario, in cui coesistono attività di alto livello come servizi informatici, back office e consulenze per l’estero con i servizi più umili. Ma da solo non basta.

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Il lavoro “informale”, l’altra metà dell’economia

Scendendo nella scala produttiva, superando le figure specializzate della scuola e delle università, delle amministrazioni locali e dei colossi dell’hi-tech, troviamo un esercito di lavoratori senza diritti né tutele, che vive con meno di 1,25 dollari al giorno. Costituirebbero il 20% della popolazione urbana e la quasi totalità di quella rurale.

Sono i lavoratori dell’ “economia informale”, che unisce attività lavorative “non registrate”, più che clandestine. Non registrate fino al momento di tirare le somme della ricchezza prodotta dal Paese, perché «senza questo tipo di lavoro, l’India non potrebbe mai vantare i tassi di crescita ai quali ci ha abituati», dichiara Elisabetta Basile, docente di economia alla Sapienza di Roma.

Aggirare gli standard internazionali di produzione è semplice, soprattutto in un settore cruciale come quello manifatturiero: le multinazionali possono falsificare i documenti o affidarsi a una serie di intermediari che fanno arrivare l’ordine a chi materialmente realizza il prodotto, senza sapere se si tratta di anziani o bambini, se lavorano in condizioni di sicurezza o addirittura dalla propria abitazione.

E così, nell’ombra, questo popolo invisibile contribuisce almeno al 50% del Pil indiano.

Indian dream: un’occasione mancata?

Oggi i mercati finanziari guardano con nuovo interesse allo sviluppo dell’India. Alle ultime azioni del governo di Narendra Modi, che ha lanciato il programma Make in India per attrarre delocalizzazioni e investimenti, o al recente taglio del costo del denaro per incentivare l’imprenditoria interna.
Tuttavia, non si perdono di vista le grandi contraddizioni di un Paese grande e popoloso come un continente, in cui ogni anno si laureano 2 milioni di ingegneri ma solo il 18% dei lavoratori dichiara di avere una posizione stabile e ben retribuita, contro un 50% della popolazione impiegata nell’agricoltura, che produce solo il 16% della ricchezza.
Una situazione, questa, che genera insoddisfazione soprattutto tra i più giovani, che insieme ai lavoratori sottopagati dell’industria e alle donne, costituiscono le categorie sociali più frustrate e incandescenti. E se è vero che l’instabilità socio-politica non è una valida alleata della crescita economica di un Paese sul mercato mondiale, anche questo è un dato importante, al di là del Pil.

When Sport Doesn’t Rhyme With Soccer

As we Italians are well aware of, soccer is one of the most popular sports in the world. Europe, the Americas, Africa, Asia, you name it: each continent has plenty of countries that go crazy for this game. No wonder every 4 years the World Cup competition becomes an international affair that almost nobody can resist. However, not every country is so fond of it or, even when they are, some are equally passionate about other traditional sports. That’s why, right in the middle of the European championship that gets huge international coverage, we decided to go against the tide and pick the most fascinating non-soccer related sports in the world. Here’s our list!

IRELAND – GAELIC FOOTBALL

Cathal Noonan/Inpho/Irish Time
Cathal Noonan/Inpho/Irish Time

Imagine a sport that allows you to kick the ball or punch it. A sport where you can score 3 points by sending the ball into the other team’s goal, but you can still score 1 point even if you kick or punch the ball between two upright posts above the goals, over a crossbar 2.5 metres above the ground. That’s Gaelic football and Irish people are crazy about it! In fact, it’s Ireland’s most popular sport with 34% of the population following it. Boring feet-only traditional football has less than half the followers.

UNITED KINGDOM (OR INDIA?) – CRICKET

Getty Images Sport
Getty Images Sport

Looking for a little of sport rivalry? Your first guess may be football, but what many of you don’t know is that cricket animates rivalries so fierce that would make the most passionate soccer fans turn pale in comparison. The first registered international cricket match was played in 1877 and saw Australia beat England, shaping a long term antagonism between the two national teams. After Australia defeated England on English soil in 1882, a young London journalist even wrote a mock obituary to ‘English cricket’, suggesting that its ashes would now been taken to Australia. For this reason series between the two countries are known as ‘The Ashes’ to this day.

Cricket rivalry is not just limited to England though! The sport is also extremely popular in former British colonies, with the most notable rivalry known to this sport being that between India and Pakistan. The antagonism is so fierce that The Observer has even included it among the ten greatest rivalries in the history of sport.

