Tag: integrazione

Africa, Europa e sensibilità: cosa sta dietro alla parola accoglienza?

Quanto spesso di sente parlare di accoglienza in questo periodo e quanto spesso questa parola viene strumentalizzata, bistrattata, trasformata, sfruttata? Nella maggior parte dei casi non ci si sofferma a soppesarla, a guardare cosa c’è dietro la facciata di quelle undici lettere, a pensare a cosa è davvero l’accoglienza. A come la vive chi la offre e a come la vive chi la riceve, ammesso che la riceva e che la voglia ricevere.

Pequod ha parlato di accoglienza con Lamine, di origine senegalese, che ha avuto modo di viverla in prima persona, e ha fatto capire a chi scrive che “accoglienza” è una parola piena di significati soggettivi e di punti di vista differenti che spesso, egoisticamente, ignoriamo.

Dove lavori e di cosa ti occupi nel tuo lavoro?

Sono operatore di un centro d’accoglienza e faccio il mediatore culturale in altri progetti. Il mio primo lavoro in Italia è stato da mediatore culturale con l’associazione Arcobaleno, con cui ho girato per le scuole per svolgere dei laboratori sulla cultura africana. In questa intervista, però, parla il Lamine africano, non l’operatore del centro di accoglienza.

Cosa è per te l’accoglienza?

Accoglienza è dare uno spazio, ma non fornire elementi per essere in questo spazio. Ad esempio, se io vengo da te e non ci siamo mai visti prima, tu mi dai il mio spazio, mi metti a mio agio, mi lasci portare quello che ho e quello che sono. Se non sai niente di me, non mi puoi accogliere. Sai quante volte mi è capitato che delle persone volessero cucinare per me un piatto italiano, e ci tenevano parecchio, ma non sapevano che io non mangiavo maiale? In particolar modo una signora, che ha insistito alquanto e lo desiderava moltissimo. Pensa che io ero invitato per la domenica, e lei aveva iniziato a cucinare già il giovedì! Il piatto ovviamente era buonissimo, ma io non mangiavo maiale. La signora però mi aveva dato il suo spazio a casa sua, mi aveva aperto le sue porte e non potevo rifiutare. Ho mangiato, perché per me quel gesto era più importante di ogni credo. In Senegal si dice “Se ti dà uno, non prendere dieci”: lasciare la propria casa per andare a casa di qualcun altro impone lasciare qualcosa all’altro e prendere qualcosa da lui. Altrimenti, se vuoi che le cose vadano come vuoi tu, devi stare a casa tua.

Qual è stata la cosa più difficile da accettare nell’accoglienza che hai ricevuto? E la più soddisfacente?

La mia sensibilità non è stata accolta, perché si vede lo straniero soltanto come uno statuto. Non ci si pensa, ma se si dice a qualcuno “sei un imbecille”, lo si dice alla maschera che ci si trova davanti, senza considerare il fatto che dietro a questa maschera ci sia una persona con la propria personale sensibilità.

D’altra parte, sono riuscito invece a vendere un’Africa che credo che possa essere qui, dei valori che ho ricevuto e che sono vendibili qui, un modo di essere con cui sono stato cresciuto, il modo di vedere la vita che ho e che mi hanno insegnato. Sono il vincitore del premio Tirafuorilalingua 2017 (concorso e festival dedicato a produzioni artistiche che celebrano, promuovono e valorizzano la lingua madre, ndr) per il quale ho scritto una poesia e un racconto sull’introduzione senegalese in società, intitolati Tutti insieme intorno allo stesso piatto. Ho descritto cosa si imparava dalla tradizione di mangiare insieme comportandosi in un certo modo e il significato di ogni singola azione. Credo che questi siano insegnamenti che si possono condividere in tutto il mondo.

Lamine durante la presentazione della sua opera Tutti insieme intorno allo stesso piatto al concorso Tirafuorilalingua 2017.

Reputo che bisogna essere consapevoli del fatto che l’africano in contatto con l’Europa, cioè l’esperienza di un africano che parte dall’Africa e poi arriva in Europa e trova determinate cose, crei un nuovo individuo. Questo individuo non è né africano né europeo, e lui stesso a volte fatica a riconoscersi. Io mi ritengo fortunato e sento di dovere tutto all’Africa, all’istruzione e alla formazione che ho avuto là.