OTHER EUROPEAN EXCEPTIONS

Although Europe is definitely the most soccer-oriented continent, there are five European countries that surprisingly don’t care that much about soccer. Many of you probably don’t know that people in Latvia and Lithuania are fond of basketball, while the northernmost Baltic state, Estonia, holds skiing as its favourite. The last exception is Finland, where most people play ice-hockey, the reason presumably being that even if they tried playing football, they wouldn’t be able to get rid of the ice!

CHINA – TAIJIQUAN

Getty Images Sport
Getty Images Sport

Although Chinese people are huge soccer fans and the sport is gaining more and more popularity every day, not that many Chinese practice it yet. Could that have to do with the fact that China’s national team has qualified for the World Cup only once in his entire history (and even then lost all the matches it played)? Maybe, but jokes aside, besides western games such as soccer and basketball, traditional martial arts are also very popular in China. The most common of them is probably taijiquan – known among westerners as tai chi – a kind of boxing made of slow movements, that combines control of breath, mind and body and is also regarded as form of meditation. Taijiquan’s popularity is so widespread in China, that if you went for a morning stroll in the parks of any Chinese city you would probably stumble across a group immersed in daily practice.

MONGOLIAN PRIDE

Richard Dunwoody/The Adventurists
Richard Dunwoody/The Adventurists

Squeezed between taijiquan-devoted China and football-addicted Russia, Mongolia’s sport choice makes the country stand apart. Football doesn’t even figure among the most diffused sport, as Mongolians prefer archery, Mongolian wrestling and horse racing. Clearly, this has to do with their glorious past as warriors, that seems still alive among the population (don’t forget that Gengis Khan was nominated “Man of the Millennium” not many years ago).

CHILE – RODEO AND PALÍN

DiarioUChile
DiarioUChile

While football is definitely the most popular sport in South America, Chileans are really fond of another game too – the rodeo chileno. Reasons for its popularity abound. The game has a long tradition- it was born about 400 years ago during the colonial period – and it’s just insanely cool. It consists of two riders (huasos) riding big horses around a middle-moon-shaped arena trying to stop a bullock by pinning it against large cushions. It’s basically a much less gruesome version of the Spanish corrida but with cowboys instead! No wonders in 2004 rodeo matches in Chile got even a wider audience than football ones.

The rodeo might be the most popular sport in Chile, but the title for the most ancient one goes to palín –  a game similar to hockey which dates back to over a thousand years ago. Palín originated in Southern Chile among Mapuche people, the biggest ethnic group of the area. Palín is not just a sport, but also a ritual celebration that aims at strengthening relationships between individuals and communities. Despite its pacific intents, in an attempt to undermine Mapuche culture and traditions, palín was declared illegal in 1626, with the pretext that it promoted sexual promiscuity as both men and women could play it. Nevertheless palín survived until today and it has even been recognised as national sport in 2004.

Lucia Ghezzi, Sara Gvero, Emilia Marzullo, Margherita Ravelli

“Progetto hindi”: quando la multiculturalità è minacciata

L’India ha alle spalle una tradizione e una cultura millenaria. Settimo per estensione e secondo per popolazione, nel Paese si parlano, e sono riconosciute ufficialmente, 22 lingue diverse e circa 2000 dialetti. E proprio questa diversificazione linguistica ha dato vita al “progetto hindi’”: il premier Narendra Modi, infatti, sarebbe intenzionato a rendere l’hindi l’unica lingua ufficiale e nazionale, a svantaggio delle moltissime minoranze del Paese. Le polemiche non sono di certo mancate, ma la strada intrapresa da Nuova Delhi sembra quanto mai segnata.

 

L’hindi è un continuum dialettale di lingue di ceppo indoeuropeo parlato principalmente nell’India settentrionale. Data questa sua molteplicità è stato riconosciuto il primato al dialetto khari bori, parlato nei pressi di Delhi, sul quale si fonda l’hindi standard. Lingua ufficiale insieme all’inglese ma non lingua nazionale, ecco cos’è l’hindi oggi per questo Paese.

La lingua è un collante fondamentale per la sua società, eppure l’India non ha ancora una sua lingua nazionale. Da non dimenticare, inoltre, il tasso elevatissimo di analfabetismo, più di 287 milioni di persone che non sanno né leggere né scrivere. L’idea di Modi sarebbe, quindi, quella di superare l’uso dell’inglese a livello amministrativo e di ridurre le altre lingue a dialetti, in modo da completare l’unificazione linguistica sotto il segno dell’hindi, di fatto portando a compimento un processo di ‘’nordificazione’’ del Paese. Ma l’impresa è più dura del previsto.