Hai compiuto tutti i tuoi studi in Senegal o anche in Italia?

Ho studiato in Africa e iniziato anche l’Università, ma non l’ho finita. Una volta in Italia, non ho proseguito gli studi, perché non percepisco il riconoscimento del mio bagaglio culturale e perciò ritengo che non mi serva un titolo “vuoto”.

Pensi che le strutture di accoglienza siano adeguate a fornire effettivamente accoglienza?

Il centro di accoglienza mette in pratica quello che c’è nel bando della prefettura, quindi l’impostazione viene dall’alto. Bisogna però capire se si vuole accogliere o no e, soprattutto, per quale motivo accogliere? C’è una grande differenza: se mi accogli in casa tua per una notte e al massimo mi lasci la colazione è un conto, se mi accogli per la notte e poi vuoi farmi fare un lavoro è diverso, devi restare a spiegarmi come si fa, rimanere presente.

Lamine all’evento del lancio dell’edizione 2018 del concorso Tirafuorilalingua.

Cosa può fare un normale cittadino per accogliere?

Tanti normali cittadini già accolgono. La nonna mi diceva che noi non siamo tutti sensibili allo stesso modo. La formazione culturale e intellettuale fa sì che non abbiate nelle vostre corde l’accogliere un africano. C’è una sorta di senso di superiorità, perché dal momento in cui ci si pone in alto e quindi si guarda l’altro da sopra, si definisce l’altro come vittima. Non tutti però si sentono vittima, ognuno ha la propria sensibilità e il proprio modo di vedere le cose in questo caso.

La situazione odierna deriva dal fatto che l’Africa per molto tempo è rimasta immobile. Ricordo benissimo il mio professore di terza media, quando per spiegare la Rivoluzione Industriale ha introdotto l’argomento con queste parole: “mentre l’Africa è affetta da immobilismo, l’Europa affronta una crescita economica senza precedenti”.  Da quel momento ho iniziato a farmi domande su questo immobilismo africano: dall’Indipendenza fino ad ora che cosa si è fatto? Nel 2018 il Senegal ha ancora il programma scolastico che era stato imposto dal colonizzatore! E come mai nelle scuole europee la schiavitù si insegna in modo marginale? Per quanto riguarda i campi di concentramento nazisti tutti si fermano a riflettere, ne mantengono la memoria in una giornata precisa, mentre per la schiavitù non accade niente di tutto ciò. Sai quanti anni, quanti secoli è durata la schiavitù, e quante persone sono morte per questo motivo? Questi dati non vengono approfonditi.

Il discorso è abbastanza semplice: ai dirigenti europei in fondo conviene che le cose stiano in questo modo, se no poi non possono parlare d’altro. Come fai a vincere le elezioni senza parlare di immigrati? Ai governi africani d’altra parte conviene che la forza lavorativa emigri, almeno i dittatori non li butta giù nessuno. Ho un solo desiderio: ai dirigenti africani che vorrebbero comprare armi, date i vaccini.

In copertina: Dia Mouhamadou Lamine alla premiazione del concorso letterario Tirafuorilalingua 2017.

Tutte le foto sono state gentilmente fornite dall’intervistato, tutti i diritti riservati.

Centri d’accoglienza: le difficoltà dell’incontro culturale

Il primo senso a essere colpito avvicinandosi a un centro d’accoglienza è l’udito: ogni campo si configura come una moderna versione della Babele biblica, in cui idiomi arrivati dalle più disparate parti di mondo si mescolano e si confondono in un miscuglio di suoni.

A tentare il ruolo di Esperanto, di lingua franca che permetta un minimo di comprensione, s’impongono da un lato una lingua che quasi tutti gli ospiti cercano di gettare nell’oblio assieme a un bagaglio di ricordi infelici, l’arabo libico; dall’altro una lingua nuova, spesso pronunciata con fatica, scavando nella memoria a breve termine delle parole conosciute da poco, la lingua del Paese di accoglienza.

Su quest’ultima si concentrano gli sforzi di tutti coloro che si muovono all’interno dei campi, dagli ospiti agli operatori, perché la lingua di un Paese rappresenta il primo passo per potersi approcciare a un nuovo Stato, alle sue abitudini, alle sue tradizioni; un imperativo domina infatti sull’operato di tutti, stretto dai tempi di chi da troppi anni è in viaggio coltivando il sogno di realizzare una vita nuova nell’Europa dei diritti e adagiato sul continuo procrastinare dei tempi burocratici: assimilare la cultura di accoglienza.

La corsa all’integrazione prima che arrivi la fatidica chiamata presso la Commissione, che deciderà se assegnare o meno lo status di rifugiato e quindi se legittimare o meno la presenza sul territorio, canalizza tutti gli sforzi e l’apprendimento della lingua, soprattutto in paesi come l’Italia poco avvezzi all’utilizzo quotidiano di lingue internazionali come l’inglese, rappresenta il primo scoglio da superare; il primo ma non l’unico, perché integrarsi significa anche fare proprie le abitudini del popolo di accoglienza.

Primi passi con l’italiano.

 

Una premessa va anteposta a qualsiasi riflessione si voglia condurre sui centri di accoglienza: ognuno di essi rappresenta una realtà a sé. Da un lato ci sono gli aspetti legati al luogo in cui i campi sono collocati, che non si differenziano solo in base allo Stato, ma anche all’ambiente geografico in cui si trovano, alla vicinanza o distanza rispetto a un centro abitato, al tipo di accoglienza che la popolazione residente è disposta a offrire, alle possibilità d’integrazione che l’ambiente offre in termini di servizi.

Dall’altro ci sono l’organizzazione e la struttura del centro stesso, date dalle sue dimensioni (il numero degli ospiti, ma anche e soprattutto il numero di nazionalità accolte e in quale percentuale), e dalla tipologia di accoglienza (a seconda della sua strutturazione, ad esempio, in un campo-comunità o diffusa in appartamenti). Vano è il tentativo di elencare il numero di fattori che intervengono a modificare l’approccio che si cerca di portare avanti, tanto più che imprevisti d’ogni genere (dalle emergenze sanitarie agli abbandoni spontanei, dalle modifiche legislative alla mancanza di fondi) possono in qualsiasi tempo intervenire a bloccare progetti già avviati.

Particolarmente significativo è il numero degli ospiti che il centro accoglie e degli operatori che lavorano per loro: una maggiore disponibilità di tempo su un numero ridotto di persone, infatti, rende possibile tracciare percorsi d’integrazione vera, non univoca, ma di fusione e d’incontro tra culture. Purtroppo, la maggior parte dei campi in territorio italiano, soprattutto se di accoglienza prima o eccezionale, raramente rispettano il rapporto previsto tra numero di operatori e numero di ospiti (approssimando, circa 1 operatore ogni 20 ospiti); nello stesso tempo, essendo le Cooperative società di capitali, le loro scelte di investimenti sulla qualità della vita degli ospiti possono, nei limiti di alcune innegabili necessità di base, variare di molto e, nel momento in cui si rendono necessari tagli al budget, i primi aspetti a esser messi da parte sono quelli riguardanti il recupero della cultura d’origine.

Il banku, tipico piatto nigeriano e ghanese.

Un esempio concreto delle difficoltà che quotidianamente ci si trova ad affrontare è offerto dai pasti. Qualsiasi abitante del Bel Paese sarà pronto a dirvi che il cibo italiano è il più buono del mondo e, se forse un tedesco o un americano potrebbero anche essere disposti ad assecondare l’italica vanità, non così per un bengalese o un africano, abituati a pasti in cui imperano chicchi di riso dalla forma allungata che difficilmente scuociono. Tuttavia, i costi di preparazione di piatti etnici, che prevedono un gran numero di spezie e alimenti d’importazione, esulano dalle spese previste. Se può esser facile accontentare i gusti di alcuni ospiti, ad esempio preparando del banku nigeriano o le chapati pakistane, entrambe a base di farina e acqua, si rischia così di creare scontento tra gli africani occidentali o i bengalesi, che non apprezzano la difficile digeribilità di questi piatti.