 

È una guerra vecchia di 100 anni quella intrapresa dal Premier: già il Mahatma Gandhi ci aveva provato, nel 1918, con l’istituto di Propagazione dell’Hindi nel Sud dell’India. Il Congresso Nazionale Indiano votò l’hindi come lingua ufficiale nel 1925, ma poco tempo dopo, tra il 1937 e il 1940, esplosero le prime proteste nello Stato federale di Tamil Nadu per proteggere l’identità della lingua tamil, parlata da milioni di persone, e delle altre lingue di ceppo dravidico diffuse principalmente nel sud dell’India. Dalle agitazioni e dagli scontri tra il 1946 e il 1950 nacquero i partiti identitari dravidici, che riuscirono ad acquisire notevole consenso e a preservarlo fino ad ai giorni nostri. Partiti che Modi ha intenzione di colpire sfruttando il suo progetto. Per tutta risposta, però, non mancano manifestazioni di dissenso più o meno eclatanti.

 

Se diventasse effettivo, il “progetto hindi” cancellerebbe in un colpo solo la multiculturalità del subcontinente, quasi fosse un punto debole piuttosto che una ricchezza del Paese, a scapito di un processo di alfabetizzazione e di unificazione linguistica graduale, più lento e impegnativo ma senz’altro rispettoso delle varie differenze regionali.

India: impossibile restarle indifferenti

L’India fa sentire parte del creato. Daniele Cortesi, che ha avuto la possibilità di iniziare a conoscerla grazie al  programma di scambio dell’Università, la descrive come un mondo dentro il Mondo.

«Essendoci tutto, vi sono tutte le contraddizioni che potremmo incontrare viaggiando per diversi Paesi. Dalla religione ai paesaggi naturali, vi sono persone che nascono e vivono tutta la vita in India anche perché c’è davvero tanto da scoprire: l’oceano, pianure sconfinate, deserti, montagne e città, villaggi, parchi o semplicemente persone. »

Se si è un viaggiatore in stile backpaker come Daniele, allora si passeranno giorni sulle montagne nell’Himachal Pradesh, si arriverà a bere del thè con monaci di un monastero situato a 4800m d’altitudine, si siederà sul tetto di una capanna per le capre guardandosi attorno: nient’altro che le montagne più alte del mondo ed il suono del vento.

Altrimenti da Goa, nel sud, si potrà andare al mare e godere delle innumerevoli feste; passando per Delhi e Mumbai si capirà cosa vuol dire essere fra le metropoli più grandi del mondo, oppure camminare attraverso le pianure del nord per vedere parchi e monumenti vecchi migliaia di anni.

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«Considerata la distanza, raggiungere l’India può essere quasi conveniente: si può pagare anche 600/700 euro per un biglietto a/r. Le pratiche burocratiche sono piuttosto stancanti, ma se si tratta di visti turistici il tempo si riduce notevolmente. Una volta entrati nel Paese, i trasporti ed il costo della vita possono essere davvero bassi, ma si può trovare davvero di tutto: dallo spendere cinque/sei euro per dormire, fino ad hotel a cinque stelle (in città). Per il cibo, con 10 euro si mangia in un ristorante. Le precauzioni principali sono sempre quelle che riguardano la salute: non per niente l’India è caso di studio per molte facoltà di medicina.»

Qualche parola sul popolo indiano:

«Gli indiani sono molto fatalisti: spesso non si preoccupano di avere qualcuno che muore a fianco a loro, ma al contempo vi sono realtà in cui la solidarietà raggiunge livelli che da noi sarebbero inconcepibili. Identificarli tutti sotto qualche aggettivo non renderebbe giustizia all’India stessa, essendo essa stessa indescrivibile. Ho incontrato tanta umanità, soprattutto viaggiando, ma anche tanti effetti che il nostro stesso modo di vivere ha avuto sulla vita di moltissime persone, spesso bambini.»

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Chiedendo a Daniele qualche aneddoto particolare, si comprende la defettibilità del linguaggio naturale:

«Potrei dire i rituali funebri di Varanasi o le moschee di Delhi, la casa del Dalai Lama o il Gange. Ti racconterei della notte passata assieme ai miei compagni di viaggio con un pastore sulla montagna, dove abbiamo dormito senza riscaldamento, mangiando un piatto di riso con le verdure che questo pastore coltivava a fianco al rifugio. Oltre a questo, direi del passaggio che abbiamo dato a due ragazzi attraverso la zona militare sulle montagne, diretti verso Shimla. Credo che gli aneddoti si sprechino, in fondo.»

 

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