Si finisce così per imporre una regola, spesso giustificata col pretesto dell’economia, a cui gli ospiti dovranno inevitabilmente adattarsi anche una volta fuori dal centro d’accoglienza: bisogna imparare a mangiare la pasta! E con questo tipo di approccio si affrontano un’infinità di tematiche e di regole, spesso imposte più che razionalmente giustificate: dagli orari del medico e i limiti di accessibilità degli ospedali, agli indumenti funzionali più che esteticamente piacevoli; dal modo di organizzare le pulizie degli spazi privati ai prodotti igienici da utilizzarsi; fino alle attività ricreative, incasellate in orari e ambienti specifici, in concomitanza con la disponibilità degli operatori di riferimento.

I pochi ambiti che sfuggono a questa forzata assimilazione, sono la religione e l’arte. La prima, riconosciuta ormai come diritto inviolabile dell’Uomo, riesce ancora a incontrare il rispetto dei precetti che di volta in volta la regolano e a trovare spazi per l’autorganizzazione dei momenti di preghiera. Anche se non sempre è facile osservare tutti i riti, la maggior parte delle festività, dalla festa di fine Ramadan al Natale, in molti campi riescono a diventare un sereno momento d’incontro e di scambio culturale.

L’espressione artistica, pur vincolata alla disponibilità di mezzi, diventa per molti occasione di un recupero della propria identità individuale, che porta con sé l’estetica della cultura d’origine: dai dipinti ai racconti nei dialetti materni, dall’intaglio del legno ai lavori di cucito. Laddove i campi offrono i materiali di produzione, si aprono finestre su culture lontane che potrebbero allargare anche gli orizzonti europei, se qualcuno sapesse coglierne gli spunti.

Anche nel più povero dei centri d’accoglienza, all’osservatore che sia pronto ad aprirsi a nuove realtà non possono sfuggire i suoni provenienti dalle innumerevoli cuffiette: note che sanno di ritmi di continenti lontani, di melodie che provengono da culture distanti, da luoghi che gli ospiti chiamano “casa” e che, pur stanchi di un viaggio che sembra interminabile, sognano un giorno di rivedere.

Momento di preghiera mussulmana presso un centro d’accoglienza.

In copertina: Dipinti e lavori artistici di un gruppo di ospiti di un centro d’accoglienza.

Doppiamente minoritari: i migranti LGBT

Qual è il trattamento dell’omosessualità nel mondo? Dalla più feroce repressione (nei due terzi dei Paesi africani e in buona parte dell’Asia, dove i “colpevoli” rischiano di incorrere in pene che vanno da semplici ammende fino alla detenzione o addirittura all’esecuzione), fino al riconoscimento pieno o parziale dei diritti rivendicati dal movimento LGBT, passando per situazioni di vuoto legislativo (come per l’Italia) e per Paesi in cui la persecuzione non prende di mira i rapporti omosessuali, ufficialmente tollerati, ma piuttosto la cosiddetta “propaganda” (basti pensare alla Russia). E dove non arrivano la legge e la polizia, intervengono le famiglie, spesso zelanti nel difendere, anche con spargimento di sangue, l’onore macchiato da figli, fratelli e nipoti. In numerosi contesti sociali, il silenzio, l’invisibilità e la clandestinità sono d’obbligo, come ha saputo brillantemente illustrare il giornalista e fotografo francese Philippe Castetbon, che nel suo libro Les condamnés. Dans son pays, ma sexualité est un crime (H&O, 2010), ha affiancato alle testimonianze di uomini gay, provenienti dai vari Paesi che criminalizzano l’omosessualità, le immagini dei loro volti, debitamente e variamente occultati.

Ecco perché sempre più persone LGBT scelgono di abbandonare il loro Paese d’origine in cerca di un contesto sociale più aperto e più sicuro nel quale esprimere liberamente la propria identità omosessuale. Se il fenomeno della migrazione dei diritti riguarda anche, per certi versi, i nostri connazionali, che cercano altrove un riconoscimento e delle possibilità (in termini di genitorialità per esempio) negate dalle nostre istituzioni, ci si potrà stupire nel constatare che proprio l’Italia, fra i Paesi membri dell’UE, si pone all’avanguardia nell’accoglimento delle richieste di protezione internazionale presentate per motivi legati all’orientamento sessuale. Una conquista, questa, che è stata resa possibile anche grazie al lavoro svolto in Parlamento da storici attivisti del movimento LGBT, come Franco Grillini e Gianpaolo Silvestri: quest’ultimo, all’epoca senatore per il gruppo Verdi-Pdci, presentò durante la XV legislatura un emendamento alla legge comunitaria sul diritto d’asilo, sostenuto da una maggioranza bipartisan, che si proponeva di garantire la difesa del cittadino straniero che

“pur provenendo da un Paese sicuro, possa essere perseguito (non necessariamente in base ad una norma penale, ma comunque in base a disposizioni o atti concreti, oggettivamente individuabili) a causa di un fatto o comportamento che nel nostro ordinamento non è perseguibile (in quanto non costituisce reato)”.

Il successivo decreto legislativo n. 251/2007, recante l’attuazione della direttiva 2004/83/CE del 29 aprile 2004, avrebbe poi chiarito che si considera meritevole di status di rifugiato o di protezione sussidiaria anche chi lo richiede

“per gravi discriminazioni e repressioni di comportamenti non costituenti reato per l’ordinamento italiano, riferiti al richiedente e che risultano oggettivamente perseguibili nel Paese di origine”.

Alcuni esempi

Come risulta dal report del progetto “Fleeing Homophobia”,1 tradotto in più lingue, anche in questa materia le disparità fra le prassi vigenti nei vari Paesi europei sono abissali, e l’adozione di pratiche comuni sembra lontana. Si tratta, in primo luogo, di misurare l’effettiva pericolosità della vita nel Paese d’origine e, di conseguenza, la necessità di una protezione. Relativamente a questo aspetto, Paesi per altri versi più avanzati del nostro si rivelano assai poco sensibili. L’esistenza di disposizioni che puniscono le attività sessuali consensuali fra persone dello stesso sesso non è ritenuta condizione sufficiente per il riconoscimento dello status di rifugiato in Spagna, dove, fatte salve rare eccezioni, solo ad attivisti LGBT è stata accordata questa forma di protezione; in Bulgaria, dove è necessario fornire prove di una precedente persecuzione; o ancora in Norvegia, dove la Corte d’appello ha negato l’asilo a un gay iraniano ritenendo che le limitazioni subite dalle persone omosessuali in quel Paese non possano essere considerate persecuzioni nel senso definito dalla Convenzione di Ginevra del 1951. Altrove, la presenza di norme contro l’omosessualità è ritenuta condizione sufficiente, ma solo quando è possibile dimostrare la loro effettiva applicazione: così in Francia, Belgio, Regno Unito e Svezia. Non sempre, tuttavia, la prassi adottata è chiara, tanto che si registrano, per uno stesso Paese, decisioni opposte per richieste di asilo analoghe, come avvenuto in Portogallo, dove l’esistenza della criminalizzazione dell’omosessualità in Senegal è stata considerata decisiva e sufficiente in un caso, risoltosi positivamente con il riconoscimento di status di rifugiato, ma non in altri due, risultati in un diniego.

Un ulteriore punto sul quale le prassi divergono, riguarda le modalità di verifica della veridicità e della credibilità della richiesta presentata. Si pone quindi il problema non solo della ricostruzione delle vicende biografiche del/della richiedente, le cui testimonianze, rilasciate in forma scritta o orale, restano in generale la principale fonte di prove, ma anche del riconoscimento del suo reale orientamento sessuale. Informazioni a tal proposito possono essere ottenute, a seconda delle prassi in vigore, tramite domande specifiche sulle esperienze affettive e sessuali maturate nel corso della vita, sulle frequentazioni e sulla conoscenza della scena e della cultura LGBT del Paese d’origine, oppure tramite esami medici, su richiesta delle autorità (come in Bulgaria) o del diretto interessato (come in Germania). Purtroppo, in entrambi i casi, non sono mancati abusi e pratiche lesive della dignità umana dei richiedenti asilo, oltre che di dubbia efficacia. Ha destato scalpore, negli scorsi anni, la notizia, riportata dai media sia LGBT che mainstream, dei test fallometrici praticati in Repubblica Ceca e bocciati senza appello dall’Unione Europea (vedi Corriere della Sera). Quando invece l’indagine viene condotta sotto forma di intervista, non è raro il ricorso a domande umilianti sui dettagli delle pratiche sessuali compiute con i partner, così come giocano un ruolo spesso determinante stereotipi e pregiudizi che denotano una scarsa comprensione della realtà dell’omosessualità, specialmente per come è vissuta nei Paesi di provenienza degli interessati.

Italia: paese d’asilo?

Nulla di tutto questo in Italia, dove, da un lato, la semplice esistenza di norme punitive nei confronti dell’omosessualità, anche quando non applicate, è condizione sufficiente per l’ottenimento dello status di rifugiato, a fronte di una testimonianza credibile; dall’altro, una volta che le dichiarazioni rilasciate sono state ritenute attendibili, non è generalmente richiesta al/alla richiedente alcuna prova ulteriore del suo orientamento.

Grazie al lavoro di gruppi di volontari e operatori del settore sorti nel corso degli anni a Modena (per iniziativa di Giorgio dell’Amico, esperto nazionale in materia insieme all’avvocato Simone Rossi), Bologna, Milano, Palermo e Verona, è stato pertanto possibile accompagnare numerosi migranti LGBT nelle procedure di domanda d’asilo, spesso con esiti positivi. I casi trattati, che ammontano ormai ad un centinaio, riguardano, per la maggior parte, omosessuali maschi, probabilmente perché più visibili e agevolati negli spostamenti rispetto alle donne (che nelle società d’origine sono spesso confinate agli spazi domestici e dispongono di margini d’azione più limitati), anche se non sono mancati, naturalmente, casi di lesbiche e di transessuali (sia MtF che FtM). Fra le aree di provenienza, spiccano il Maghreb (Marocco e, in misura minore, Tunisia e Algeria) e l’Africa subsahariana, con un numero significativo di LGBT senegalesi. A seguire, l’Asia, con Iran e Pakistan in testa. In seguito all’approvazione della legge contro la cosiddetta “propaganda gay”, sono aumentati nel 2013 e nel 2014 i casi di richiedenti asilo originari della Federazione Russa, e non è difficile prevedere per i prossimi anni una conferma di questa tendenza, o addirittura un’estensione ad altre aree dell’Est Europa, specialmente se altri Stati un tempo appartenenti al blocco sovietico dovessero dotarsi di provvedimenti analoghi, come pare (purtroppo) probabile.

In ogni caso, l’esperienza accumulata in questi anni ha fatto sì che gli sportelli e i gruppi presenti nelle varie città d’Italia dispongano ormai degli strumenti necessari per accompagnare con successo i futuri richiedenti asilo. Allo stato attuale infatti, non sono più tanto le procedure per l’ottenimento dello status di rifugiato a porre le sfide maggiori, quanto la fase successiva dell’inserimento lavorativo e abitativo dei/delle migranti, senza contare, da un lato, le (ovvie) difficoltà di integrazione, e dall’altro i rapporti, spesso problematici, che i migranti LGBT intrattengono con i connazionali già presenti sul suolo italiano ed europeo e che potrebbero, una volta venuti a conoscenza della loro situazione, assumere atteggiamenti ostili nei loro confronti.

Numerosi sarebbero gli interventi possibili, per esempio tramite il progetto S.P.R.A.R. (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) oppure avviando servizi all’interno delle associazioni LGBT, come già avviene in varie parti d’Europa: basti pensare all’Olanda, dove il COC (Cultuur en Ontspanningscentrum, “Centro per la cultura e il tempo libero”) affianca i rifugiati nella scoperta delle città e nell’apprendimento della lingua, oppure al supporto fornito presso il Centro LGBT di Parigi dall’Ardhis (Association pour la reconnaissance des droits des personnes homosexuelles et transsexuelles à l’immigration et au séjour), che segue i migranti non solo nelle procedure di richiesta d’asilo ma anche nelle fasi di ricerca d’alloggio e di sussidi. Le associazioni possono soprattutto aiutare i migranti LGBT a crearsi degli spazi di socializzazione in un contesto più protetto, nonostante la stessa comunità omosessuale non sia, purtroppo, immune da fenomeni di razzismo ed esclusione.

 

Daniele Speziari
Sportello Migranti LGBT Verona

Fonte: Io sono minoranza.

 

1. Sabine Jansen e Thomas Spijkerboer, Fleeing Homophobia. In fuga dall’omofobia: domande di protezione internazionale per orientamento sessuale e identità di genere in Europa, COC Nederland, Vrije Universiteit Amsterdam, settembre 2011.

 

In copertina: fotografia di Gabriele Zocche

Dentro e fuori la Polonia post elezioni

La Polonia decide di svoltare drasticamente a destra: il partito nazionalista PiS (Diritto e Giustizia) dell’ex primo ministro Kaczynski ha raggiunto la maggioranza assoluta dopo le ultime elezioni. La premier designata Beata Szydlo ha la possibilità, quindi, di formare un esecutivo senza coalizioni politiche e con oltre la metà dei seggi della Dieta (Sejim in polacco, la camera bassa del parlamento) disponibili. Non era mai successo dal 1989. Come non era mai successo che, dalla caduta dell’Unione Sovietica, ad entrare in parlamento fossero solo partiti di destra o di centro-destra lasciando fuori quelli tradizionalmente di sinistra. Foto 1

‘’Portiamo Budapest a Varsavia’’, recitava uno degli slogan in campagna elettorale e il rischio che la Polonia si trasformi in un’Ungheria stile Orbàn è più di una semplice ipotesi. Del resto l’ideologia nazionalista anti-europeista, xenofoba, e anti-immigrazione del partito di Kaczynski è ben nota. Tanto è vero che, sempre in campagna elettorale, la destra polacca sosteneva la necessità di fermare i flussi migratori perché ‘’portatori di malattie e minaccia alla sicurezza del Paese’’ (da La Stampa on-line del 25/10/2015) considerandoli un vero e proprio ‘’problema’’. Posizione che trova terreno fertile in Polonia anche perché buona parte della popolazione non ha visto di buon occhio il fatto che il governo precedente abbia accettato le quote di rifugiati richieste da Bruxelles. Non meno pesante è la dichiarata volontà di sottrarsi ai diktat europei e alla non adesione all’euro, rilanciando la crescita del Paese difendendo i valori cattolici e patriottici. La Polonia sarà un po’ meno tedesca, quindi, e sempre più lontana dall’orbita di Mosca a tal punto che si fa largo l’ipotesi di incrementare il numero di basi militari Nato sul suolo polacco.Foto 2 (1)

Gioisce Matteo Salvini che, appena dopo le elezioni, scrive sul suo profilo Facebook ‘’Grazie Polonia! Il libero voto dei polacchi è la vittoria di chi sogna un’Europa diversa, più attenta al lavoro e meno agli interessi di banche e multinazionali, incalzando sul tema dell’immigrazione ‘’ha stravinto chi vuole controllare l’invasione clandestina e pensa prima al lavoro e ai diritti della sua gente’’. Si schiera dunque a favore del nuovo governo polacco la Lega Nord, prospettando che presto una svolta radicale di tale portata arriverà anche in Italia. Chi non è contento è la cancelliera Angela Merkel che vede andare in fumo il processo di integrazione portato avanti con Varsavia negli ultimi anni, e l’ombra del sentimento anti-tedesco aleggiare sulla Germania.Foto 3 (1)

L’Europa sta vivendo un periodo di transizione: le elezioni polacche hanno messo in ginocchio il continente contribuendo alla nascita di un forte fronte anti-europeo e soprattutto ultranazionalista. Quali conseguenze porterà tutto ciò? È presto per dirlo, ciò non toglie che quello che aspetta l’UE potrebbe essere un futuro molto incerto.

Lo strano caso di via Crespi

Via Pietro Crespi, centro di equilibrio di un piccolo ecosistema della periferia urbana di Milano, è balzata all’onore delle cronache. I bilanci del condominio al n. 10 presentano un buco ufficiale di 300.000 euro (440.000 se si ascoltano le voci di corridoio). I nuclei (famiglie e non) residenti nel palazzo sono 42, di cui solo 15 in regola con i pagamenti.

La realtà è più complessa di quanto possa apparire. L’arcipelago formato da via Crespi, via Termopili, via Roggia Scagna e via Marco Aurelio è un quadrato attivo di creatività e contraddizioni. Come raccontano le testimonianze delle persone che lavorano e vivono la zona, da sempre via Crespi rappresentava un ponte per il traffico anche pedonale che si riversava da via Padova al centro della città, viale Monza e la linea rossa della metropolitana. Quando, nel 2006, il senso di marcia è stato invertito questa piccola città nella città è rimasta nel cono d’ombra di una circolazione subordinata e «complice la scarsa presenza delle istituzioni di polizia», come afferma Luciana Villa, presidente del Comitato Autonomo Crespi, si è formata una situazione di illegalità. Il buco in bilancio del palazzo al n. 10 partecipa ad un contesto complicato e critico. La radice del debito risale a diversi anni fa – come spiega un inquilino del palazzo e commerciante della zona, che preferisce l’anonimato – ed è stata originata dai “disguidi” tra i proprietari (allora tutti italiani) e l’amministrazione di allora. La situazione si è poi aggravata quando nel condominio sono subentrati alcuni inquilini di origine straniera che hanno continuato ad ingrandire il debito, rifiutandosi di versare la propria quota di spese condominiali.crespi2

Il n. 10 sembra essere diventato il centro di irradiamento della piccola criminalità del quadrangolo che ha in via Crespi il suo cuore, ma la cittadinanza più attiva della zona, costituitasi in comitato, si dà da fare. Ogni anno non sono poche le iniziative che il Comitato Autonomo Crespi organizza. Musica e cibo dai quattro angoli del globo fanno da trait d’union tra popoli ed etnie. “Puntare sulla coesione” è uno dei concetti chiave della “politica della partecipazione” nelle parole di Christian Gangitano, direttore artistico del comitato che è riuscito a richiamare in via Crespi tanti nomi di artisti più o meno emergenti. Il quartiere, infatti, ospita dipinti della giapponese Tomoko Nagao, lavori dell’esponente pop Vanni Cuoghi e diversi murales di street artists, tra cui il famoso Bros.

Le persone – per così dire – più turbolente sono note a chi il quartiere lo “fa” dall’interno e con i fatti. «L’obiettivo è proprio quello di guardare in faccia queste persone», prosegue la presidente del comitato, Luciana Villa e per questo è importante il contatto inclusivo durante i momenti di comunità e svago che il comitato organizza. Grande parte della ricerca della legalità passa attraverso l’appropriazione dello spazio pubblico. In questa ottica il murales di Bros o una Venere di Tomoko Nagao, oltre a una rilevanza estetica, assumono il valore di una marca, il segno tangibile di una presenza territoriale che sta, poco a poco, facendo intensificare i timidi contatti tra abitanti italiani e stranieri nell’organizzazione di iniziative di integrazione e condivisione.crespi3

Perché si realizzi una vera integrazione dei soggetti più problematici nel tessuto sociale emerso, inutile dirlo, le condizioni necessarie sono due e opposte: da una parte chi pratica attività illegali dovrebbe virare verso il territorio della legalità e questo appare utopistico e lontano dalle reali condizioni. Ma se Maometto non va alla montagna… è di pochi giorni fa la notizia che una proposta di legge sulla controversa legalizzazione delle droghe leggere è già stata approntata da Benedetto Della Vedova, sottosegretario agli Esteri. Certo, siamo nel campo delle possibili riflessioni e le soluzioni vere e proprie sono destinate a strutturarsi in anni di lavoro capillare e tenace se e solo se anche le istituzioni decideranno di non dare per persi questi piccoli baluardi di possibilità e accetteranno di metterci il loro non tanto in termini di controllo e repressione quanto di progettualità e risorse umane.

Di certo la presenza di uomini e donne pronti a giocare sulle proprie risorse per sparigliare le carte introduce variabili imprevedibili, in un territorio che negli ultimi anni hanno visto mutare profondamente il tessuto politico e sociale di tutta la città.

Reg. Tribunale di Bergamo n. 2 del 8-03-2016
©2014 Pequod - Admin - by Progetti Astratti